<<

Un contesto cimabuesco e la pecora di

Se il papato di Niccolò IV è un punto di riferimento per la parte giottesca della decorazione della Basilica Superiore, che cosa ne è del resto? Io credo che lo stesso valga, sostanzialmente, per tutta la decorazione, ove si escluda - per ora - il caso iniziale della maestranza oltremontana, sul quale rimangono ancora troppi interrogativi. Intanto, l’intervento del Torriti e della sua équipe si spiega molto bene, anch’esso, con Niccolò IV, di cui - come abbiamo visto - era il pittore favorito. Ma credo che anche per l’intervento di Cimabue si debba arrivare alle stesse conclusioni. E le ragioni sono svariate.

Continuità della decorazione della Basilica Superiore.

Il Belting, riassumendo e razionalizzando una serie di studi precedenti, ha dimostrato la profonda organicità e la sostanziale unità di programma e di significato della decorazione pittorica della Basilica Superiore di Assisi1: organicità e unità che rappresentano un caso del tutto eccezionale e che si spiegano meglio senza le lunghe interruzioni che di solito si postulano tra una fase e l’altra della decorazione. Per quanto riguarda gli aspetti più strettamente figurativi, salta agli occhi una uguale organicità e unità del sistema decorativo, che divengono anzi più evidenti per la profonda distanza stilistica che separa la fase iniziale dalla fase finale dell’intero lavoro. Tra il sistema decorativo della Volta degli Evangelisti di Cimabue e quello della Volta dei Dottori, ormai giottesca, non ci

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 150 La pecora di Giotto sono grandi differenze2. I bordi che incorniciano la figurazione (figg. 197, 173) consistono di motivi vegetali di tipo grafico e bidimensionale che continuano anche sulla parete della contro- facciata. E in ambedue i casi l’intonazione cromatica è fredda e quasi minerale. I motivi cosmateschi che caratterizzano gli affreschi della fase giottesca erano già presenti nel transetto dipinto da Cimabue, anche se non vi costituivano una così vistosa e sistematica presenza. Perfino le cornici marmoree poligonali che inquadrano busti di profeti, angeli e santi ricorrono per tutta la Basilica (figg. 176, 177, 18), dal transetto alla navata, nei sottarchi delle grandi arcate cieche che in ogni campata si appoggiano alle pareti alte nella zona delle finestre. Semmai è da segnalare una evoluzione della loro forma verso una complessità mistilinea ormai gotica, che caratterizza soprattutto la campata d’ingresso (fig. 18). Allo stesso modo, il motivo della cortina di stoffa che finge di essere appesa nella parte più bassa della decorazione corre lungo tutta la Basilica Superiore (fig. 170), sotto i riquadri di Cimabue nel transetto e sotto le Storie di san Francesco nella navata (fig. 234). Lo stesso si può dire della decorazione a finte architetture, già ampiamente presente nelle parti alte del transetto, soprattutto nella zona dei trifori dove la decorazione ad affresco si integra con l’archi-tettura reale (fig. 233). I motivi di finti pilastri scanalati, coronati da capitelli a foglie, qui vistosamente presenti, si ritrovano quasi identici nella decorazione delle pareti alte della navata, nella fase dei lavori torritiani e di quelli giotteschi (fig. 31), in prossimità della controfacciata. In questa zona, tuttavia, la parte affidata alle finte architetture è diventata preponderante (fig. 171) e annunzia ormai ciò che accade nella zona con le Storie di san Francesco (fig. 254). Qui, l’incorniciatura di finta architettura diventa sistema-tica ed è il primo caso di una prassi decorativa che sarà regola costante per tutto il Trecento. E tuttavia anche questa idea era stata precorsa e parzialmente attuata da Cimabue nei riquadri narrativi della parte bassa del transetto(fig. 170). Va ricordato che questa parte è notevolmente aggettante rispetto alle pareti più alte, tanto da costituire un vero e proprio zoccolo, la cui sommità da luogo ad un camminamento percorribile lungo tutto il perimetro interno della Basilica Superiore. E stata probabil-mente questa situazione architettonica rea-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 151 le a suggerire a Cimabue l’idea di un finto architrave visto dal basso e sorretto da una serie di mensole che, col loro recedere verso la profondità, vogliono evidentemente dare l’illusione che le superfici su cui sono dipinte le scene siano a filo con quelle delle pareti alte. E già - in germe - l’idea delle incorniciature delle Storie di san Francesco. Dico in germe perché Giotto trasforma il motivo delle file di mensole e, razionalizzandolo, costruisce un vero e proprio sistema architettonico: là dove Cimabue poneva delle fasce a decorazione bidimensionale per separare le scene una dall’altra (fig. 170), egli colloca delle bellissime, robuste colonne tortili a creare un sistema di logge architravate a tre aperture, separate dai pilastri a fascio reali che dividono una campata dall’altra (fig. 234). Le colonne tortili poggiano a loro volta su un piano di base che nel suo leggero aggetto è sostenuto da un’altra fila di piccolissime mensole, al di sotto delle quali è dipinta la finta stoffa che ricade fino a terra. Tra la semplice fila di mensole cimabuesche e il complesso sistema architettonico di Giotto si hanno dei passaggi intermedi nella decorazione della parte alta della navata. Infatti, lungo le facce verticali dei costoloni o all’imposto delle volte in corri- spondenza degli arconi laterali delle campate, corrono spesso delle file di mensole costruite come quelle cimabuesche. Questo accade sistematicamente nella fase torritiana (figg. 172) e accade anche nella Volta dei Dottori ormai giottesca (figg. 173, 174). Tuttavia, sopra le due trifore che si aprono all’imposto dell’ar- cone d’ingresso della Basilica (fig. 51), subito al di sotto delle coppie di santi a figura intera, compare una serie di mensole che sono ormai identiche a quelle che corrono sopra le Storie di san Francesco3. Questo fatto, oltre a costituire, come abbiamo visto, un ulteriore legame e un’ulteriore riprova della continuità tra la fase finale della decorazione dei registri alti e le Storie di san Francesco, sta lì a mostrarci come in questo insieme unitario che è la decorazione della Basilica Superiore di le cose siano andate nel senso di un’evoluzione all’interno di una rigorosa continuità. Questa evoluzione nella continuità si può cogliere anche in alcuni aspetti figurativi all’interno delle «storie». Proviamoci, per

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 152 La pecora di Giotto esempio, a seguire la rappresentazione del nudo. Il Cristo della celebre Crocifissione di Cimabue (fig. 211) è ancora figurato secondo le formule astrattive e simboliche di origine «greca»; si inarca sulla croce con una curva impossibile e la sua anatomia è ancora indicata simbolicamente con formule tradizionali, come quella del ventre tripartito. Nel Crocifisso che pende dall’icono- stasi della chiesa in cui si svolgono i Funerali di san Francesco (fig. 175) il nudo è visto con altri occhi, in modo assai più natura- listico. E se il cattivo stato di conservazione della figura impe- disse a qualcuno di vedere quanto esso sia più moderno in confronto a quello di Cimabue, ecco il nudo parziale di san Francesco nella Rinuncia ai beni, in cui si può controllare l’approssimazione al vero nel modellato della scapola e delle cestole. L’evoluzione da Cimabue a Giotto avviene con una certa gradualità attraverso vari passaggi negli affreschi alti della navata. Nella Creazione del mondo del Torriti, la luce è simbo- leggiata da una figura maschile nuda, che corrisponde ancora alla concezione del nudo di Cimabue; lo stesso si può dire per i putti ai quattro angoli della Volta dei Santi (fig. 174), nella seconda campata, ancora del Torriti. Nell’ultima campata, ai quattro angoli della Volta dei Dottori, in zona ormai giottesca, si vedono altri putti nudi (figg. 224, 226): qualcuno reca ancora qualche segno delle formule astrattive usate da Cimabue e dal Torriti, ma altri sono ormai del tipo più naturalistico e moderno che si vede nelle Storie di san Francesco. Parlare di evoluzione nella continuità a proposito dell’insieme della decorazione della Basilica Superiore potrà sembrare a qualcuno il segno di una incomprensione del profondo stacco che gli affreschi che vanno dalle Storie di Isacco in avanti segnano in confronto a quelli precedenti. In realtà, siamo ben convinti di questo stacco; ma sono proprio gli elementi di continuità avver- tibili nonostante questo stacco a rivelarci che non ci devono essere stati anche degli stacchi cronologici4. Siamo di fronte ad un caso del tutto eccezionale di una chiesa affrescata da cima a fondo rispondendo ad un progetto unitario sia dal punto di vista iconografico che dal punto di vista decorativo. Si tratta di un unicum, in confronto al quale già la Basilica

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 153

Inferiore presenta molte smagliature. In tutta Italia non esiste un altro caso simile. La letteratura artistica sull’argomento ha creato una situazio-ne per cui sembra scontato che tra i vari interventi (quello cima- buesco, quello torritiano e quello giottesco) ci siano state delle interruzioni più o meno prolungate. Ora, ragioni di plausibilità storica vorrebbero che, invece, si desse per scontato il contrario e cioè che per decorare una basilica che in quel periodo doveva apparire come la più importante della cristianità si fosse richiesto il minimo indispensabile di tempo. Possiamo credere davvero che una chiesa come questa, mèta di continui pellegrinaggi ed edificio cui erano destinate continue elemosine e donazioni potesse restare ingombra per anni e anni da vistosi ponteggi? O, altrimenti, che si smontassero e rimontassero a intervalli pon-teggi così complessi come dovevano essere questi, in un’epoca in cui non esisteva ancora il moderno sistema dei tubi Innocenti (e si ricordi quale problema non fu quello delle impalcature per la decorazione della Volta Sistina, come ci racconta il Vasari!)? Mi pare molto improbabile, e sarebbe anzi legittimo chiedersi se non fosse stata prevista fin dall’inizio la presenza di più maestranze che operassero in parallelo per completare i lavori nel più breve tempo possibile. Ma una tale eventualità è esclusa da prove molto evidenti che le varie maestranze si sono succedute l’una all’altra. Cosi, i Profeti cimabueschi nel sottarco della parete destra della quarta campata della navata (fig. 176) fanno pensare che la bottega cimabuesca abbia incominciato a decorare anche le pareti alte della navata prima di essere soppiantata dalla maestranza torritiana5 e la maestranza giottesca deve essere succeduta ad essa dal momento che ne completa l’opera nella terza campata con le due ultime «storie» rimaste da eseguire sulla parete nord (le Storie di Isacco) e perfino con almeno un santo di quelli entro cornici esagonali nella parte bassa del sottarco relativo6 (fig. 177). È stato chiarito più volte che, contemporaneamente al proce- dere della decorazione delle zone alte della navata da parte della équipe guidata dal Torriti, lavoravano delle maestranze di cultura più strettamente cimabuesca, attive soprattutto nella parete sini-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 154 La pecora di Giotto stra, come quelle facenti capo al Maestro della Cattura. È stata notata anche la stretta affinità tra il Maestro della Cattura e alcu- ne parti della decorazione ormai giottesca (fig. 18), come se, una volta allontanatisi il Torriti e la sua équipe e subentrato Giotto, quel maestro si fosse adattato ad entrare nel gruppo dei collaboratori del nuovo grande pittore7. A me pare che lo stesso discorso valga anche per l’artista - diverso dal Maestro della Cattura - che ha lavorato all’Andata al Calvario, le cui affinità con alcune parti giottesche (figg. 178, 179) sono state ugualmente notate8. Tali affinità mi pare si possano seguire fino alle Storie di san Francesco e segnatamente alla Prova del fuoco davanti al Sultano (come ha già indicato il Previtali)9 e ai Funerali di san Francesco (figg. 180, 181, 182, 183). Se è vero che il Maestro della Cattura e il Maestro dell’Andata al Calvario si sono adattati a far da colla- boratori a Giotto, deve esser vero - anche - che Giotto è subentrato alla squadra del Torriti e compagni immediatamente, senza che si sia verifìcata una sostanziale interruzione dei lavori, e che le Storie di san Francesco hanno seguito senza soluzione di continuità la decorazione dei registri alti. Su quest’ultimo punto si può fare qualche osservazione ulte- riore. Se non riesco a convincermi del tutto che il pittore che ha eseguito le figure inginocchiate dei Fratelli davanti a Giuseppe e le figure della Pentecoste sia tutt’uno con il Maestro della Cattura10, mi pare invece indubbia la sua presenza nelle Storie di san Francesco, dove lo si può individuare con sicurezza in quelle teste che sono modellate con un chiaroscuro un po’ pesante ed ecces- sivamente contrastato e che nelle vedute di tre quarti presentano una canna nasale molto caratteristica nella sua forma, irrigidita da un’ombra perfettamente diritta, come se vi fosse incollato sopra un listello di legno arrotondato (figg. 184, 185). Le osservazioni che abbiamo appena fatte ci spingerebbero a credere che la decorazione della Basilica Superiore di Assisi sia stata eseguita sostanzialmente senza soluzioni di continuità, almeno da Cimabue in poi, tanto da rendere concretamente giustificabile l’ipotesi da cui eravamo partiti, che essa si sia svolta tutta - grosso modo - sotto il pontificato di Niccolò IV, cioè all’incirca tra il 1288 e il 1292.

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 155

Cimabue ad Assisi e la pittura umbra del .

Un indizio della rapidità di successione tra la decorazione ci- mabuesca e quella giottesca e della loro prossimità cronologica ci viene anche dalla pittura umbra di fine Duecento. L’impatto giottesco è denunciato vistosamente da pittori come Marino da Perugia o come gli anonimi Maestro del Farneto, Maestro del Crocifisso di Montefalco, Maestro espressionista di Santa Chiara, Maestro della Croce di Gubbio, ecc., per limitarsi solo ai più antichi. Ma prima di essi si può parlare di una generazione di pittori ugualmente colpiti dalla presenza di Cimabue ad Assisi? Per rispondere a questa domanda, bisogna, naturalmente, tener conto del fatto che siamo di fronte ad una situazione più complessa di quanto si possa immaginare pensando soltanto al- l’intervento di Cimabue nel transetto e nel coro della Basilica Superiore di Assisi. L’esistenza nel transetto destro della Basilica Inferiore della ben nota col Bambino in trono fra angeli e san Francesco (fig. 186) sta a testimoniare di una più articolata presenza ad Assisi del pittore fiorentino11. Non mi sembra si possa dubitare, infatti, che la Madonna della Basilica Inferiore sia precedente alla Madonna di Santa Trinita (fig. 205) e quindi agli affreschi della Basilica Superiore. Senza volere entrare in questo momento nel problema della cronologia di Cimabue, a cui si accennerà più avanti, ci limiteremo qui a due osservazioni. Una riguarda le aureole, che sono ancora piatte, secondo la norma dell’affresco duecentesco, mentre nella Basilica Superiore, a seguito della novità introdotta dal pittore oltremontano, Cimabue perfezionerà il nuovo tipo di aureola rilevata e raggiata che rappresenterà la norma nell’affresco trecentesco, come abbiamo già notato a suo tempo. Un’altra osservazione che ci autorizza a credere la Madonna della Basilica Inferiore più antica degli affreschi della Basilica Superiore riguarda un elemento molto importante - come vedremo più avanti - nella figurazione cimabuesca, e cioè il trono. Proprio ad Assisi possiamo coglierne

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 156 La pecora di Giotto l’evoluzione dal tipo duecentesco, disposto allo stesso tempo frontalmente e in tralice, al tipo trecentesco, perfettamente fron- tale. Il trono della Madonna della Basilica Inferiore (fig. 186) è ancora quello duecentesco, la cui frontalità è contraddetta dal fatto che se ne vede lo scorcio di un lato. Nella volta della crociera della Basilica Superiore, gli Evangelisti di Cimabue (fig. 214) siedono su scranni disposti ancora in questo modo, mentre nello zoccolo del coro l’ultima delle quattro scene mariane ci fa vedere Cristo e la Madonna (fig. 187) seduti su un gigantesco trono visto solo frontalmente, che è il precedente diretto per il trono già «trecentesco» della Madonna di Santa Trinita, oggi agli (fig. 205). L’affresco della Basilica Inferiore è mutilo, perché manca sulla sinistra una seconda figura di santo che doveva esistere in origine a riscontro del san Francesco che sta sulla destra (fig. 202). Ma è da pensare che, oltre a ciò, Cimabue avesse affrescato almeno tutto il transetto destro, se non addirittura anche la volta sopra l’altar maggiore, il coro e il transetto sinistro. Un’altra opera cimabuesca ad Assisi è il San Francesco del Museo di Santa Maria degli Angeli, la chiesa che contiene la Porziuncola dove il Santo mori. Va inoltre ricordato che una testimonianza indiretta dell’arte del pittore fiorentino era arrivata in Umbria già nel 1280, col polittico di Vigoroso da Siena, firmato e datato, che si vede nella Galleria Nazionale di Perugia, proveniente dal locale convento di Santa Giuliana (fig. 207). Con questa rete abbastanza fitta di testimonianze cimabuesche in Umbria, che possiamo ricostruire anche solo sulla base delle opere che sono arrivate fino a noi, ci aspetteremmo che la pittura umbra fosse notevolmente toccata da questa esperienza, soprattutto se fosse vero che Cimabue ha lavorato ad Assisi assai presto, intorno al 1280 o anche prima, come molti credono; se fosse vero, cioè, che i pittori umbri ebbero più di un decennio di tempo per meditare sull’opera di Cimabue, prima di essere trascinati in un’adesione così compatta alla nuova arte giottesca. Invece, a testimonianza dell’impressione suscitata da Giotto sta un grande numero di opere e un notevole gruppo di artisti; molto meno ci rimane a testimoniare l’impatto di Cimabue sulla pittura

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 157 umbra12. Poco più che un Messale francescano miniato a Deruta (fig. 188), una bella croce dipinta a Nocera Umbra (fig. 189), in cui il Cristo sembra rifarsi direttamente a quello della celebre Crocifissione cimabue-sca del transetto sinistro di Assisi (fig. 211), nonché un modesto pittore anonimo attivo nel perugino, il Maestro di Montelabate13. A proposito del Messale di Deruta, andrà notato tuttavia che, siccome esso è in stretto rapporto con altri due messali miniati, uno nel Duomo di Atri, l’altro nel Duomo di Salerno14, nonché con la Crocifissione ad affresco nella cappella Forteguerri in Santa Maria Nuova a Viterbo, la cui data è probabilmente da leggere come 128815, viene il sospetto che l’epicentro di diffusione cimabuesca per queste opere sia stato, prima di Assisi, piuttosto Roma, dove Cimabue è documentato nel 1272 e dove la decorazione pittorica del Sancta Sanctorum, eseguita al tempo di Niccolò III, e cioè tra il 1277 e il 1280, sembra davvero costituire una delle conseguenze della presenza cima- buesca nella città dei papi16. Un altro dei pochi testi pittorici in Umbria che facciano pensare al grande pittore fiorentino sono gli affreschi delle Palazze di Spoleto (fig. 190), molti dei quali sono stati abusivamente staccati e esportati nel Museo di Worcester (Usa); e tuttavia l’interpre- tazione che se ne può dare - «gusto delle accentuazioni grafiche e delle coloriture espressive», «grafia spessa» e «ruvida caratteri- zzazione» - «lascia relativamente inattivo il modello forse troppo arduo degli affreschi cimabueschi del transetto» e fa entrare in gioco soprattutto i maestri delle prime Storie di Cristo nella navata, in particolare la Natività, la Presentazione al Tempio, la Cattura di Cristo e l’Andata al Calvario, come osserva Bruno Toscano17. E non credo sia legittimo citare in rapporto con Cimabue la croce portatile a doppia faccia della Pinacoteca di Perugia, in cui il Cristo è ormai composto e fermo sulla croce come nel Crocifisso di Giotto in Santa Maria Novella e come in altri Crocifìssi umbri di evidente estrazione giottesca. Anche nelle miniature raggruppate dal Longhi sotto la denominazione di «Primo miniatore peru- gino»18, se sembra apparire qualche riflesso della drammatica e clamante figurazione cimabuesca, l’espressività malinconica, grifagna e quasi jacoponica del pittore fiorentino è già superata

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 158 La pecora di Giotto nel rapprendersi di una materia più intera e solida e nella presenza di architetture-oggetto ormai giottesche. Ad esempio, nella pagina miniata col Cristo in gloria in una A di un codice della Biblioteca Augusta di Perugia19 (fig. 191), i personaggi accalcati e urlanti in basso ricordano il clima di alcune scene apocalittiche di Cimabue; ma le loro vesti sono compatte e lanose, gli angeli ai lati hanno una notevole solidità voluminosa e il Cristo è seduto su un trono ormai architettonico e moderno. Sono questi i segni più evidenti che subito dopo una prima reazione a Cimabue si sono imposte le novità giottesche. Un altro caso umbro interessante ed eloquente è quello dellaCrocifissione affrescata nel Capitolo del Duomo di Gubbio20 (fig. 192). Eseguita nel fondo di una specie di grande arcosolio, gli sguanci sono decorati con motivi vegetali bellissimi e coloratis- simi, ma di tipo ancora duecentesco nella mancanza di elementi architettonici e tridimensionali. Tuttavia, il Crocifisso non ha niente da spartire con quelli sguscianti di Cimabue ma è di una compostezza che richiama alla mente una serie di Crocifissi umbri di ispirazione giottesca, come quello di Spello, quello di Mon- tefalco, ecc., tutti assai vicini, nell’impostazione e nell’anatomia ormai regolarizzata, al grande Crocifisso eseguito da Giotto per la chiesa fiorentina di Santa Maria Novella (o ad uno eseguito da Giotto per la Basilica di San Francesco e andato perduto?)21. L’interezza un po’ metallica e lo splendore cromatico, così come molti particolari, rimandano agli affreschi giotteschi della Basilica Superiore di Assisi (figg. 193, 194). Scarse e problematiche, dunque, le presenze di apprezzabili riflessi cimabueschi in Umbria, soprattutto se si confrontano con la fitta e sistematica produzione che risente della presenza di Giotto. Del resto, osserviamo questo stesso fenomeno da un altro punto divista. Uno dei capolavori della pittura umbra del Duecento è la grande ancona con al centro Santa Chiara in piedi e ai lati gli episodi salienti della sua vita, che si trova su un altare della chiesa di Santa Chiara ad Assisi. L’ascendente culturale che subito richia- ma alla mente, sia nel formulario figurativo che nei colori, è il co-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 159 siddetto Maestro del San Francesco, il grande anonimo che rimedita con sottigliezza raffinata e una certa ironia l’elegante lezione bizantineggiante di Giunta Pisano, attivo ad Assisi nella prima metà del Duecento, al tempo di Frate Elia. Ma nella tavola della Santa Chiara (figg. 13, 16) le formule del Maestro del San Francesco vengono rivestite di un impasto più vero e tenero e il racconto si fa accostante, ricco di accenti quotidiani, che vanno dagli sguardi intenti ai gesti espressivi e pronti, dalle notazioni di costume contemporaneo ai ricami moderni delle stoffe. A tutto può far pensare questo dipinto fuorché all’alto, drammatico linguaggio figurativo di Cimabue. Le figure gracili, dalle grosse teste quasi infantili, dalle braccia esilissime, sono inconfrontabili con i grandiosi personaggi del pittore fiorentino. Ora, la tavola della Santa Chiara è tanto più importante in quanto reca una data, che è il 128322. Se a questa data Cimabue avesse già eseguito i suoi affreschi nel transetto della Basilica Superiore di Assisi, possibile che il Maestro della Santa Chiara non ne risentisse minimamente? Al contrario, sembra che i pittori umbri attivi tra Perugia e Assisi siano passati da una situazione culturale come quella del Maestro del San Francesco e del Maestro della Santa Chiara alla fase giottesca. E il cosiddetto Maestro del Farneto a indicarci emble- maticamente un simile fenomeno. Questo ennesimo anonimo pittore umbro prende il nome da un dossale a cinque scompartì che si trova oggi nella Pinacoteca Nazionale di Perugia, proveniente dal convento del Farneto. E stato più volte notato che la Madonna col Bambino al centro deriva da quella giottesca nel tondo centrale della controfacciata della Basilica Superiore di Assisi23. Ma il fatto sorprendente è che lì accanto la Deposizione dalla croce (fig. 196) è desunta quasi letteral- mente dalla stessa composizione del Maestro del San Francesco (fig. 195) in un dossale che si trova anch’esso nella Galleria Na- zionale di Perugia24. Ciò sta a indicare assai chiaramente come la pittura umbra passò dalla fase culturale del Maestro del San Fran- cesco alla fase giottesca senza una rilevante mediazione cimabue- sca. Ora, non è credibile che se gli umbri rimasero così forte-mente impressionati da Giotto, quasi nessuno di essi abbia battuto ci-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 160 La pecota di Giotto glio di fronte alla pittura di Cimabue. La cosa si spiega soltanto se tra l’intervento di Cimabue e quello di Giotto passò così poco tempo che in Umbria non si fece in tempo ad accorgersi del primo che già il secondo lo aveva reso sorpassato e aveva attirato su di sé tutta l’attenzione con la forza delle sconvolgenti novità che proponeva.

La «veduta» di Roma di Cimabue.

Le conclusioni tratte da questa rassegna della pittura umbra di fine Duecento mi sembra costituiscano una chiara riprova di quanto dicevamo: che, cioè, l’intervento di Cimabue nella Basilica Superiore di Assisi spetti ad un momento assai tardo della sua attività. E la veduta di Roma, figurata per l’Italia (fig. 197), che si vede presso San Marco nella Volta degli Evangelisti non lo contraddice, anzi offre un’ulteriore indicazione nello stesso senso. Non avrei mai voluto occuparmi di questa dibattutissima questione, date le contraddittorie conclusioni che se ne sono tratte considerando la presenza degli stemmi Orsini sulla facciata del Palazzo Senatorio che vi è figurato. La proposta della Monferini25 per una datazione degli affreschi di Cimabue tra il 1280 e il 1283, sulla base di una presunta intenzione antipapale che essi conter- rebbero è certamente sbagliata, come appare evidente soprattutto dopo che il Belting ha ricostruito le fila del rapporto diretto tra il papato e la costruzione e la decorazione della Basilica di Assisi26. Ma il suo intervento contiene un’utilissima, conclusiva precisa- zione, e cioè che gli stemmi Orsini dipinti da Cimabue sul Palazzo Senatorio sono semplicemente segni di riconoscimento del palazzo stesso, in quanto vi erano stati fatti apporre dagli Orsini nel momento in cui lo restaurarono, quando diventarono senatori di Roma al tempo di Niccolò III. Perciò essi non implicano alcuna datazione precisa, ma soltanto che l’affresco di Cimabue fu dipinto dopo che questi stemmi furono posti sulla facciata del palazzo. La ragione per cui mi soffermo su questa «veduta» è la presenza di un edificio non ancora identificato

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 161 chiaramente tra i numerosi ben riconoscibili che vi compaiono. Si tratta della chiesa che si vede dalla tettoia del portico di facciata in su, collocata accanto al Palazzo Senatorio, sulla destra. E di sicuro una delle grandi basiliche romane, ma quale? Certo, l’antico San Pietro non era fatto cosi. L’unica basilica che le assomigli è quella di San Giovanni in Laterano27, che era la sede abituale dei papi in quel periodo, quando risiedevano a Roma, ed era anche la cattedrale della città eterna28: posta, dunque, così a proposito accanto al Palazzo Senatorio. La somiglianza con la chiesa di San Giovanni in Laterano figurata nel Sogno di Innocenzo III di Giotto (fig. 34) è evidente. San Giovanni in Laterano era dedicata al Salvatore e nella figurazione al centro della facciata, sopra il portico, si intravede infatti Cristo in piedi affiancato da due figure. A giudicare dalla predella delle Stimmate di san Francesco al , dovrebbero essere angeli. Sulla facciata dipinta da Cimabue, ad affiancare Cristo sembrano essere la Madonna da un lato e san Pietro dall’altro. Ma, nonostante questa discrepanza, ogni altra delle tre restanti grandi basiliche romane differirebbe molto di più dalla chiesa figurata da Cimabue. Se, dunque, questa chiesa è San Giovanni in Laterano, il discorso che facevamo per il Sogno di Innocenzo III sui rapporti con il papato di Niccolò IV può valere anche per gli affreschi di Cimabue. Considerare gli affreschi di Assisi opera assai tarda di Cimabue non significa sminuirne l’importanza e la qualità. La piena dei sentimenti, la profonda severità di rappresentazione, il pathos che li agita ne fanno uno dei capolavori più alti di tutta la pittura italiana. Va aggiunto, anzi, che ciò che si riesce ad intravedere da certe parti meglio conservate fa pensare ad una qualità e a una ricchezza di esecuzione sbalorditive, affidate a una materia formicolante, articolata e grassa, percorsa da guizzi improvvisi, ricoperta di colori preziosi e di continui ornati. Per capire come dipingeva Cimabue ad Assisi, bisogna vedere da vicino i busti angelici del sottarco intorno alla vetrata di fondo del transetto sinistro, che sono le cose meglio conservate di tutto il ciclo. Qui i filamenti cromatici si intessono con pittoresca libertà, fatti di colori puri e preziosi che si contrappongono e si intersecano, mesco-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 162 La pecora di Giotto landosi in una schiumosa, stupefacente emulsione. Non c’è dubbio che, in termini pittorici, le stesure più intere e lisce degli affreschi giotteschi rappresentano un impoverimento, sia pure volontario.

Un Cimabue ormai «trecentesco».

La raffigurazione di Roma (fig. 197) che abbiamo appena considerata nella Volta degli Evangelisti non è una «veduta», ma un elenco di monumenti caratterizzanti, ognuno dei quali reso ben riconoscibile. Essa richiama alla mente la «veduta» di Firenze che compare sotto la Madonna della Misericordia in un noto affresco della sala dei Capitani nell’oratorio del Bigallo (fig. 198), datato 134229. Anche questa raffigurazione reca una serie di monumenti ben riconoscibili della Firenze di allora e descritti in maniera tale che possiamo renderci conto del punto cui erano arrivati in quell’anno i lavori della facciata del Duomo e del Campanile di Giotto30; e tuttavia questi singoli monumenti non sono disposti in «veduta», cioè non viene rispettata la loro collocazione topo- grafica, esattamente come nella raffigurazione di Roma ad Assisi. Cimabue vi appare allora, visto in questa prospettiva, con pensieri già «trecenteschi», per quanto riguarda la resa della realtà visiva, o - vogliamo dire - la rappresentazione dello spazio. E un aspetto che riguarda varie parti dell’opera assisiate del pittore fiorentino. Basti pensare all’invenzione del finto architrave dipinto sopra gli affreschi dello zoccolo, al carattere di voluminosità quasi illusiva che assumono certi «oggetti architettonici», come l’impalcatura lignea al centro della Caduta di Simon Mago o la piramide di Caio Cestio e la probabile meta Romuli ai lati della Crocifissione di san Pietro. Ma l’attenzione di Cimabue per questi aspetti «oggettuali» e tridimensionali non sembra costante e sistematica: nel Transito della Vergine (fig. 199) si ha l’invenzione forse più sorprendente del pittore in ordine alla rappresentazione dello spazio: le figure sono collocate sotto una specie di loggia limitata da due archi trilobati, uno dei quali sta in primo piano, l’altro sul

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 163 piano di fondo; la figura in piedi sulla destra si colloca esat- tamente nella striscia di spazio coperta da questa architettura e la puntualità di tale collocazione è resa controllabile da uno straordinario stratagemma: l’aureola dell’apostolo è tagliata dal- l’arco antistante ma non da quello retrostante. Una così precisa connotazione di spazio è completamente annullata nella scena successiva, situata nello stesso ambiente, dove le figure stanno tutte davanti all’arco antistante (fig. 200). Questa mancanza di coerenza suscita il sospetto che le idee attuate da Cimabue ad Assisi in ordine alla rappresentazione dello spazio si sovrap- pongano alle sue intenzioni artistiche, invece di integrarsi in esse. Eppure è proprio su questi aspetti che si basa sostanzialmente il nostro giudizio su Cimabue come precursore della spaziosità e della voluminosità di Giotto31. Ma un simile giudizio centra davvero le intenzioni artistiche di Cimabue? Era davvero con una posizione come questa che il grande artista fiorentino tenne, a dire di Dante, il campo nella pittura prima della comparsa di Giotto? Io ne dubito fortemente e sono convinto che questa lettura in chiave di precursore di Giotto non ha punto giovato a Cimabue, perché lo ha relegato in una posizione acerba e imperfetta, quella di una crisalide da cui sarebbe sbocciato Giotto: Dante non ne avrebbe parlato nei termini in cui ne ha parlato se Cimabue fosse stato solo questo. Una simile immagine è sostanzialmente quella impostata nel momento del primo assestamento positivo dell’opera del grande pittore fiorentino dopo il terribile dubbio storiografico sollevato agli inizi di questo secolo sulla esistenza di Cimabue, o almeno sulla possibilità di recuperare la sua identità artistica. Com’è noto, il Vasari aveva posto al centro della sua Vita di Cimabue la Madonna Rucellai (fig. 204), considerandola il suo capolavoro. Alla fine dell’Ottocento ci si rese conto che questo dipinto non era opera di Cimabue32. Da qui, un crollo di fiducia nel Vasari e un notevole scetticismo sulla figura stessa di Cimabue, al punto che molti importanti storici dell’arte, tra i quali lo Schlosser33, pensa- rono che rappresentasse per noi moderni niente più che una leg- genda. A far barriera contro questo scetticismo restava abbastanza poco:

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 164 La pecora di Giotto la figura a mosaico dell’abside del Duomo di (fig. 201), unica opera documentata dell’artista34. Tuttavia, era possibile aggregare ad essa la Madonna di Santa Trinita e gli affreschi di Assisi (figg. 205, 202). Il recupero su questa base della personalità artistica di Cimabue ebbe la sua consacrazione nella fondamentale monogra- fia del Nicholson del del 193235. Malauguratamente, il San Giovanni di Pisa è un’opera tardis- sima del pittore, eseguita nel 1301-302. Viene, allora, il sospetto che la coerenza tra questo, la Madonna di Santa Trinita e gli affreschi di Assisi sia dovuta principalmente al fatto che sono anch’essi opere tarde e che di Cimabue ci siamo fatti un’idea inesatta, parziale, basata soprattutto sulla sua attività tarda. Dipinti come il Crocifisso di Santa Croce (figg. 206, 209, 228)e la Madonna del Louvre, certo più remoti dal mosaico pisano, sono stati guardati con molto sospetto. II riconoscimento del Crocifisso di Santa Croce come un capolavoro di Cimabue è un fatto relativamente recente. Nella monografia di Nicholson si legge di una sua «mancanza di vigore»36, che lo fa considerare come un’opera solo parzialmente eseguita da Cimabue. Per la Madonna del Louvre (fig. 203), il Nicholson parla addirittura di «inerzia uniforme»37, che gliela fa escludere dal catalogo delle opere dell’artista. Questi giudizi negativi hanno condizionato anche molta parte della letteratura successiva, ivi compresa la monografia del Battisti38, che, considerando già risolto il «problema Cimabue», ha finito per non fargli fare alcun passo avanti.

Un contesto cimabuesco degli anni ottanta.

Invece, l’immagine che abbiamo del grande pittore fiorentino è ancora molto sfocata. Le notizie sicure che sono arrivate fino a noi sono incredibilmente scarse per un artista della levatura che i versi danteschi ci lasciano indovinare. Né sulla sua fisionomia artistica e sul significato della sua arte, né sulla sua evoluzione e la sua cronologia si hanno le idee chiare. Eppure credo sia possibile ricavare numerose indicazioni da uno studio paziente del-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 165 la pittura contemporanea, da Deodato Orlandi al Maestro della Maddalena, da Meliore a Manfredino da Pistola, ma soprattutto tenendo ben presente un gruppo di opere che, essendo sicuramente collocabili negli anni ottanta del Duecento, lungo una linea di sviluppo estremamente significativa, costituiscono importantissimi punti fermi di un contesto cimabuesco. Fra queste opere, la Madonna Rucellai (fig. 204), oggi agli Uffìzi, si rivela di un’importanza capitale. Com’è noto, essa fu commis- sionata a di Buoninsegna nel 1285 per la cappella dei Laudesi in Santa Maria Novella. Le incertezze sulla sua attri- buzione al grande pittore senese, e quindi sul suo collegamento col documento del 1285, sono durate a lungo e ancora nel 1951 il Toesca faceva fatica a superarle39. Nella sua opera sul Medioevo, egli aveva puntato l’indice sulle straordinarie affinità di questa figurazione con la grande Maestà cimabuesca del Louvre40 (fig. 203), proveniente dalla chiesa di San Francesco a Pisa. E in effetti è difficile dargli torto: le due tavole si richiamano strettamente nelle loro linee essenziali, più di quanto la stessa Madonna di Santa Trinita (fig. 205) si richiami a quella del Louvre. Intanto, è identica l’idea della cornice ornata di liste decorative che si alternano a dei tondini con mezze figure sacre; idea che viene abbandonata nella Madonna di Santa Trinita, per una decorazione più semplice, simile a quella che Giotto userà per la Madonna di Ognissanti. Ad avvicinare la Madonna del Louvre alla Madonna Rucellai, più che alla Madonna di Santa Trinita, sono poi, oltre alla presenza di tre coppie di angeli, il largo gesto benedi- cente del Bambino che allunga il braccio destro davanti al busto della madre, la mano destra di lei che si abbassa fino a toccare il ginocchio del figlio. Infine, il volto della Madonna, mestamente reclinato, si ripete quasi tratto per tratto, come se fosse stato uti- lizzato lo stesso disegno. E, a guardar bene, c’è anche una note- vole consonanza nella preferenza per un tipo di panneggio che fascia i corpi con stoffe leggere che si piegano fittamente; il fremi- to stupendo di pieghe lunghe e fitte del manto che fascia la Ma- donna del Louvre non ha riscontro nella Madonna Rucellai, in cui

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 166 La pecora di Giotto

è scomparso il modellato del manto, ma ha delle straordinarie controparti nei panneggi degli angeli, trasparenti e impalpabili (fig. 229). Queste evidenti affinità fra due dipinti di due diversi, grandissimi artisti li legano in una stretta unità cronologica, mentre li allontanano nel tempo dalla Madonna di Santa Trinita (fig. 205). È, quest’ultima, un’opera assai più tarda delle altre due e molte cose lo stanno ad indicare; la più importante è la forma del trono. Nella Madonna Rucellai e in quella del Louvre (figg. 204, 203) il trono è collocato in tralice ed ha la forma di uno straordinario, complicatissimo scranno di legno a fitte torniture, come a rocchetti montati uno sull’altro, che ne rendono estremamente elaborata la struttura, arricchita anche da intagli e da filamenti d’oro. Molta di questa sontuosità e leggerezza è perduta nel trono della Madonna di Santa Trinita. Esso è divenuto più solido e simile ad un’architet- tura e inoltre non è più visto in tralice ma frontalmente, in asse col dipinto. È, questo, un cambiamento in linea con le nuove idee che informeranno tutta la pittura del Trecento italiano e che nel contesto delle opere di Duccio e dei suoi seguaci immediati si può seguire quasi passo passo, fino al grande trono architettonico e frontale della Maestà del Duomo di Siena. Un momento inter- medio è rappresentato dalla tavola eponima del Maestro di Badia a Isola, dove il trono è già frontale e architettonico, ma l’incoeren- za del suppedaneo in tralice denuncia ancora il ricordo della im- postazione più arcaica. Che il trono della Madonna del Louvre sia quello più tipica- mente cimabuesco sta ad indicarcelo il fatto che ha più o meno la stessa forma e la stessa impostazione anche nelle altre due Madonne più sicuramente cimabuesche che sono arrivate fino a noi, quella del transetto destro della Basilica Inferiore di Assisi (fig. 186) e quella della chiesa dei Servi di . Il trono della Madonna di Santa Trinita (fig. 205) rappresenta, invece, una novità41. Anche altri indizi ci dicono che la Madonna di Santa Trinita è più tarda di quella del Louvre. Per esempio, l’aureola: meno ampia che nella tavola parigina, è bordata da una fila di punti scu- ri, ad imitazione di gemme, come si usa a Firenze in un momento assai circoscritto, che riguarda anche opere di Giotto come la Ma-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 167 donna di San Giorgio alla Costa, la tavola firmata con le Stimmate di san Francesco al Louvre, il polittico di Badia agli Uffizi (figg. 75, 76,107); invece, questo motivo non si vedrà più nelle tavole dalla Madonna di Ognissanti in poi. Esso indicherebbe, dunque, per la Madonna di Santa Trinita, una collocazione cronologica tra l’ultimo decennio del Due e gli inizi del Trecento. Ma vi è un’altra caratteristica che, per quanto minima possa sembrare, costituisce un tratto inequivocabile delle opere tarde di Cimabue, dal momento che si trova nel San Giovanni Evangelista del mosaico absidale del Duomo di Pisa, eseguito dall’artista fiorentino nel 1301-302, come sappiamo. Mentre nel Crocifisso di Santa Croce (fig. 206), nella Madonna del Louvre e perfino nella Madonna Rucellai il naso tende a incurvarsi come un becco aquilino, a Pisa esso è invece più diritto e regolare (fig. 201) e la narice, posta obliquamente, sale quasi a produrre un’incisione nella carne, come accade sistematicamente nella Madonna di Santa Trinita e mai nella Madonna del Louvre e nel Crocifisso di Santa Croce. Questo tratto distintivo compare già, invece, negli affreschi di Assisi (fig. 208), coi quali infatti la Madonna di Santa Trinita è messa di solito in rapporto cronologico. In effetti, mi sembra ci siano pochi dubbi sul fatto che gli af- freschi di Assisi, la Madonna di Santa Trinita e il San Giovanni Evangelista di Pisa si legano bene insieme, in un gruppo che costituisce l’opera tarda di Cimabue. In questi dipinti, il tono espressivo della figurazione, per quanto rimanga corrucciato, si fa meno cupo, fino a raggiungere i sensi di una tenerezza struggente; il cromatismo metallico e minerale delle opere precedenti si scioglie in una tessitura più soffice e quasi piumosa; le capiglia- ture si gonfiano, i panneggi si arruffano e si gualciscono, le corporature si fanno più robuste e squadrate, con un crescendo che va dagli affreschi di Assisi alla Madonna di Santa Trinita al mosaico di Pisa. L’evoluzione dalla torva, aggrondata mestizia della Madonna del Louvre alla più distesa e quasi sorridente atmosfera della Ma- donna di Santa Trinita passa anche attraverso opere come la Ma- donna Rucellai di Duccio. Se essa si appoggia, culturalmente, alla Madonna del Louvre, segna anche un avanzamento rispetto ad es-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 168 La pecora di Giotto sa e la traduce in una forma più gentile. Nei suoi effetti di limpida trasparenza cromatica, di intonazione fredda ma chiara e preziosa, sembrano come purgarsi i toni cupi e scuri della Madonna del Louvre (fig. 203), violentemente contrastati dal bagliore cromatico delle ali degli angeli. Per questi aspetti, la Madonna del Louvre trova forti consonanze con il dossale di Vigoroso da Siena della Pinacoteca di Perugia (fig. 207), che reca la firma e una data lacunosa, da interpretare come 1280, stando alla testimonianza di chi l’ha studiata durante un restauro di qualche tempo fa42. Si legge qui la stessa atmosfera cupa, dovuta sia alle espressioni aggrondate delle figure che alla preparazione scura degli incar- nati, sulla quale il volto viene modellato attraverso una trama accuratissima di sottili striature di biacca, che creano come dei bagliori metallici. Se nel 1280 Cimabue avesse già eseguito la Madonna di Santa Trinita e gli affreschi di Assisi, così pittorici, soffici e sciolti, ci aspetteremmo che il cimabuesco Vigoroso ne avesse accusato qualche sintomo, e sarebbe diffìcile giustificare il fatto che continui perfino ad accogliere la formula «greca» di segnare con una placca rossa le guance delle figure. Anche il celebre Crocifisso di Santa Croce, semidistrutto dal- l’alluvione del 1966, partecipa della stessa atmosfera cupa della Madonna del Louvre e della tavola di Vigoroso da Siena. I tratti del volto dei due dolenti (fig. 206) sono fortemente segnati e assog- gettati a scomposizioni astrattive; le loro fisionomie adunche sono diverse da quelle della Madonna di Santa Trinita e non vi si vedono ancora le narici dal taglio saliente che caratterizzano le opere più tarde come il San Giovanni Evangelista del mosaico absidale del Duomo di Pisa (fig. 201). Il naso adunco è come cubizzato e costruito a spigoli vivi, secondo una concezione figurativa molto più astratta, in confronto alla quale la Madonna di Santa Trinita e il San Giovanni di Pisa appaiono di una grande naturalezza. Che la Madonna del Crocifisso di Santa Croce sia notevolmente più antica lo stanno ad indicare anche altre particolarità, come le grosse striature chiare in cui è suddiviso il chiaroscuro del modellato tra il naso e la bocca, secondo un metodo pittorico che risale almeno a Giunta Pisano e in confronto al quale la pittura di Cimabue si pone, nel suo in-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 169 sieme, come un superamento, mirando piuttosto a effetti di trasparenza, qui leggibili soprattutto nel Cristo. Il modellato del corpo è di una tenerezza così soffice, il perizoma (fig. 228) di una trasparenza pittorica così sottile da farci comprendere l’ammi- razione che un giovane di genio come Duccio poteva nutrire per Cimabue. Abbiamo qui, infatti, il precedente più diretto per quei giochi di trasparenza, per quei veli impalpabili che si vedono nella Madonna Rucellai (fig. 229). Sulla precocità del Crocifisso di Santa Croce abbiamo non solo la ben nota testimonianza del Crocifisso del 1287 di Deodato Orlandi43, ma anche quella degli affreschi nella ex chiesa di San Giovanni Evangelista a Montelupo Fiorentino, firmati da Corso di Buono e datati 128444. È soprattutto il fatto che per qualcuna delle sue figure questo pittore utilizzi il modulo faciale del Crocifisso di Santa Croce (figg. 209, 210) ad assicurarci che a quella data esso esisteva già.

Il vero Cimabue.

Se dipinti come il Crocifisso di Santa Croce e la Madonna del Louvre vanno collocati prima del 1284-85, bisogna pensare che è sugli ideali artistici rappresentati da essi che si doveva fondare la grande reputazione che Cimabue godette presso i contemporanei prima della comparsa di Giotto, piuttosto che su opere del genere della tarda Madonna di Santa Trinita o anche, probabilmente, degli affreschi di Assisi. Abbiamo sollevato dei dubbi sulla coerenza di questi affreschi in ordine alla rappresentazione dello spazio e alla concezione voluminosa e tridimensionale delle cose raffigurate; ma soprattutto dei dubbi sul fatto che questi aspetti centrino davvero il significato reale dell’arte di Cimabue. Bisognerà ricor- darsi che, nonostante le puntualizzazioni fatte sull’importanza di certi raggiungimenti di Cimabue ad Assisi per la storia della pit- tura prospettica, l’ammirazione incondizionata di tutti è sempre andata alla Crocifissione del transetto sinistro, certo il capolavoro del grande pittore fiorentino, ma un capolavoro arcaico e medievale, o, come è stato definito talvolta, reazionario45, nel

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 170 La pecora di Giotto quale non sono implicati gli elementi progressisti di prefigurazio- ne della spaziosità e voluminosità trecentesche. La composizione è ribaltata in superficie, concepita in termini bidimensionali, e qualunque pittore del Trecento avrebbe potuto ironizzare sui personaggi a destra che sembrano pestarsi i piedi, perché disposti secondo un criterio che partecipa ancora di una concezione arcaica dello spazio figurato, in cui manca la nozione della tridimen- sionalità. Avrebbe certamente ironizzato anche sul fatto che ad una folla con tante teste corrispondano così pochi piedi. Con tutto ciò, rimane il sospetto che il vero Cimabue sia proprio questo e che la Crocifissione di Assisi sia il capolavoro che è proprio perché non implica problemi di tridimensionalità e di volume, come accade anche per il Crocifisso di Santa Croce e per la Madonna del Louvre. Sarebbe difficile negare che il Cristo di Santa Croce (figg. 209, 228) corrisponda nella formulazione a quello di Assisi, salvo l’idea formidabile del perizoma drammaticamente svolazzante, che è connessa con la funzione narrativa dell’affresco. Prima dell’allu- vione del 1966 il Crocifisso di Santa Croce ci avrebbe aiutato a ricostruire anche le qualità pittoriche di quello assisiate, ridotto a poco più di una larva. Mi domando se il Nicholson, nonostante l’implicito giudizio negativo sulla qualità artistica, non offrisse involontariamente una chiave di lettura in termini positivi del Cristo di Santa Croce, quando parlava di «mancanza di vigore». Di fatto, è come se questa gigantesca figura fosse stata sfibrata dalla morte e le fosse sopravvenuta una misteriosa, infinita debolezza, una sublime «mancanza di vigore», appunto. Ha un grandioso scarto patetico, come una gigantesca canna piegata dal vento. L’arco formato dal corpo che scarta lateralmente è un motivo dell’arte bizantina che era già stato utilizzato stupendamente da Giunta Pisano. Lo stesso Cimabue lo aveva fatto proprio nel Crocifisso giovanile di San Domenico ad . Ma a Santa Croce egli rielabora questo motivo, sforzandolo ed enfatizzandolo pate- ticamente. E il corpo di un gigante senza spina dorsale, abbando- nato in una sublime mollezza, come se nella morte la struttura ossea si fosse trasfor-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 171 mata in cartilagine. Il corpo, di una lunghezza abnorme, si dilata sui fianchi in una conformazione quasi femminea. E proprio nel modellato del corpo di Cristo (figg. 209, 228) che, prima dell’alluvione del 1966, si potevano cogliere in questa tavola i più densi e sottili effetti pittorici. Si poteva giudicare appieno della qualità straordinariamente molle e soffice di questo corpo anomalo, la cui pelle è realizzata attraverso striature sottili condotte in punta di pennello che sembrano fili lucenti di un tessuto di seta finissima. Della sublime trasparenza del perizoma e dell’impressione che effetti pittorici così raffinati dovevano fare sul giovane Duccio al tempo della Madonna Rucellai abbiamo già parlato. Io mi schiero, poi, con molta convinzione, dalla parte di coloro che considerano anche la Madonna del Louvre (fig. 203) uno dei capolavori di Cimabue e che ne spiegano la divergenza dalle sue opere più sicure con una cronologia più antica46. Il corpo straordi- nariamente sviluppato in altezza, il naso a becco, le mani arti- gliate, l’espressione aggrondata e come di cattivo umore, la nota quasi vedovile del manto scuro che l’avvolge completamente convogliano sull’immagine di questa Madonna la sensazione di un idolo lontano, appollaiato sul suo trono sontuoso. E certo, comunque, che, diversamente dalla Madonna di Santa Trinita in cui si respira un’atmosfera più sorridente, qui si vuole esprimere nella madre di Cristo il turbamento di colei che conosce il tragico destino del figlio. L’invadente sedile di legno tornito e fittamente decorato è una delle più geniali idee figurative di Cimabue, non razionale costruzione inserita nello spazio, ma fantastica lievitazione di un tema di origine bizantina tradotto in carolingio, come in un trono di Lotario o di Witekindo47. Su questo trono, la Madonna sembra librarsi oscillando, invece che sedere. Il manto blu la fascia strettamente, moltipllcandosi in un fremito leggero di pieghe fitte e sottili e aderendo al corpo come in una statua di togato antico. L’aureola gigantesca si confonde con l’oro del fondo e crea con esso un improvviso, misterioso vuoto, che da una sensazione di vertigine, confermata in basso dai trafori del trono a giorno che più che appoggiato su una solida base lo fanno sembrare so-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 172 La pecora di Giotto speso su un vuoto incommensurabile. Gli angeli stessi, i cui gesti indicano che sono loro a tener fermo il trono, non hanno una razionale collocazione nello spazio. La loro bellezza è nelle loro sontuose acconciature orientaleggianti, nelle loro vesti di veli dalle tinte raffinate e preziose, cui manca poco per assumere la trasparenza impalpabile di quelli di Duccio nella Madonna Rucel- lai. Le loro ali sono di uno splendore favoloso: coloratissime in secondo piano, sembrano ardere come fuoco vivido o accogliere un’esplosione luminosa che stacca quasi in controluce le piume scure in primo piano. Questo cromatismo denso e raffinato, fatto di accensioni improvvise che si staccano su tonalità scure, in cui la materia sembra farsi cupa, costituisce uno degli aspetti più nuovi della pittura di Cimabue, che utilizza gli effetti di lustro metallico di origine bizantina portandoli ad un grado di trasparenza e sotti- gliezza che, se non vado errato, il Medioevo occidentale non ave- va ancora conosciuto. Chi non riuscisse a valutare la suprema qualità pittorica di questo dipinto a causa delle svelature della superficie nella figurazione principale potrà apprezzarla nelle figurette a mezzo busto entro i tondini della cornice, alcune delle quali sono perfettamente conservate. Il Crocifisso di Santa Croce e la Madonna del Louvre credo si possano giudicare a buon diritto le due uniche opere sopravvis- sute di quel momento dell’attività di Cimabue per cui venne considerato il più grande pittore della generazione precedente a Giotto. È intorno al 1280 che egli doveva occupare quella posizione centrale nel campo della pittura cui alludono i celebri versi danteschi. Operante in una città come Firenze, che fino a quel momento era stata un centro artistico di un’importanza relativa, certo imparagonabile con Pisa, Roma e perfino Assisi, Cimabue aveva ricevuto commissioni importantissime da Arezzo (dove pure lavorava Margarito), da Pisa stessa (in cui lavoravano Ugolino di Tedice e il Maestro di San Martino); ed era stato a Roma dove le conseguenze del suo precoce soggiorno sono leggibili (io credo) nella decorazione del Sancta Sanctorum del tempo di Niccolò III, cioè della fine degli anni settanta48. Probabilmente, è dalla città

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 173 papale che le sue idee si diffondono fino a Viterbo (Crocifissione Forteguerri in Santa Maria Nuova) e in Umbria (miniatore di Deruta). Cimabue attrae nella sua orbita anche Manfredino da Pistoia49 e, quanto agli artisti senesi, il caso di Duccio è preceduto da quello di Vigoroso, mentre anche il dossale di San Pietro e quello di San Francesco nella Pinacoteca, o numerosi codici minia- ti per il Duomo, rappresentano casi senesi di rapporti con Cima- bue paralleli a quello di Duccio50. D’altra parte, il legame con Cimabue non impedisce a Duccio di mantenere una posizione originalissima. Il fragile e tremulo arabesco - di evidente ispirazione gotica - disegnato dai bordi del manto nella Madonna Rucellai (fig. 204) sarebbe impensabile nel pittore fiorentino. Né ci aspetteremmo mai di trovare in Cimabue, tra gli intagli e le decorazioni dei troni di tradizione bizantina, le minuscole bifore archiacute che si vedono nella Madonna Rucellai. Siamo, insomma, di fronte ad un pittore prontissimo a tentare ogni sperimentazione e a captare ogni novità nel momento stesso in cui si presentava.

La vetrata del Duomo di Siena del 1287-88.

Niente lo dimostra meglio della vetrata circolare dell’abside del Duomo di Siena (figg. 213, 215), che i documenti riferiscono al 1287-8851, due o tre anni dopo la Madonna Rucellai. Nonostante l’enorme divario di tecnica e di dimensioni, essa va letta d’un fiato con la minuscola Maestà del Museo di Berna (figg. 215, 216), un dipinto che nonostante le riserve espresse di recente sarà difficile escludere dal catalogo di Duccio, data la sua strettissima affinità stilistica e qualitativa con la Madonna dei francescani52. La vetrata del Duomo di Siena e la piccola Maestà di Berna (figg. 217, 218) sono connesse tra loro dal nuovissimo e in tutto affine inte- resse per la rappresentazione dello spazio, che vi appare spinto fino ad uno stadio cui Cimabue non è mai arrivato, ne negli affreschi di Assisi ne nella Madonna di Santa Trinita. I troni dei quattro Evangelisti e quello di Cristo e di Maria nell’Incoronazione della vetrata (figg. 213, 215) senese sono le più antiche testi-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 174 La pecora di Giotto

monianze arrivate fino a noi di un trono architettonico raffigurato in pittura (che tale è sostanzialmente la vetrata senese)53. E lo stesso trono che si vede nella Maestà di Berna, decorato da identici intarsi marmorei a piccole liste con losanghe chiare su fondo scuro. I troni di Cimabue ad Assisi sono ancora quelli bizantini di legno tornito, mentre il trono della Madonna di Santa Trinita rimane a metà strada fra i due tipi, nonostante la sua più evoluta sistemazione frontale. Questo fatto, insieme alla utilizzazione di cornici mistilinee di fattura ormai gotica quali sarebbero impen- sabili in Cimabue, rende inaccettabile l’attribuzione della vetrata a quest’ultimo artista proposta dal White54. È, comunque, una pro- posta che va tenuta in considerazione come ulteriore testimon- ianza della cultura cimabuesca di Duccio. Anche la perfetta identità che abbiamo notato, sotto l’aspetto della raffigurazione del trono, fra la vetrata del Duomo di Siena e la piccola Maestà di Berna (figg. 215, 216) ci obbliga a riconsiderare queste due opere nell’ambito della produzione di Duccio, dopo le recenti proposte in contrario. Che la vetrata sia un lavoro della seconda metà del Trecento, come crede lo Stubblebine55, apparirà impossibile a chiunque abbia anche un’idea vaga dell’evoluzione figurativa di quel secolo, soprattutto in una città come Siena, dove la maniera «greca» che ancora caratterizza la vetrata fu sentita come sorpassata fin dagli inizi del Trecento, quando si facevano ridipingere in forma più moderna dipinti come la Madonna dei Servi di Coppo di Marcovaldo o la Madonna di San Domenico di Guido da Siena. Del resto, basti l’osservazione del Carli che tra i protettori di Siena vi si trova ancora san Bartolomeo invece di san Vittore, che lo sostituirà dalla Maestà di Duccio in avanti56, ad assicurarci che si tratta di un’opera assai più antica di quanto pensi lo Stubblebine. Del carattere strettamente duccesco della vetrata ci assicurano, oltre ai rapporti con la piccola Maestà di Berna, alcune parti me- glio leggibili come l’Incoronazione della Vergine, dove gli angeli (fig. 220) mostrano un garbo e una gentilezza molto maggiori di quan- to non accada mai in Cimabue, mentre i tratti dei loro volti sono più minuti e graziosi. La mano aperta della Vergine ha una defor- ma-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 175 zione tipica di Duccio giovane ed è quasi sovrapponibile alla destra della Madonna di Crevole (figg. 219, 220). Inoltre, la stoffa gettata sulla spalliera del trono dell’evangelista Matteo (fig. 213) ha lo stesso carattere di fondo disegnato a motivi geometrici ripetuti, con un effetto di rivestimento di piastrelle in maiolica, che caratterizza anche la stoffa dietro la Madonna dei francescani. Nella figura di san Savino si colgono, nonostante le cattive con- dizioni del modellato, gli stessi tratti ascetici e sfinati del San Gregorio nello sportello destro del tabernacolo del Museo di Boston (figg. 221, 222). Nella Dormitio Virginis, il giovane apostolo sbarbato che si china sul corpo della Madonna fa già pensare ai dolenti che si chinano sul corpo di Cristo nella Deposizione sul retro della Maestà. Insomma, troppi aspetti della figurazione della vetrata rimandano direttamente a Duccio perché si possa dubitare che sia lui l’autore almeno del disegno o del cartone, se anche non ha delineato e chiaroscurato alcune parti direttamente sul vetro. Del resto mantengono ancora un grande peso le argomentazioni in questo senso del Carli, la cui attribuzione a Duccio della vetrata del Duomo di Siena rimane, a mio avviso, uno dei suoi contributi più importanti alla storia dell’arte italiana.

Alla ricerca di un Giotto giovanissimo.

Ma è venuto il momento di chiedersi che cosa è accaduto a Duccio in questi pochi anni che separano la Madonna Rucellai dalla vetrata senese. E certo che nel contesto cimabuesco così come viene formu- landosi fino al 1285 col polittico perugino di Vigoroso del 1280, con gli affreschi di Corso di Buono a Montelupo del 1284 e infine con la Madonna Rucellai del 1285, che tra le opere di Cimabue trovano le loro premesse nel Crocifisso di Santa Croce e nella Maestà del Louvre, non vi è alcun cenno a interessi per la rappresentazione dello spazio in senso trecentesco. Nella Madonna del Louvre (fig. 203) non si sa dove gli angeli trovino posto per poggiare i piedi. Gli ambienti architettonici di Corso di Buono non sono certo

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 176 La pecora di Giotto ispirati da una nuova problematica spaziosa. Nella Madonna Ru- cellai (fig. 204) quattro dei sei angeli si inginocchiano irrazional- mente sul vuoto del fondo oro. Sulle nuove esperienze con cui si è trovato a confronto Duccio nei due o tre anni che separano la Madonna Rucellai e la vetrata del Duomo di Siena si possono fare molte supposizioni, ma una mi sembra più verosimile delle altre. Il secondo Commentario del Ghiberti ci fornisce le notizie più serie e attendibili sull’arte del Trecento. La sua serietà appare evidente anche dal fatto che non concede niente alla aneddotica che sarà tanto cara al Vasari, e per la quale poteva fornire molti spunti la novellistica trecentesca. Tuttavia, un aneddoto di sapore leggendario è presente anche nel Ghiberti ed è quello celebre su Giotto fanciullo che viene scoperto da Cimabue mentre sta ri- traendo una pecora57. Mi chiedo se il sapore leggendario di questo aneddoto non sia stato la causa principale di un atteggiamento sostanzialmente negativo da parte della critica sui rapporti da maestro ad allievo tra i due grandi pittori58. Venendoci da una fonte seria come il Ghiberti, mi chiedo se anche questo episodio non nasconda, invece, una profonda verità e non sia simbolo proprio di quella situazione e di quel rapporto59. Come si è già notato, molte delle differenze che l’Offner vedeva giustamente nelle Storie di san Francesco ad Assisi in confronto agli affreschi della cappella Scrovegni sono segni di arcaismo, segni di un retaggio cimabuesco. Se poi ci spostiamo nei registri alti della navata della Basilica Superiore di Assisi, dalle Storie di Isacco e dalla successiva Volta dei Dottori in avanti, questi richiami si fanno ancora più intensi, e di recente il Brandi li ha messi benissimo in evidenza, soprattutto facendo riferimento ai panneggi «prismatici»60. E le opere di Cimabue che richiamano sono proprio quelle del momento del Crocifìsso di Santa Croce e della Madonna del Louvre. Il naso costruito a spigoli vivi, la stroz- zatura del polso (figg. 58, 60, 69) si spiegano con un rimando alle scomposizioni astrattive e cubizzanti presenti in quei dipinti di Cimabue (fig. 206): scomposizioni che tendono a scomparire nelle opere successive. C’è, in particolare, un dipinto su tavola di ambiente cimabue-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 177 sco che presenta speciali consonanze con gli affreschi di Assisi dalle Storie di Isacco in avanti, ed è la Madonna della Propositura di Castelfiorentino (fig. 223). Entrata da tempo nella discussione sui rapporti fra Cimabue e Duccio, questa tavola, la cui altissima qualità va giudicata al di là di uno stato di conservazione non del tutto soddisfacente, impressiona per l’espansione grandiosa della sagoma della Madonna e per il suo calcolato inquadrarsi entro la superficie disponibile. La qualità trasparente e preziosa dell’in- carnato della Vergine sembra essere affine al Duccio della Madonna Rucellai e della Madonna di Crevole (fig. 219), ma il Bambino, vivace e insieme potente ed erculeo, non ha paralleli nel pittore senese e nemmeno nello stesso Cimabue. Esso richiama piuttosto i putti ai quattro angoli della Volta dei Dottori nella Basilica. Superiore di Assisi (figg. 223-26), come ha notato recentemente anche il Bologna62. Il modellato dà forma ad una anatomia massiccia, che allude ad un peso vero e ad un reale ingombro fisico del corpo. Le membra aggettano con una forza che supera la trasparenza della materia. Le affinità arrivano fino a certi particolari, come il filo bianco di luce che disegna il labbro superiore. La veste del Bambino è, anch’essa, di una materia lucida e trasparente, ma mentre in Duccio diventa un velo leggero e impalpabile che sembra lasciar trasparire davvero ciò che sta sotto (fig. 229), nel Bambino di Castelfiorentino essa mantiene una tensione nei lustri metallici e nei taglienti sottosquadri delle pieghe tali da evidenziare l’aggetto della coscia, del ginocchio e della gamba piuttosto che il loro trasparire sotto la stoffa (fig. 225). Sono aspetti che, se non vedo male, caratterizzano anche gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti. Ad esempio, nella scena con Isacco che respinge Esau, il lenzuolo del letto su cui il patriarca è disteso (fig. 227) è realizzato con pieghe a sottosquadri taglienti e tesi, e modellato per mezzo di una sorta di alone lustro e metallico nella zona in cui emerge il gonfiore del materasso sottostante, da richiamare invincibilmente il comportamento del pittore che ha dipinto la veste del Bambino nella Madonna di Castelfiorentino. Anche nelle Storie di san Fran- cesco, i chiari con cui sono indicati gli aggetti sotto la stoffa con-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 178 La pecora dì Giotto servano ancora molto della qualità lucente e metallica che si vede- va nella Madonna di Castelfiorentino (figg. 88, 225). La Madonna di Castelfiorentino, col suo preludere alla pittura per aggetti voluminosi che caratterizzerà le Storie di Isacco e il se- guito degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, sta ad indicare la possibilità di una nuova, bruciante presenza accanto al vecchio Cimabue e al giovane Duccio; sta ad indicarlo con intensità ancora maggiore la vetrata del Duomo di Siena. Giotto fu colui che sollevò la problematica della rappresentazione dello spazio al livello più alto in tutto il Trecento. Fino a Masaccio, nessuno si comportò mai con più rigore e coerenza di lui nei confronti di questo aspetto nuovo della pittura. Allora, di fronte al sostanziale disinteresse per la rappresentazione razionale dello spazio in ambito cimabuesco almeno fino al 1285 circa, la com- parsa delle prime allusioni a questo problema nella vetrata del Duomo di Siena del 1287-88 ci autorizza a formulare l’ipotesi emozionante che a quella data le idee di Giotto avessero già incominciato a farsi strada63. E ognuno può vedere le conseguenze di un’ipotesi come questa per i grandi problemi ancora aperti riguardanti le vicende della pittura italiana nel suo passaggio da una figurazione di tradizione ancora bizantineggiante alle grandi novità trecentesche.

Il ruolo del giovane Duccio.

Dovremmo immaginare delle discussioni di un interesse straordinario, di una portata enorme, tra il vecchio Cimabue, il giovane Duccio e il giovanissimo Giotto. E va tenuto ben presente che in questo alto consesso la voce di Duccio deve avere avuto una grande autorevolezza. Lo dimostra il fatto che molti cima- bueschi fiorentini presentano aspetti di raffinatezza cromatica e figurativa per cui si è parlato spesso di affinità con Siena (e mi riferisco a casi come la Madonna di San Remigio, il Crocifisso del Carmine ora nella Galleria dell’Accademia, o il Crocifisso di Paterno). Lo dimostra l’attribuzione a Duccio che si è proposta non

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 179 solo per alcune parti della decorazione cimabuesca del transetto della Basilica Superiore di Assisi, ma anche per alcuni affreschi della navata eseguiti da maestranze toscane in parallelo con quelle romane guidate dal Torriti64. Gli stessi affreschi giotteschi, dalle Storie di Isacco alle Storie di san Francesco, presentano una gamma cromatica dai toni freddi, trasparenti e raffinati, paragonabili a quelli della Madonna Rucellai. Cimabue era stato il grande inven- tore di questa pittura trasparente e preziosa, ma in lui restano delle tonalità profonde e fosche, come un basso continuo di maggiore gravità, mentre Duccio si fa portatore di una gamma cromatica più chiara e purgata, di una straordinaria sensibilità per il colore che costituirà uno dei denominatori comuni della pittura senese fino al Cinquecento. Ma la vetrata del Duomo di Siena sta a dimostrare anche la sua disponibilità ad accogliere le nuovissime idee rivoluzionarie di tridimensionalità figurativa proposte dal giovane Giotto e la sua prontezza a contribuire da par suo alla loro messa a punto. È in questa prospettiva che acquista un valore emblematico il caso della Madonna già Stoclet (fig. 160), con il suo davanzale marmoreo che evoca immediatamente le incorniciature architettoniche delle Storie di san Francesco ad Assisi, ma allo stesso tempo fa diventare questa tavoletta il lontano prototipo di tante Madonne al davanzale del Quattrocento. Per quanto riguarda il vecchio Cimabue, molti affreschi del transetto di Assisi e la Ma- donna di Santa Trinita (figg. 199, 205) ci dicono che anch’egli si trovò a fare i conti con le nuove idee, ma con delle notevoli riserve mentali.

Giotto e una risposta «romana» allo «struktive lllusionismus» delle maestranze oltremontane di Assisi.

Se è vero che ci sono state discussioni appassionate fra l’anzia- no Cimabue, il giovane Duccio e il giovanissimo Giotto, possiamo immaginare che uno degli avvenimenti da cui hanno avuto origine sia stato l’inizio della decorazione ad affresco della Basilica Superiore di Assisi ad opera di una maestranza oltre- montana sulle pareti alte del transetto destro (figg. 230-32).

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 180 La pecora di Giotto

Già l’architettura della Basilica Superiore aveva importato in Italia il nuovo stile «alieno» delle cattedrali gotiche, che nella prima metà del Duecento aveva fatto delle apparizioni del tutto eccezionali nella versione non-sontuosa dei cistercensi. L’arte d’oltralpe aveva continuato a fare la parte del leone, ad Assisi, con le vetrate, che rappresentavano anch’esse una novità legata al nuovo stile architettonico. Pur adattandosi alla situazione locale, i modi artistici del gotico d’oltralpe stavano diventando una linea di tendenza nella casa-madre di un ordine internazionale, come era diventato quello francescano. L’inizio della decorazione ad affresco della Basilica Superiore ad opera di una maestranza oltre- montana rappresentò l’apice di questa linea di tendenza. L’importanza che il seguito della decorazione, dagli affreschi di Cimabue alle Storie di san Francesco, ha avuto per l’arte italiana ha fatto passare nettamente in secondo piano il suo inizio, del resto mal giudicabile dato il suo tragico stato di conservazione. Solo di recente, dopo gli accenni dell’Aubert, del Coletti, del Brandi e dell’Oertel65, si sono avute delle precisazioni da parte del Volpe66 e della Hueck67, mentre il libro del Belting68 sulla decorazione della Basilica Superiore di Assisi contiene il tentativo più rilevante e sistematico di interpretare anche quella parte iniziale e di valutarla nel suo significato69. Tuttavia, secondo una caratteristica delle ricerche importanti, che nell’approfondire alcuni problemi aprono prospettive nuove, dopo l’enorme sforzo per definire la patria di origine della bottega gotica di Assisi, anche il libro del Belting ha lasciato aperto l’interrogativo circa le conseguenze che queste novità gotiche hanno avuto non solo per il seguito della decorazione della Basilica Superiore di Assisi, ma anche per la storia dell’arte italiana70. L’attenzione posta dal Belting agli inizi della decorazione della Basilica Superiore di Assisi e lo studio sistematico che ne ha fatto hanno rivelato aspetti di una portata enorme negli affreschi della bottega gotica. Da una parte c’è la novità di un linguaggio figurativo tanto di- verso da apparire esotico ed alieno su terra italiana, ma un lin- guaggio che dimostrava per la prima volta dopo tanti secoli di po-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 181 ter vivere indipendentemente dalla cultura figurativa di tradizione bizantina. Dall’altra c’è una funzione nuova attribuita all’affresco, che non si limita più a decorare la superficie eminentemente bidimensionale di una parete, ma crea strutture architettoniche finte (figg. 231, 232) che illusionisticamente sem- brano continuare e completare le strutture architettoniche reali, integrandosi in esse. Ambedue gli aspetti, quello stilistico e quello funzionale, sembrano avere provocato profonde reazioni nell’arte italiana, in parte di rigetto ma sostanzialmente di grande interesse. Si è trattato di una lettura critica e di una interpretazione che hanno avuto una portata enorme per quei mutamenti capitali che si sono verificati nella pittura italiana alla fine del Duecento. Certamente si sono rigettati alcuni aspetti con cui la pittura gotica d’oltralpe si presentava ad Assisi, come la fragilità figurativa, la leggerezza quasi incorporea delle cose, i manierismi grafici e l’espressività quasi caricaturale. Per fare un esempio: ad un pittore italiano, la testa dell’Eterno che compare inaspettatamente di lato nella Trasfigurazione (fig. 230), con l’indice vivacemente puntato verso il Cristo, nella grande lunetta in alto sopra la parete destra, deve essere sembrata molto poco seria e sconveniente per il perso- naggio che doveva rappresentare. Per quanto riguarda il linguaggio stilistico, non c’è dubbio che gli affreschi di Assisi hanno avuto la risonanza maggiore nell’arte senese71. Non dico questo per influenza di quel luogo comune molto abusato anche oggi per cui tutto ciò che è gotico in Italia si identifica con Siena. Lo dico perché ci sono indicazioni per i tramiti attraverso cui questo passaggio è avvenuto. Non c’è dubbio che Duccio conobbe gli affreschi di Assisi, si accetti o non si accetti la proposta del Longhi che egli abbia lavo- rato nella Basilica Superiore (e io sono tra quelli che non credono a questa proposta)72. Se anche non ve lo avessero richiamato interessi artistici e non ve lo avessero condotto i suoi rapporti con Cimabue, Duccio non può aver mancato di recarsi nella Basilica di San Francesco almeno per ragioni religiose, come dovettero fare tutti gli italiani di allora e moltissimi europei. Gli episodi goti-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 182 La pecora di Giotto ci che già si leggono nella Madonna Rucellai73 trovano in una precoce meditazione sugli affreschi dell’oltremontano di Assisi la loro più naturale spiegazione. Ma c’è un altro legame anche più esplicito fra Assisi e Siena ed è quello degli orafi senesi, gli inventori dello smalto traslucido. La loro opera più famosa è il reliquiario del Corporale di Orvieto, compiuto nel 1338; ma esso è stato eseguito quando gli smaltisti senesi non erano più ai vertici che avevano raggiunto nei decenni precedenti. Chiunque intraprenda uno studio anche superficiale su questa materia, non mancherà di meravigliarsi dell’altissima ed eccezionale temperatura gotica raggiunta già verso il 1290 dagli smalti del calice di Guccio di Mannaia donato da Niccolò IV alla Basilica di Assisi, certo più radicalmente gotici di qualsiasi pittura di Duccio stesso e in straordinario anticipo sugli esiti pittorici di Pietro Lorenzetti e di Simone Martini74. Io ricordo bene di aver nutrito a lungo dei dubbi sull’attendibilità di una datazione così precoce per il calice di Niccolò IV. Ma, una volta superati questi dubbi, bisognerà allora ammettere che sono stati gli orafi senesi a costituire la punta di diamante della penetrazione gotica a Siena e in Italia. Per essi si è chiamata in causa la miniatura francese e Maître Honoré75, ma gli affreschi di Assisi rappresentano un tramite ancora più diretto di una cultura gotica che in effetti sembra la premessa per quella di Maître Honoré. Anche i rapporti sottolineati dal Volpe76 tra gli affreschi di Assisi e il retablo di Westminster hanno lo stesso significato, dal momento che si dura fatica a distinguere tra questo capolavoro della pittura inglese e certe pagine del Breviario di Filippo il Bello del miniatore francese. E gli smalti del calice assisiate di Guccio di Mannaia hanno le stesse possibilità di essere letti in rapporto col retablo di Westminster. Così dagli affreschi di Assisi attraverso l’opera degli smaltisti senesi si trasmette a Siena un bagaglio di cultura gotica che costituisce la premessa per la grande arte di Simone Martini e di Pietro Lorenzetti. Ma l’aspetto nuovo degli affreschi gotici di Assisi che ha avuto conseguenze più profonde è stato quello funzionale, soprattutto per quei connotati che hanno fatto usare al Belting il concetto di

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 183

«struktive Illusionismus»77. Bisognerà abituarci a riconoscere che la caratteristica più specifica della pittura italiana dalla fine del Duecento al Cinquecento, cioè la rappresentazione dello spazio, affonda alcune sue radici nella decorazione ad affresco delle cattedrali gotiche78 ed ha i suoi punti di riferimento più diretti negli affreschi assistati della bottega oltremontana. Certo è che tra questo genere di pittura importato ad Assisi e le novità introdotte da Giotto esiste una serie di straordinarie convergenze, consistenti soprattutto nel rifiutare la tradizione figurativa bizantina, nel rimettere la pittura al passo con la scultura e l’architettura, nel fingere la cornice di un affresco come articolazione architettonica della parete su cui è inserito. In un saggio sulla rappresentazione dello spazio nell’arte italiana pubblicato qualche anno fa non mi ero reso conto di questo fatto, perché non avevo ancora letto il libro del Belting. In esso acquista un valore veramente attivo, e non solo di trovata brillante che sottende una ricerca, l’idea-guida che la decorazione della Basilica Superiore di Assisi non può essere esaminata partitamente, in rapporto solo col singolo artista che si sta studiando di volta in volta, ma va considerata nel suo insieme, come un compito unitario alla cui realizzazione hanno contribuito tutti i pittori che vi hanno preso parte, nonostante si siano succeduti l’uno all’altro sui ponteggi della Basilica. In questo modo, tenendo presenti i risultati di «struktive Illusionismus» della bottega gotica (figg. 231, 232) che ha iniziato la decorazione, si capisce meglio l’illusionismo architettonico delle Storie di san Francesco (fig. 234) che hanno concluso la decorazione. Sulle pareti del transetto destro sono le prime architetture finte visibili in una decorazione ad affresco su terra italiana. Si leggono ancora molto bene, nonostante le cattive condizioni generali, le slanciate vimperghe che fingono un coronamento per gli archi reali del triforio (fig. 232). Si leggono meno bene, ma sono anche più sorprendenti, le finte strutture architettoniche sulla parete di fondo che continuano quelle reali della finestra (fig. 231), trasfor- mando così la parete, per via di illusionismo, in un’unica grande finestra vetrata, come in una cattedrale dell’Île-de-France. Anche lo stile

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 184 La pecora di Giotto architettonico è perfettamente in linea con quello delle cattedrali gotiche e anzi aggiornato agli esiti che si ebbero intorno al 1260, come ha dimostrato il Belting studiando soprattutto il particolare modulo di vimperga con cui il pittore oltremontano di Assisi ha completato l’architettura reale delle arcate del triforio. E i punti di riferimento più convincenti sono il portale del transetto sud di 235 Notre-Dame di Parigi (fig. 234) e il portale di facciata della cattedrale di Auxerre79. L’illusionismo architettonico dell’incorniciatura delle Storie di san Francesco ha evidentemente le sue premesse in questi esperimenti della bottega gotica di Assisi; anzi, sarebbe più giusto dire, ne costituisce un’agguerrita risposta. Una risposta che elude totalmente gli aspetti stilistici, perché degli affreschi gotici non solo non accetta il linguaggio figurativo, ma nemmeno lo stile architettonico. I dati architettonici delle Storie di san Francesco sono infatti quelli dell’architettura contemporanea dell’Italia centrale, con le sue forme moderatamente gotiche, le sue sopravvivenze romaniche, le colonne tortili, le decorazioni cosmatesche, ecc. Non manca, tuttavia, qualche punto di contatto più diretto con certi particolari architettonici figurati del pittore oltremontano. Per esempio, mi sono chiesto spesso quale rapporto con la realtà avessero negli affreschi giotteschi di Assisi certi aspetti che non si ritrovano quasi affatto nei successivi, dalla cappella Scrovegni in avanti (ma si vedono nella cappella di San Nicola), come quelle coperture riquadrate (fig. 236), piccole ma massicce, che sporgono fortemente da uno dei quattro lati di una costruzione a torre in certi caseggiati delle Storie di san Francesco. E mi pare di averne individuata un’idea ispiratrice tra le articolazioni architettoniche del fastigio dell’edicola della Maiestas Domini del pittore oltre- montano sulla parete ovest del transetto destro (fig. 237). E così mi sembra ci sia un rapporto diretto tra la decorazione a rosette in aggetto nel fondo degli affreschi gotici (fig. 232) e quelle continue decorazioni a piccole formelle, a volte ad incavo, a volte in ag- getto, che, con un effetto di trompe-l’oeil, punteggiano le pareti, dall’interno della casa di Isacco alle mura di Arezzo nella Cacciata dei diavoli (figg. 50, 53, 54). In un primo momento pensavo ad un effetto assimilabile a quello dei

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 185 bacini di maiolica inseriti nei muri di tante chiese romaniche italiane; ma in realtà esse funzionano qui come le decorazioni consimili che si vedono, ad esempio, nella grande vimperga del portale del transetto sud di Notre-Dame di Parigi (fig. 235), cioè proprio in quel tipo di architettura che è l’esempio per il pittore oltremontano di Assisi. La risposta delle Storie di san Francesco allo «struktive Illusio- nismus» della bottega gotica è il segno di una meditazione profonda su quell’esempio. Gli affreschi gotici indicavano un ordine mentale nuovo. Con le Storie di san Francesco la pittura italiana è ormai entrata totalmente in questo ordine mentale nuovo. L’idea di fondo di rifiutare le formule architettoniche orientaleggianti tramandate dalla pittura italiana di tradizione «greca» e di rifarsi all’architettura contemporanea è ormai piena- mente digerita. Ma rifiutando lo stile architettonico e anche quello figurativo della bottega gotica di Assisi, le Storie di san Francesco hanno evitato il rischio che la pittura italiana diventasse l’espres- sione di una provincia gotica. Anzi, la risposta alla lezione gotica è di una consapevolezza tale da andare anche oltre questo segno. Le idee suggerite dagli affreschi oltremontani, genialmente rimedi- tate, si trasformano in una nuova estetica, quella della pittura italiana del Trecento. La conseguenza più importante di questa rimeditazione geniale è stato l’andare molto più avanti sulla strada dell’illusionismo spaziale con la scoperta della tridimen- sionalità. Le finte architetture della bottega gotica di Assisi vi alludevano soltanto, non la realizzavano. Il compito di passare dall’allusione alla realizzazione della tridimensionalità è assunto nella decorazione della Basilica Superiore di Assisi dalla serie di affreschi che vanno dalle Storie di Isacco alle Storie di san Francesco. Qui si realizzano organicamente le premesse fornite dalle coordinate che il Belting evidenzia nella decorazione murale delle cattedrali gotiche80: strutture architettoniche cieche che imitavano quelle a giorno e incorniciavano figurazioni che potevano essere dei rilievi scolpiti e policromati; ma che potevano essere imitati anche da dei dipinti, così come potevano essere imitate con i mezzi della pittura anche le strutture architettoniche cie-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 186 La pecora di Giotto che. Questa intercambiabilità fra strutture architettoniche reali e strutture architettoniche finte e tra figurazioni tridimensionali (i rilievi policromati) e figurazioni dipinte viene sostituita con le Storie di san Francesco da un sistema figurativo esclusivamente dipinto, ma finto come tridimensionale. È il nuovo sistema della pittura italiana del Trecento81. Gli aspetti petrigni e statuari che sono stati notati nelle Storie di san Francesco, e talora giudicati negativamente, nascevano dal- l’urgenza di questa scoperta. E i tanti rapporti che sono stati visti con la scultura di Arnolfo di Cambio anche negli affreschi dei registri alti dalle Storie di Isacco in avanti82 (figg. 238, 239) indicano quale tipo di statuaria si proponevano idealmente di fingere83. Ma non vorrei rischiare delle schematizzazioni troppo sempli- ficatrici di fronte alla complessa realtà di questi affreschi: solo indicare una possibile serie di nessi culturali, di idee che ne hanno fatte scaturire altre in questa rimeditazione geniale di cui par- lavamo. Una risposta così organica, ma anche così indipendente, allo «struktive Illusionismus» della bottega gotica di Assisi è il segno di una reazione attiva che investe tutto il seguito della decorazio- ne della Basilica Superiore, in cui la sua conclusione, con le Storie di san Francesco, costituisce la soluzione della crisi posta dall’in- tervento iniziale della bottega gotica. Ma credo ci siano pochi dubbi che, interrotta l’opera della bottega gotica, la risposta allo «struktive Illusionismus» diventa un tema specifico della deco- razione della Basilica Superiore di Assisi. Per fare un esempio: il finto architrave a mensole sopra gli affreschi cimabueschi dello zoccolo del transetto (figg. 172, 199), pur con la sua formulazione imperfetta, sperimentale e di transizione, è stato pensato ad Assisi e non portato qui da qualche sistema di decorazione romano. Nessuno degli esempi consimili, pur così frequenti nella pittura romana, può datarsi con sicurezza prima degli affreschi assistati di Cimabue. E non solo ne manca qualsiasi potenzialità nella pit- tura romana di metà Duecento, ma non ve ne è segno nemmeno nella decorazione del Sancta Sanctorum del tempo di Niccolò III (1278-80). Ad Assisi questo motivo si inquadra logicamente nel problema

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 187 specifico della risposta allo «struktive Illusionismus» della bottega gotica e si colloca accanto agli altri tentativi di Cimabue, in cui è da vedere una prima reazione, già di segno profondamente diver- so e mediterraneo. Che si trattasse di una risposta polemica lo sta ad indicare la diversa soluzione dei trifori, dove la zona sopra le arcate reali è strutturata da un fìnto sistema architettonico completamente svolto in orizzontale e chiuso da cornici, di contro alle vimperghe svolte in altezza e come libere in uno spazio aperto della bottega gotica del transetto destro (figg. 232, 233). Il finto loggiato ad archi ribassati con pilastri scanalati e capitelli a foglie di acanto e con la decorazione cosmatesca (fig. 233) tentano l’attuazione di uno «struktive Illusionismus» in termini di cultura del tutto mediter- ranea o romana - a seconda di come si vorrà etichettare - ma certo deliberatamente anti-gotica. La posizione di Cimabue si dimostra, così, ben altrimenti autorevole rispetto a quella del tutto subordinata con cui il «pittore romano di San Pietro»84 si presenta nel transetto destro, sostanzialmente come collaboratore del pittore oltremontano. È lui a mettere in pratica il progetto relativo alla parete di fondo del transetto destro e ad eseguire le nervature gotiche che riprendo- no quelle della vetrata reale (fig. 231), trasformando in un’unica grande finestra tutta la parete di fondo. È lui a dipingere le due grandi figure di Profeti e a mitigare lo slancio delle nervature gotiche decorandole col motivo ad ovuli ed astragali di antica tradizione classica85. E nel triforio ad est, dopo essersi adattato a ripetere le vimperghe finte del maestro gotico, ne ha leggermente modificati i gattoni rampanti ed ha abolito il fondo a rosette applicate che il pittore gotico usava sistematicamente. Queste correzioni, un po’ patetiche, significano una riserva mentale di segno puramente negativo, che non incide sulla sostanza; invece, le soluzioni diverse adottate da Cimabue sono una risposta polemica, ma energica e positiva, che riconosce tutta l’importanza che merita allo «struktive Illusionismus» gotico. Ho parlato di una risposta in termini di cultura mediterranea o romana. Se con il primo aggettivo ci possiamo capire meglio tra

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 188 La pecora di Giotto noi moderni, io credo che alla fine del Duecento si sarebbe preferito usare l’aggettivo «romano». La polemica risposta al linguaggio artistico della bottega gotica non aveva certo un signi- ficato toscano, perché riguardava almeno l’intera area dell’Italia centrale e idealmente aveva il suo punto di riferimento in Roma e nella tradizione che questa città simboleggiava. Abbiamo insistito più volte sull’importanza della nuova Basilica di Assisi, soprattutto in questo periodo, e sul significato che veniva ad assumere in campo artistico. Essa era diventata allora il punto più in vista di un’area culturalmente assai omogenea, come quella dell’Italia centrale. Soprattutto fra la Toscana e Roma dovevano esservi degli scambi praticamente ininterrotti, resi possibili non solo dalle comunicazioni stradali (la via Francigena) ma soprattutto dai contatti continui dei banchieri senesi e fiorentini che controllavano l’amministrazione dei capitali che affluivano alla curia papale di Roma. La presenza documen- tata di Cimabue a Roma nel 1272 e il prolungato soggiorno romano di Arnolfo di Cambio sono i dati emergenti di questi rapporti in campo artistico. Lo scoppio nel cuore di questo contesto sostanzialmente ancora legato alla «maniera greca» delle novità gotiche del pittore oltre- montano di Assisi dovette provocare come una deflagrazione. La risposta polemica che ne seguì da parte dei continuatori italiani della decorazione può chiamarsi, almeno simbolicamente, una risposta romana, che non significa uno specifico riferimento al- l’arte romana contemporanea ma piuttosto all’eredità religiosa, culturale e artistica che Roma ancora rappresentava. Nel segno di questa unità culturale ci si propone di risolvere il grande problema della decorazione della Basilica Superiore di Assisi come risposta alla bottega gotica. Quando si colorano di campanilismo le dispute sulla premi- nenza nel rinnovamento dell’arte italiana da parte di Roma o di Firenze, cioè da parte di Giotto o del Cavallini, a parte tutte le considerazioni che si sono fatte nel capitolo precedente, si dimen- tica che stretti rapporti artistici tra le due città si stabiliscono molto prima ed esistono già al tempo di Cimabue e di Arnolfo. Si

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 189 dimentica, inoltre, che in tutte le città italiane, particolarmente in quelle dell’Italia centrale, il rapporto di discendenza da Roma era fortemente sentito. Siena, Pisa, Firenze si consideravano tutte eredi di Roma e molte leggende medievali sulle loro origini si concretizzano in precisi simboli: la lupa che allatta Aschio e Senio per Siena86, i sarcofagi e il cratere del Camposanto di Pisa87, la statua di Marte sul Ponte Vecchio a Firenze88 diventano testi- monianze dirette e tangibili del rapporto di filiazione da Roma. Come Arnolfo diventa romano, così Giotto probabilmente si sarà sentito erede dell’arte romana. Il soggiorno romano di Cimabue avrà avuto un significato simile a quello di Arnolfo; anche le sue commissioni assisiati venivano da Roma. Tutti questi artisti, probabilmente, si sentivano rappresentanti della tradizione arti- stica romana e nelle antiche basiliche romane trovavano conferme o ispirazioni per le proprie idee artistiche. In questo senso, il prestigio di Roma e l’idea di una ininterrotta tradizione artistica romana era più rivolta all’indietro, verso il passato, che al presente. Il presente non doveva avere un grande significato per artisti che venivano da città progredite e attive, come erano Pisa, Firenze e Siena in confronto alla Roma di fine Duecento, la cui positività era soprattutto nella presenza del papa e della corte pontificia, che tuttavia si spostavano continuamente fra l’Urbe e le città satelliti del Lazio e infine emigrarono in Francia. Gli artisti contemporanei di Roma, legati strettamente alla curia pontificia, dovevano costituire una presenza ugualmente labile e incostante che praticamente finì con lo spostamento in Francia della corte pontificia agli inizi del Trecento. Cosicché Roma presenta il fenomeno anomalo di una città che, sotto l’aspetto artistico, scompare nel nulla nella prima metà del Trecento, proprio mentre quasi ogni centro italiano raggiunge i suoi vertici. La differenza tra la grandezza del valore simbolico di Roma e la sua realtà contemporanea fa sì che gli ideali artistici romani si travasino nelle città figlie e lì vengano coltivati nella convinzione di portare avanti l’eredità romana. In questo senso, la risposta polemica agli ideali artistici portati dalla bottega gotica di Assisi può considerarsi una risposta romana, senza che questo significhi un riferimento specifico all’arte romana contemporanea.

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 190 La pecora di Giotto

II Belting ha notato che il sistema «romano» dell’incorniciatura architettonica delle Storie di san Francesco (fig. 234) ha in realtà il suo precedente più immediato in un contesto non «romano» della decorazione della Basilica Superiore di Assisi, cioè nell’artico- lazione finta a spazi architettonici «a nicchia» dell’imbotte dell’ar- cone d’ingresso della stessa Basilica con le coppie di santi a figura intera89 (fig. 171). Il finto architrave a mensole è un perfeziona- mento di quello adottato da Cimabue sopra gli affreschi dello zoccolo del transetto (figg. 24, 25). Ed è molto probabile che questo motivo cimabuesco sia stato adottato proprio per Assisi e da lì si sia diffuso a Roma. Il motivo simile che si trova in una zona della cripta del Duomo di Anagni fa parte di quegli affreschi del Maestro delle Traslazioni che vanno riferiti ad un’epoca assai più antica che la metà del Duecento90 e viene così ad essere un precedente romano solo nel senso che si diceva. Motivi simili si ritrovano anche altrove nella pittura medievale: si veda, per esempio, il San Salvatore di Brescia ristudiato recentemente dal Peroni91; così come le strutture a colonne che inquadrano figura- zioni si ritrovano spesso anche fuori dell’area specificamente romana: gli stessi mosaici della cupola del Battistero fiorentino ne sono un esempio, perfino nelle colonne tortili. L’idea del Belting che le parti decorative degli affreschi di Cimabue siano state eseguite da pittori romani mi sembra del tutto ingiustificata e una delle parti deboli del suo libro. Egli stesso riconosce che proprio la decorazione messa in atto ad Assisi dalla équipe sicuramente romana del Torriti nella navata rappresenta una parentesi fra la serie cimabuesca e la Volta dei Dottori. E in alcune parti decora- tive degli affreschi di Cimabue (figg. 240, 241) compaiono delle figurazioni (gli «atlanti» nei pennacchi della Volta degli Evan- gelisti, le piccole teste nelle fasce ornamentali) che sono perfetta- mente cimabuesche92. Per quanto riguarda la pittura, Cimabue fu certamente il personaggio centrale di questa area «romana» prima della com- parsa di Giotto. Con la sua attività che andava ben oltre le mura di Firenze e investiva anche Roma, Arezzo, Pisa e Bologna, appare logico che la risposta «romana» alle provocazioni della bottega gotica di Assisi fosse affidata a lui. Ma se gli affreschi di Cima-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 191 bue sono della fine degli anni ottanta del Duecento e se nel 1287- 88 la vetrata duccesca del Duomo di Siena fornisce soluzioni più avanzate di quelle cimabuesche in direzione dell’illusionismo architettonico trecentesco, bisognerà ammettere che al dibattito su come rispondere allo «struktive Illusionismus» gotico nel seguito della decorazione della Basilica Superiore di Assisi abbiano parte- cipato lo stesso Duccio e il giovanissimo Giotto. Anzi, il dibattito a tre che abbiamo immaginato in prima istanza si sarà allargato all’area «romana», e quindi anche al Torriti, che aveva lavorato con la bottega gotica nella veste di «maestro romano di San Pietro»93. A questo dibattito ha certamente partecipato, con una posizione importante, Arnolfo di Cambio, cui la letteratura ha fatto spesso riferimento come grande suggeritore del cambiamen- to della pittura italiana alla fine del Duecento, fino a proporlo come responsabile in persona degli affreschi dei registri alti di Assisi, dalle Storie di Isacco in avanti94 (figg. 238, 239). È nel vivo di questo dibattito che si è formata quella nuova, grande personalità «romana», alla cui rimeditazione geniale sugli affreschi gotici di Assisi si deve davvero il radicale cambiamento della pittura italiana. Un cambiamento che la letteratura trecen- tesca attribuisce concordemente a Giotto95.

1. Belting, Die Oberkirche cit. 2. Questa osservazione era già stata fatta da W. Schöne, Studien zur Oberkirche von Assisi, in Festschrift Kurt Bauch, 1957, pp. 50-110, che sottolineava l’importanza di Cimabue per il sistema decorativo dell’intera navata. 3. Si veda sopra, p. 74. 4. Si vedano, a questo proposito, anche le osservazioni di Boskovits, Gli affreschi cit., p. 10: «dai molti sforzi fatti in sede critica per ricostruire questa vicenda ed il suo seguito emerge l’immagine di un lavoro che, procedendo a stento e con l’intervento successivo di un numero incredibile di artisti, si trascinava per oltre quindici anni: una storia a dir poco assai insolita se si pensa sia all’importanza del tutto eccezionale della commissione, sia alle abitudini dei frescanti dell’epoca in materia di collaborazione». 5. Che la maestranza cimabuesca abbia iniziato la decorazione della navata nella quarta campata è ben chiarito da Belting, Die Oberkirche cit., pp. 101-2. Egli suppone che Cimabue sia passato a decorare la navata subito dopo aver compiuto la volta della crociera, con gli Evangelisti, che egli considera eseguita dopo tutte le altre parti della decora-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 192 La pecora di Giotto

zione del transetto, ivi comprese le figurazioni degli «zoccoli». Questa supposizione è risultata erronea dopo i rilievi circostanziati della sequenza dei lavori cimabueschi compiuti da J. White e B. Zanardi, Cimabue and the Decorative Sequence in the Upper Church of S. Francesco, Assisi, negli Atti del convegno del 1980 Roma cit., pp. 103-17. Questi rilievi permettono di dirimere alcuni interrogativi che erano stati sollevati, come quello relativo all’intervento delle maestranze oltremontane nella parte alta del transetto destro, che si è dimostrato sicuramente precedente ai lavori di Cimabue. L’intervento di Cimabue nella Volta degli Evangelisti si colloca subito dopo la parte alta dell’abside, in parallelo con la volta del transetto sinistro, e prima di tutte le figurazioni dello «zoccolo» del transetto e dell’abside. Si veda anche J. White, Cimabue and Assisi: Working Methods and Art Historical Consequences, in «Art History», 1981, pp. 355-83. 6. Come ha notato anche G. Bonsanti, Giotto nella cappella di S. Nicola, in Roma cit., pp. 199- 209, fig. 12. 7. È merito di M. Boskovits, Nuovi studi su Giotto e Assisi, in «Paragone», 1971, n. 261, pp. 34- 56, aver rilevato le stringenti affinità fra il Maestro della Cattura e alcune parti della decorazione dei registri alti della campata d’ingresso, compresa la controfacciata. Ma il significato che egli attribuisce a tali affinità - che cioè il Maestro della Cattura fosse rimasto il direttore dei lavori e il giovane Giotto un suo collaboratore - è inaccettabile. Il profondo stacco stilistico e figurativo sopravvenuto all’altezza delle Storie di Isacco è controllabile anche sulle figurazioni del Maestro della Cattura: nonostante l’identità dell’esecutore, una cosa è la Cattura e una cosa ben diversa è la vela col sant’Ambrogio nella Volta dei Dottori o le altre parti della campata d’ingresso eseguite dal Maestro della Cattura. Il risvolto più interessante della situazione che viene a profilarsi dopo le osservazioni del Boskovits è proprio quello che un pittore forse più anziano, ma dotato di una personalità artistica di gran lunga inferiore a quella del nuovo venuto, si adegui alla sua nuova concezione pittorica, pur di continuare a lavorare nella Basilica di Assisi. 8. La situazione delle maestranze di parte cimabuesca attive in parallelo col Torriti mi pare sia assai più complessa di quanto non indichi la tendenza recente ad attribuire tutto al Maestro della Cattura (Belting, Die Oberkirche cit., pp. 226-34). L’Andata al Calvario e la Crocifissione manifestano qualità così delicate e intense da giustificare - anche se non fino al punto di poterlo condividere - il riferimento a Duccio proposto dal Longhi e ripreso dal Volpe e dal Bologna (si veda a questo proposito oltre, p. 198, nota 64). Invece, la maggior parte delle figure di questi due affreschi non sono della stessa qualità, ma non coincidono nemmeno con quelle del Maestro della Cattura. Quest’ultimo artista si caratterizza per una pittura larga e ordinata, più soffice nella fase cimabuesca, più vitrea e trasparente in quella giottesca, quando trova il suo momento di maggiore autonomia nella «vela» del sant’Ambrogio nella Volta dei Dottori. Il Maestro dell’Andata al Calvario usa un modellato dal tratteggio quasi spinoso. La barba del soldato che si rivolge a Cristo nella scena eponima sembra fatta di setole. Senza dubbio è lo stesso pittore che, nella fase giottesca, ha dipinto il San Benedetto nell’arcone d’ingresso (figg. 178, 179): le affinità che hanno colpito il Bologna (I pittori cit., p. 100, tav. 115) e il Belting (Die Oberkirche cit., tavv. 85a-b) parlano chiaro in questo senso. Nella fase giottesca, tuttavia, la sua pittura si condensa in un chiaroscuro più serrato, ma in cui le parti in ombra sembrano come bruciate. Sono aspetti che caratterizzano figure come il San Benedetto e la coppia di Santi domenicani nell’arcone d’ingresso (figg. 179, 180), qualche busto di Vergine nei sottarchi laterali della prima campata (come quelle riprodotte da Previtali, Giotto cit., p. 259, figg. 236, 240, 241), tutta la «vela» del san Gerolamo nella Volta dei Dottori, alcune figure della Prova del fuoco davanti al Sultano (ibid., p. 49, figg. 68, 70), o alcune figure

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 193

di frati (fig. 181) che assistono ai Funerali di san Francesco (si veda in aa.vv., Giotto e i giotteschi in Assisi, Roma 1970, tav. a colori XIII). Queste figurazioni mantengono molti stilemi duecenteschi, ad esempio nelle mani o nella incapacità di raffigurare l’occhio in profilo. Altre parti dell’Andata al Calvario mostrano un’eleganza di delineazione e una gentilezza di tratti, soprattutto nelle figure femminili, da evocare davvero la pittura senese. Sono aspetti che caratterizzano anche gran parte della Crocifissione, come la «pia donna» all’estrema destra (fig. 182), che mi pare molto ben confrontabile con altri busti di Vergini nei sottarchi laterali della prima campata (fig. 183), come quelli riprodotti in Previtali, Giotto cit., pp. 295-96, figg. 238, 244. Ma si veda anche oltre, p. 198, nota 64. 9. II Previtali (ibid., pp. 44-50) identifica nel senese Memmo di Filippuccio il principale aiuto di Giotto nei registri alti della navata (pensando che egli abbia seguito i lavori delle Storie di san Francesco a partire dalla Prova del fuoco davanti al Sultano). Gli aspetti più grafici, gotici e «ducceschi» dell’Andata al Calvario e della Crocifissione sarebbero un argomento a favore di una possibile identificazione del Maestro dell’Andata al Calvario con questo pittore, che si può seguire successivamente come aiuto di Giotto in un ruolo più limitato nei registri alti rispetto a quanto indicato dal Previtali, ma grosso modo coincidente con le sue proposte nelle Storie di san Francesco. 10. Boskovits, Nuovi studi cit., pp. 41 e 52, nota 22, parla di un «Maestro della Pentecoste». 11. Anche B. Toscano, Il Maestro delle Palazze e il suo ambiente, in «Paragone», 1974, n. 291, pp. 3-23, formula analoghe ipotesi su un soggiorno di Cimabue ad Assisi anteriore agli affreschi della Basilica Superiore (p. 11). 12. Ad una scarsa incidenza di Cimabue sulla pittura umbra accenna anche Boskovits, Gli affreschi cit., p. 8. 13. Sul Maestro di Montelabate, si veda Id., Pittura umbra cit., pp. 9-10. 14. Su questo gruppo di Messali si veda F. Bologna, La pittura italiana delle origini, Roma- Dresden 1962, p. 118; Id., I pittori cit., pp. 91-92, 108-11, note, dove l’analisi è più ampia e articolata. Già nel 1962 F. Bologna (La pittura italiana cit.) alludeva all’eventualità che almeno il Messale di Salerno riflettesse una cultura cimabuesca preassisiate. 15. La data della Crocifissione Forteguerri è apparsa, ad un controllo diretto, MCCLXXXVIII. Bologna, I pittori cit., pp. 90-92, la leggeva 1283; per una rassegna più ampia si veda Previtali, Giotto cit., p. 131, nota 28. Mi pare che al pittore della Crocifissione Forteguerri spettino anche le tavolette con San Francesco, Santa Chiara e due Arcangeli della Pinacoteca di Perugia (vedi F. Santi, Galleria nazionale delI’Umbria, Dipinti, sculture e oggetti d’arte di età romanica e gotica, Roma 1969, n. 9, pp. 32-33) e il deperitissimo dossale con Santa Margherita da Cortona del Museo diocesano di Cortona (citato da Previtali, Giotto cit., p. 133, nota 49, come dopo il 1297). 16. Su questo punto si veda oltre, p. 196, nota 48. 17. Toscano, II Maestro delle Palazze cit.,pp. 12-13. 18. R. Longhi, Apertura sui trecentisti umbri, in «Paragone», 1966, n. 191, pp. 3-17, ora in «Giudizio» cit., pp. 156-58. Si veda anche sopra, p. 146, nota 84. 19. Id., La pittura umbra cit., p. 29, sottolineava già del codice (Perugia, Biblioteca Augusta, graduale 2781) i caratteri insieme cimabueschi e gotici. 20. Si veda G. Donnini, Una «Crocifissione» umbra del primo Trecento, in «Paragone», 1975, n, 305, pp. 4-12. 21. L’esistenza di un Crocifisso giottesco nella Basilica Superiore di Assisi è già parsa plausibile a C. Volpe, Sulla Croce di san Felice in Piazza e la cronologia dei crocifissi giotteschi,

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 194 La pecora di Giotto

negli Atti del convegno del 1967 Giotto e il suo tempo cit., p. 262, nota 11; si veda anche Donnini, Una «Crocifissione» cit., pp. 4 e 11, nota. P. Scarpellini, in Fra’ Ludovico da Pietralunga, Descrizione della Basilica di S. Francesco e di altri santuari di Assisi, Treviso 1982, p. 490, nota 60, dà notizia della polemica sviluppatasi sulla stampa quotidiana a seguito della proposta del Ragghianti di attribuire a Giotto il Crocifisso di Spello e di considerarlo in rapporto con la Basilica Superiore di Assisi. 22. Si veda sopra, p. 34, nota 20. 23. R. Longhi, II Maestro del Farneto, in «Paragone», 1961, n. 141, pp. 3-7, ora in «Giudizio» cit., p. 129; Id., La pittura umbra cit., p. 11; G. Previtali, Una tavola del «Maestro del Farneto» a San Damiano, in «Paragone», 1961, n. 141, pp. 7-11; Id., Giotto cit., pp. 46 e 134, nota 77 (con bibliografia). 24. Curiosamente, Boskovits, Gli affreschi cit., p. 4, senza tener conto della precisa derivazione dalla Madonna della controfacciata di Assisi, considera il dossale del Farneto come ancora indipendente dall’attività assisiate di Giotto. 25. A. Monferini, L’Apocalisse di Cimabue, in «Commentari», XVII, 1966, pp. 25-55. 26. Belting, Die Oberkirche cit.; si veda il capitolo Die Chronologie der Ausmalung, e in particolare il paragrafo Fakten una Vermütungen zur äusseren Geschichte (pp. 87-97). 27. R. Krautheimer, S. Corbet e A. K. Frazer, Corpus Basilicarum Christianarum Romae, V, Città del Vaticano 1980, p. 7, danno per certo che la chiesa che si vede nell’affresco di Cimabue sia la più antica «veduta» di San Giovanni in Laterano: «Veduta schematica dall’esterno; essa fa vedere il nartece ad arcate, il muro sopraelevato e la facciata, quest’ultima con figure (tratte dal mosaico absidale?), inoltre il campanile a man destra presso la facciata». 28. Si veda, ad esempio, L. Spezzaferro, in aa.vv.. Via Giulia, Roma 1973, 2a ed. cit. 1975, p, 22. Ancora nel 1372 la bolla lapidaria di Gregorio XI, tuttora visibile, confermava la supremazia della basilica lateranense su tutte le chiese di Roma e dell’intera cristianità: «Nos igitur [...] declaramus [...] sacrosanctam Lateranensem ecclesiam precipuam sedem nostram inter omnes alias urbis et orbis ecclesias ac basilicas, etiam super ecclesiam seu basilicam Principis Apostolorum de Urbe supremum locum tenere, eamque de jure majorem esse omnibus aliis ecclesiis ac basilicis supradictis, ac super omnes et singulas prefatas ecclesias et basilicas prioritatis, dignitatis et preminentie honore letari». Si veda Lauer, Le palais cit., pp. 268-69. 29. H. Kiel, II Museo del Bigallo a Firenze, Milano 1977, pp. 118-19. 30. Si veda, per esempio, la recente monografìa di G. Kreytenberg, Andrea Pisano, München 1984, p. 54. 31. Si veda, per esempio, White, The Birth and Rebirth cit., pp. 23-30, la cui analisi dell’importanza degli affreschi di Cimabue ad Assisi per la storia della rappresentazione dello spazio si diffonde fino ad individuare «Cimabue’s conception of the choir and transepts, and probably of the entire church, as a single unified space» (p. 26). Si veda inoltre la lettura degli affreschi di Assisi in E. Battisti, Cimabue, Milano 1963, pp. 42-53, punteggiata dal ricorso al nome di Vitruvio, dove la pedana della Morte della Vergine è definita «un espediente caro ai magniloquenti decoratori rinascimentali», mentre «in Cimabue si può constatare una vocazione spaziale e volumetrica ancora intuitiva, risultante dalla preponderanza dei pieni sui vuoti. Alcune ricerche illusionistiche sono però spinte assai più in là». 32. Vasari, Le vite, ed. 1962 cit., pp. 203-4. L’identificazione della Madonna Rucellai con la tavola commissionata a Duccio dalla Compagnia dei Laudesi di Santa Maria Novella

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 195

(secondo un documento per il quale si fa di solito riferimento a G. Milanesi, Documenti per la storia dell’arte senese. I, Siena 1854, p. 158, ma già pubblicato da V. Fineschi, Uomini illustri del convento di Santa Maria Novella, Firenze 1790, pp. XLI, 98, 118) si deve a F. Wickhoff, Über die Zeit des Guido da Siena, in «Mitteilungen des Institutes für österreichische Geschichtsforschung», 1889, pp. 244 sgg. 33. J. von Schlosser, Die Kunstliteratur, Wien 1924; ed. it. La letteratura artistica, Firenze 1964, pp. 50-51; si veda anche A. Aubert, Die malerische Dekoration der San Francesco Kirche in Assisi. Ein Beitrag zur Lösung der Cimabue-Frage, Leipzig 1907. Ad un’ampia rassegna sul «problema Cimabue» è dedicata una delle appendici della monografia del Nicholson (per cui si veda alla nota 35). 34. G. Trenta, I mosaici del Duomo di Pisa e i loro autori, Firenze 1896. 35. A. Nicholson, Cimabue. A Critical Study, Princeton 1932. 36. Ibid., p. 55 («lack of vigor»), 37. Ibid., p. 58 («uniform deadness»). 38. Battisti, Cimabue cit. 39. Toesca, Il Trecento cit., p. 500. 40. Id., Il Medioevo cit., p. 1047, figg. 713-14 (con un significativo accostamento fra le teste della Maestà del Louvre e della Madonna Rucellai). 41. II passaggio dalla impostazione del trono usuale per Cimabue e quello della Madonna di Santa Trinita si coglie proprio ad Assisi. Negli Evangelisti della crociera della Basilica Superiore di Assisi, che corrispondono alla fase più antica della decorazione cimabuesca del transetto, il trono è ancora di legno tornito e presentato in tralice come quello della Madonna della Basilica Inferiore. Nella parete bassa del coro, cioè in una fase più tarda della decorazione, il trono del Cristo e della Vergine in gloria è impostato in modo molto più simile a quello della Madonna di Santa Trinita. 42. Santi, Galleria cit., pp. 41-42; si vedano anche Bologna, La pittura cit., p. 127, e A. Conti, Appunti pistoiesi, in «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», 1971, pp. 109-24, anche per notizie sulla tecnica e i restauri (pp. 113-140 nota 3). 43. Longhi, Giudizio sul Duecento cit., pp. 26-27; Previtali, Giotto cit., pp. 32, 35; Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani, IV, Torino 1973, ad vocem. 44. G. Castelfranco, Restauri e scoperte d’affreschi. Il pittore Corso, in «Bollettino d’arte», 1935, pp. 322-33; Longhi, Giudizio cit., p. 15; P. P. Donati, II punto su Manfredino d’Alberto, in «Bollettino d’arte», 1972, pp. 144-53, con l’attribuzione degli affreschi di Mosciano presso Firenze con figure di Profeti; L. Moscone, in Dizionario ... Bolaffi, III, Torino 1972, ad vocem. Alle opere finora riconosciute a Corso di Buono mi sembra da aggiungere la Madonna col Bambino, con le due figure dell’Angelo e dell’Annunziata, della chiesa di San Jacopo al Girone (per cui si veda recentemente A. Conti, in I dintorni di Firenze. Arte Storia Paesaggio, Firenze 1983, p. 246, che la data verso il 1270-80). L’attribuzione a Corso della Madonna col Bambino della pieve di San Giovanni Battista a Remole (proposta da M. Boskovits, Cimabue e i precursori di Giotto, Firenze 1976) può essere convincente a patto che la si consideri l’opera più antica del pittore, e quasi un super-Maestro della Maddalena. 45. Battisti, Cimabue cit., p. 52. 46. E. Sindona, L’opera completa di Cimabue, nei «Classici dell’arte» Rizzoli, Milano 1975, pp. 115-16, rende conto in particolare delle opinioni di chi, come lui, rifiuta l’attribuzione a Cimabue. Preferisco seguire studiosi come Roberto Longhi (Giudizio cit., pp. 11-12, 42-44) o, più recentemente, C. Volpe, Preistoria di Duccio, in «Paragone»,

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 196 La pecora di Giotto

1954, n. 49, p. 5; L. Marcucci, Un Crocifisso senese del Duecento, ivi, 1956, n. 77, p. 19; Bologna, La pittura cit., pp. 101-3 e passim. Si veda anche quanto già affermava Toesca, II Medioevo cit., pp. 1042-43. 47. Mi sembra giusto richiamare a questo proposito la caratterizzazione data da Roberto Longhi di Cimabue come «patriarca melanconico e grifagno che rimugina a nuovo pensieri vecchi di secoli; che, dal greco calcificato d’oriente, risale al latino polemico di san Gerolamo e sempre si esprime con una cupa avvampata possanza che è bene occidentale» (Giudizio cit., pp. 11-12). Si veda anche Bologna, La pittura cit., pp. 104-6. 48. Fu Longhi (Giudizio cit., p. 43) a indicare l’aspetto tutto cimabuesco degli affreschi del Sancta Sanctorum. Non li ho potuti controllare dal vero, date le difficoltà di accesso. Tuttavia, la campagna fotografica utilizzata da J. T. Wollesen, Die Fresken in Sancta Sanctorum, in «Römisches Jahrbuch für Kunstgeschichte», 1981, pp. 37-83, che comprende particolari ravvicinati ancora assai ben giudicabili nonostante le ridipinture, permette di farsi un’idea delle caratteristiche effettivamente cimabuesche di questi affreschi. Potrebbe essere da mettere in rapporto con essi il Crocifisso della Walters Art Gallery di Baltimora, per cui F. Zeri, nella scheda n. 2 del catalogo del 1976, parla di caratteri cimabueschi, a metà strada fra il Crocifisso di San Domenico ad Arezzo e quello di Santa Croce. 49. Longhi, Giudizio cit., p. 15; Donati, Il punto cit., pp. 144-45; Dizionario ... Bolaffi, VII, Torino 1975, ad vocem. 50. Sia il dossale di San Pietro che quello di San Francesco della Pinacoteca di Siena, pur partecipando di un substrato culturale in cui si leggono ancora elementi riferibili a Guido da Siena, rispecchiano un interesse per Cimabue che non sembra dipendere dal giovane Duccio. A questi due importanti dipinti, che io credo spettino ad un unico artista, va collegata la bella Madonna della chiesa di San Regolo a Montaione, pubblicata da E. B. Garrison, Post-War Discoveries: Early Italian Paintings. IV, in «The Burlington Magazine», 1947, pp. 300-3. Allo stesso artista spettano anche alcune miniature dei corali 33, 34 e 35 del Museo dell’Opera del Duomo di Siena. Una cultura cimabuesca senese affine a quella del giovane Duccio è presente anche nelle straordinarie illustrazioni del Tractatus de Creatione Mundi della Biblioteca degli Intronati di Siena. Su questi aspetti della miniatura senese della fine del Duecento, si veda il catalogo della mostra II Gotico a Siena, Firenze 1982, schede nn. 5-10 (a cura di A. M. Giusti) e n. 22 (a cura di G. Chelazzi Dini). Molto simili sono alcune miniature del codice I della Biblioteca dell’Accademia Etrusca di Cortona, per cui si veda M. Degl’Innocenti Gambuti, I codici miniati medievali della Biblioteca Comunale e dell’Accademia Etrusco di Cortona, Firenze 1977, pp 73-95. Il problema dei cimabueschi senesi era già stato impostato da Longhi, Giudizio cit., p. 45. 51. E. Carli, Vetrata duccesca, Firenze 1946; per la bibliografia più recente si vedano F. Deuchler, Duccio, Milano 1983, p. 216, e le note 54 e 55, più avanti in questo capitolo. 52. Questa strettissima affinità non deve tuttavia far dimenticare che la piccola Maestà di Berna è posteriore alla Madonna dei francescani e non il contrario, come si dice spesso. È proprio la struttura del trono, ancora ligneo e cimabuesco nella Madonna dei francescani e più architettonico e marmoreo in quella di Berna, a darci una chiara indicazione in questo senso. Si veda anche, a questo proposito, G. Previtali nella recensione a Deuchler, Duccio cit., in «Prospettiva», 1984, n. 37, p. 72 e nota 2. 53. Toesca, II Trecento cit., p. 868, arriva a parlare a questo proposito di un «difetto» nelle «vetrate che vogliano imitare i dipinti e diventino trasparenti pitture». 54. Si veda White, Art and Architecture cit., pp. 127-29, che cita come proprio precedente

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 197

J. Pope-Hennessy, An Exhibition of Sienese Stained Glass, in «The Burlington Magazine», 1946, p. 306. Si veda anche J. White, Duccio, London 1979, pp. 136-40. 55. J. H. Stubblebine, Duccio di Buoninsegna and His School, Princeton (N.J.) 1979, pp. 13-14, attribuisce la vetrata a quell’Jacopo da Castello che fu incaricato invece, nel 1369, del suo restauro (come già osservava Toesca, II Trecento cit., p. 868). 56. Carli, Vetrata cit. 57. Lorenzo Ghibertis Denkwürdigkeiten (I Commentarii) cit.. I, p. 35: «Cominciò l’arte della pittura a sormontare in Etruria, in una villa allato della città di Firenze la quale si chiamava Vespignano. Nacque uno fanciullo di mirabile ingegno il quale si ritraeua del naturale una pecora; in su passando Cimabue pictore per la strada a Bologna uide el fanciullo sedente in terra et disegnaua in su una lastra una pecora. Prese grandissima amiratione del fanciullo, essendo di si pichola età fare tanto bene; domandò ueggendo auer l’arte da natura, domandò il fanciullo come egli aueua nome. Rispose et disse: “per nome io son chiamato Giotto el mio padre a nome Bondoni et sta in questa casa che è appresso“, disse. Cimabue andò con Giotto al padre, aueua bellissima presentia, chiese al padre el fanciullo, el padre era pouerissimo. Concedettegli el fanciullo a Cimabue menò seco Giotto et fu discepolo di Cimabue». Il fatto che la storiografia artistica non abbia dato alcun peso a questo episodio è dovuto soprattutto alla sua presenza nel Vasari (Le vite, ed. 1962 cit., pp. 299-300), e alla scarsa attendibilità che gli viene attribuita per le notizie sull’arte di epoche così lontane dalla sua. 58. A. Caleca, A proposito del rapporto Cimabue-Giotto, in «Critica d’arte», 1978, nn. 157-59, pp. 42-46, ritiene di scarso fondamento storico la tradizione dell’alunnato di Giotto presso Cimabue e pensa piuttosto ad Arnolfo come suo maestro. 59. Già Longhi, Giudizio cit., p. 47, pensava che l’aneddoto ghibertiano, «tradotto in termini concreti di bottega, significa ch’egli [Giotto] potè esser prima garzone, poi aiutante, poi collaboratore di Cimabue», mentre Toesca, II Trecento cit., p. 444, nota 3, affermava che «il racconto [...] fa intravedere nel fanciullo il primo sviluppo istintivo fuori dei canoni di qualunque scuola». 60. Brandi, Giotto cit., passim. 61. Sul dipinto, presente alla Mostra giottesca del 1937 a Firenze (si veda il catalogo a cura di G. Sinibaldi e G. Brunetti, Pittura italiana del Duecento e Trecento, Firenze 1943, n. 91, p. 291), richiamò l’attenzione Longhi, Giudizio cit., pp. 34, 45. Per Volpe, Preistoria cit., pp. 14-15, si tratta di un’opera tutta cimabuesca; anche recentemente (in II Gotico a Siena cit., p. 140) Carlo Volpe tornava sull’argomento con la stessa attribuzione. Del tutto opposta la posizione di chi, come P. Venturoli, Giotto, in «Storia dell’arte», 1969, p. 146, attribuisce per intero al giovane Duccio il dipinto. Per ulteriore bibliografia si vedano P. Dal Poggetto, nel catalogo della mostra Arte in Valdelsa, Certaldo 1963, n. 6, pp. 20-21, e Bologna, The Crowning Disc cit., p. 337, che ribadisce la sua opinione, già espressa in più occasioni, che la Madonna di Castelfìorentino sia opera di collaborazione tra Cimabue e Duccio. 62. I rapporti fra il Bambino della Madonna di Castelfiorentino e uno dei putti della Volta dei Dottori di Assisi sono stati notati anche dal Bologna (ibid.), in un intervento importantissimo per aver reinserito nella discussione sull’attività giovanile di Duccio lo stupendo e delicatissimo Crocifisso Odescalchi, dimenticato nelle tre recenti monografie sul grande pittore senese. Conseguentemente con la sua supposizione che la Madonna di Castelfiorentino sia opera di Cimabue e Duccio (come aveva proposto Longhi, Giudizio cit., p. 34), il Bologna attribuisce al pittore senese anche uno dei putti della Volta dei Dottori. Ma questa è stata eseguita successivamente alle Storie di Isacco, e non credo

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 198 La pecora di Giotto

si possa ammettere una collaborazione marginale del giovane Duccio con l’équipe ormai giottesca. Il rapporto di un altro dei putti della Volta dei Dottori con la Madonna di Cre- vole, notato dallo stesso Bologna, è, a mio avviso, un’ulteriore riprova della formazione di Giotto nell’ambito della cultura cimabuesca dei primi anni ottanta del Duecento e dell’incidenza che su di essa deve aver avuto lo stesso Duccio. Ma su questo punto si veda sopra, pp. 178-79 e nota 64. 63. Si veda quanto già affermava Longhi, Giudizio cit., p. 47: «dal ‘76 all’85 [...] Giotto poteva essere noto e riconosciuto come pittore». È chiaro che una cronologia come quella qui proposta per la formazione e le prime opere di Giotto ha il suo presupposto nel considerarlo nato alla metà degli anni sessanta del Duecento. D’altra parte, come ha ribadito P. Murray, On the Date of Giotto‘s Birth, in Giotto e il suo tempo cit., pp. 25-34, la fonte più attendibile perché più vicina ai tempi di Giotto è il Centiloquio di Antonio Pucci, in base al quale si può fissare la data di nascita al 1266-67. Tutte le altre ipotesi rimangono congetture, sia quella del 1277 indicata dal Vasari (nonostante riprese recenti come quella di Brandi, Giotto cit.), sia anche quella del 1257, per cui si vedano C. L. Ragghianti, Percorso di Giotto, in «Critica d’arte», 1969, nn. 101-2, p. 10; M. Boskovits, in Dizionario... Bolaffi, VI, Torino 1979, ad vocem; Bologna, The Crowning Disc cit., p. 339 e note 41 e 42. 64. Fu il Longhi (Giudizio cit., pp. 14 e 43) a vedere nel giovane Duccio un collaboratore di Cimabue ad Assisi e poi l’esecutore in proprio di alcuni affreschi dei registri alti della navata (soprattutto la Crocifissione). Le indicazioni del Longhi sui rapporti fra Cimabue e Duccio furono riprese, con risultati in parte divergenti, da Volpe, Preistoria cit., pp. 4-22 e da F. Bologna, Ciò che resta di un capolavoro giovanile di Duccio, in «Paragone», 1960, n. 125, pp. 3-31; Id., La pittura cit., pp. 126-30. Il Volpe proponeva di porre in qualche rapporto con l’attività giovanile di Duccio a Firenze la Madonna della chiesa di San Remigio e il Crocifisso Loeser, mentre considerava di Duccio senz’altro il Crocifisso Odescalchi del castello Orsini di Bracciano. Il Bologna insisteva sulla Madonna Gualino (ora nella Galleria Sabauda di Torino) come opera di Duccio giovane e, per quanto riguarda Assisi, riportava il discorso anche sulla Cacciata dal paradiso terrestre, mentre tentava di precisare la «compresenza» di Cimabue e di Duccio nella Madonna dei Servi di Bologna e in quella di Castelfiorentino. Si potrà anche nutrire un certo scetticismo su alcune di queste proposte (ma le attribuzioni a Duccio del Volpe per il Crocifisso Odescalchi e del Bologna per la Madonna di Buonconvento restano dei punti fermi, ed è incredibile che non siano state recepite dai moderni monografi del pittore senese) e per quanto mi riguarda non credo ad un’attività di Duccio nella Basilica Superiore di Assisi. E tuttavia si dovrà ammettere che esse puntano l’indice su un problema reale e che, in fondo, non fanno che sostituire con una visione più concreta e calata nella realtà le vecchie indicazioni di pittore fiorentino seneseggiante (nel genere di quella usata per il Crocifisso di Paterno da E. Sandberg Vavalà, La croce dipinta italiana, Verona 1929, pp. 785-89). Il significato più profondo di quelle indicazioni del Longhi, del Volpe e del Bologna sta nel fatto che le opere a cui si riferiscono rappresentano una testimonianza dell’impatto di Duccio sulla pittura fiorentina degli anni ottanta del Duecento. 65. Aubert, Die malerische Dekoration cit., pp. 20-28; L. Coletti, Gli affreschi della Basilica di Assisi, Bergamo 1949, pp. 26-46; C. Brandi, Duccio, Firenze 1951, p. 131; Oertel, Die Frühzeit cit.,pp. 55-56 (si veda anche l’edizione inglese cit., p. 52). 66. C. Volpe, La formazione di Giotto nella cultura di Assisi, in Giotto e i giotteschi cit., pp. 23-24, 28. 67. Hueck, Der Maler cit., pp. 115-44. 68. Belting, Die Oberkirche cit., pp. 112-19, 182-90,192-204.

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 199

69. Gli interventi più recenti sugli affreschi oltremontani di Assisi non mi sembrano altrettanto costruttivi. Su quello di A. Cadei si veda più avanti, nota 79. Quello di V. Pace, Presenze oltremontane ad Assisi: realtà e mito, negli Atti del convegno del 1980 Roma cit., pp. 239-51, debbo confessare che mi è stato diffìcile da comprendere. Mi è sembrato volto più a tentativi definitori che aperto a saggiare le implicazioni di quel grande evento artistico. 70. Se il Belting sembra essersi fermato sulla soglia del discorso riguardante l’importanza che devono aver avuto gli affreschi gotici di Assisi per l’arte italiana, si è d’altra parte sbilanciato in una interpretazione della Faltensprache di Cimabue come conseguenza di quella della bottega gotica di Assisi (pp. 211-13) che mi pare discutibile. 71. Va tenuta presente, a questo proposito, l’intuizione di Oertel, Die Frühzeit cit. (si veda l’edizione inglese cit., p. 52: «The decorative elements of the borders and friezes are pure Gothic, and in the pictures there are noteworthy attempts at rendering prespective in the representations of Gothic architectures [...] The pictures in the north transept [...] were painted by an artist of great ability, whose origins remain a complete mystery [...] technique suggests that the artist was trained in the north, but the bold elegance of the linear style indicates that he was probably an Italian, possibly a Sienese»). 72. Si veda la nota 64 di questo capitolo. 73. Qualche anno fa, occupandomi del Crocifisso della cappella della Pura in Santa Maria Novella a Firenze, ero rimasto colpito dalle figurazioni nei piccoli tabelloni polilobati alle estremità con la Flagellazione, la Derisione di Cristo, la Discesa al Limbo e il Giudizio Finale: figurazioni che, nonostante non fosse mai stato notato, mi sembrarono subito opera di un artista gotico non italiano, verosimilmente ancora duecentesco. A rendere di un interesse estremo il Crocifisso era anche la possibilità che esso si trovasse fin dall’antico in Santa Maria Novella (la sua presenza in questa chiesa si può controllare fino alla metà del Trecento), dove Duccio poteva averlo visto al tempo della Madonna Rucellai. L’arabesco del bordo dorato del manto, per esempio, poteva trovare ispirazione nell’idea del sottile filo d’oro che serpeggia lungo il bordo del manto del Cristo giudice. Segnalai il Crocifisso per il restauro alla Soprintendenza alle gallerie di Firenze, dove allora lavoravo, e a restauro ultimato esso è stato pubblicato in modo esemplare da A. M. Giusti, Un dipinto inglese del Duecento in Santa Maria Novella, in «Bollettino d’arte», 1984, pp. 65-78, che ne aveva seguito le fasi del restauro. Una riflessione successiva mi ha fatto tuttavia ripensare alla fondamentale importanza che devono aver avuto anche per gli aspetti gotici del giovane Duccio gli affreschi oltremontani di Assisi. 74. Che Guccio anticipi certe soluzioni di Pietro Lorenzetti era stato già notato da Toesca, Il Trecento cit., p. 894. Sull’orafo, dopo i richiami di R. Longhi, Ancora su San Galgano, in «Paragone», 1970, n. 241, pp. 6-8, ora in «Giudizio» cit., p. 125, si vedano I. Hueck, Una Crocifissione su marmo del primo Trecento e alcuni smalti senesi, in «Antichità viva», 1969, n. 1, pp. 23-34; E. Cioni Liserani, Alcune ipotesi per Guccio di Mannaia, in «Prospettiva», 1979, n. 17, pp. 47-58; P. L. Leone de Castris, Smalti e oreficerie di Guccio di Mannaia al museo del Bargello, ivi, pp. 58-64; G. Previtali, I. Hueck ed E. Cioni Liserani, in Il Gotico a Siena cit. (rispettivamente pp. 95, 96-98, 101-8). 75. Cioni Liserani, Alcune ipotesi cit., p. 48; A. M. Giusti, in II Gotico a Siena cit., p. 50. 76. Volpe, La formazione cit., p. 24, nota. 77. Belting, Die Oberkirche cit. Ma una rapida notazione era già stata fatta da R. Oertel (per cui si veda la nota 71).

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 200 La pecora di Giotto

78. Un interessante accenno al possibile ruolo svolto dai cantieri gotici francesi nella «genesi dello spazio moderno» è alla fine dell’intervento di F. Pomarici, Gli affreschi di S. Maria Maggiore a Tivoli: ipotesi per una lettura ‘spaziosa‘ di alcune opere di pittura romana della fine del Duecento, in Roma cit., pp. 413-22. 79. Alle deduzioni cronologiche del Belting (Die Oberkirche cit., p. 187 e passim) si contrappongono le recenti proposte di A. Cadei, Assisi, S. Francesco: l’architettura e la prima fase della decorazione, in Roma cit., pp. 141-60, secondo il quale non è necessario aspettare che la pittura d’oltralpe accolga - solo verso il 1270 - le forme dell’architettura gotica più recente per spiegare quanto avviene ad Assisi negli affreschi delle maestranze oltremontane del transetto destro della Basilica Superiore. Il Cadei si preoccupa di liberare questi affreschi «dall’imperativo categorico di dover corrispondere a tutti i costi ad irreperibili precedenti di pittura monumentale transalpina» (p. 49). E tuttavia le ricerche del Belting, nonostante la cautela propositiva, dimostrano che questi precedenti sono tutt’altro che irreperibili e colgono particolarmente nel segno quando portano in campo esempi di pitture murali delle cattedrali gotiche particolarmente significativi in rapporto con Assisi, come la St Faith di Westminster o la porta romana della cattedrale di Reims, il cui timpano era in parte scolpito e in parte dipinto. Ai lati delle vimperghe dei trifori di Assisi (fig. 232) non è affatto certo che dovessero esservi delle figure, come ad Auxerre; le grandi vimperghe del portale del transetto sud di Notre-Dame di Parigi (fig. 235), eseguito verso il 1260, hanno ai lati proprio dei pinnacoli come ad Assisi, dove non sono figurati così perché visti in tralice, come crede il Cadei (e perfino il Belting), ma perché, come a Notre-Dame, sono collocati di spigolo. Pensare che la spinta verso soluzioni di architettura finta fosse, nel caso delle maestranze oltremontane di Assisi, dovuto a interferenze italiane significa attribuire alla pittura italiana valori che le diverranno peculiari solo dalla fine del Duecento in poi. La presenza accanto alle maestranze oltremontane del «pittore romano di San Pietro» non ha alcun significato in questo senso; il suo ruolo è del tutto subordinato e se dipinge delle figure in uno stile che può ben corrispondere a una fase arcaica del Torriti, quando esegue le finte architetture è costretto a rispettare il progetto generale limitandosi ad annacquare gli aspetti gotici con l’abolizione delle rosette applicate nei fondi del triforio est e decorando pateticamente ad ovuli e astragali le finte nervature della parete di fondo (che anche la parete di fondo sia opera del «pittore romano di San Pietro» lo aveva notato anche il Belting, e basta confrontare la struttura della testa di David con quella del san Pietro nel triforio est per convincersene). L’ipotesi del Cadei di una precedenza cronologica delle maestranze oltremontane che lavorano nel transetto destro della Basilica Superiore sul Maestro del San Francesco e sulla decorazione della Basilica Inferiore vanno prese con la stessa cautela con cui egli propone di far entrare in gioco tra le presenze gotiche ad Assisi anche i lacerti di affreschi intorno al monumento cosiddetto della regina di Cipro. Gli artisti gotici con cui è venuto in contatto il Maestro del San Francesco sono quelli delle vetrate francesizzanti della Basilica Superiore. Queste sono notevolmente più arcaiche degli affreschi delle maestranze oltremontane nel transetto destro, i quali hanno a monte anche la cultura rappresentata dalle miniature del Salterio di Luigi IX (databili fra il 1253 e il 1270 e già vistosamente caratterizzate dall’introduzione di incorniciature architettoniche), ma presentano ormai quella straordinaria fioritura delle capigliature e delle barbe, quella larghezza di tratti, quella sostanza chiaroscurale delicata ma consistente che vanno verso gli esiti di fine Duecento rappresentati dalle figurazioni del retablo di Westminster e da quelle quasi intercambiabili delle miniature di Maître Honoré. In questo senso, restano valide le indicazioni del Volpe (per cui si veda la nota 66) e in questo senso può valere l’osservazione che, se vogliamo intendere come funzionano le rocce della Trasfigurazione di Assisi, mal comprensibili dato lo stato di conser-

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale Un contesto cimabuesco e la pecora di Giotto 201

vazione, possiamo ricorrere a quelle dietro il giovane David che uccide Golia nella celebre pagina del Breviario di Filippo il Bello nella Bibliothèque Nationale di Parigi. Sul problema della datazione potrebbe far luce la presenza dei gigli entro rombi inseriti a intervalli regolari nella cornice che decora gli arconi laterali del transetto destro. Se non sono semplici motivi decorativi standardizzati, ma alludono - come sembra - al giglio di Francia, non sarebbe da trascurare la notazione della Monferini (L’Apocalisse cit., pp. 41- 43), che pensa a Carlo d’Angiò come finanziatore, fra il 1280 e il 1283, degli affreschi. La Monferini si riferisce agli affreschi di Cimabue, ma mi pare che il rapporto con quelli delle maestranze oltremontane assumerebbe un significato ben più concreto. 80. Belting, Die Oberkirche cit., pp. 200-2. 81. Un cenno all’importanza della cultura gotica luigiana ad Assisi per l’arte di Giotto era già stato fatto da Longhi, La pittura umbra cit., pp. 9-10, dove istituiva un rapporto tra gli affreschi oltremontani del transetto destro della Basilica Superiore e miniature come il Salterio di Isabella nel Fitzwilliam Museum di Cambridge. 82. La vicinanza tra le opere attribuite al giovane Giotto - nella fase «Maestro di Isacco» - e la scultura di Arnolfo è stata ravvisata da più parti ed è stata anche sottolineata fino al punto di proporre un’identità fra il cosiddetto «Maestro di Isacco» e Arnolfo. Si veda, a questo proposito, la nota 94. 83. È questo un punto nevralgico della discussione sui rapporti di Giotto con il gotico. Secondo l’impostazione data da C. Gnudi, Su gli inizi di Giotto e i suoi rapporti col mondo gotico, in Giotto e il suo tempo cit., pp. 3-29, Giotto avrebbe potuto conoscere la scultura gotica francese e tedesca. Tuttavia, ogni suo riferimento è a quella scultura che rappresenta la fase del classicismo gotico, la cui altissima temperie regge - come sottolinea lo stesso Gnudi - fin verso il 1260, cioè fino all’epoca del pulpito di Pisa di . È quella cultura che a Giotto arriva soprattutto tramite il grande allievo di Nicola, Arnolfo di Cambio, cui egli guardò con profondo interesse. Ma se non ci fossero stati gli affreschi gotici di Assisi, portatori di una mentalità artistica in cui pittura e scultura sono perfettamente parallele e perfino intercambiabili, dubito che sarebbe scattata nella mente di qualsiasi pittore italiano l’idea di guardare alla scultura. Fino all’epoca di Cimabue, nella cultura artistica italiana permane una sostanziale incomunicabilità tra pittura e scultura, rivolta verso l’oriente bizantino la prima, più profondamente occidentale la seconda. 84. Hueck, De Maler cit. 85. Belting, Die Oberkirche cit., fa notare (p. 217) che la finestra è stata dipinta dal maestro romano. 86. M. Cristofani, nel catalogo della mostra Siena: le origini, testimonianze e miti archeologici, Firenze 1979, p. 117, e J. Polzer, Simone Martini ‘s Guidoriccio da Fogliano: A New Appraisal in the Light of a Recent Technical Examination, in «Jahrbuch der Berliner Museen», 1983, p. 127, nota 150, hanno fatto presente che la leggenda della fondazione di Siena da parte dei figli di Remo in fuga da Roma per evitare le ire dello zio era già nota nel Trecento e non è di origine quattrocentesca. Per la ricostruzione di un clima morale da repubblica romana nella Siena del Trecento si veda F. Carter-Southard, Simone Martini’s Lost Marcus Regulus, in «Zeitschrift für Kunstgeschichte», 1979, p. 217 (Marco Regolo ne doveva appunto rappresentare un eroe). La Lupa coi gemelli appare già nel Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti. 87. M. Seidel, Studien zur Antikenrezeption Nicola Pisanos, in «Mitteilungen des Kunst- historischen Institutes in Florenz», 1975, pp. 307-92, dedica particolare attenzione al cratere, copia di era traianea di un originale neoattico, non solo per le derivazioni da

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale 202 La pecora di Giotto

esso nel pulpito di Nicola del 1260, ma anche per la credenza, diffusa nel Medioevo, che si trattasse del «talento» dove si ponevano le decime dovute all’imperatore in età romana (p. 321): da questa opinione sarebbe nata anche una pseudoetimologia di Pisae da «pesare» (riferita anche da A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, Torino 1882, p. 120). 88. Per la statua equestre in cui si ravvisava Marte, posta sul Ponte Vecchio fino all’inondazione del 1333, basti il richiamo a due celebri passi danteschi: «I’ fui della città che nel Battista | mutò ‘l primo padrone; ond’ei per questo | sempre con l’arte sua la farà trista; e se non fosse che in sul passo d’Arno | rimane ancor di lui alcuna vista, | quei cittadin, che poi la rifondarno | sovra il cener che d’Attila rimase, | avrebber fatto lavorare indarno» (Inferno XIII 143-50), e «Tutti color ch’a quel tempo eran ivi | da poter arme, tra Marte e ‘l Batista| erano il quinto di quei che son vivi» (Paradiso XVI 46-48). Si veda inoltre, anche per le testimonianze del Boccaccio e del Villani, G. Padoan, in Enciclopedia Dantesca, III, Roma 1971, p. 844. 89. Belting, Die Oberkirche cit., p. 143. 90. Si veda M. Boskovits, Gli affreschi del Duomo di Anagni: un capitolo di pittura romana, in «Paragone», 1979, n. 357, pp. 3-41. 91. A. Peroni, San Salvatore di Brescia: un ciclo pittorico alto-medievale rivisitato, in «Arte medievale», 1983, n. 1, pp. 53-80. 92. II Belting (Die Oberkirche cit.) ha dedicato al sistema degli ornati un esame molto par- ticolareggiato, che ha portato a dei risultati positivi, ma non sempre. Io non riesco a condividere, per esempio, l’idea che ornatisti specializzati lavorassero in parallelo con Cimabue. Le testine inserite nelle fasce ornamentali sono chiaramente cimabuesche (su questo punto, si veda anche Boskovits, Gli affreschi cit., pp. 11, 13 e nota 56). Credo non sia corretto aver considerato gli ornati di Assisi come un sistema caratteristico dell’aftresco. Prima del profondo rinnovamento di fine Duecento della concezione dell’affresco nella sua funzione e - di conseguenza - nella sua incorniciatura che diventa architettura finta, le differenze tra gli ornati di un affresco, di un dipinto su tavola e - perfino - di una pagina miniata erano molto meno nette. Così gli ornati delle cornici della Madonna cimabuesca del Louvre o della Madonna Rucellai credo contengano molte indicazioni utili in rapporto con gli ornati degli affreschi di Assisi: allo stesso modo di certi gruppi di miniature; e penso ad esempio al complesso capolettera con una Ascensione nel Graduale I della Biblioteca Comunale di Cortona (si veda Degl’Innocenti Gambuti, I codici cit., pp. 75-95). 93. Dell’identificazione possibile fra il «maestro romano di San Pietro» individuato da Irene Hueck e si è già parlato nel capitolo precedente, p. 113. 94. Si vedano soprattutto R. Pesenti, Maestri amolfiani di Assisi, in Studi di storia dell’arte, Genova 1977, pp. 43-53 (da cui si riprende il confronto qui proposto alle figg. 238-39); A. M. Romanini, Arnolfo e gli «Arnolfo apocrifi», in Roma cit., pp. 27-72 (soprattutto pp. 44-47). 95. I problemi cimabueschi presi in considerazione in questo capitolo sono trattati molto sommariamente. Cosi, non ho potuto addentrarmi nella ricca discussione tenuta viva recentemente in Italia soprattutto da F. Bologna (si vedano, in particolare, i primi due capitoli del suo volume fondamentale, più volte citato, su I pittori alla corte angioina di Napoli). L’intenzione è di riaffrontare l’argomento in modo più organico in un’altra sede.

© 1985 Giulio Einaudi editore, vietata la riproduzione e qualsiasi utilizzo a scopo commerciale