Mosaico - Rivista online del Liceo 'F. Quercia' Marcianise (CE)

ISSN 2384 - 9738

Direttore responsabile DIAMANTE MAROTTA

Coordinatore editoriale GIULIO COPPOLA

Segreteria di redazione FRANCO CASO, MARIA DELLE CURTI, GIULIA ROCCO

Grafica FILOMENA LETIZIA

VI 2019

I. Ricerche e prove narrative

1. CATERINA NEGRO, Sibilla Aleramo: il caso di Una donna 2. ELISA DI BONA, Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600 3. MARTINA LICIBERTO, La casa di Sallustio a Pompei 4. GIULIO COPPOLA, Le passioni di Ippolito nell’età dell’oro tra Euripide e Seneca 5. MAURIZIO COPPOLA, Folkloristi italiani al congresso internazionale di Parigi (1937) 6. GIULIO COPPOLA, I pathe delle iniziazioni: alcune considerazioni 7. LOREDANA FERRIGNO, Il ritorno di Orfeo 8. SALVATORE DELLI PAOLI, Del ‘diverso’ esilio. Esegesi di un aggettivo foscoliano 9. LOREDANA FERRIGNO, La verità di Cassandra 10. FRANCESCA LUPO, Alla ricerca della Rossano perduta 11. VIRGINIA BONIELLO, La mia costellazione

II. Didattica

12. S.P.B., ‘La preparazione ai certamina valevoli per le Olimpiadi Nazionali delle Lingue e Civiltà Classiche’. Un’esperienza didattica 13. LAURA CORCIONE, ‘Caratteristiche umane e apprendimento scolastico’ di Benjamin Samuel Bloom 14. MICHELA FRETTA, Sul metodo Ørberg: analisi critiche, ipotesi e prospettive

III. 'Primi passi'

15. ALBERTO DI RONZA – DARIO FORMICOLA – ROBERTO MADONNA, Impastiche 16. CARLA IULIANO, Sophrosyne: guida dell’anima e della città 17. DARIO FORMICOLA – ROBERTO MADONNA, Uno strumento 18. MARIANGELA LIONIELLO, La libertà è partecipazione? 19. ROBERTO MADONNA, Il comitato degli odori liberali 20. ANITA ALLEGRETTA, Il concetto di progresso nel mondo antico: alcune considerazioni 21. ROBERTO MADONNA, La cura 22. LUDOVICA SORRENTINO, Sylvia Plath: una sensibilità lacerata 23. ANTONIA COLELLA, Democrazia: antichi vs moderni

Gli autori di questo numero

[email protected] MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

Sibilla Aleramo: il caso di Una donna

CATERINA NEGRO

Introduzione

on questo lavoro mi sono posta come obiettivo fondamentale quello di indagare il processo evolutivo di una donna, di una scrittrice, di una femminista, di una figura esemplare della letteratura italiana, qual è Sibilla Aleramo, concentrandomi in particolar modo sul suo romanzo di formazione, opera fondamentale del primo femminismo italiano, ossia Una donna. Mi interrogherò dunque, su quando, in che modo, spinta da quali motivazioni, è iniziato il percorso che l’ha portata dall’essere considerata semplicemente moglie e madre, ad essere rispettata come professionista, nel caso specifico come scrittrice. Per dare una risposta a queste domande e per riuscire a comprendere fino in fondo come fosse difficile, nell’800, per una donna condurre una vita emancipata e libera, è necessario descrivere la vita di Rina Faccio/Sibilla Aleramo; una donna che ha incarnato in sé tutte le tappe di quel processo di evoluzione femminile che l’hanno consacrata modello di tutte le generazioni di donne successive. Questo perché, la concezione della donna nella storia è stata fortemente dominata da immagini prototipiche1 e Rina, durante tutta la sua vita, ha incarnato un prototipo dopo l’altro, diventando una sorta di compendio, di sintesi, della condizione femminile durante il periodo dell’emancipazione: prima sposa, poi oggetto sessuale, poi madre, fino al nascere della professionista. Dunque, la sua esperienza di vita, non solo ha fornito il materiale principale per il suo libro d’esordio, ma ha anche segnato un’importante esperienza nel processo di emancipazione femminile italiano. Secondo la scrittrice «la donna fino al presente schiava, era completamente ignorata2», ma Rina Faccio seppe sfuggire a questa triste realtà, sottraendosi alla schiavitù familiare e sociale del contesto di provincia in cui si trovava, per realizzare sé stessa. Dunque, inizierò il mio lavoro con l’esporre, nel primo capitolo, la vita di questa donna, inserendo la sua figura nel contesto sociale e letterario del suo tempo. In seguito, concentrerò la mia attenzione, sul suo romanzo d’esordio, la sua ‘autobiografia’, per capire quali sono state le tappe fondamentali che hanno caratterizzato quegli anni, gli eventi che l’hanno spinta ad abbandonare il marito, fuggire dal paese in cui viveva, ma soprattutto sacrificare il suo rapporto con il figlio Walter, pur di realizzare sé stessa. Arriverò, a questo punto, nel terzo capitolo della mia tesi, al «fulcro generatore di Una Donna» come lo definisce lei stessa, l’effettiva presa di coscienza della propria identità di donna, che la porta a chiudere, con tutte le conseguenze del caso, la sua prima vita, per iniziarne una nuova, quella di una scrittrice. A tal proposito sarà

1 W. Altermatt, N.de Wall, E. Leskinen, ‘Agency and virtue: Dimensions of female stereotypes’, Sex Roles, n. 49, 2003, 631-641. 2 S. Aleramo, Una Donna, a cura di Anna Folli, con Postfazione di Emilio Cecchi, Milano 2013, 85. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

interessante capire qual è il modo di scrivere di Sibilla, qual è il suo stile, soprattutto in rapporto con l’universo letterario maschile. Ovviamente, la scelta rivoluzionaria di Rina, diventata ormai Sibilla, suscita considerevoli reazioni di appoggio e di opposizione che meritano, anzi necessitano di essere analizzate, per la portata che il gesto compiuto da questa donna ha avuto nella società. Tuttavia, non è di poca importanza un fatto meramente materiale che capita a Sibilla, la quale entra in possesso alla morte dello zio, di una cospicua eredità; questo a mio avviso è un fattore materiale determinante, che si accompagna certamente a tutta la questione di evoluzione interiore, ma che le permette concretamente di realizzare la sua scelta rivoluzionaria e partire. Questa riflessione non può che condurmi ad aprire una breve parentesi sul rapporto di Sibilla, prima vera femminista italiana, con Virginia Woolf, per capire quanto importante sia per un percorso evolutivo del genere l’indipendenza anche economica. Alla fine di questo percorso dovremmo aver tracciato un quadro completo dell’evoluzione femminile che ha permesso la nascita di una scrittrice, di una Donna.

CAPITOLO 1 1.1 Sibilla Aleramo, pioniera del femminismo in Italia

Sibilla Aleramo rappresenta, indubbiamente la colonna portante del femminismo italiano in quanto con la sua vita, oltre che con i suoi scritti, ha posto le basi per la formazione della donna ‘nuova’ che va oltre il proprio ruolo di moglie e madre per rivendicare innanzitutto sé stessa come

donna, come professionista e come scrittrice. 2 Fondamentale è l’impatto che ha avuto il suo primo romanzo sulla società e sulla cultura dell’epoca, soprattutto femminile. Una donna rappresenta uno spartiacque nella visione della donna fin lì concepita, non a caso è considerato il primo romanzo femminista italiano. Anche se va detto che, il suo impegno femminista non si limitò solo alla stesura di quest’opera ma le sue idee furono portate avanti da numerose pubblicazioni su giornali e riviste di genere, così come da numerose riflessioni destinate alla corrispondenza privata3. Ebbene traendo spunto da certe letture o da qualche avvenimento di cronaca (quale per esempio fu l’esclusione delle donne dagli iscritti al Club Filologico di Milano) comincia ad annotare alcune riflessioni personali.

Nella guerra che voi ogni giorno, o in casa o nel mondo, movete contro l’Emancipazione Femminile, Voi sostenete che la donna è debole, ch’essa è assai inferiore all’uomo, fisicamente e moralmente; le concedete per grazia sovrana di essere la madre dei vostri figlioli, e a volte, ma nemmeno così spesso come volete far credere, d’esserne l’educatrice; ma le negate la possibilità per essa di stare in contatto del suo simile, come voi quotidianamente: le negate il sacro diritto di poter onestamente guadagnarsi la vita da sola e quello, altrettanto sacro, di dedicarsi all’occupazione confacente ai suoi gusti e al suo spirito4.

Il ‘Voi’ provocatorio rivolto all’altro sesso, tradisce apertamente la foga partigiana di Sibilla, come nota la Guerricchio5. In questa riflessione sono toccati seppur brevemente tutti i principali nodi polemici tradizionalmente legati alla questione femminile: dalla polemica contro i positivisti6 che

3 T. Pugliese, Sibilla Aleramo: il difficile viaggio nel paese dell’identità, Scafati 2015, 20. 4 S. Aleramo, ‘Note di taccuino’, 1897, citato in R. Guerricchio, Storia di Sibilla, Pisa 1974, 37. 5 Ibid., 37. 6 Le riserve dei positivisti furono tra i primi pregiudizi affrontati. Essi escludevano una considerazione storico- politica della schiavitù femminile, per ritenerla, invece, una conseguenza ineluttabile della microcefalia o dell’infantilismo somatico che caratterizzava la donna. Contro queste ‘accuse’ si scagliò insieme a Sibilla, una sua grande amica e attivista, la Kuliscioff, la quale invertendo i termini del rapporto istituito dai positivisti fra storia e Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

in nome della ‘scienza’ suffragavano lo stato di minorità della donna, alla denuncia aperta di quella condizione di disparità, sostenuta da chi, esaltava quell’ unica e vera vocazione della donna, ossia, quella di ‘angelo del focolare’. Sono le direttrici su cui Sibilla più distesamente muoverà in seguito il proprio discorso, negli articoli che comincia ad inviare dal ’98 alle redazioni di vari giornali dell’epoca; stampa non sempre specializzata sull’argomento7, ma che per l’eclettismo caratteristico di tutti i giornali del tempo, volentieri ospitava scritti su un soggetto decisamente di attualità come la questione femminile. Sibilla ricercava sempre precise indicazioni di lettura tale da avere una preparazione sempre maggiore sull’argomento, riviste che potessero aggiornarla (si abbonerà in questo periodo a La Frode, un quotidiano che rappresentava la punta più avanzata del femminismo francese)8, lamentando sempre l’isolamento in cui era costretta dalla residenza a Porto Civitanova, prima della grande svolta della sua vita. In effetti l’attività giornalistica di Sibilla dedicata al femminismo, soffrì inizialmente dei limiti geografici in cui si svolse, poiché, non legandosi a forme organizzate, la sua propaganda rischiò quasi sempre il limite di astrattezza, di manifesto oratorio e retorico incapace di andare aldilà di generiche affermazioni di uguaglianza. Purtroppo almeno nel primo periodo della sua vita di donna e di attivista non ebbe la possibilità di compiere molto di concreto, ma in un certo senso a lei bastava avere la funzione, per così dire, di ‘guastatrice’, sia pure soltanto a livello teorico, della tradizionale concezione della donna, al fine di porre in rilievo tutti i pregiudizi della società nei suoi confronti per far sì che l’emancipazione divenisse una realtà intima nella coscienza della donna, un suo personale riconoscimento - cosa fondamentale - prima ancora che una questione sociale9. Infatti, Sibilla, riteneva, non a torto che un ulteriore ostacolo all’uguaglianza fosse costituito dalla resistenza psicologica, opposta da molte donne della classe borghese, alla prospettiva di un’attività che spostava il centro dei loro interessi dalla vita familiare verso la vita pubblica. Era un passo che certamente faceva paura, educate,

3 come lo erano sempre state, ad una vita relegata in casa, ad un ruolo prestabilito, stretto ma pur sempre rassicurante, quale quello di mogli e madri. Perciò era convinta che innanzitutto presso di loro oltre che presso gli uomini, occorresse condurre un’opera di sollecitazione, di sensibilizzazione contro gli pseudo-valori che, consacrati dalla tradizione, stabilmente inseriti nel costume, venivano passivamente accettati10. Bisognava mirare all’educazione, che a cominciare da quella impartita in famiglia, doveva preparare la fanciulla a prendere coscienza di sé, dotandola di strumenti morali ed intellettuali per un proficuo inserimento nella vita sociale. Partire dalla famiglia stessa per un cambiamento educativo, era ancora più importante in Italia che in altri paesi, per la nostra specifica situazione sociale. Difatti, scrivendo sul Femminismo in Italia, Sibilla lamenta «la mancanza fra noi di un movimento femminista vero e proprio»11 rispetto alle ben diverse dimensioni e modalità che il movimento emancipazionista aveva assunto in altri paesi d’Europa e d’America. Le donne italiane, afferma Sibilla, si mostrano insensibili alla «voce ispiratrice e maestra dell’evoluzione moderna». In modo particolare, la donna borghese, «si adatta volontariamente al suo stato, non vuole addarsi del vento di riforma che c’è nell’aria»12: quindi, la donna viene riconosciuta non soltanto quale principale vittima del contemporaneo assetto sociale, ma anche come la sua maggiore complice, depositaria di tutti i pregiudizi e i convenzionalismi caratteristici della sua classe. Perciò, la colpa di questo stato di minoranza è da attribuire tanto alla donna quanto all’uomo, alla luce di un’attenta analisi sociale sulla questione. Dunque, un inferiorità fisica e mentale della donna, osservò come quest’inferiorità fisica e mentale fosse causata dall’antica condizione di schiavitù. A. Kuliscioff, 'Il monopolio dell’uomo’, in Ead., In Memoria, Milano 1926, 244. 7 Si va dal periodico letterario come La Gazzetta Letteraria, al quotidiano come L’Indipendente di Trieste. 8 Il giornale era stato fondato «pour jeter des pierres», da Marguerite Durand. Cfr. R. De Livois, Histoire de la presse francaise, Lausanne, 1965, 387. 9 R. Guerricchio, Storia, op. cit., 43. 10 M. Zancan – C. Pipitone, L'archivio Sibilla Aleramo. Guida alla consultazione, Roma 2006, 39. 11 Cfr. R. Pierangeli Faccio, ‘Il femminismo in Italia’, La Vita Internazionale, a. II, n.1, gennaio 1899. 12 Ibid. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

completo mutamento sociale, un «radicale abolimento di tutti quegli usi e pregiudizi che con barbara ipocrisia fanno ora della donna una schiava inconscia e miserrima, quasi irresponsabile dei propri atti»13; questo sarà il mito propulsore in vista del quale Sibilla portò avanti la sua battaglia femminista, considerando la questione femminile strettamente legata a quella sociale14. Desiderava la formazione di una società equa, di un femminismo equo, di qui l’insistenza sul fatto che emancipare la donna non equivaleva a porre in secondo piano i suoi doveri familiari, non significava snaturarne il compito di moglie e madre, ma valorizzarlo proprio rendendo la donna più libera e consapevole della propria funzione sociale. «Espandendo la sua forza morale ed intellettuale […] il novello cittadino d’Italia […] diventerà più cosciente e più libero»15. Successivamente, dopo la grande svolta della sua vita, con la piena realizzazione di sé, ha l’opportunità di entrare in contatto con le più importanti esponenti del femminismo italiano dell’epoca come: Alessandrina Ravizza, Anna Maria Mozzoni, Anna Kuliscioff, Giovanna Milli, Paolina Schiff e tante altre. Tra l’altro fu proprio con una lettera a Paolina Schiff16, esponente di rilievo del movimento per l’emancipazione della donna, in cui dichiarava la sua completa adesione agli ideali femministi, che, come sottolinea la Scaramuzza17, Sibilla entra ufficialmente nel movimento politico delle donne. Paolina le affiderà l’incarico di fondare una lega femminile nelle Marche, anche se il progetto non va in porto per la diffusa apatia dell’ambiente marchigiano. Inizia così la partecipazione pratica di Sibilla al movimento emancipazionista; ricordiamo, inoltre, la sua attività nell’ambito dell’Unione Femminile romana, nell’ambulatorio per i bambini e le madri povere del quartiere Testaccio o nelle scuole dell’Agro. Dunque, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento e soprattutto nei primi decenni del Novecento, il movimento di emancipazione femminile italiano trovò espressione in strutture e organizzazioni propriamente politiche, finalizzate alla propaganda per

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sensibilizzare l’opinione pubblica a le istituzioni alla concessione di diritti di cittadinanza alle donne, ma, soprattutto tese a un’opera di educazione di coloro che erano ancora lontane dalla coscienza attiva della loro oppressione18. Ecco che, il movimento produsse e stimolò la nascita di giornali diretti ad un pubblico femminile19e, sul finire del secolo, cominciò a sperimentare forme di coordinamento dandosi un respiro nazionale, intessendo reti di collegamento su specifiche iniziative, quali quelle per il suffragio. Le animatrici delle associazioni politiche e culturali delle donne, si interrogavano costantemente sugli strumenti, le strategie, il senso stesso delle campagne di lotta e propaganda e quindi, in definitiva, sul rapporto tra loro stesse e le ‘altre’, vale a dire tra loro attiviste e quelle donne che ancora non avevano sentito il ‘dovere’ di uscire dal silenzio e di affrontare il rischio di assumersi la responsabilità del proprio destino, sia personale che collettivo. Dunque, come sottolinea in un suo saggio Annamaria Buttafuoco, Sibilla aveva intuito prima del tempo la base del movimento politico delle donne, ossia la maturazione di una coscienza viva nelle donne ‘comuni’, per rinascere. Non a caso uno dei verbi ricorrenti nella prosa delle emancipazioniste è ‘rinascere’. Sibilla

13 Lettera alla Tavola in data 6 settembre 1897, citata in P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo. Gli anni di Una donna: Porto Civitanova 1898-1902, Ancona 2009, 217. 14 R. Guerricchio, Storia, op. cit., 33. 15 R. Pierangeli Faccio, ‘La donna italiana’, Vita Moderna, a. IV, n.8, agosto 1898, citata in Rita Guerricchio, Storia di Sibilla, cit., 33. 16 Paolina Schiff aveva fondato a Milano nel 1881 con Anna Maria Mozzoni la Lega promotrice degli interessi femminili. P.L. Cavalieri, Sibilla, op. cit., 209. 17 E. Scaramuzza, La santa e la spudorata: Alessandrina Ravizza e Sibilla Aleramo, Napoli 2004, 79. 18A. Buttafuoco, ‘Vite esemplari. Donne nuove di primo Novecento’, in Svelamento. Sibilla Aleramo: una biografia intellettuale, a cura di A. Buttafuoco – M. Zancan, Milano 1988, 139-140. 19 Tra il 1861 e il 1924 uscirono circa cento periodici riferibili al movimento politico delle donne. Cfr. A. Buttafuoco – R. De Longis, ‘La stampa politica delle donne dal 1861 al 1924’, Nuova Dwf, n. 21, 1982, 73-100. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Aleramo, quando era direttrice dell’Italia Femminile, nel 1899 scriveva: «Noi dobbiamo rifarci, ricostruire su basi di tanto più solide delle passate, la nostra mente e la nostra anima, la nostra volontà e il nostro cuore, la nostra educazione e il nostro sentimento»20. Tuttavia ad un certo punto, Sibilla prenderà le distanze dal femminismo, la sua scelta di lavorare principalmente nel campo artistico la portò ad allontanarsi dall’impegno più propriamente sociale21. Infatti, ricorderà questo suo impegno come «una breve avventura, eroica all’inizio, grottesca sul finire, un’avventura da adolescenti, inevitabile e ormai superata»22. Nonostante ciò è indubbio il legame che unirà sempre il nome di Sibilla Aleramo al movimento femminista italiano.

1.2 Sibilla e il panorama letterario del suo tempo

Inquadrare Sibilla Aleramo in un preciso movimento letterario appare davvero un’impresa difficile, considerando da un lato, la portata dei suoi interessi in questo ambito, e dall’altro, il fatto che ha attraversato tutte le esperienze letterarie del Novecento. Il carattere mutevole dell’artista, la sua natura cangiante nel sentimento e nelle idee, la sua sete di sapere l’hanno portata ad avvicinarsi ai più importanti uomini e pensatori del suo tempo che hanno sicuramente influenzato il suo essere e il suo operato rendendolo multiforme. Tuttavia, alla base di tutta la sua scrittura ci sarà sempre il rapporto di Sibilla Aleramo con il mondo del femminismo, avendo lei stessa inaugurato la letteratura al femminile-femminista, con il suo primo romanzo Una Donna, dando un contributo significativo a questo ‘movimento’. In realtà anche tutti i suoi scritti successivi, anche quando saranno influenzati da altri movimenti e

5 ispirazioni saranno sempre legati a questo filone di letteratura femminile-femminista, perché lei ne è la rappresentante, in quanto dalla sua ‘rivoluzione femminista’ è nata ufficialmente la figura della scrittrice. La possibilità di scrivere e quindi tutti i suoi scritti saranno sempre indissolubilmente legati al suo rivoluzionario gesto di rivendicazione di sé stessa, di rivoluzionaria disobbedienza alle regole di base della società e anche della letteratura. Ma comunque, Sibilla, da grande sperimentatrice non si è mai sottratta a nuove influenze. Con l’avvento del decadentismo e del futurismo l’Aleramo si avvicinò ai nuovi movimenti e non si sottrasse a prenderne parte23. Al decadentismo si interessò anche e soprattutto grazie alla relazione che intraprese con il poeta Dino Campana. Nuovi poeti, solitari che nell’introspezione dell’anima, scoprono l’interiorità dell’uomo e il mistero dell’ignoto24. Nel 1913, l’Aleramo è a Milano, qui si avvicina al movimento futurista grazie al suo legame con Boccioni, ma ancor più importante fu l’incontro avvenuto a Sorrento con Filippo Tommaso Marinetti, maggiore esponente del futurismo italiano, lo scrittore ‘ufficiale’ del manifesto futurista. I due cominceranno a scambiarsi materiale tanto che Sibilla inizierà a maturare l’idea di scrivere un’opera di carattere futurista, idea che poi abbandonerà. Degne di menzione sono tra l’altro anche altre espressioni letterarie di quest’Italia di fine Ottocento, come il romanticismo e il naturalismo-realismo. Non a caso Sibilla è stata considerata l’ ‘ultimo dei romantici’, con la sua automitizzazione; un progetto ben preciso di vita-arte, una vita

20 R. Pierangeli Faccio, ‘Evoluzione femminile’, Italia femminile, n. 45, 19 novembre 1899, citata in R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 34. 21 S. Bartoloni, ‘Nel secondo dopoguerra: Sibilla e il Pci’, in Svelamento, op.cit., 227. 22 S. Aleramo, Andando e stando, Milano 1942, 69. 23 T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 20-21. 24 Sviluppatosi in Francia nella seconda metà dell’Ottocento, il termine designato per identificare questi intellettuali aveva inizialmente una connotazione negativa, identificava poeti fuori dalla norma, diversi ed estranei rispetto al mondo contemporaneo, certo è che questo termine “decadente” è altresì imputabile anche alla decadenza della società materialistica. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

destinata a diventare un’opera d’arte grazie alla letteratura, ovviamente non possiamo non pensare al suo rapporto d’amicizia con D’Annunzio. Bisogna sempre avere un mito, le aveva detto Cesare Pavese25; soltanto chi ha un mito in cui credere vive una vita degna di essere vissuta, ma lei, invece di avere dei miti – lo spirito femminile, la donna artista – li incarnava26. «Tutto nella mia vita si trasforma in cosa d’arte, perfino sul limite della morte, perfino l’allucinatoria visione della posterità»27. Dunque, una personalità eclettica, indissolubilmente attratta da ogni fermento letterario che riesce a cogliere nell’aria.

1.3 Da Rina Faccio a Sibilla Aleramo

Sicuramente la scelta di uno pseudonimo nel panorama della scrittura al femminile è sempre stata presente, per una sorta di autocensura, una specie di scudo protettivo dalle eventuali accuse, o semplicemente un modo per non far emergere la propria identità. Inoltre i libri firmati da una donna hanno un impatto diverso sul mercato; a fine Ottocento è difficile che un uomo compri un libro di una donna che al contempo viene accusata e rimproverata di non occuparsi dei propri doveri di moglie e madre a causa del tempo che dedica alla scrittura. Dunque, vi è una condanna morale verso quelle donne che svolgono un’altra ‘professione’28 oltre quella di madre. Ebbene anche Rina Faccio ha utilizzato, sin dai suoi primi scritti, comparsi in appendice a La Sentinella, uno pseudonimo; quello di Reseda29. Perché la giovane Rina abbia voluto associare sé stessa alla reseda è difficile da dire, forse si trattava semplicemente di una pianta che le piaceva e che oscurava il proprio nome, come fa notare nella sua analisi Cavalieri30. Ma ancora, il primo pseudonimo scelto da Sibilla per il suo primo romanzo era stato Face, così come dobbiamo

6 ricordare che aveva firmato alcuni articoli sull’Italia Femminile come Favilla. Successivamente poi, assunse il nome con la quale la conosciamo oggi ed è passata alla storia: Sibilla Aleramo. Tuttavia la scelta di questo nome, rispetto agli pseudonimi precedenti, fu significativa. Come sottolinea la Buttafuoco, quello di Sibilla non fu un semplice pseudonimo scelto per motivi di autodifesa o comunque di discrezione - dovuti ai contenuti del romanzo Una Donna - né per seguire una posa diffusa tra le scrittrici: fu il nome della rinascita31. Il passaggio al nuovo nome apre un nuovo periodo così come ne chiude un altro, prefigurando un personaggio alla quale la donna resterà fedele per tutta la vita32. Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che l’abbandono di Rina Faccio sia stato per Sibilla un gesto da poco, anzi quest’abbandono costituisce una ferita, o come lei stessa con molta precisione dirà, un peccato che non finirà mai di scontare.

25 «C’è in lei Thovez, Cena, Gozzano, Amalia, Gobetti. C’è Nietzsche, Ibsen, il poema lirico. Ci sono tutte le esitazioni e i pasticci della mia adolescenza. Lontana. C’è la confusione di arte e vita, che è adolescenza, che è dannunzianesimo, che è errore»; queste le parole con cui Pavese definisce la vita e la persona dell’Aleramo. C. Pavese, Il mestiere di vivere, Torino 1960,322, citato in Sibilla Aleramo, Una donna, con Prefazione di Anna Folli e Postfazione di Emilio Cecchi, Feltrinelli, Milano, 2013. cit., p. XII. 26 Prefazione di Anna Folli, in Sibilla Aleramo, Una donna, op. cit., XII 27 Ibid. 28 Concetto ben espresso in un saggio da Elizabeth Gaskell: «Quando un uomo diventa scrittore, per lui con ogni probabilità, si tratta solo di cambiare mestiere. Occupa una parte di quel tempo che fino ad allora ha dedicato ad altri studi o interessi […] e un altro commerciante o avvocato o medico prende il suo posto vuoto e lo fa altrettanto bene. Ma nessuno può assumersi i tranquilli, metodici doveri della figlia, della moglie, della madre […] a una donna non è consentito di scegliere la sua attività principale nella vita; né ella può rifiutare i compiti domestici che le toccano come individuo, per sviluppare ed esercitare i suoi talenti, per quanto splendidi essi siano», E. Gaskell, An Accursed Race, in Le donne e la letteratura, a cura di E. Rasy, Roma 2000, 66. 29 Una pianta erbacea che produce fiori a grappolo giallo-verdastri, P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 122. 30 Ibid. 31 A. Buttafuoco, ‘Vite esemplari’, art. cit., 152. 32 F. Angelini, ‘Un nome e una donna’, in M. Zancan, Svelamento, op. cit., 64-65. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Pur commisi allora il peccato di cui mi sono confessata […] Asportò egli [G. Cena] dal mio libro dove io diceva il mio amore per Felice [Damiani]. Ed io lasciai amputare così quello che voleva […] Uncinò i margini con parole sue. Dov’era la piccola gagliarda che si chiamava Rina, che da sola dopo tanta tribolata umiliazione aveva un giorno intrepidamente agito e s’era assolta? Ribattezzata, ripiantata. L’uomo ha un così ingenuo istinto di coltivatore33.

Utilizzando un linguaggio che fa percepire la violenza del gesto la stessa Sibilla ci dice che ad ‘asportare’ il suo nome fu un uomo, Giovanni Cena. «Io ti scopersi e ti chiamai Sibilla»34, scriveva Giovanni Cena in Homo, del 1909 (titolo simmetrico a quello di Sibilla Una Donna). Un nome che nasce con l’inizio della sua ‘seconda vita’35, con l’inizio della vita di una scrittrice, con il nascere della sua letteratura, quando ormai Rina Faccio rappresentava qualcosa a lei estraneo, relegato per sempre nella sua ‘prima vita’. Ma soffermandoci sulle parole della stessa Sibilla possiamo vedere come questa sia stata una nascita non naturale ma chirurgica, con amputazioni, uncini, asportazioni; una nascita violenta, assai simile a quella precedente che il marito le ha inflitto quando l’ha iniziata alla sessualità36. Le sue due prime vite sono iniziate entrambe con un taglio netto, profondo e doloroso. Rina Pierangeli Faccio rinuncia al suo nome, o meglio a quello del padre prima e del marito poi, per chiamarsi con un nome profetico e poetico ma che le viene ancora una volta imposto da un uomo. Ebbene, Mariella Muscariello, in un suo lavoro sul romanzo femminile, a proposito, rintraccia nel nome Sibilla, il riferimento alla profetessa invasata dal dio Apollo mentre nel cognome Aleramo un ossequio a Giosuè Carducci e alle sue origini piemontesi, infatti nella poesia Piemonte, del 1890, definiva il Monferrato «l’esultante di castella e vigne / suol 37

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d’Aleramo» . A questo punto, c’è da chiedersi perché una femminista, una donna che lottava per la liberà, l’indipendenza, lo scioglimento delle catene che incatenavano la donna, abbia permesso tutto ciò. Probabilmente, il desiderio di liberarsi definitivamente e in ogni modo dal dolore e forse anche dal ricordo di tutto quel dolore di Rina Faccio, ha reso tutto più semplice, le ha permesso di accettare in maniera consenziente, da un uomo, un nuovo nome per una nuova vita. Possiamo verificare questo in un episodio datato dicembre del 1907; Sibilla scrisse ad Ersilia Majno, la quale aveva distrattamente indirizzato la corrispondenza a nome di Rina Pierangeli-Faccio.

Come mai ti salta in mente di resuscitare uno stato civile che non ha più ragion d’essere nella memoria d’alcuno? Anzi […] ti dirò che ormai voglio che sia dimenticato anche il mio cognome di nascita, ed essere

33 S. Aleramo, Il Passaggio, a cura di Bruna Conti, Milano 1985, 90. 34 S. Aleramo – D. Campana, Quel viaggio chiamato amore, a cura di B. Conti, Roma 1987, 43. 35 Sibilla, secondo una sua affermazione, visse quattro vite. La prima fu quella che si concluse quando lasciò per sempre Porto Civitanova, nel febbraio 1902; la seconda coincide con l’iniziazione alla vita di scrittrice, e la vide accanto al poeta Giovanni Cena, con cui fu legata fino al 1910. Nella sua ‘terza vita’ Sibilla fu protagonista di un vagabondaggio estetico tra diverse città italiane ed europee, che le consentì di entrare in contatto con vari ambienti intellettuali, e di conoscere numerosi artisti tra cui molte delle passioni della sua vita, ricordiamo la tempestosa relazione con Dino Campana. Infine, la sua ‘quarta vita’ iniziò nel 1936, quando conobbe lo studente Franco Matacotta, iniziando, da un punto di vista sentimentale, la sua ultima relazione; al tempo si iscrisse al Partito comunista impegnandosi in battaglie politiche che diedero alla sua ultima produzione letteraria una coloritura fortemente ideologica. P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 229-231. 36 F Angelini, Un nome e una donna, in Marina Zancan, Svelamento, op cit., p. 65. 37 M. Muscariello, ‘Il romanzo femminile’, in Il romanzo in Italia. Il primo Novecento, a cura di G. Alfano – F. De Cristofaro, Roma 2018, 107. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

nominata e presentata esclusivamente come Sibilla Aleramo: la mia personalità non si esplica più che a traverso questo nome38.

Come dicevo, proprio questo nome è quello che nel 1906 accompagnerà l’uscita del suo primo romanzo autobiografico qual è Una donna, un romanzo che mette in scena la prima vita della protagonista, quindi di Rina Pierangeli-Faccio. Ora, alcune domande sorgono spontanee, come ha giustamente notato la studiosa Franca Angelini: a quale nome si riferisce l’io che racconta in Una donna? Come si deve pensare un’autobiografia in cui il nome dell’autore e quello del personaggio sono diversi anche se la persona è la stessa? Che accade ad un genere letterario che sembra nato per esaltare l’esperienza soggettiva e individuale se al soggetto si toglie il nome? Infatti, proprio perché chi racconta è pseudonima, Una donna finisce con l’essere una biografia ma senza nomi, né di chi racconta, né degli altri39. Non a caso, Sibilla che ha parlato dell’espropriazione del suo nome, in un articolo suLa Gazzetta del popolo parlerà anche dell’espropriazione dei nomi a tutti i personaggi del suo romanzo:

Tutti i personaggi inclusa la protagonista erano ‘innominati’; e non dico che non sia stata una difficoltà quell’individuarli nel lungo racconto sempre soltanto con un generico: il marito, il suocero, il bimbo, il dottore, il profeta e via via. Dico che v’era là, spontanea, non voluta, la dimostrazione della nessuna importanza che hanno, per me, i nomi, e non soltanto riguardo le persone ma anche alle cose: ho infatti scritto nel Passaggio: «io non so se i nomi di cui mi servo per tutte le cose di cui parlo sono veri. Sono stati inventati da altri, tutti i nomi, per sempre […] Ma, invero, tutte le mie creature, mentre do loro la vita, e dopo che le ho mandate per il mondo, io continuo a pensarle e a vederle ‘senza nome’»40.

Questa affermazione è per noi fondamentale, per comprendere fino in fondo il rapporto di Sibilla 8 Aleramo con Rina Faccio all’interno di Una donna, e per rispondere alle domande che ci siamo posti, in quando arriviamo a comprendere come nel romanzo si sia avuta la formazione di uno spazio narrativo che sta a metà tra autobiografia ed invenzione, verità e finzione, auto- interpretazione ed interpretazione di esistenza in generale, che coinvolge tanto la condizione femminile personale, quanto la condizione umana in generale. Questa astuzia narrativa consente a Sibilla il più ampio margine non solo di generalizzazione dei problemi, ma di invenzione e di trasformazione di situazioni. Quindi Sibilla pseudonima scrive un libro basato sulla sincerità di una vita vissuta e sull’oggettività di una vita guardata. Sibilla osserva e racconta Rina, affinché il fallimento di una figlia, di una moglie e di una madre, diventasse il successo di una scrittrice. E la strategia della coppia Aleramo-Cena sembra perfettamente riuscita; possiamo pensare al commento di Ada Negri all’uscita di Una donna, la quale scrive a Rina Faccio:

«Signora, ho ricevuto il libro di Sibilla Aleramo ed ho pianto, sulle sue pagine ultime, tutte le mie lagrime […] Voi conoscete Sibilla Aleramo, Signora. Ditele che io l’ho seguita passo passo, con pietà fraterna, nella sua via Crucis»41.

La Negri, finge l’esistenza di due persone fondendole tra loro; Rina Faccio fa da intermediaria a Sibilla, considerata non come una scrittrice ma come un personaggio.

38 Lettera di Sibilla Aleramo a Ersilia Majno, Roma, 3 dicembre 1907, cit., cart. XVII, b. 6, citata in F. Angelini, Un nome e una donna, in M. Zancan, Svelamento, op. cit., pp. 64-65. 39 F. Angelini, ‘Un nome e una donna’, in Svelamento, op. cit., 66-67. 40 Si tratta di un articolo sulla Gazzetta del popolo in risposta alla domanda: «Come scegliete i nomi dei vostri personaggi», che si legge in: B. Conti – A. Morino, Sibilla Aleramo e il suo tempo. Vita raccontata e illustrata, Milano, 1981, 247. 41 Ada Negri a Rina Faccio, Milano, 21 Novembre 1906, cit. in B. Conti – A. Morino, Sibilla Aleramo, op. cit., 45. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

CAPITOLO 2 2.1 Una donna: il primo romanzo femminista italiano Tra le opere di Sibilla Aleramo, il romanzo Una donna, pubblicato a Torino per le edizioni STEN nel novembre 1906, occupa un posto di assoluto rilievo. Esso costituisce infatti il primo e il più importante di quell’autobiografia intellettuale che l’Aleramo andò elaborando nel corso della sua lunga esistenza. Una donna può essere definito dunque come un romanzo di formazione, un romanzo di ‘educazione’, per un pubblico che si ritrova per la prima volta a confrontarsi con un nuovo modo di concepire l’universo femminile, di indagare la sua essenza. Una formazione e un processo mentale che investe chi si trova ad immergersi nella lettura di quest’opera-manifesto del nuovo femminismo. Ma, al romanzo giovanile, come anticipato, seguì una vastissima produzione letteraria, nonostante ciò nessuna delle sue opere successive riuscì ad eguagliare la forza di testimonianza e di denuncia della condizione femminile come Una donna42, non a caso considerato il primo vero romanzo femminista italiano, la Bibbia del femminismo storico, come lo definisce Simona Cigliana43. Quello che contraddistingue quest’opera da tutte le altre del genere, è sicuramente la forza d’azione e di volontà, le riflessioni e le prese di coscienza, le nuove realtà che non rimangono mai fini a sé stesse o relegate in un foglio, in quanto Sibilla, agisce; ogni presa di coscienza porta con sé una conseguenza, che in questo caso è rappresentata dallo svincolarsi da ogni costrizione che la società e le leggi impongono al mondo femminile. L’Aleramo non si ferma al semplice concetto della ‘parità dei sessi’, il suo pensiero va ben oltre: rompendo la catena delle convenzioni sociali,

9 l’autrice si impone come modello di innovazione, ispirazione e fonte di coraggio, per sé e per tutte le donne. Dopo l’uscita di Una donna, non si trattava più di un’autrice, di un’artista soltanto – come sottolinea Cecchi – si trattava anche di rivendicare la parità femminile, di una ribellione. Attraverso il percorso della sua vita, possiamo attraversare - oltre che un preciso momento socio- politico e culturale44 - tutte quelle fasi che hanno costituito la storia dell’evoluzione della donna, che partono dall’essere figlia per diventare prima moglie poi madre, fino alla rivendicazione del proprio ruolo semplicemente di donna, di persona, con dei talenti, delle aspirazioni, la possibilità di realizzare concretamente le proprie aspettative aldilà degli stereotipi. L’impulso primo a scrivere Una donna non era stato però solo quello di restituire un messaggio di emancipazione alle donne italiane, ma anche risolvere così una questione personale. Difatti, Sibilla cominciò a dedicarsi al romanzo nell’estate del 190245, cioè appena qualche mese dopo la partenza da Porto Civitanova, quasi a volersi sbarazzare di un’immagine di sé ormai rifiutata, contro la quale aveva

42 Cecchi nella postfazione alla quarantaquattresima ristampa di Una donna, fa notare come un critico della portata di Gargiulo, che «veramente ci andava con i piedi di piombo», affermò addirittura che l’Aleramo «poteva vantarsi di aver fatto a vantaggio del sesso più di quanto avevano fatto e andavano facendo tutte le femministe del mondo prese insieme». S. Aleramo, Una donna, op. cit., 168. 43 S. Cigliana, ‘La letteratura femminile 1900–1925’, in Storia generale della letteratura italiana, vol. X, Il Novecento, a cura di N. Borsellino e W. Pedullà, Milano 1999, 555. 44 Guardando il panorama che circondava Sibilla Aleramo durante la sua vita, va sottolineata la presenza di pesanti problemi di carattere economico, polito, sociale. Siamo all’indomani dell’unità d’Italia e le necessità più urgenti sono l’integrazione interna del paese, la formazione di una lingua unitaria, la costruzione di uno stato liberale e di un parlamento adeguato, il superamento del divario tra Nord e Sud, lo sviluppo dell’industria, del commercio, delle vie di comunicazione, in modo da tenere il passo con gli sviluppi delle nazioni europee sul piano politico ed economico. Tutte queste realtà sono alle spalle del romanzo, come panorama reale, che rispecchia un preciso momento storico e all’interno delle quali si inseriscono tutti i personaggi presenti, ovviamente Sibilla compresa. M. Antes, “Amo dunque sono”: Sibilla Aleramo, pioniera del femminismo in Italia, Firenze 2010, 19-23. 45 S. Aleramo, ‘Esperienze di una scrittrice’, Rinascita, a. IX, n. 5, maggio 1953, 294. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

combattuto, liberandosene faticosamente. Sibilla aveva bisogno di trasformare tutta la serie confusa e opaca delle esperienze del passato nel punto di partenza di un cambiamento, nel primo passo verso l’avvenire. Fare la storia del malinteso che l’aveva separata da sé stessa – come ci fa notare la Guerricchio - equivaleva a liquidarlo definitivamente, e la stessa forza catartica sottesa a un esperimento di questo genere, esigeva che quell’immagine fosse restituita con la massima fedeltà, nel rispetto cioè di tutte le circostanze ed occasioni che avevano contribuito a formarla e poi a lacerarla. Ovviamente dobbiamo sempre tener presente che è la stessa Sibilla che ci restituisce l’immagine di sé stessa, raccontandoci la sua vita dal suo punto di vista, la sua verità con i suoi fini. Di qui il carattere più tipico e tradizionale dell’autobiografia di Sibilla, quel narrare il passato secondo un ordine ‘chiuso’, piuttosto che quello ‘aperto’ di un passato che man mano che sovviene alla mente si modella sulla pagina. Un romanzo ‘a circuito chiuso’, dove la fine viene in un certo senso prima dell’inizio e la successione cronologica coincide con un itinerario già prestabilito dell’autrice proprio per adempire ad un progetto. Ne consegue che la presentazione ‘successiva’ e non ‘regressiva’ dei ricordi, enunciati secondo il loro svolgimento oggettivo, piuttosto che secondo quello creato nel momento della loro scoperta da parte del personaggio, giustifica la deliberata volontà di un io che vuole raccontare per dare una spiegazione al lettore di ogni sua azione successiva, di ogni ragione delle sue scelte46. Da ciò il rischio, comune alla maggior parte delle autobiografie con questa struttura, di creare un’immagine ferma, già fatta, che potrebbe anche essere menzognera. Tuttavia, ad una prima lettura del romanzo, o meglio, dell’autobiografia letterariamente trasfigurata, si nota che le vicende narrate dall’alter ego dell’autrice seguono uno svolgimento cronologico ordinato e consequenziale e la narrazione è disseminata di indicatori temporali (gli anni della protagonista, il trascorrere di mesi e stagioni, eventi come il matrimonio o la maternità) che consentono quindi un continuo raffronto con la 10

realtà biografica della scrittrice47. Per la ricostruzione puramente biografica della vita di Rina Faccio in quel periodo della sua esistenza, sarebbe stata indubbiamente preziosa la consultazione del diario che la donna tenne durante tutto quel periodo. Purtroppo lo avrebbe distrutto anni più tardi, per ragioni sconosciute ma, in realtà, facilmente intuibili (quale per l’appunto il desiderio di staccarsi definitivamente da quel passato), salvandone appena qualche foglio. Resta tuttavia un fascicolo autografo dal titolo Dati biografici, conservato tra le carte del Fondo Aleramo, presso l’istituto Gramsci di Roma48. L’autrice lo dichiarò «fonte utile per chi in avvenire volesse

46 R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 82-83. 47 Come ci fa notare Cavalieri, prendendo un’espressione come «era il terzo settembre che passavamo in paese», questa ci permette di stabilire un parallelo tra gli eventi narrati all’inizio del capitolo III e quelli realmente vissuti da Sibilla a Porto Civitanova nel settembre 1890, poiché è noto e documentato che la famiglia Faccio si era trasferita nel paese marchigiano nell’estate del 1888. P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 24-25. 48 La documentazione conservata presso l’Istituto Gramsci di Roma è stata raccolta dall’Aleramo stessa e copre il periodo che va dal 1906 (anno di pubblicazione di Una donna) al 1960. Si tratta di un materiale vasto e disomogeneo che ha richiesto, da parte dei più importanti studiosi della scrittrice, un lavoro di analisi e selezione. Presso il Fondo Aleramo si trovano: recensioni a testi dell’autrice, interviste a Sibilla Aleramo, articoli a carattere bio- bibliografico, articoli di letteratura dove in genere il nome di Sibilla Aleramo compare accanto a quello di altri autori, brevi comunicati stampa sulla pubblicazione e ristampa dei suoi testi, trafiletti e cronache di conferenze e di letture di poesie tenute dall’autrice stessa, trafiletti e cronache di conferenze su Sibilla Aleramo, articoli su premi letterari che indicano il nome di Sibilla Aleramo tra i membri della giuria oppure tra i candidati o vincitori del premio, materiale giornalistico e cronachistico riguardante spettacoli tratti da opere dell’Aleramo e infine, articoli di cronaca su ricevimenti mondani o culturali convegni, congressi, manifestazioni varie e attività sociali che nominano Sibilla Aleramo tra i presenti di riguardo. È evidente che il materiale raccolto in un primo momento è stato sottoposto a un filtro selettivo, a fine di scegliere gli scritti che presentavano una rilevanza qualitativa. Attraverso questo lavoro di cernita il materiale è stato sfoltito di tutte le minuzie, che se inserite, avrebbero appesantito la struttura della bibliografia. Cfr. Archivio Sibilla, a cura di M. Zancan – C. Pipitone, e Fondo Sibilla Aleramo. Censimento, a cura di F. Spinelli, Archivio di Stato di Firenze, 2011, entrambi presenti online nel sito Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

occuparsi della mia opera e della mia vita, costituendo essi l’unica testimonianza incontrovertibile»49. Va detto però che il fascicolo, destinato per volontà dell’Aleramo a rimanere inedito e redatto a distanza di quasi quarant’anni dal periodo porta civitanovese, contiene di quegli anni solo dati essenziali che confermano quasi sempre la verità autobiografica del romanzo o di poco la modificano50. Da ciò emerge che, in alcuni casi, i fatti narrati da Sibilla coincidono esattamente con eventi realmente accaduti, mentre in altri, come fa notare Cavaliere nel suo lavoro, la verifica si presenta assai problematica, talora impossibile. In diversi casi l’autrice mette in atto un occultamento della realtà, che però non vuole essere sempre, necessariamente, un depistaggio per il lettore ma talvolta ha delle ragioni più pratiche, magari impedire un troppo facile riconoscimento di luoghi e persone, o per ragioni puramente letterarie (come la necessità di creare determinate sfumature caratteriali in un personaggio o in un altro) o per l’inutilità ai fini della logica narrativa di riferire dettagli e notazioni che invece, sarebbero stati interessanti a noi, ai meri fini della ricostruzione biografica. Tuttavia, come dicevo, i tanti indicatori temporali, fungono da ‘filo di Arianna’ per riconoscere Rina oltre Sibilla. Alla luce di tutto ciò, possiamo inserire il romanzo autobiografico di Sibilla nel genere di quella che Rousset definisce confession rétrospective51, caratteristica del diciannovesimo secolo, dove il soggetto diventa autore quando ha finito di vivere la propria storia:

«entre le narrateur et la vie narrée s'éntend un intervalle décisif séparant le héros et l'auteur, excluant toute coincidence du sentiment et de la conscience, du temps de l'expérience et du temps de l'écriture»52.

2.3 L’elaborazione di Una donna: storia di un manoscritto

Nel novembre del 1949 il manoscritto di Una donna entra a far parte della Biblioteca Nazionale di 11 Firenze, dove è attualmente conservato, donato da Bruno Sanguineti53, un industriale milionario, che ha a sua volta comprato il manoscritto dalla stessa Aleramo. Infatti, come registrato nel Diario, alla data 15 maggio 1949, risale una telefonata di «Maria Bandinelli che ha un assegno di cinquantamila lire, lasciatole per me da Bruno Sanguineti per venirmi in aiuto in cambio del mio manoscritto che egli offrirà alla Biblioteca nazionale di Firenze», e alla data 31 dicembre dello stesso anno, nel bilancio finanziario dell’annata sono computate «le cinquantamila lire di Sanguineti in cambio del manoscritto di Una donna»54. Dunque, il manoscritto è conservato nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, nella Sala Manoscritti, con la segnatura N.A. 951. È costituito da 310 carte di due diversi tipi e formati (cm. 20x31 e cm. 20x29), scritte dall’Aleramo sul recto, a vari inchiostri, e numerate dalla stessa in alto a destra, con cifre arabe comprese tra 1 e 320. La differenza tra il numero di carte e la numerazione autografa è determinata dalla presenza di carte su cui è stato apposto un doppio o triplo numero. www.fondazionegramsci.org/biblioteca/fondi/fondo-sibilla-aleramo/, forniti dalla Fondazione Gramsci. Per quanto riguarda il materiale del periodo successivo al 1960, punto di riferimento è il Centro studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia. 49 S. Aleramo, Dati biografici, fascicolo autografo, datato 1938-39, inedito, citato in Fondo Sibilla Aleramo, op. cit. 50 Al citato fascicolo si aggiungono alcune notazioni riferite al periodo che trattiamo nel Diario, nei Taccuini, nonché nel suo sterminato epistolario. P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 22-23. 51Cfr. J. Rousset, ‘Du roman-confession au monologue intérieur’, Filoloski pregled, 1966, 61, cit. in R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 64. 52«Tra il narratore e la vita narrata c'è un intervallo decisivo che separa l'eroe e l'autore, escludendo tutte le coincidenze del sentimento e della coscienza, il tempo dell'esperienza e il tempo della scrittura». Ibid. 53 Bruno Sanguineti fu un industriale triestino che negli anni Trenta a Roma aveva fatto parte di un gruppo di giovani comunisti - costituito da Lombardo Radice, Aldo Natoli e Aldo Sanna – per poi partecipare alla Resistenza e alla vita politica fiorentina dell’immediato dopoguerra come dirigente del Partito comunista. Cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, Torino 1970, vol. III, 196. 54 S. Aleramo, Diario di una donna. Inediti 1945-1960, a cura di A. Morino, Milano 1979, 231-232 e 261. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Sulla prima carta in alto a destra, a inchiostro blu, l’autrice ha scritto “Una donna Sibilla Aleramo”, mentre sulla sinistra compaiono varie parole illeggibili (forse una dedica) cancellate. Sul manoscritto sono presenti numerose cancellature e correzioni autografe, nonché segni del tipografo a matita nera e blu, ciò testimonia il ruolo di intermediario che Cena svolse al momento della stampa del testo. A tal proposito notiamo c. 101: “Giovanni Cena Via Flaminia 49 Roma”; c. 235: “Sign. Cena”; c. 272: “Cena da fare bozze”; c. 320: “Sign. [nome illeggibile] Milano Fermo Posta”. Unica redazione autografa completa di Una donna in nostro possesso, il manoscritto rappresenta la fase terminale di un processo elaborativo che ha la sua data d’avvio, stando alle numerose testimonianze della scrittrice stessa, nell’estate del 190255 ed è presumibilmente l’ultima stesura del romanzo considerando gli appunti del tipografo. Ebbene, dopo i rifiuti delle case editrici56 Treves, Baldini, e Castoldi, il manoscritto fu consegnato alla Società Tipografica Editrice Nazionale di Roma-Torino, ma il libro fu stampato a Roma dalla Tipografia della Tribuna. È verosimile che il manoscritto fiorentino fosse preceduto da redazioni anteriori, infatti, in un fascicoletto indirizzato a Cena – iniziato il 18 novembre 1939 a Capri, e inserito nel Diario alla data 9 gennaio 1944 - Sibilla descrive la travagliata genesi di Una donna, facendoci intuire che il romanzo avrebbe avuto tre stesure57. Tuttavia, del lavoro precedente al testo fiorentino, possediamo soltanto una redazione anteriore dei primi due capitoli del romanzo58, nonché le pagine di quello che la scrittrice chiamò a posteriori, datandolo giugno 1901, dopo una notte insonne, Nucleo generatore di Una Donna59. Dalla comparazione di questo manoscritto con quello fiorentino, emergono chiaramente le

55 In Esperienze di una scrittrice, testo letto ad una conferenza all’Unione Culturale di Torino e pubblicato in Rinascita, n. 12 5, maggio 1952, 294, Sibilla scrisse: «Una donna io lo cominciai nell’estate 1902, quando dal litorale Adriatico mi ero trasferita a Roma», e in Diario di una donna, op. cit., 472: «presso la pineta Sacchetti […] io scrissi i primi capitoli di Una donna, nientemeno nel 1902». Inoltre, datata Roma, 2 ottobre 1902, abbiamo una lettera dell’Aleramo a Giovanni Cena, nella quale si può leggere: «ho riletto l’ultimo capitolo scritto per gran parte, ieri e stamattina, può andare bè…Ne ho cominciato un altro». 56 A tal proposito si veda la lettera di Giuseppe Treves a Giovanni Cena, Milano, 5 ottobre 1904, conservata in Fondo Aleramo: «Un romanzo raccomandato da un buon giudice come Lei e circondato da tanto mistero, mi tenta. Solamente non capisco come si diriga a me avendo a sua disposizione l’Antologia. Tanto più che ormai l’Antologia si è messa anche a far l’Editore. Del resto, son sempre disposto a leggere il ms., purché sia scritto in modo leggibile e magari con la macchina»; quella di Baldini e Castoldi a Giovanni Cena, Milano 1 dicembre 1905, sempre conservata in Fondo Aleramo: «Ci rincresce di dover declinare la gentile proposta da Lei fattaci, per assoluta mancanza di tempo, dovendo in occasione della pubblicazione del nuovo romanzo Il Santo di Antonio Fogazzaro accingerci alla ristampa di diverse altre sue opere che abbiamo, oltre agli impegni in corso». Sebbene il nome di Una donna non compare esplicitamente nella lettera, è presumibile che l’oggetto sia il romanzo dell’Aleramo, anche perché le lettere fanno parte del materiale epistolare, conservato nel Fondo Aleramo, che fa riferimento quasi esclusivamente alla stesura e alla pubblicazione del romanzo. Cfr. Archivio Sibilla, a cura di M. Zancan – C. Pipitone, e Fondo Sibilla Aleramo. Censimento, a cura di F. Spinelli, Archivio di Stato di Firenze, 2011, entrambi presenti online nel sito www.fondazionegramsci.org/biblioteca/fondi/fondo-sibilla-aleramo/, forniti dalla Fondazione Gramsci. 57 «In una della stanze, quella detta da pranzo, sul tavolo rotondo, fra un pasto e l’altro avevo terminato la prima stesura del libro […] Con la mia scrittura dal segno allora lieve, quasi d’ala, rifeci nel giro di quegli anni, la stesura del libro per intero, una volta e poi un’altra volta». S. Aleramo, Un amore insolito. Diario 1940-1944, a cura di A. Morino, con una lettura di L. Melandri, Milano 1979, 320-33. 58 Il manoscritto, conservato nel Fondo Aleramo, consta di 30 carte di formato 20x31, scritte da Sibilla Aleramo solo su recto, a inchiostro nero, e numerate dalla stessa in alto a destra, con cifre arabe comprese tra 1 e 30. Si tratta di una redazione dei primi due capitoli del romanzo profondamente diversa da quella del manoscritto conservato a Firenze e dal testo a stampa del 1906. Eccezion fatta per la seconda parte del capitolo I (cc. 7-15) dove minori sono le varianti, le cc. 1-7 del capitolo I e 16-30 del capitolo II contengono, con un andamento maggiormente diaristico, la narrazione di eventi, personaggi, ambienti che nel manoscritto fiorentino e nel testo a stampa appaiono concentrati in pochi cenni o, più spesso, drasticamente eliminati. 59 Il Nucleo generatore di Una donna è stato pubblicato in S. Aleramo, La donna e il femminismo. Scritti 1897-1910, a cura di B. Conti, Roma 1978, 184-186. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

cospicue varianti sintomo di una progressiva e costante messa a punto del romanzo fino alla sua pubblicazione nel 1906. Ebbene, paragonando la Prima redazione dei primi due capitoli di Una donna con la stesura definitiva, possiamo notare che le piccole variazioni formali che sono presenti in quest’ultima sono solitamente dirette verso una maggiore concisione volta ad eliminare la prolissità e i particolari minuziosi che spesso caratterizzano la prima redazione. Inoltre, si perde nella stesura finale, il carattere di frammenti di diario che l’uso del presente conferiva e ci si concentra sulla ‘prospettiva morale’ dell’opera, preoccupazione prevalente in Sibilla60. Inoltre, Anna Nozzoli, nel suo lavoro filologico sul romanzo61, intrecciando tutta una serie di documenti è riuscita a desumere l’arco cronologico entro il quale si situa tutta la vicenda. Si considera infatti uno scambio epistolare di Sibilla con Ersilia Majno62, dell’estate 1903, in cui si parla della prima redazione del romanzo ancora mancante della parte finale e data in lettura soltanto ad Ersilia, a Cena e alla sorella Jolanda; ancora, un gruppo di lettere dell’estate-autunno 1904, che indicano a quest’altezza cronologica, il componimento di una stesura successiva ritenuta al momento definitiva, se si considera che viene sottoposta anche al parere di amici letterati oltre che a Giuseppe Treves per la pubblicazione. Notizie sull’ulteriore proseguimento del lavoro negli anni successivi si hanno, invece, in due lettere scritte da Giovanni Cena a Mario Pilo, l’intellettuale socialista collaboratore della Nuova Antologia e di Critica Sociale, con cui egli intrattiene, tra il 1895 e il 1907, un intenso rapporto epistolare. Mentre la prima attesta il proseguimento dell’elaborazione del romanzo nella sua ultima redazione («La Rina ha finito finalmente di mettere la parola fine al suo ms. Ma io non ci credo. Faremo però il possibile affinché il suo libro esca in autunno. Ora bisogna trovare l’editore e la cosa è più difficile di quel che non credessi»63), l’altra consente di datare l’inizio della stampa del libro, che uscirà il 3 novembre 1906: «Roux ha accettato il libro di Rina, che uscirà in autunno»64. Il 3 novembre 1906, 13

viene pubblicato Una donna.

Ricreavo sulle pagine – si legge in riferimento all’avvio della prima stesura del romanzo – la mia infanzia, poi la mia fanciullezza, il tempo in cui mio padre era stato per me un esemplare umano, e quasi l’espressione della divinità […] credo che proseguissi, spinta da un comando interno, […] magari abbandonandomi a crisi di pianto pensando a mio figlio, poi risollevandomi col dirmi che scrivevo quelle pagine per lui […] perché egli sapesse un giorno. Fu soltanto più tardi, l’anno seguente […] ch’io […] diedi al mio libro, con lento sviluppo, un senso più ampio, il carattere di una missione trascendente la mia persona […] In una delle stanze avevo terminato la prima stesura del libro. E Cena […] m’aveva fatto opportune osservazioni, indicandomi ov’era necessario abbreviare e sviluppare, e insistito perché togliessi, nell’ultima parte, tutto quanto riguardava Felice. Perché risultasse senza equivoci che non per un uomo m’ero risolta al taglio della mia vita65.

Da queste parole di Sibilla emergono due questioni fondamentali; innanzitutto il ruolo portante che ebbe Cena sul romanzo – ricordiamo le note al tipografo – e poi il ‘caso Damiani’. Le due questioni si possono risolvere l’una nell’altra, in quanto l’intervento più profondo di Cena sul

60 R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit.,95-97. 61 A. Nozzoli, ‘L’elaborazione di Una donna: storia di un manoscritto’, in M. Zancan, Svelamento, op. cit. 29-30. 62 Il carteggio tra S. Aleramo ed E. Majno è conservato presso l’Archivio Majno, citato in A. Nozzoli, ‘L’elaborazione’, art. cit., 29. 63 Il carteggio tra Giovanni Cena e Mario Pilo è conservato presso la Biblioteca Civica di Mantova. A. Zavaroni, ‘Un intellettuale indipendente di fine secolo. Lettere di Giovanni Cena a Mario Pilo (1895-1907)’, Nuova Antologia, n. 34, 1980, 145-61. 64 Ibid., 159-160. 65 S. Aleramo, Un amore insolito, op. cit., 330-335. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

romanzo riguardò proprio l’eliminazione della liaison amorosa con Guglielmo Felice Damiani66. L’espunzione, avvenuta presumibilmente già al termine della prima redazione, in quanto il manoscritto fiorentino non ne porta traccia, è attribuita da Sibilla, al solo orgoglio maschile di Cena. «Era per amore che avevo ceduto, comprendo che Cena mi chiedeva quel sacrifizio non tanto per ragion d’arte quanto con orgoglio di maschio, perché non si sapesse che avevo amato un altro prima di lui»67. In realtà, come dice precedentemente, oltre a ciò, vi è una ragione che ruota solamente intorno al romanzo, oltre che intorno a Sibilla; considerando la responsabilità morale che sentiva l’Aleramo verso i lettori con il suo romanzo, eliminare un rapporto con un altro uomo dal racconto della sua storia, equivaleva ad eliminare anche solamente il sospetto che la ragione della scelta di abbandonare tutto per rivendicare sé stessa fosse attribuibile all’amore per un altro uomo diverso dal marito. Tuttavia, sembra che il caso Damiani non sia completamente chiuso dal momento in cui, elementi narrativi attinenti alla sfera dell’eros, della corporalità, della sessualità sono presenti anche nell’autografo fiorentino, e ruotano intorno alla figura del profeta’. Ma, anche in questo caso, intervenendo nel processo di stampa, Cena, indebolisce la valenza erotica che questa figura detiene nel romanzo.

Qualche giorno dopo, passando presso la sua abitazione, fui assalita dall’improvviso desiderio di sorprenderlo, là dove egli viveva la sua vita deserta, di dargli là il mio addio, poi che presto sarei partita. Salendo per l’oscura scaletta della vecchia umida casa ricordai una visione che m’era apparsa notti addietro; sulla soglia della sua stanza egli mi afferrava le mani, me le baciava, indi mi traeva a sé, vinto, felice… L’immagine sparve appena egli mi venne incontro. Imbruniva.

Una donna (BNCF), cc. 266-667. 14

Qualche giorno dopo, passando presso la sua abitazione, fui assalita dall’improvviso desiderio di sorprenderlo, là dove egli viveva la sua vita deserta, di dargli là il mio addio, poi che presto sarei partita. Salii in fretta l’oscura scala della vecchia umida casa. Imbruniva. Una donna, 1906, 237.

A questo punto, come ci fa notare anche la Nozzoli, anche a voler prestar fede a quanto Sibilla racconta sulle gelosie di Cena, che si tratti solamente di una censura del testo è chiaro, dal momento che il processo di depurazione continua ancora dal manoscritto alla stampa, dimostrando una caparbia volontà di purezza che è lecita, se non doverosa, dato il progressivo mutamento delle finalità assegnate al romanzo68. In realtà anche l’Aleramo, censura o comunque

66 Sibilla aveva conosciuto Damiani a Milano, nel periodo in cui dirigeva l’Italia Femminile, e nella rivista aveva allora ospitato varie poesie del giovane amico. Trasferito a Napoli, insegnante di lettere in un liceo, Damiani le aveva scritto numerose lettere, dove a infiammate sentenze sulla situazione politica e letteraria contemporanea, si alternavano confidenze più personali e tenere confessioni. In una lettera, datata 15 agosto 1901, le scrive che la sua era «una di quelle anime che sanno e insegnano la vita». Alla vigilia della sua partenza da Porto Civitanova, l’amicizia era sfociata in un rapporto sentimentale; Sibilla in una lettera a Cena datata 22 ottobre 1902, scriveva: «A quel giovane, che da lungi avevo idealizzato per dei mesi, avevo dato la più pura parte della mia anima…». Ma in realtà, i rari incontri avvenuti nei primi tempi del soggiorno romano, avevano risentito – come mette in luce la Guerricchio – della disastrosa condizione psicologica in cui versava Sibilla, causata ovviamente dall’abbandono del figlio ela «scintilla di calore prodotta dal breve contatto con Felice, non era stata sufficiente» (S. Aleramo, Dal mio diario, citata in Rita Guerricchio, op. cit., p.241). Un nuovo incontro con una persona indubbiamente più matura, aveva reso la relazione con Damiani quasi un prolungamento de passato, e dunque, come questo, da recidere. «Un uomo passa, non cercato […] e fa balenare una nuova ragione di vita alla mia anima» (Fondo Aleramo). L’uomo non cercato era indubbiamente Giovanni Cena. R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 72-74. 67 S. Aleramo, Un amore insolito Diario 1940-1944, a cura di Alba Morino, con una lettura di Lea Melandri, Feltrinelli, Milano, 1979, 330. 68 A. Nozzoli, ‘L’elaborazione’, art. cit., 32-33. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

corregge spesso la sua scrittura - avendo, come dicevo molto a cuore la prospettiva morale dell’opera - laddove è particolarmente evidente il linguaggio del corpo, la sessualità, anche quando si tratta della violenza maritale, in più di un’occasione:

ed ero in suo potere… Sprofondavo nel guanciale, tutta la testa, per non essere tocca, per non sentire più la sua voce cambiatesi in rantolo…E la rivolta e l’esasperazione di tutto il mio essere! Una donna (BNF), c. 274.

Ma alla notte erano tre mesi che quell’uomo non mi aveva, sentii l’impulso di un delitto…piansi come non avevo mai fatto ancora, liberatami dalle braccia dell’aguzzino! Poi, obliando mio figlio, obliando me stessa, credetti che un morbo serpeggiasse nel mio sangue, invocai la morte. Una donna (BNCF), c.301.

ed ero in suo potere… Sprofondavo nel guanciale il viso… Oh la rivolta e l’esasperazione di tutto il mio essere! Una donna, 1906, 246.

Ma alla notte stavo per coricarmi affranta, quando l’uomo entrò nella mia camera. Dopo una lotta atroce, sola nel buio, invocai la morte. ! Una donna, 1906, 269.

Dunque, un processo di purificazione dello scritto quasi come se Sibilla fosse una figura ideale che deve essere salvata, un’idea da estrarre, da manifestare, da imporre, da portare in salvo.

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Rita Guerricchio ha giustamente fatto notare come L’Aleramo, nei Diari, identifica costantemente Una donna come l’inizio di un processo di «trasfigurazione mistica di sé stessa» che percorre tutta la sua opera69. E in effetti, le soppressioni e i ritocchi apportati al testo definitivo sembrano confermare la volontà di creare un ‘mito’ di eroismo, martirio, ascesi e purezza; tutto ciò si scontra ovviamente con quell’immagine preesistente della donna, nata da una scrittura sicuramente più autobiografica e diaristica, quale quella delle prima prose, dei taccuini coevi, della prima redazione dei primi due capitoli del romanzo70. Inoltre, posta l’idea di creare un mito, possiamo notare che, la già rarefatta identità di tutti i personaggi diversi da ‘una donna’ dal manoscritto alla redazione finale, quasi si annulla nell’edizione del 1906, decurtata con interventi che tagliano ciò che restava di più dettagliate vicende esteriori o interiori. Possiamo ad esempio considerare un esempio nelle due versioni:

Non s’era coltivato in me il senso dell’armonia, benché il babbo fosse un discreto amatore di musica e la mamma avesse studiato con passione, da fanciulla, il piano. La mamma aveva, anche molto accentuato il gusto della poesia: diceva, talvolta, sorridendo timidamente, d’aver perfino scritto dei versi quando era fidanzata. Al contrario per mio padre poesia voleva dire artificio e nonsenso. Omero e Virgilio, Dante e Leopardi non venivano mai nominati da lui, non solo, ma non dovevano mai ricorrere al suo spirito, neanche per fuggevoli compiacenze di rapporti estetici e sentimentali: egli non poteva intendere il bello attraverso l’arte: voleva comunicato direttamente dalla natura il brivido d’attrazione per le forme divine. Nessuna pagina immortale era stata posta sotto a’ miei occhi durante la mia fanciullezza. Una donna (BNCF), c.158.

69 R. Guerricchio, ‘L’opera della vita: i Diari’, in Sibilla Aleramo. Coscienza e scrittura, a cura di F. Contorbia, L. Melandri, A. Morino, Atti del Convegno (Alessandria, 18-29 maggio 1984), Milano 1986, 68-77. 70 A. Nozzoli, ‘L’elaborazione’, art. cit., 34. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Non s’era coltivato in me il senso dell’armonia. Nessuna pagina immortale era stata posta sotto a’ miei occhi durante la mia fanciullezza. Una donna, 1906, 142

Come fa notare la Guerricchio, la dimensione memoriale, elude ogni tipo di descrittività minuta e accurata degli ambienti e dei personaggi, ma impone un rapporto eminentemente sentimentale con la realtà da descrivere, un totale soverchiamento affettivo sugli eventi e le emozioni narrate. I personaggi che non sono la protagonista, non hanno dunque un loro spazio autonomo di esistenza, vivono solo come riverberi della coscienza del personaggio principale. La protagonista si sovrappone ad essi anche nel momento in cui dovrebbe descrivere i loro sentimenti o le loro azioni; essi diventano realmente privi d’identità, non portano nome, ma compaiono solo come il ‘marito’, il ‘figlio’, il ‘dottore’, il ‘forestiero’, cioè solo secondo i connotati che offre loro il rapporto col personaggio principale71, tutti in funzione della costruzione ‘mitopoietica’ dell’autrice. Il romanzo alla sua uscita ebbe un grande successo, accolto con interesse, curiosità, attenzione nel bene o nel male e Una donna, entrò nel panorama letterario come un libro fondamentale per i temi trattati. A testimonianza di ciò, le numerosissime edizioni stampate da diverse case editrici – Sten, Treves, Bemporad, Feltrinelli, Mondadori - oltre che le altrettanto numerose ristampe, traduzioni, recensioni. Ed è proprio indirizzata ad Arnaldo Mondadori una lettera datata 5 agosto 1956, nella quale, alla soglia degli ottant’anni, Sibilla scrive:

Il 14 corrente io compio ottanta anni […] Se io fossi nata in qualunque altro paese, avrei in quest’occasione

onoranze nazionali. Perché sono un poeta, la sola donna poeta oggi nel paese, perché il mio primo libro Una 16 donna avrà a novembre cinquant’anni, perché i giovani si stupiscono che io mezzo secolo fa, scrivessi per i giovani d’oggi e per quelli che vivranno il secolo venturo […] Io ho dinanzi a me, il futuro, anche se voi non lo credete.

2.2 Struttura e trama del romanzo

Il romanzo, come scrive la stessa Aleramo, è ordinato «secondo un disegno di semplicità intensa», come si addice a un libro che vuole che «l’insegnamento sgorghi limpido per tutti»72. Ventidue capitoli, divisi in 3 nuclei essenziali, snodano gli eventi e le emozioni, secondo il già notato andamento cronologicamente ‘progressivo’, ma la divisione in 3 parti si rifà a tutt’altro criterio, ossia quello ‘emotivo’. La prima parte va dal capitolo primo al capitolo nono e presenta la descrizione dell’infanzia della ragazza con il trasferimento da Milano a Porto Civitanova dove il padre trova lavoro in una fabbrica; ciò che lega Sibilla al padre è un amore sconfinato, un rispetto profondo e un’idolatria che lo renderà sempre, per lei, un esempio da seguire, al punto che la giovane, molto intelligente e con una cultura forgiata proprio dall’educazione paterna, inizierà a lavorare con lui nella fabbrica. Fu proprio sul luogo di lavoro che Sibilla conosce un giovane ragazzo, Ulderico Pierangeli, un ragazzo che diventerà un personaggio fondamentale del romanzo ed un uomo altrettanto fondamentale per Sibilla. Il ragazzo imporrà a Sibilla una duplice violenza: mentale e fisica. Infatti, le svela i tradimenti del padre, che si dimostra essere diverso da quello che Sibilla credeva, e le farà violenza proprio sul luogo di lavoro. Frutto di tale brutalità sarà un bambino che non vedrà mai la luce, a causa di un aborto spontaneo, causato dai numerosi momenti traumatici che visse Sibilla - primo tra tutti il tentato suicidio della madre, la sua malattia psichica e lo

71 R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 89. 72 Lettera di S. Aleramo a E. Majno, 30 giugno, citata in P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 22. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

sgretolamento della sua famiglia - che lascerà un profondo dolore nella protagonista. Tuttavia, ormai l’onore di Sibilla, per la famiglia, era macchiato: non c’era altra soluzione che un matrimonio riparatore. Pochi anni dopo nascerà il suo primo figlio, Walter, l’unico raggio di luce in quegli anni bui della sua vita. Il rapporto con il marito, iniziato in modo ‘tumultuoso’ resterà sempre tale, anzi peggiorerà di giorno in giorno; la casa dove vivono per Sibilla diventa una prigione, unico svago da questa alienazione dal mondo esterno è un rapporto d’amicizia che la lega alla figura del dottore e un’attrazione, mai davvero concretizzata, verso un giovane conosciuto una sera che Sibilla e il marino si trovavano da amici. Inizia con lui un rapporto epistolare che verrà scoperto dal marito portando alle estreme conseguenze la gelosia e la possessività che Ulderico aveva sempre mostrato per Sibilla. Questa volta le userà una violenza come mai prima e in un modo così forte ed umiliante da indurla al suicidio. Termina così la prima parte della storia della giovane Rina, con un episodio che a posteriori, le sembra chiudere psicologicamente una fase ben precisa della sua esistenza, quella dell’infanzia prima e del disordine e del dolore precoce poi. La seconda parte del romanzo, che comprende dieci capitoli e risulta quella più riflessiva e analitica, si apre con il tentativo da parte del marito di recuperare il rapporto con la donna, resosi conto del grado di esasperazione che aveva raggiunto la giovane moglie per compiere un gesto del genere. In realtà fu molto labile la coscienza della frustrazione che gravava sulla vita di Sibilla, perché da questo momento inizia per lei un verso e proprio periodo di reclusione, accompagnato però, da una passione che le salverà la vita. Difatti, oltre al bimbo, svago dei suoi giorni, le sue giornate saranno all’insegna di letture e fogli bianchi, procurati dallo stesso marito, sul quale inizierà ad appuntare pensieri, riflessioni, intorno a quegli anni. La direzione della sua scrittura diventerà sempre più chiara grazie alle letture e agli studi sul movimento femminista inglese e scandinavo; infatti intorno a questi temi scriverà articoli che confluiranno poi in qualche rivista; 17

non smetterà di scrivere neanche quando, un giorno il marito, tornato da lavoro, dopo essere stato da lei informato sulle novità di questo movimento, dà fuoco a tutte le sue carte. Ma la svolta avviene quando, a seguito di una lite con il suocero, Ulderico e ovviamente Sibilla e il piccolo Walter si trasferiscono a Roma. Qui Sibilla entra in contatto con una realtà del tutto nuova per lei, arrivano dal mondo, per entrare direttamente nel suo di mondo e nel suo romanzo, parole nuove e ‘aspre’, quali, femminismo, emancipazionismo, lotta. Inizia per Sibilla il periodo femminista e socialmente impegnato. D’ora in avanti si susseguono gli avvenimenti necessari a questo preciso compimento, il lavoro in redazione, la pubblicazione su diversi giornali femminili e non, gli incontri con personaggi portatori di ideali. Finalmente il tempo per Sibilla ricomincia a scorrere con un senso, fin quando, questo periodo si conclude con il ritorno a Porto Civitanova – evento traumatico - ponendo fine ad un momento della sua vita che si configura come quello della maturazione, del primo incerto delinearsi, di una nuova coscienza di sé. La terza parte, asimmetrica poiché composta solo di tre capitoli, quasi a rendere sensibile il precipitare degli eventi, e delle riflessioni che poi scaturiranno nella decisione finale, mostra ancora le liti tra i coniugi e le violenze domestiche nei confronti di Sibilla. A seguito di tutto ciò Sibilla matura l’idea di lasciare il marito e andare via da Porto Civitanova, idea che si tramuterà in realtà grazie a due eventi altrettanto importanti: innanzitutto, la scoperta di una lettera scritta dalla madre, per mezzo della quale si rende conto che un giorno passato la donna si era trovata nella sua stessa situazione ma aveva deciso di sacrificare sé stessa per i figli; e una piccola somma di denaro che aveva ricevuto in eredità da uno zio. Così, Sibilla, lascia definitivamente suo marito e di conseguenza, con estremo dolore, anche suo figlio per rivendicare la propria identità di donna. Il romanzo si conclude con l’esposizione del vero intento di tutto il racconto: raggiungere il figlio attraverso la scrittura, giustificarsi dinanzi a lui e dinanzi a sé stessa per l’atto che aveva compiuto, Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

un modo se vogliamo, di compensare in questo modo, negli anni della sua giovinezza, la propria assenza nella sua infanzia73. Dunque, quella di Una donna è una partizione essenzialmente lirica, scandita dal ritmo della coscienza, piuttosto che dettata da esterne ragioni di economia narrativa. «Certo io non sono quella che si chiamerebbe ‘narratrice nata’. Sono irrimediabilmente lirica»74. Possiamo vedere come Sibilla, nelle immagini ripetute che dà di sé come scrittrice, si descrive con un motivo ricorrente che si conferma con il passare degli anni, un temperamento ‘irrimediabilmente lirico’, e la liricità è alla base delle tre dimensioni memoriali che sorreggono tutto il romanzo75; esse hanno come elementi generatori alcuni eventi, o meglio, la narrazione di alcuni eventi, in seguito - considerando la narrazione ‘retrospettiva’ - incorporati negli stati d’animo che hanno suscitato. In questo senso il romanzo ha una sua perfetta economia, un suo indiscutibile equilibrio; la sua è dunque, memoria di un’esperienza vissuta, filtrata e tradotta in scrittura. Ma, addentrandoci ancora di più nella struttura del romanzo, si nota come i capitoli, grazie anche alla macroscopica prevalenza dell’imperfetto76, tendano a suggerire l’idea di un flusso continuo, dove con estrema naturalezza ogni evento o riflessione ricade sempre nell’altro. In realtà, ad un ulteriore avvicinamento – come fa notare la Guerricchio – si nota come ogni capitolo risulti frazionato in una serie di sequenze, o meglio di ‘piani-sequenze’ giustapposte, ciascuno dei quali potrebbe agevolmente isolarsi dal contesto e conservare una sua virtù di sopravvivenza logica e formale, si parla perciò di ‘periodo legato’77. Sia che siano sequenze largamente descrittive di condizioni sentimentali o siano veri e propri squarci narrativi, esse costituiscono pur sempre degli intervalli indipendenti l’uno dall’altro78. Ciò non fa altro che confermare una struttura creata dall’autrice a priori, dove ogni singolo elemento è staccato dall’altro, rientrando però perfettamente in un contesto più ampio, logicamente e liricamente giustificato. 18

CAPITOLO 3 3.1 Il prototipo della professionista: la nascita di una scrittrice

[…] mi portò a casa un grosso fascicolo di carta bianca che guardai sentendo il rossore salirmi alla fronte […] mi trovai colla penna sospesa in cima alla prima pagina del quaderno. […] E scrissi, per un’ora, per due, non so. Le parole fluivano, gravi, quasi solenni: si delineava il mio momento psicologico; chiedevo al dolore se poteva diventare fecondo […] Seguì un intenso, strano periodo, durante il quale non vissi che di letture, di meditazioni e dell’amore di mio figlio79.

73 Per la trama ho fatto riferimento oltre che al romanzo, S. Aleramo, Una donna (ed. originale 1906), op. cit., con la prefazione di Anna Folli e la postfazione di Emilio Cecchi, anche a T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit.; R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit.; P.L. Cavalieri, Sibilla, op. cit.; M. Antes, “Amo”, op. cit.; Svelamento, op. cit.; A. Folli, Penne leggère. Neera, Ada Negri, Sibilla Aleramo. Scritture femminili italiane, fra Otto e Novecento, Milano 2000. 74 S. Aleramo, Diario, op. cit., 336. 75 M. Serri, ‘La poesia: specchio e autobiografia’, in Svelamento, op. cit., 60. 76 «Esiste però, anche se rintracciabile in pochi casi, un uso del presente che riesce ad intervenire nel gioco tra scrittrice e personaggio, dando luogo a scene rivissute come veri e propri flash backs, dove la durata cronologica del racconto subisce, per breve tempo, una sospensione […] Esiste allora un duplice piano di racconto che attraverso il contrappunto tra passato e presente, corrode l’abituale unico registro narrativo». R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 93. 77 Secondo la definizione usata dal Terracini riguardo alla prosa delle Novelle per un anno di Pirandello, con la quale la prosa di Una donna, come sottolinea la Guerricchio, sembra presentare alcune affinità, caratterizzata com’è, anch’essa da «un andamento prevalentemente ritmico, ora di tipo addirittura strofico» e a base spesso di «periodi lunghi, di carattere sintetico, spezzati in infiniti membretti, ma legati da un’unica tonalità». B. Terracini, Analisi stilistica, Milano 1966, 381 e 83-86. 78 R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 83-86. 79 S. Aleramo, Una donna, op. cit.,79-81. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Un grosso fascicolo di fogli ed una penna: è così che inizia il cammino per la liberazione di Rina, è così che avviene la nascita di Sibilla. Emblematico è il fatto che è lo stesso marito, che prendendo atto dell’esasperazione della donna - manifestatasi nella sua forma estrema con il tentato suicidio - le pone dinanzi dei fogli per scrivere; sempre, ovviamente, costringendola al suo stato di segregazione dal mondo - forse sperando che nella scrittura, così come nella lettura, la giovane Rina potesse trovare un appagamento tale da sottostare alla sua condizione di reclusa - vedendo in quei fogli uno sfogo alla sua mente e un’occupazione per le sue giornate. Ulderico Faccio, però, non aveva considerato che, quei fogli, l’avrebbero, invece, aperta ad una tale libertà da renderla ancora più insofferente alla sua prigionia. Dopo aver preso coscienza che la propria natura non corrisponde all’immagine della donna del modello patriarcale, Sibilla cerca di liberarsi dalle imposizioni della società maschile; e sia la letteratura che la scrittura giocano un ruolo importante in tale lotta per la liberazione. Inizia, per lei, un nuovo capitolo della sua vita. Dunque, per la giovane donna, scrivere comincia ad assumere un ruolo importantissimo nello sviluppo della coscienza di sé, il che viene anche percepito dal bambino, come nota Barbara Spackman80. Infatti, questo, quando vede che la mamma piange, la implora di scrivere rendendosi conto che l’atto della scrittura la fa sentire meglio. Questa scena sembra riconciliare la scrittura con la maternità, due concetti altrimenti opposti nella società ottocentesca, in quanto, la prima, che coincide con la ricerca dell’indipendenza, non si accorda con il fatto di essere una madre, secondo il modello tradizionale.

Mamma, mamma, non piangere; scrivi, mamma, scrivi…io sto buono; non piangere…! […] Scrivere? La 19 cara piccola anima intuiva anche questo, la necessità per me di tuffarmi come mai nel lavoro e nel sogno. Non era geloso, mio figlio, non era prepotentemente egoista nel suo affetto: pensava alla mia salvezza, ai bisogni per lui oscuri del mio essere complesso, non pretendeva di poter riempire lui solo tutta la mia vita81.

Scrivendo, Sibilla sviluppa delle riflessioni sulla condizione della donna che la portano a constatare come la donna stessa sia in parte responsabile della corruzione dei valori sociali perché troppo passiva.

E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? […] E come può diventare una donna, se i parenti la danno ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali […]?82

Il discorso personale si riallaccia inevitabilmente alla condizione femminile italiana. Sibilla si chiede come mai in Italia ci fosse una così forte mancanza di un nucleo che disciplinasse i tentativi e le affermazioni femministe. Difatti, ricordiamo che nell’Europa della prima metà del XIX secolo, l’azione per la liberazione delle donne emerge solo in modo sporadico, in momenti di crisi politica e sociale, al contrario, invece, negli Stati Uniti per esempio, erano già avvenuti tentativi più duraturi di organizzazione a livello internazionale83.

80 B. Spackman, ‘Puntini, Puntini, Puntini: Motherliness as Masquerade in Sibilla Aleramo’s Una donna’, Modern Language Notes, 124, n. 5, 2009, 210-223. 81 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 130-131. 82 Ibid., 85. 83 Storia delle donne. L’Ottocento, a cura di G. Duby – M. Perrot, Roma-Bari 1991, 492. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Ebbene, Sibilla arriva a comprendere, in pieno, che l’unica possibilità per il capovolgimento del sistema tradizionale risieda in un cambiamento del comportamento e della mentalità della donna stessa, che deve uscire dal ruolo passivo e cominciare ad agire. La scrittrice si rende conto che è arrivata l’ora di agire «lei per prima»,affinché innanzitutto cambi la sua vita, e poi quella di tutte le donne, di tutte le sue ‘sorelle’. Fondamentale per le sue riflessioni, fu un libro ricevuto dal padre, durante il periodo di segregazione, e che le apre nuovi orizzonti, oltre ad essere per lei una ‘causa di salvezza’. Nella realtà biografica si tratta dell’Europa giovane, un libro del sociologo Guglielmo Ferrero84, che aumentò l’interesse di Sibilla verso la condizione femminile, in particolar modo, la disuguaglianza sociale, economica e culturale che rappresentava i due sessi85. La stessa Rina, in data 6 settembre 1897, in una lettera alla maestra Tavola, esterna i suoi nuovi interessi derivanti dalle sue numerose letture:

[…] in questi ultimi tempi spinta viepiù dal desiderio d’infrangere una buona volta il dualismo del mio spirito, e vedere questi libero ed illuminato, ho letto e meditato vari libri, alcuni consigliatemi da lei, altri dalla fame recente dei giornali: Giacomo l’idealista del De Marchi – l’Europa Giovane di Guglielmo Ferrero – l’Incantesimo del Butti – da ultimo Sulla breccia della Giacomelli: ed ora ho qui dinanzi le Menzogne Convenzionali di Max Nordau86.

Tra tutti, come dicevo, l’opera fondamentale per la sua formazione, sua personale spinta all’emancipazione, fu, come la definisce la Guerricchio, quella sorta di Baedeker socio- antropologico, quale effettivamente era, l’Europa giovane di Ferrero. Difatti, il volume si presentava come un vasto resoconto di un viaggio compiuto e compilato, 87 «con fare spigliato e pittoresco d’un giornalista» , dal noto allievo e collaboratore di Cesare 20 Lombroso, in alcuni paesi dell’Europa settentrionale e orientale88. Tuttavia, questo testo era molto di più; vi si trovavano non solo notazioni di carattere storico e sociologico dei diversi popoli, ma anche, tentativi di spiegazione di tipo antropologico e razziale del carattere degli stessi. Rina però, come osserva Cavalieri, deve aver trovato uno speciale interesse nel capitolo intitolato «Il terzo sesso» e dedicato alle spinsters, le donne nubili che svolgevano un ruolo assai attivo nella società inglese di fine secolo. Vi si parla della filantropia esercitata dalle spinsters, dell’istruzione femminile, dei diritti politici delle donne. Ma quel che più conta è che l’autore vede nel loro affrancamento dal matrimonio, e dalla maternità una causa non di regresso, ma di avanzamento sociale, oltre che di conquista di potere da parte loro:

[…] nella società inglese […] la donna restata nubile non è condannata alla schiavitù sinchè la sua bellezza sia interamente sfiorita: essa può avere tutta la sua libertà, può guadagnarsi la vita, agire, viaggiare, godere il mondo e la vita in tutta la sua vastità. […] Perché contrarre il matrimonio? Il matrimonio significa l’alienazione, a profitto di un uomo, di mezza la propria libertà; il contratto è cattivo e molte donne rifiutano

84 Guglielmo Ferrero era un fedele collaboratore di Lombroso, di cui tra l’altro sposò la figlia, e a cui dedicò il volume a cui ci riferiamo. Fu autore, in realtà, di numerosi volumi, tra cui spiccano un trattato sulla donna delinquente e varie opere sulla storia romana. Gramsci lo poneva nella schiera dei ‘loriani’, ai quali riconosceva le stesse caratteristiche del maestro, il far parte cioè, come Achille Loria, «di quello strato di intellettuali positivisti che si occuparono di approfondire e rivedere e superare la filosofia della prassi». A. Gramsci, Gli intellettuali, Torino 1964, 162. Cfr. P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 196 e R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 31. 85 P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 192-193. 86 Cfr. minuta di lettera alla Tavola in 6 settembre 1897. 87 Come si legge in un articolo di apprezzamento del critico Renato Serra, Scritti, vol. II, Firenze 1958, 545. 88 R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 29-30. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

di firmarlo, poco curandosi dei piaceri a cui rinunciano; quelle che verso questi piaceri siano portate, possono tanto più variamente e liberamente soddisfarsi, restando libere89.

Questa descrizione delle scelte di vita compiute da un’élite di donne inglesi deve aver mostrato a Rina una possibile via d’uscita dal proprio matrimonio, visto, con le parole di Ferrero come ‘cattivo contratto’. A ben vedere tutta la riflessione della protagonista di Una donna sulla condizione femminile nel fondamentale capitolo XII – il capitolo della ‘presa di coscienza’ – nasce proprio dalla positiva reazione alla lettura di questo libro90. Lettura che verrà ricordata dalla stessa Sibilla, come un momento chiave della propria storia interiore, decisivo per l’orientamento dei propri interessi e i loro successivi sviluppi. Tuttavia, la Guerricchio nota come, od oggi, risulti difficile comprendere come possa essere stata attribuita tale importanza ad un libro che poneva al centro della propria indagine la ‘differente morale sessuale’, considerata quale assoluto fattore eziologico della superiorità della razza germanica su quella latina; tuttavia - continua la studiosa - è indubbio che poté costituire, comunque, una fonte di stimoli e di suggerimenti, validi almeno per un ampliarsi del proprio orizzonte intellettuale, utili ad una prima frequentazione di certi nomi e fenomeni sociali contemporanei91. A testimonianza dell’importanza di questo testo per la formazione di Sibilla, va detto che, anche successivamente vi fa riferimento, aldilà di Una donna. Difatti, in un articolo intitolato Visioni di pace, ricordando l’effetto di ‘diversione’ che la lettura del Ferrero aveva ottenuto rispetto ad altre riflessioni scrive: Raramente come in quei giorni e da quel libro, mi è venuta dalla lettura un senso di pace e di elevazione spirituale, insieme a profonda, intima gratitudine per lo scrittore che indirizzava la mente […] a sereni campi di investigazione, ad analisi alte e possenti92.

21 E, in Una donna, si domanda:

Forse, se invece di quel libro mi fosse capitato in quel punto un poema vibrante di paganesimo o un saggio di misticismo, il mio destino sarebbe stato diverso da quello che fu? Forse anche non avrei subito influenze di sorta ed io mi sarei affondata in un’atonia inguaribile. […] Quelle pagine rispondevano nella sostanza ad un ordine di idee che in me si svolgeva si dall’infanzia93.

Ma, indubbiamente importante per la sua conoscenza delle problematiche femminili, fu uno studio sull’emancipazione che Sibilla ci dice di aver letto, stimolo per importanti riflessioni che troveranno compimento sulla pagina scritta. Tutto sta preparando la giovane donna per la sua successiva scelta rivoluzionaria.

Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminile in Inghilterra e in Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con insistenza. Avevo provato subito una simpatia irresistibile per quelle creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte, sino a recidere in sé i più profondi istinti, l’amore, la maternità, la grazia. Quasi inavvertitamente il mio pensiero s’era giorno per giorno indugiato un istante di più su questa parola: emancipazione94.

89 G. Ferrero, L’Europagiovane. Studi e viaggi nei Paesi del Nord, Milano 1946, 341-342. 90 P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 192-193. 91 R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 30-31. 92 S. Aleramo, ‘Visioni di pace’, Presente e Avvenire, a. I, n. 5, 1 luglio 1898. 93 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 75. Cfr. P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 193 e R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 30-31. 94 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 86. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Inoltre, tra le poche persone che le era consentito vedere, c’era un «giovane ingegnere», un socialista, che successivamente sposerà la sorella di Rina, il quale la teneva informata «con esattezza del movimento che sollevava le masse lavoratrici di tutto il mondo – opponendole – alla classe cui appartenevo»95. Con l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, e il nuovo ruolo sociale che necessariamente affidava loro l’industrialismo, la questione aveva ricevuto un forte stimolo, facendosi più vistosi gli effetti che l’antico stato di disparità provocava nella condizione della donna lavoratrice, dedita alle stesse mansioni dell’uomo, ma sottoposta a un peggiore trattamento economico96. Dunque, la giovane scrittrice è sempre più interessata alle questioni sociali del suo tempo, e queste furono il soggetto, non soltanto di quello «scartafaccio – che – cresceva di mole», ma anche di numerosi articoli. Infatti, nel 1898 Rina riprende l’attività pubblicistica interrotta quattro anni prima, anche se, va detto che tra il 1892 e il 1894, aveva dato alle stampe solo otto ‘pezzi’, tra cui articoli e racconti d’appendice, usciti quasi tutti su periodici marchigiani. Ebbene, nel 1898 l’attività pubblicistica di Rina si fa intensa e l’adesione al femminismo sempre più decisa e lucida come, d’altronde la sua presa di coscienza sociale. Fu indotta dunque a «scrivere un articoletto e a mandarlo ad un giornale di Roma, che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo»97. L’articolo è quello che dà inizio alla collaborazione con la Gazzetta letteraria, sulla figura della moglie di Èmile Zola, esaltata per il coraggio con cui aveva affrontato il processo subito dallo scrittore98. Il tono vigoroso dell’articolo, in realtà, irrita qualche lettore, conducendo Rina a rispondere con una lettera che viene pubblicata il 5 marzo sotto il titolo di Femminismo99. Nel 1898, Rina pubblica diciotto articoli su giornali e riviste a diffusione nazionale, come la già citata Gazzetta nazionale e la Vita internazionale di Milano. Gli articoli, firmati Rina Pierangeli Faccio, trattano sempre argomenti di attualità, in cui l’autrice 22

cerca di individuare le cause della diffusa apatia e del pessimismo che regnano in Italia; oppure registrano ed incoraggiano la costituzione di circoli femminili; talvolta si tratta di recensioni di libri di pedagogia e psicologia o di romanzi. Quindi, la vita di Rina, seppur nella segregazione della sua casa, sembra essersi riempita con le parole, quelle che scriveva e quelle che leggeva, e ciò le dava speranza di un futuro migliore, o comunque diverso, soprattutto riguardo il suo rapporto con il marito, che non ostacolava questa sua passione, ma la incoraggiava. Tuttavia, ciò durò poco: difatti Sibilla narra che quando un giorno le raccontò tutta entusiasta di alcune novità circa il movimento, lui prese tutti i fogli, tutte le carte che Rina aveva tra le mani e sul tavolo e bruciò tutto sul camino. Per la giovane donna è un momento amaro, ma anche ulteriormente rivelatore della meschinità del marito.

95 Ibid., 84. 96 Inoltre, la traduzione italiana de La servitù delle donne di John Stuart Mill, uscita nel ’70, aveva contribuito a rinfocolare la polemica, come nota la Guerricchio, moltiplicando i dibattiti e gli interventi. Ma ancora, grande eco aveva suscitato il libro di Bebel, La donna e il socialismo, edito in traduzione italiana nel ’91. R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 34-35 97 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 84. 98 Articolo intitolato ‘Nobili figure femminili’, in Gazzetta Letteraria, 19 febbraio 1898. L’esordio sulla rivista è baldanzoso e il tono dell’articolo appassionato; come nota Cavalieri, l’autrice mette in contrasto la dignitosa e combattiva Madame Zola con le «centomila pupattole oggi pullulanti nel mondo civile: vane, capricciose, isteriche, falsamente sentimentali, boriosamente spirituali, scioccamente estetiche decadenti od accademiche […] troppo degenerate nel cuore, nella ragione e nei sensi per poter concepire solo uno slancio di coraggio, di abnegazione, di sacrificio…». Mentre riferendosi a Madame Zola, Rina scrive: «Io la trovo degna di una donna dell’avvenire, di una cioè di quelle fulgide visioni che il femminismo accarezza e sogna, nonostante i sogghigni increduli dei paurosi misoneisti». Cfr. P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 197. 99 Ibid., 198. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Tuttavia, Rina continua ad inviare articoli a varie riviste difendendo il movimento femminile dalle critiche e dalle interessate ironie maschili, continua imperterrita a scrivere, ormai consapevole di aver ritrovato il proprio senso critico «dopo una lunga paralisi»100, rappresentata dall’oppressione del matrimonio. Vuole riprendere lo sviluppo intellettuale che aveva avviato da giovane e per il quale prova una nostalgia profonda. «Vivere! Ormai lo volevo, non più solo per il mio figlio, ma per me, per tutti»101. Il desiderio di morire scompare completamente in Rina che finalmente trova uno scopo più grande, più elevato nella vita, attraverso la scrittura. La serie di articoli scritti dalla giovane autrice hanno un eco sempre maggiore fino a farle ottenere un impiego presso la rivista Mulier, che aveva sede a Roma, dove Rina di lì a poco si sarebbe trasferita, per decisione del marito. Questo trasferimento a Roma fu fondamentale per la donna, non soltanto perché le permise di uscire dall’ambiente chiuso e tradizionalista del paesino dove viveva, ma soprattutto per il nuovo lavoro presso la rivista - diretta da Alessandrina Ravizza e frequentata da donne aderenti al movimento femminista – che le offre l’opportunità di esprimere con costanza le sue idee femministe e di concentrarsi sulla sua carriera come scrittrice, ricevendo, al contempo, un compenso. Capiamo bene che, in questo periodo, a Roma, Sibilla integra sempre di più nella propria persona il prototipo della professionista. Come lei stessa ci dice, l’aspetto della rivista le piace perché negli articoli che vengono pubblicati sono rispecchiati tutti i suoi ideali, tutto ciò per cui si impegnava.

Lasciate che finalmente anche le donne dicano qualcosa di sé stesse. Gli uomini fanno dei panegirici o delle requisitorie. Gli uni, anche alti intelletti e anime profonde, hanno un astio involontario, perché la donna, oggi poco intelligente, non li cerca e non li ammira; gli altri pretendono conoscere la donna perché hanno fatto molte

esperienze e molte vittime. Costoro non hanno avuto il tempo di conoscerne anche una sola: conoscono come si 23 vincono i sentimenti di molte e come si può trarre da esse il maggiore piacere. Niente altro. […] In realtà la donna è una cosa che esiste solo nella fantasia degli uomini: ci sono delle donne, ecco tutto.[…] L’ideale della donna non lo troverete formato di tutto punto in questa rivista più che non lo troviate nella vita. Noi vogliamo soltanto aiutare a trarlo fuor dalle nuvole dell’utopia e metterlo innanzi alle donne d’oggi102.

Questi sono gli ideali professati dalla rivista, gli stessi professati da Rina, la quale desidera fortemente creare l’immagine di una donna con una propria identità, slegata dal ruolo tradizionale di sposa e madre, per essere semplicemente una donna. Tuttavia, sebbene le sue condizioni personali, siano migliorate, in quanto a Roma recupera in parte la propria libertà, avendo il permesso del marito di ricevere delle visite, di andare a lavoro e di intrattenere relazioni personali, comunque, Rina, ancora non rappresenta quel modello di donna. L’autorità del marito non diminuisce; innanzitutto, è irritato nel vedere affermarsi la possibilità della indipendenza della moglie, e poi «non riusciva a formarsi per suo conto un programma quotidiano e si volgeva astiosamente ad osservarmi, promettendosi certo di farmi sentire la propria autorità al primo accenno d'indipendenza»103. A Roma quindi, l’impiego presso la rivista Mulier consente a Sibilla, da un lato la possibilità di esprimere i propri pensieri ma, dall’altro lato, è ancora continuamente ridotta al silenzio dal marito. Né tantomeno «l’opera sparsa e faticosa che andavo compiendo»104 la confortava dalle intime disfatte. Dai suoi studi iniziò a spiegarsi il perché della mancanza in Italia di «un nucleo che

100 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 87. 101 Ibid., 86. 102 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 95. 103 Ibid., 115. 104 Ibid., 116. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

disciplinasse i tentativi e le affermazioni femministe», trovando risposta, nella mancanza di una solidarietà laica oltre che nell’ipocrisia dei politici. Rina critica aspramente il punto di vista del cattolicesimo, che vede la figura femminile, come devota alla famiglia e oggetto di sacrificio sotto il controllo del marito; ma la sua critica si estende anche ai «liberi pensatori di Montecitorio», infatti, secondo l’Aleramo i politici, pur proclamando a tratti segni di consenso al pensiero liberale femminista nei fatti poi, mandavano le proprie figlie in conventi retti da manche, negando loro la libertà tanto desiderata e propugnata da loro stessi.

“Femminismo!” […] “Organizzazioni di operaie, legislazione del lavoro, emancipazione legale, divorzio, voto amministrativo e politico… Tutto questo, sì, è un compito immenso, eppure non è che la superficie: bisogna riformare la coscienza dell’uomo, creare quella della donna”. […] “Agire! Questa è la vera propaganda”105.

Il pensiero nuovo e di totale rottura, di Sibilla, viene espresso in queste brevi parole. La concezione femminista non è per la scrittrice la semplice rivendicazione di quei diritti, che nell’ideale comune erano perseguiti dai movimenti femminili, ma soprattutto, sua intenzione è riformare la mentalità maschile e creare quella femminile. Questo è un concetto che ritorna negli scritti dell’Aleramo, a riprova che esprime le sue credenze più profonde, infatti anche in Andando e Stando, Sibilla parlerà di questa autonomia femminile non come raggiungimento ed emulazione del modo di fare maschile ma di un’autonomia propria ed unica della donna, scevra da ogni identificazione col mondo virile106. Possiamo notare come la coscienza di Sibilla è sempre più plasmata dai suoi ideali, tutti i suoi studi, tutte le sue esperienze, di questo periodo la porteranno verso la liberazione. Una di queste esperienze per Rina fondamentali, fu la visione di una rappresentazione teatrale, 24 ossia, la Casa di bambola di Henrik Ibsen.

Una sera a teatro la vecchia attrice, nel suo palco, aveva avvertito due lagrime brillarmi negli occhi. Non avevo mai pianto per finzione d’arte. Sulla scena una povera bambola di sangue e di nervi si rendeva ragione della propria inconsistenza, e si proponeva di diventar una creatura umana, partendosene dal marito e dai figli, per cui la sua presenza non era che un gioco e un diletto. […] Ero più che mai persuasa che spetta alla donna di rivendicare sé stessa, ch’ella sola può rivelar l’essenza vera della propria psiche, composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche, anche di dignità umana!107

La rappresentazione della vita di Nora, prende talmente tanto Rina, da indurla ad un forte pianto liberatorio. Quanto si sentiva simile a Nora, simile a quella «bambola di sangue e nervi», che si rendeva conto della sua inconsistenza e che cercava una via di fuga dalla vita becera che faceva nel suo matrimonio. Sibilla era fortemente attratta da quella concezione di rivendicare sé stessa, la propria identità di donna, la propria dignità umana108. E si rivedrà interamente nelle parole di Nora al marito, verso il finale dell’opera; parole rivoluzionarie:

Io devo essere affidata unicamente a me stessa, se voglio poter dar conto di me stessa e di chi m’è intorno. Perciò non posso restare più oltre presso di te. […] Prima di tutto credo […] ch’io sia un essere umano, come te, né più né meno, o, infine, voglio procurare di diventarlo. […] Ma io non posso più contentarmi di ciò che dice la maggioranza e di ciò che è scritto ne’ libri. Devo riflettere da me stessa su certe cose e rendermele pienamente chiare109.

105 Ibid., 116. 106 T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 52-53. 107 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 118. 108 T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 54-55 109 H. Ibsen, Casa di bambola. Dramma in tre atti, trad. italiana di P. Galletti, Milano 1906, 104-105. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Certamente, il dramma ibseniano giungeva a Rina, ormai coronato da tempo, di un gran successo; ma un successo fatto di scandalo, di polemiche e discussioni intorno a queste parole, che spesso avevano finito con il falsarne il vero significato. Tuttavia, per Rina, le parole di questa donna, le sue più nascoste volontà, non dovettero essere nuove; anzi, in esse trovavano naturale e piena rispondenza le sue idee sulla donna110. Tuttavia, come osserva la Guerricchio, tra Nora e Rina vi è una differenza che può essere rintracciata nel fatto che Nora rivendicava un libero esame individuale per voler rintracciare la propria dimensione perduta attraverso ogni abitudine; Sibilla deve solo mantenersi fedele a un’identità già incontrata dentro di sé, cui va data ora possibilità di durata, libertà di articolazione111. E il figlio risulta solo, come affermava Ibsen, uno dei «sacrifizi umani che chiedono gli ideali»112. La Nora di Ibsen dà a Rina, il coraggio, la forza d’azione: «Se avessi ignorato il verbo dell’accigliato trageda nordico […] io forse non avrei lasciata la casa coniugale e mio figlio…»113. Senza quella voce ‘ottocentesca’, probabilmente, l’Aleramo, non sarebbe divenuta quella che fu e quella che è per noi oggi. Per questo motivo lo studioso Gargiulo, in un articolo del 1907, osservava che «nella bibbia del femminismo al posto della genesi, accanto a Casa di bambola di Ibsen, dovesse ormai trovar posto Una donna dell’Aleramo»114. La stessa Sibilla, qualche anno più tardi, dirà, riguardo Ibsen:

L’ultimo grande poeta – nell’antico senso profetico – che è passato sulla terra […] egli immaginò il dramma della donna che si riconosce un giorno differente dal compagno, con una sensibilità propria, con una logica propria, e dice: «io non so chi di noi due abbia maggior ragione, ma so che la tua verità non è la mia, ed ora

che lo so non posso più seguirti; ciascuno faccia la propria vita». In quella Casa di bambola, […] io vedo 25

ancora, come quindici anni sono, il preludio simbolico dell’immane sforzo che le donne, le quali vogliono vivere una vita loro, sono e saranno destinate a compiere. Sforzo di ricerca di se medesima, lungi da tutto ciò che esse hanno amato e in cui hanno creduto: tragicamente autonome115.

Parole che intersecano le più profonde intenzioni di Sibilla, e cioè di lasciare il focolare domestico, suo marito e purtroppo suo figlio, per pensare a se stessa, così come Nora; andar via per scoprire il mondo, non solo quello raccontato nei libri, ma la vita vera e diventare Una Donna116. Dunque, quello di Nora, come osserva la Mariani, fu un testo amato e rivissuto non solo dalle attrici ma anche e soprattutto dalle emancipazioniste. Nora che lasciava la casa maritale e i figli, per tornare ad essere un individuo con una vita propria, non era infatti solo un personaggio teatrale riuscito, ma esprimeva, dunque, la vicenda reale o desiderata di tante donne ribelli o scontente, tanto che servì a definire un nuovo tipo femminile, il ‘tipo-Nora’, appunto non madre, non prostituta, ma solo donna117. Sibilla, attraverso l’esempio di quella bambola, applica la costante di Ibsen, ossia la fedeltà alla vita e l’obbedienza di ciascuno alla propria legge, diventando il ‘tipo-Nora’118.

110 R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 60. 111 Ibid., 67. 112 Cfr. G.B. SHAW, La quintessenza dell’ibsenismo, Milano 1928, p. 182. 113 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 14 114 A. Gargiulo, ‘Una donna’, in II giornale d'Italia, 10 maggio 190. 115 S. Aleramo, Andando, op. cit., 84. 116 T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 55. 117L. Mariani, ‘Eleonora Duse e Sibilla Aleramo: un teatro per la "donna nuova"’, in Svelamento, op. cit., 208. 118 R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 67. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Purtroppo però il soggiorno romano per Rina e suo marito, stava giungendo a termine, infatti, la situazione in fabbrica non era delle migliori e il signor Faccio a causa delle continue ritorsioni dei movimenti socialisti era stato costretto a lasciare il suo ruolo, facendo inevitabilmente il nome di suo genero per la successione al comando, il quale, ovviamente accettò, essendo quella la sua aspirazione sin dal suo primo incontro con la giovane figlia del proprietario della fabbrica. Il ritorno a Civitanova era dunque inevitabile, quei luoghi l’avevano salutata quasi confidandole la profezia che un giorno si sarebbero rivisti, e così fu. Questo fu traumatico per Rina, perché la tanto desiderata e quasi conquistata libertà le stava, ancora una volta, sfuggendo dalle mani.

Tutto il mio essere insorgeva come se un mostruoso pericolo lo minacciasse: reclamava la vita, la libertà. […] Ecco brutalmente, mi si chiudeva la via dell’avvenire, mi si riconduceva nel deserto119. Tuttavia, lo spaccato di vita romano aveva cambiato troppe cose, aveva lasciato nel suo corpo e nella sua anima, profonde trasformazioni, che plasmarono la sua mente, che le diedero una consapevolezza di sé, tale che, anche se costretta, non sarebbe potuta più tornare indietro.

3.2 Il Nucleo Generatore di Una donna

Il ritorno alla vita consueta a Porto Civitanova, che Sibilla aveva creduto l’anno precedente di essersi lasciata alle spalle per sempre, è reso sopportabile solo dalle sue intense letture, oltre che dalla redazione degli articoli che continua a pubblicare su diversi periodici, soprattutto lombardi e piemontesi, questo perché, solo queste occupazioni le conservavano una parvenza di quella libertà e di quella indipendenza avuta nel periodo romano120.

Ma, il ritorno della protagonista è reso ancora più drammatico dalla scoperta che il marito ha 26 contratto una malattia di origine sospetta, confermando i dubbi di Rina sull’infedeltà dell’uomo. Seguirono vari momenti tra i due, fatti di violenze, di accuse, di rivendicazioni, di continui rimandi agli eventi del passato che avevano segnato il loro matrimonio, fino alla minaccia più grande, che seguì la proposta di Rina di una separazione amichevole, di strappare il figlio alla madre. Un dolore forte pervade l’animo della donna; sarebbe riuscita a pagare un così alto prezzo per la sua libertà? Rina era ben consapevole - ancora di più dopo il periodo romano – che il matrimonio aveva rappresentato una fase di stallo intellettuale per lei, sopprimendo tutte le sue aspettative, annientando la sua personalità121. Era arrivato il momento di staccarsi da una vita che non era più la sua, era arrivato il momento di liberarsi dalla morsa del passato e di quelle scelte che le avevano fatto vivere una vita non sua, con ogni conseguenza, anche la più drammatica122. Per la prima volta, Sibilla, arrivando a tali considerazioni, sente interamente la sua «indipendenza morale, mentre a Roma, avevo sempre conservato, in fondo, qualche scrupolo nell’affermarmi libera, sciolta d’ogni obbligo verso colui al quale la legge mi legava»123. Finalmente la donna si sentiva libera da ogni condizionamento e dal legame legale che la teneva unita forzatamente a quell’uomo; un’affermazione questa che nega qualsiasi rapporto che andasse oltre l’obbligo contrattuale del matrimonio, senza amore, senza affetto.

119 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 121. 120 Da un taccuino del 7 febbraio 1901 sappiamo che sta leggendo le lettere di Tolstoj e i due volumi del Journal di Henri Frédéric Amiel, ricevuti in dono dall’amica Stefania Omboni. Altre sue letture sono i Saggi di Ralph Waldo Emerson e le Opere di Louise-Victorine Ackemann. Nell’estate del 1901 Sibilla legge per intero, per la prima volta, la Divina Commedia. Cfr. A. Folli, Penne, op. cit., 2014 e P.L. Cavalieri, Sibilla Aleramo, op. cit., 212. 121 M. Antes, “Amo”, op. cit., 41. 122 T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 56. 123 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 138. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

La trasformazione attuata tempo prima e completata nel periodo romano l’avevano profondamente cambiata, ora guardando al passato, con riluttanza ed incredulità, si domandava come aveva potuto sottomettersi alla violenza di un uomo che avrebbe solo voluto prendere il posto di suo padre, usandola per quello scopo e mai amandola, e quanto, ora, sentiva lontana ed incomprensibile la donna tranquilla che era stata124. La studiosa Alba Morino, in un suo intervento sull’Aleramo, osserva come dalla sofferenza, che nasce nel raggiungere la consapevolezza della propria coscienza femminile, si matura il diritto di sé. A sua volta il diritto di sé di una donna deve lottare, anche e soprattutto, contro un malinteso senso della maternità vissuta come annullamento della propria individualità. A questo punto, per rivendicare e affermare la propria individualità è indispensabile un incessante Combattimento, che nasce dalla necessità di difendere giorno per giorno la propria conquistata consapevolezza. Un combattimento, sì, contro gli altri, ma anche contro la propria debolezza, la propria depressione, l’eccessiva tensione morale di chi deve ogni giorno contendere con il reale. Ma, un’altra forza su cui contare – continua la Morino – è quella dell’Istinto di sé, l’istinto di sopravvivenza, che tiene conto dei bisogni del corpo e che tenta disperatamente di trasformare le perdite in guadagni e di approdare a territori di sicurezza. Fra i tanti possibili, la scrittura, come traccia di sé, liberazione, combattimento solitario contro se stessi, arma per difendere, attaccare, pensare, mezzo per parlare con gli altri, ma anche con se stessi, protezione costante125. Tutto questo è la scrittura anche per Rina, infatti, dopo una notte insonne, la donna elabora una serie di riflessioni, che più tardi, considererà il ‘nucleo generatore di Una donna’, ma che sono anche la giustificazione morale della scelta, che avrebbe presto compiuto, di lasciare il figlio oltre che il marito126. In queste poche pagine Rina sostiene che poiché tutti gli esseri umani sono ingrati verso chi li ha generati, essi tendono ad elaborare nei confronti dei figli un’etica della dedizione assoluta e del 27

sacrificio, quasi per prevenirne l’ingratitudine.

Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. È una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non aver compensato adeguatamente l’olocausto della persona diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri, rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio di dignità?127

È chiaro per Sibilla che questa catena del sacrificio, che lega le generazioni, deve essere necessariamente spezzata, poiché essa perpetua le «sofferenze inaudite, violando l’essenza della vita e della natura». Unica norma del vivere, dovrebbe essere che ognuno «viva per maggior sua espansione, non intralciando altrui ma nemmeno ad altrui sottomettendosi». In nessun altro brano come in questo si comprende il senso del titolo del romanzo: una donna è colei che rivendica la dignità di vivere rifiutando l’etica imposta, o autoimposta, del sacrificio della sua persona.

Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo ad essere noi stessi. […] Quando il figlio saprà che la madre non ha rinunciato per lui alla sua parte di sole, di

124 T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 59-60. 125 A. Morino, ‘Attraverso una scrittrice’, Svelamento, op. cit., 92. 126 A. Folli, ‘Prefazione’ a S. Aleramo, Una donna, op. cit., XV. 127 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 144-145. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

amore, di lavoro, di lotta, che ha rispettato in se stessa i diritti umani, sarà a sua volta essere intrepido nella conquista del bene, a sua volta non troncherà la sua vita miseramente, per un’astratta quanto falsa concezione del dovere dei genitori verso i generati128.

Dunque, il ‘nucleo generatore di Una Donna’, è formato da tre elementi consequenziali, che ritornano con movimento ciclico: l’ingratitudine, la colpa e il sacrificio. Bisognava spezzare la catena e venirne fuori. «Avevo formulato la mia legge»129, scrive Sibilla, una legge nata a seguito di un evento fondamentale - che vede ancora una volta protagonista la madre «che guida il destino della figlia, in modo simmetrico al suo»130 - ossia la scoperta di una lettera che le fermò il respiro. Infatti, nei cassetti della casa d’infanzia, Rina trovò vecchi carteggi appartenuti a sua madre; ma tra tutte quelle lettere una saltò ai suoi occhi e alla sua attenzione: era stata scritta a Milano, e sua madre annunciava al marito che sarebbe andata via da quella casa lasciando lui e i bambini ai quali aveva già detto addio, perché resasi conto ormai, che lui non l’amava più e questo la rendeva incapace, non solo nel suo ruolo di moglie, ma anche di madre, non riuscendo più ad amare, come avrebbe dovuto, i suoi bambini. Questa lettera non fu mai spedita, la madre Ernesta non ebbe il coraggio, non ebbe quella forza che Rina non nascose mai che era assente nella madre. Non si sa se questa lettera sia mai esistita, considerando che non ci è pervenuta, o se sia soltanto un’invenzione narrativa nata per dare un’ulteriore spinta, oltre che un’ulteriore giustificazione alla scelta di fuggire, che di lì a poco la donna avrebbe compiuto, certo è, che in tutto il romanzo la protagonista costruisce la sua identità, in negativo, su quella della madre, agendo però come la madre non ha saputo agire, e diventando quello che la madre non ha saputo essere131. Sibilla si domanda perché la madre non avesse messo in atto le sue intenzioni più profonde, e riesce a trovare una risposta solo pensando al timore della madre di sentirsi un giorno dire «Ci hai 28

abbandonati!».

Non avevo mai sospettato che mia madre si fosse trovata in una simile situazione. […] Avessi potuto sorprenderla in quella notte, sentire, dalla sua bocca, la domanda: “Che devo fare figlia mia?” e rispondere anche a nome dei fratelli: “Va’, mamma, va’!” Sì, questo le avrei risposto; le avrei detto: “Ubbidisci al comando della tua coscienza, rispetta sopra tutto la tua dignità, madre: sii forte, resisti lontana, nella vita, lavorando, lottando. […] Ahimè! Eravamo noi, suoi figli, noi inconsci che l’avevamo lasciata impazzire132.

«Va’, mamma, va’»: queste stesse parole Rina vorrebbe sentirle dal figlio Walter, ma non può, è ancora troppo piccolo; allora, se non può essere lui quella spinta, sarà lei stessa, o meglio la piccola Rina, quella stessa che se solo avesse saputo la situazione della madre, avrebbe pronunciato quelle parole, comprendendo che partire era la scelta migliore. Dunque, scrive l’Aleramo: «La buona madre, non deve essere come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana»133. In questa frase, viene riassunto il nucleo centrale e fondante dell’ideologia dell’autrice, il fil rouge di tutta la trattazione. Un pensiero strettamente femminista, una rivendicazione di autonomia e libertà, che distingue la figura di madre-moglie da quella di donna, che esce fuori dalle convenzioni sociali che vogliono la figura femminile incanalata in uno stereotipo dove è vista come soggetto di sacrificio e di dedizione, annullando ogni pretesa egoistica di rivendicazione

128 Ibid. 129 Ibid., 145. 130 F. Angelini, ‘Un nome e una donna’, in Svelamento, op. cit., 68. 131 Cfr. T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 60-61; P.L. Cavalieri, Sibilla, op. cit., 215; M. Antes, “Amo”, op. cit., 42-43. 132 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 144. 133 Ibid. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

personale e di essere umano134. Una donna è e deve essere considerata, dalla società e da sé stessa, semplicemente come un essere umano. Per giorni Rina meditò su quella lettera scritta dalla madre e sul suo contenuto e nel mentre, nitide ritornavano le immagini di Roma, dei suoi amici, del suo lavoro, della libertà tanto a lungo agognata e in parte conquistata in quel periodo, fino a che non poté fare altro che formulare ‘la sua legge’: «Partire, partire per sempre!»135. La donna, sotto consenso del marito, nella realtà narrativa, si allontana, prima, per un breve periodo, da Civitanova per andare a far visita a suo fratello a Milano136. Nella realtà biografica, invece, Sibilla raggiunge Felice Damiani, a Napoli, dove viveva in quel periodo per poi trascorrere qualche giorno con lui a Castellammare di Stabia, da ciò che emerge dalle ricerche condotte da Pier Luigi Cavalieri137. Innanzitutto va detto che un’annotazione a matita sul taccuino dell’autrice, datata 7 febbraio 1901, riferisce che il 15 gennaio Rina aveva scritto la sua prima lettera a Guglielmo Felice Damiani, «una di quelle anime che sanno ed insegnano la vita»138: il giovane poeta conosciuto a Milano - che corrisponde alla città di Roma nel romanzo - e mai dimenticato. Seguì tra i due, un intenso carteggio seguito da qualche breve incontro, come quello a Napoli. Ora, nel corso del 1901, Rina va maturando la decisione di lasciare la casa coniugale e di allontanarsi per sempre da Porto Civitanova, quindi sorge spontaneo domandarsi quanto influì in questa decisione l’amore per Damiani, tra l’altro taciuto nel romanzo, per volontà di Cena, proprio per evitare che sorgesse nei lettori e nella critica questa domanda, oscurando le reali e più profonde motivazioni della partenza. In realtà, la risposta della scrittrice si trova in un brano del Passaggio, dove Sibilla ci dice che «non è per amore d’un altro uomo ch’io mi liberavo: ma io amavo un altro uomo»139. Tornata a Porto Civitanova, Rina era ormai decisa a prendere esempio dagli errori della madre e a 29

partire, lasciando il marito, e al contempo, sacrificando il figlio. Inizia così, a farsi sentire con tutta la sua forza, quella lotta intestina tra due emozioni totalmente opposte: la voglia di libertà e l’amore materno140. È ormai chiara e consapevole la scissione del proprio essere donna e madre, due realtà distinte e separate. Allontanarsi da suo figlio e dunque dal suo essere madre, pur di non provare ribrezzo per sé stessa come donna; ecco cosa fece Rina.

Scoccarono le tre. Balzai in piedi. Mi misi il mantello e m’appressai all’uscio. Poi tornai al letticciuolo, svegliai il bimbo: “Vado”, gli dissi piano, “è già l’ora; sii buono, sii buono, voglimi bene, io sarò sempre la tua mamma…” e lo baciai senza poter versare una lacrima, vacillando; e ascoltai la vocina sonnolenta che diceva: “Si, sempre bene…Manda il nonno a prendermi, mamma…Star con te…” . Si voltò verso il muro

134 T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 25. 135 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 157. 136 Come fa notare la Pugliese, ancora una volta ritroviamo il ritorno allo stadio infantile. La città della sua fanciullezza e quindi del suo periodo felice e roseo l’accoglieva, ancora una volta, anche in quel periodo, invece, delicato della sua vita. Quanto importanti siano stati i luoghi per Sibilla e quanto da essi, e dalla gente di quei posti, sia stata influenzata emerge da tutto il romanzo; Milano sarà sempre il ritorno ad un passato felice, Roma il luogo della libertà, Porto Civitanova l’oppressione di una vita chiusa e misera. Ogni posto, ogni luogo rappresenta per lei uno stimolo diverso. T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 63. 137 P.L. Cavalieri, Sibilla, op. cit., 215. 138 S. Aleramo, Lettera in data 15 agosto 1901, citata in R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 72. 139 S. Aleramo, Il passaggio, op. cit., 44. 140 Come fa notare la Pugliese, quest’attacco all’istituzione familiare è, d’altronde, espresso da altre protagoniste letterarie contemporanee a Rina tra cui ricordiamo Emma Bovary di Flaubert, che riduce il ruolo dell’essere una buona madre nel generare un figlio maschio, rifiutando il suo essere donna o il suo poter essere la madre di una donna; Anna Karenina di Tolstoj, che scegli di abbandonare suo marito e suo figlio per inseguire la passione e l’amore per un nobile seduttore dal quale avrà un’altra figlia. T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 64. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

tranquillo. Allora sentii che non sarei tornata, sentii che una forza fuori di me mi reggeva, e che andavo incontro al destino nuovo e che tutto il dolore che mi attendeva non avrebbe superato quel dolore141.

Un dolore intenso e il desiderio di ritornare indietro dal piccolo, sono i sentimenti che accompagnano questo distacco, ma tutto ciò è il prezzo da pagare per riappropriarsi della propria vita e Rina ne è ben consapevole. Tuttavia, l’abbandono di Walter sarà una ferita che non guarirà mai nella vita di Sibilla, nonostante la consapevolezza che era l’unica cosa da fare e questa stessa consapevolezza l’autrice vuole che sia del figlio, ecco perché affida le ultime battute di Una Donna, ad un messaggio rivolto proprio al figlio Walter, che racchiude la vera motivazione per cui venne alla luce questo ‘racconto’ di vita.

L’ultimo spasimo di questa mia vita sarà stato quello di scrivere queste pagine. Per lui. Per mio figlio, mio figlio! […] Mio figlio mi dimenticherà o mi odierà. Mi odii, ma non mi dimentichi. […] Un giorno avrà vent’anni. Partirà, allora, alla ventura, a cercare sua madre? […] O forse io non sarò più … non potrò più raccontargli la mia vita, la storia della mia anima…e dirgli che l’ho atteso per tanto tempo! Ed è per questo che scrissi. Le mie parole lo raggiungeranno142.

Rimanere nella memoria di suo figlio, raccontare un passato secondo il suo punto di vista, lasciare una traccia del loro rapporto, indissolubile, nonostante non aveva potuto avere un seguito, questo sembra essere il vero intento di Sibilla con Una donna. E la sua giustificazione per il loro mancato rapporto, è racchiusa proprio nel racconto del travagliato matrimonio e nella presa di coscienza di sé stessa. Sibilla smetteva di essere madre di suo figlio per essere madre del nuovo pensiero

femminista, madrina della ‘donna nuova’. 30

Il riavvicinamento tra madre e figlio avverrà dopo trent’anni e a far sì che i due si incontrassero di nuovo fu Elide, moglie del dottor Walter Pierangeli143. Ma a proposito di questo incontro l’autrice racconta:

Mio figlio mi pensa, stamane. Gli ho scritto qualche rigo, giorni fa. Tristezza irreparabile del nostro rapporto, dappoi che ci siamo rivisti dopo i trent’anni d’intervallo e invano abbiamo provato a sentire come una realtà il fatto ch’io sono sua madre e che lui è mio figlio144. Da questo incontro emerge solo un senso di profonda amarezza, un’incomunicabilità di fondo tra i due, creata probabilmente dai troppi silenzi, nonostante il legame di sangue. Purtroppo per Sibilla, il figlio Walter, unico vero destinatario dell’opera dunque, divenuto adulto, non comprenderà la scelta rivoluzionaria della madre ma la condannerà a lungo. Non comprenderà l’estremo sacrificio, fatto dalla donna, nel lasciarlo, pur di spezzare quella terribile catena fatta da anelli di ingratitudine, colpa e sacrificio. Tuttavia, considerando proprio che, il romanzo è dedicato al figlio, per giustificarsi davanti ai suoi occhi dell’abbandono, Barbara Spackman osserva che questa dedica è ancora una volta una sorta di sacrificio, Sibilla non ha spezzato del tutto la catena, poiché non ha scritto per sé stessa, ma per il figlio. La donna, desidera di poter decidere della propria sorte, crede anche di averlo fatto, ma in realtà, alla fine, non ci riesce e lascia ancora che il figlio influisca sulle sue azioni, proseguendo così nel sacrificio145.

141 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 164-165. 142 Ibid. 143 B. Conti – A. Morino, Sibilla Aleramo, op. cit., 254. 144 S. Aleramo, Un amore insolito, op. cit., 57. 145 B. Spackman, ‘Puntini’, art. cit., 210. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

In realtà, a mio avviso - proprio in virtù del fatto che, dopo tanti anni, la scrittrice dia alla luce la storia della sua prima vita, dedicandola al figlio - il romanzo non si conclude con l’abbandono di quest’ultimo, ma con l’abbandono della prima vita della donna, con la separazione da Rina per la nascita di Sibilla, una donna nuova. Sì, Sibilla abbandona materialmente il figlio Walter, ma la sua anima non lo lascerò mai, a lui lascerà tutta sé stessa anche partendo, così come, nonostante lo lasci con il padre, lei lo porterà sempre nella sua anima, ovunque andrà per tutto il tempo della sua vita, e anche oltre, avendolo reso immortale nella letteratura. D’altronde scrive l’Aleramo: «Ma egli è mio. Egli è mio, deve somigliarmi! Strapparlo, stringerlo, chiuderlo in me!... E sparire io, perché fosse tutto per me!»146. La scelta rivoluzionaria di Sibilla, intorno alla quale ruota il ‘Nucleo generatore di Una Donna’, suscitò considerevoli reazioni di appoggio e di opposizione che meritano, anzi necessitano di essere analizzate, per la portata che il gesto compiuto da questa donna ha avuto nella società. Tra coloro che si opposero ci furono non soltanto le antifemministe, tra cui Neera, Sofia Bisi Albini ed altre, ma anche alcune tra le rappresentanti del femminismo laico, ricordiamo in particolar modo Mariani ed Ersilia Majno; tutte difendevano l’importanza della maternità rispetto alla rivendicazione personale. Tuttavia, al contempo, ci furono anche molte reazioni d’appoggio da parte della critica, tra cui ricordiamo soprattutto l’opinione di Graf e Pirandello, i quali si trovavano d’accordo nel pensare che la scelta di Sibilla di partire, fosse indispensabile; tuttavia, le rimproveravano il non aver portato con lei il figlio. Certamente, gli sarebbe stato comunque tolto, data la legge del tempo, ma almeno avrebbe fatto fino alla fine il suo dovere di madre; Walter, non sarebbe restato con la madre a causa di un atto di crudeltà, derivante dall’applicazione della legge, che glielo avrebbe ‘strappato’, non a causa dell’abbandono dalla madre stessa. Sarebbe certamente stata una soluzione, per così dire, di comodo per Rina, in quanto sarebbe, sì, partita rivendicando la propria libertà - e questo lo doveva a sé stessa e al contempo a tutte le sue 31

‘sorelle’ - ma avrebbe evitato di incorrere nel giudizio negativo, non soltanto della società, ma innanzitutto di suo figlio. Tuttavia, ritengo che il motivo per cui Sibilla, non si sia comportata così nella realtà storica, e non abbia voluto neanche mentire per dare una soluzione più ‘teatrale’, alla realtà narrativa, sia da rintracciare, in un ulteriore estremo sacrificio verso il figlio stesso. Agire per suo comodo, le avrebbe risparmiato tante critiche, ma avrebbe fatto soffrire doppiamente il piccolo Walter, strattonato da una parte all’altra, vittima ancor di più di quanto già non fosse, di una separazione turbolenta. Ecco che, come estremo sacrificio di madre - forse rivelando una verità troppo avanti per i tempi, ossia che rivendicare il proprio essere donna, non significava necessariamente rinunciare al proprio essere madre – Sibilla preferisce, che si pensi che Walter sia stato abbandonato e non strappatole via da qualcun altro. Sibilla preferisce, il dissenso della società oltre che di suo figlio, pur di risparmiargli, per quanto potesse, un po’ di dolore. Ebbene, alla luce di tutto ciò, appare chiaro perché Sibilla, ad oggi, è considerata con il suo primo romanzo l’iniziatrice di un importante filone letterario novecentesco, qual è la prima letteratura femminista, infatti, come ha affermato Maria Corti, Una Donna è stato la «sua dichiarazione di guerra» contro un’idea della donna retrograda e sbagliata, contro una cultura maschilista e patriarcale che ha imposto alla donna dei prototipi nei quali rispecchiarsi annientando la propria identità; una guerra contro tutto ciò che è oppressione, ponendosi, di contro, con la sua storia, come modello di innovazione, ispirazione e fonte di coraggio per tutte le donne del suo secolo, e di tutte le generazioni successive.

3.3 Le reazioni della critica verso Una donna

146 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 165. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Alla sua uscita, nel 1906, Una Donna, venne accolto con interesse, curiosità, attenzione. Fu un vero e proprio successo in Italia, come testimoniato dalle numerose edizioni, per non parlare delle altrettanto numerose ristampe, ma anche oltr’alpe, dove, nel 1908, appena due anni dopo l’edizione italiana, comparve la traduzione francese, a cura di Pierre-Paul Plan, nel 1909 la traduzione tedesca, con prefazione di Georg Brandés, e quella inglese, a cui seguirono, prima l’edizione russa poi quella polacca e svedese147. Se nello scrivere il romanzo, fra i propositi di Sibilla, ci fu quello di incidere in qualche misura, positivamente o negativamente, sulla coscienza dei lettori, non si può certo dire che i risultati conseguiti fossero inferiori alle sue aspettative. Difatti, la critica si divise, non ci furono solamente le molte opinioni positive al romanzo, ma anche altrettante critiche negative, che ruotarono tutte intorno alla soluzione finale, vero idolo polemico di tutte le recensioni, e motivo principale, forse, del successo immediato conseguito da Una donna. Tuttavia, per rendere più chiara e comprensibile, la complessa storia critica del romanzo dell’Aleramo, passeremo in rassegna prima quella che fu la fortuna critica di Una donna, per poi passare a quelle polemiche, della più diversa provenienza, intorno al nucleo generatore del romanzo. Gargiulo, Panzini, Bontempelli, Ojetti, Graf, Pirandello, e tanti altri ne scrissero con entusiasmo, anzi, secondo uno studio condotto da Adriana Chemello, sul rapporto di Sibilla con la critica, le date che scandiscono la fortuna critica del romanzo sono il 1906, proprio per le interessanti segnalazioni di questi critici e il 1950, quando il libro viene riproposto da Feltrinelli con una presentazione di Emilio Cecchi, seguito poi dall’edizione del 1973, prefatta da Maria Antonietta Macciocchi e dalla più recente, del 1982 con la rilettura di Maria Corti148. Ma proprio, a proposito di Emilio Cecchi, egli nella sua Postfazione alla 54esima edizione del 32

testo, osserva come, i numerosi ed appassionati apprezzamenti che seguirono la pubblicazione del romanzo, dimostrano tutti la sua forza d’impatto, la sua azione rivoluzionaria, in tutti i sensi149; da Gargiulo che affermò, come abbiamo già detto, che l’Aleramo «poteva vantarsi di aver fatto a vantaggio del sesso più di quanto avevano fatto e andavano facendo tutte le femministe del mondo prese insieme»; al Panzini che asseriva come «quel non so che di voluttuoso, di melato, di sospiroso che abbonda negli scritti delle donne, qui non appare»150; al Bontempelli che ne scriveva come di un libro «profondamente, compiutamente sano»151; all’Ojetti, che lo definiva «sincero, crudele, modernissimo»152; fino a Graf e a Pirandello, di cui l’uno, aveva notato come Una Donna «più che di un romanzo, ha il carattere di un giornale intimo, di un giornale a cui sia stata data posteriormente la continuità e la pienezza che da prima non ebbe»153, e l’altro metteva in luce la «misura e la potenza» di un «dramma così grave e profondo nella sua semplicità»154. Ma, un’attenzione particolare meritano questi due intellettuali perché, mostrarono una grande oggettività critica nell’andare ad esaminare il nucleo ideologico del romanzo, ovvero, la soluzione finale della battaglia intestina di Rina che vede l’abbandono del figlio. Graf fu il primo e più accurato recensore di Una donna, il quale, dopo aver dato un giudizio estetico sull’opera, soffermandosi sugli aspetti strutturali e sulla loro combinazione, e dopo aver

147 R. Guerricchio, Storia di Sibilla, op. cit., 100. 148 A. Chemello, ‘Lo specchio opaco. Sibilla nella critica del suo tempo’, in Svelamento, op. cit., 247. 149 E. Cecchi, ‘Postfazione’in S. Aleramo, Una donna, op. cit., 168. 150 A. Panzini, ‘Una donna’, La perseveranza, 26 novembre 1906. 151 M. Bontempelli, ‘Una donna’, Il Grido del Popolo, 29 dicembre 1907. 152 U. Ojetti, ‘Una donna’, Il Corriere della Sera, 14 dicembre 1906. 153 A. Graf, ‘Una donna’, Nuova Antologia, a. 41, n. 840, 16 dicembre 1906. 154 L. Pirandello, ‘Una donna’, La Gazzetta del Popolo, 26 aprile 1907. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

notato la portata rivoluzionaria della stessa, fece un appunto fondamentale riguardo la discussa decisione di Sibilla:

Siccome io credo che il primo fra tutti i doveri sia il dovere verso se stesso, così, in un certo senso, a questa soluzione non ho nulla da obiettare; ma ciò non vuol dire che tutto quanto la nostra donna dice e fa mi paja giustificato abbastanza: giustificato abbastanza, intendiamoci bene, sotto l’aspetto della verisimiglianza psicologica e di quella che fu detta morale letteraria. […] Forse mi inganno, ma pare a me che data quella condizione di cose, e data quella donna, e quella madre non ci fosse se non una soluzione interamente plausibile: la fuga di lei insieme con il bambino. Dopo, la giustizia o l’ingiustizia degli uomini, avrebbe fatto, o tentato di fare, ciò che le fosse piaciuto: questo non apparteneva più, veramente alla storia155.

Una critica di tal genere viene mossa anche da Pirandello, il quale, aveva recensito Una Donna nella Gazzetta del Popolo di Torino del 27 dicembre 1906. Egli muove all’Aleramo l’accusa di un eccesso di verità e di rinuncia ad una soluzione ‘teatrale’ che certamente avrebbe aggiunto forza al racconto; infatti Pirandello scrive:

Ma io avrei voluto che a questo punto Sibilla Aleramo avesse aggiunto qualche cosa alla verità dei fatti avvenuti, un’ultima scena, che non solo avrebbe chiuso più artisticamente il romanzo, ma sarebbe stata di somma efficacia per il suo segreto intendimento morale e sociale. Come che la protagonista non partisse sola; che il figlio le fosse realmente strappato, perché potesse serbare la memoria d’una violenza non commessa da lei, fuggendo, ma dalla legge iniqua156.

Vediamo come i punti di vista dei due intellettuali siano molto simili tra loro e facilmente 33 condivisibili, in quanto, è chiaro che, se Sibilla, avesse agito in questo modo, e quindi fosse partita portando con sé il figlio, nella consapevolezza che comunque le sarebbe stato tolto, avrebbe scelto -come abbiamo già detto - la soluzione ‘di comodo’.

3.4 Il rapporto con Virginia Woolf Per un testo così importante del femminismo italiano qual è Una Donna, mi sembra imprescindibile fare riferimento alla colonna portante del femminismo inglese, ossia Virginia Woolf, prendendo in esame, in particolar modo, il saggio A room of One’s Own. Questo perché, in queste due opere, sebbene la diversità di struttura, e di trama, si possono osservare delle analogie di pensiero molto forti, che dimostrano come Sibilla anticipi la Woolf in molte delle sue riflessioni, nonostante comunque le due donne vivano in due contesti socialmente e culturalmente diversi e in continua evoluzione, soprattutto per mezzo di un avvenimento drammatico, avvenuto in questo arco di tempo, che ebbe un impatto considerevole sui rapporti sociali, vale a dire la prima guerra mondiale157.

155 A. Graf, ‘Una donna’, art. cit. 156 L. Pirandello, ‘Una donna’, art. cit. 157 Durante la prima guerra mondiale il rapporto tra i sessi subì importanti cambiamenti, in quanto le donne dovettero sostituire gli uomini nelle loro più svariate occupazioni, e di conseguenza, la coscienza femminile aumentò ponendo le basi per una rivendicazione della propria persona. Mentre, prima della guerra, quindi nel periodo della Aleramo - stiamo parlando comunque di fine Ottocento – era molto difficile assumere un impiego maschile cosicché le occupazioni femminili e maschili restarono strettamente separate, con differenze salariali molto alte, che non davano un’indipendenza alla donna. Dopo la Grande Guerra, nasce la necessità di pagare le donne che hanno bisogno di denaro innanzitutto per poter portare avanti le loro famiglie. Tutto questo è alla base di un primo mutamento dei ruoli di genere e delle relazioni tra gli uomini e le donne. A tal riguardo, vd.: A. Buttafuoco, ‘Vite esemplari’, art. cit.,139-148. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Inoltre, va detto che, come la Aleramo, Virginia riconosce che il prototipo della madre - così come viene concepita dal patriarcato - non si possa armonizzare con quello della professionista. Non è un caso infatti, che decida di non avere figli, convinta che la maternità non sia conciliabile con una carriera letteraria. Di conseguenza, capiamo bene che anche Virginia rifiuta il prototipo della sposa tradizionale per incarnare il prototipo della donna indipendente e autonoma. Ebbene, in un tal contesto, dove le cose in qualche modo stavano cambiando, anche nella condizione femminile, Virginia Woolf, scrisse un testo riconosciuto come punto di riferimento storico nello sviluppo del pensiero delle donne sulle donne, che può essere racchiuso in un’affermazione della scrittrice: «Una donna deve avere denaro e una stanza tutta per sé se vuole scrivere romanzi»158. Da questo credo della Woolf emergono i due elementi che prenderò in analisi nella mia tesi per comparare il pensiero di quest’ultima con quello dell’Aleramo, ossia la questione economica e quella socio-culturale. Per quanto riguarda la questione economica, sappiamo che questo è sempre stato un grande problema nella vita di Rina e nella vita delle donne in quel periodo, in quanto esse o non venivano retribuite o venivano retribuite in misura minore rispetto all’uomo, ma in ogni caso, non possedevano un’indipendenza economica, perché, stando al codice Pisanelli del 1895, in quel periodo, vigeva l’istituto dell’ ‘autorizzazione maritale’, in virtù del quale, i beni della moglie venivano gestiti dal marito, mentre la moglie di fatto doveva richiedere l’autorizzazione dello stesso per usufruire in qualsiasi modo di tali beni. Alla luce di questa realtà, capiamo bene che, nonostante Rina avesse già maturato coscienza di sé con la sua conseguente scelta rivoluzionaria, a lungo dovette attendere prima di metterla in pratica, perché non aveva la possibilità economica per farlo. La svolta, che a mio avviso è uno degli aspetti più importanti del processo di ‘emancipazione’ di Rina, viene da un’eredità di venticinquemila lire, che la donna riceve alla morte 34

dello zio; infatti, riguardo l’avvenimento Sibilla scrisse: «Io acquistavo l’indipendenza materiale: quella somma, poca cosa certo, sarebbe stata sufficiente però ad assicurare il sostentamento di mio figlio quand’io dovessi col lavoro provvedere a me stessa»159. Dunque, grazie a una piccola somma di denaro, che sfugge dalle mani del marito, Sibilla può materialmente divenire una donna indipendente. Nel saggio, apparso nel 1929, quindi più di vent’anni dopo l’uscita di Una Donna, la Woolf, ribadiva tale concetto. Essa riconosceva come fattore principale della mancanza di una emancipazione femminile, oltre che l’atteggiamento di passiva obbedienza delle donne stesse di fronte alla loro posizione subordinata e l’oppressione del patriarcato, la sua povertà, la mancanza di una sua indipendenza economica che le impediva letteralmente di poter sostentare sé stessa. Dunque, in Una stanza tutta per sé, la Woolf non solo rileva la discrepanza tra la prosperità e la sicurezza del sesso maschile e la povertà e l’insicurezza del sesso femminile, ma ne rintraccia anche la causa, una causa di cui Rina, così come la maggior parte delle donne del tempo, poteva essere testimonianza reale. La libertà quindi, secondo la Woolf è raggiungibile dalla donna, solo a patto che questa venga retribuita del suo lavoro, un lavoro che per altro, citando l’Aleramo, «aiuterà a cementare la dignità umana della donna, a darle il senso del proprio valore materiale, a sorreggerla nelle bufere morali»160. L’altra grande questione fondamentale trattata dalla Woolf, e rintracciabile in Sibilla, come anticipato, è la questione socio-culturale. La Woolf riteneva che ogni donna che desiderasse scrivere romanzi dovesse avere una stanza tutta per sé, per poter sviluppare le proprie capacità letterarie e poter esprimere liberamente la

158 V. Woolf, Una stanza tutta per sé, traduzione a cura di M.A. Saracino, Milano 2016, 4. 159 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 154. 160 Cfr. R. Pierangeli Faccio, ‘L’Evoluzione della donna nel secolo XIX’, La vita internazionale, a. IV, n. 11, 5 giugno 1901. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

propria individualità. Ora, Rina, effettivamente, disponeva di una stanza, nella quale passava tutte le sue giornate sola con il bambino e un fascicolo di carta bianco, ma è pur vero che in quella stanza vi era stata segregata dal marito, dunque, nonostante la messa a disposizione di uno spazio di libertà tutto per sé, la giovane scrittrice era ugualmente prigioniera, prigioniera del marito, prigioniera della mentalità del tempo, prigioniera della società patriarcale; di qui la necessità, di cui ho ampiamente parlato, di liberarsi da quel luogo e da quella situazione di segregazione per poter liberamente sviluppare se stessa e le proprie capacità intellettive, diventando ciò che voleva essere, ciò che era nata per essere: una scrittrice. La stanza deve essere intesa, dunque, come un luogo metaforico di libertà nel caso specifico per le donne scrittrici. Ma una volta raggiunto questo grado di indipendenza, nasce conseguentemente una questione culturale da affrontare con una serie di domande a cui dare una risposta: come devono scrivere queste nuove donne-scrittrici? Quale deve essere il rapporto della loro scrittura con quella degli uomini? Esiste un linguaggio tipicamente femminile? Innanzitutto, contrapponendo questa nuova forma di letteratura, qual è quella femminile, a quella tradizionale, possiamo notare il grande sforzo fatto da queste ‘donne nuove’, le quali nell’avvicinarsi al foglio bianco, provarono, quasi indubbiamente, una sensazione quasi di disagio nei confronti dell’espressione linguistica; sensazione provocata probabilmente, dal peso troppo grande della competizione con la scrittura maschile e dal bisogno di dimostrare le proprie capacità all’uomo stesso, o anche, semplicemente da una mancanza di modelli da seguire e ai quali rivolgersi161. Ebbene - per quanto distanti, se si guardano le loro storie personali ed intellettuali, come sottolineato in un suo saggio da Lea Meandri162 - Sibilla e Virginia, nel dare una risposta a queste domande, vengono a trovarsi inaspettatamente vicine, quando si confrontano i termini con cui hanno inteso indicare quella specie di rigenerazione di sé che ha luogo nella 35

creatività artistica. Ad unirle è soprattutto la consapevolezza dell’«insignificanza storica delle donne» e il rischio di un’emancipazione mai totale in quanto intesa solo come assimilazione all’uomo, al suo linguaggio e ai suoi modi 163. Entrambe danno l’impressione di credere che solo creando una letteratura femminile, con tradizione, archetipi e simbologie proprie, potrà nascere un movimento femminista senza complessi d’inferiorità nei confronti dell’uomo. In questo senso, è interessante leggere le considerazioni delle due scrittrici su questo tema, notando la distanza tra le loro posizioni e alcune pretese di «abolizione delle differenze» di certi movimenti femministi attuali. Già in Una Donna, l’Aleramo scrisse:

E mi indignavo vedendo piovere in redazione libri mediocri firmati da donne, vere parodie di libri maschili più in voga […]. Come mai tutte quelle ‘intellettuali’, non comprendevano che la donna non può giustificare il suo intervento nel campo già troppo folto della letteratura e dell’arte, se non con opere che portino fortemente la sua propria impronta?164

Queste stesse considerazioni verranno espresse dalla scrittrice, più tardi in opere successive, in modo ancora più deciso, come in Andando e Stando e in modo particolare nell’Apologia dello Spirito femminile.

Nei libri di donne manca proprio la personalità femminile, l’impronta tutta speciale che dovrebbe differenziarli, legittimarli. La donna, ch’è diversa dall’uomo, in arte lo copia. Lo copia anziché

161 T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 85. 162 L. Melandri, ‘Scrittura e immagine di sé: la "mente androgina" in Virgina Woolf e il tema dell' "estasi" negli scritti di Sibilla Aleramo’, in Svelamento, op. cit., 79-80. 163 Ibid. 164 S. Aleramo, Una donna, op. cit., 104. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

cercare in se stessa la propria visione della vita e le proprie leggi estetiche. E ciò avviene inconsapevolmente, perché la donna non si è resa ancora chiaro conto di sé stessa, non si distingue ancora ella stessa dall’uomo. […] Così invece che accordare alla vita e all’arte la sua identica anima è entrata nell’azione come un misero, inutile duplicato dell’uomo. […] E a costo di ripetermi, io dico che la causa non sta in una sua organica incapacità, ma nel fatto che ella non ha ancora liberato la propria essenza, non ha ancora trovato una sua autentica forma di espressione. Non si tratta, d’intende di creare un linguaggio speciale per la psiche femminile: il linguaggio umano è uno, dalle sue remote origini sotto tutte le latitudini ormai lo sappiamo. Ma forse le segreti leggi del ritmo hanno un sesso. Se siamo persuasi di una profonda differenziazione spirituale fra l’uomo e la donna dobbiamo persuaderci ch’esse implica una profonda diversità espressiva; che un autoctono modo di sentire e di pensare ha necessariamente uno stile proprio, e nessun altro; e sia pur barbaro, al principio. Il mondo femmineo dell’intuizione, questo più rapido contatto dello spirito umano con l’universale, se la donna perverrà a renderlo, sarà certo, con movenze nuove, con scatti, con brividi, con pause, con trapassi, con vortici sconosciuti alla poesia maschile…165

Vediamo come da queste parole di Sibilla emerga la piena convinzione della necessità di un’affermazione linguistica personale per le donne, una convinzione che si scaglia in qualche modo, contro tutto un certo ‘femminismo’ smanioso di raggiungere il maschio copiandone usi e costumi, anziché definire, mediante l’arte, un’identità ‘femminile’ più cosciente, più consapevole e più forte. D’altro canto, con la sua stessa vita di scrittrice, l’Aleramo dimostrò sempre questa sua credenza, confrontandosi con gli uomini, ma esprimendo un punto di vista femminile o meglio personale, aldilà del sesso, e quando non poteva farlo sentiva di tradire se stessa e tutto il percorso d’evoluzione, di emancipazione, compiuto, con non poca fatica, sacrifici e

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dolore.

Gli uomini ai quali parlo non sanno, quando mi dicono con leale stupore che hanno l’impressione di discorrere con me da pari a pari, non sanno come echeggi penosa in fondo al mio spirito quella pur così lusinghevole dichiarazione, a quale insolubile dramma essa mi richiami. Per conquistare questa necessaria stima dei miei fratelli, io ho dovuto adattare la mia intelligenza alla loro, con sforzo di decenni: capire l’uomo, imparare il suo linguaggio, è stato allontanarmi da me stessa… Io non sono soddisfatta di questo modo di esprimermi a cui sono pervenuta e che a voi si confà. In realtà io non mi esprimo, non mi traduco neppure: rifletto la vostra rappresentazione del mondo, aprioristicamente ammessa, poi compresa per virtù d’analisi; ma non vi so l’immagine delle cose qual è nel mio profondo […] la trascuro anche se non la capisco; per estrarla occorrerebbe che voi faceste lo stesso sforzo d’attenzione e d’abnegazione che io ho usato con voi166.

Dunque, Sibilla, nel condannare la mancanza di una personalità femminile nei testi delle ‘donne nuove’, che cercano di emulare gli uomini semplicemente per essere ben accette e comprese da loro – categoria in cui purtroppo si rende conto di cadere talvolta - rivendica una scrittura che le differenzi da loro. A questo punto vediamo il pensiero della Woolf a riguardo, la quale nel saggio preso in esame – Una stanza tutta per sé – scrisse:

Sarebbe un grandissimo peccato se le donne scrivessero allo stesso modo degli uomini, o vivessero come gli uomini, o assumessero l’aspetto degli uomini, perché se due sessi sono insufficienti, considerate la

165 S. Aleramo, ‘Apologia dello spirito femminile’, in S. Aleramo, Andando e stando, op. cit., 60-63. 166 S. Aleramo, Andando e stando, op. cit., 128. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

vastità e varietà del mondo, come potremmo cavarcela con uno solo? Non dovrebbe forse l’educazione far emergere le differenze invece delle somiglianze167?

Ma ancora ribadisce, in un altro punto del saggio:

E poiché il romanzo ha una corrispondenza con la vita reale, i suoi valori sono in parte gli stessi della vita reale. Ma è ovvio che i valori delle donne molto spesso sono diversi dai valori stabiliti dall’altro sesso; è naturale che sia così. […] Perché se siamo donne pensiamo a ritroso attraverso le nostre madri. È inutile andare in cerca di aiuto dai grandi scrittori, per quanto si vada da loro con piacere. […] Il peso, il ritmo, l’andatura della mente maschile sono troppo diverse dalle sue perché possa ricavarne con succo qualcosa che abbia sostanza. La scimmia è troppo lontana per essere diligente168.

Notiamo come, anche nella Woolf, sia presente l’opposizione ad una certa letteratura femminile, di omologazione, che cerca i propri modelli negli uomini piuttosto che maturare una propria personalità letteraria; ovviamente questa riflessione della scrittrice può facilmente essere estesa anche alla questione sociale, politica e di costume. Il motivo, però, per cui questo accade, può essere ricavato da una stessa osservazione della scrittrice. Infatti, secondo la Woolf, l’ ‘atto creativo’ – visto da lei come ‘purificazione’ - dovrebbe comportare la perdita di un retroterra emotivo, sociale, culturale, ma soprattutto sessuale; la scrittura dovrebbe essere un atto della coscienza che si lascia andare completamente a se stessa, alla propria esternazione. Questo rappresenterebbe la base per la maturazione di una piena libertà d’espressione, aldilà del sesso, ma ciò non avveniva per molte scrittrici, perché

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nella donna, secondo Virginia, vi sono degli ‘istinti contraddittori’, ‘ostili a questo stato d’animo’ di ‘purificazione’; tali istinti la portano a riconoscersi in base al sesso e conseguentemente alla condizione di subordinazione imposta dalla cultura169. Dunque, la studiosa Melandri, a questo punto, osserva come la Woolf, sentisse fortemente la necessità per la donna di accentuare le proprie differenze dall’uomo piuttosto che metterne in rilievo le somiglianze, attraverso la scrittura, capace di dare vita a «vite oscure ancora da registrare», «oggetti seppelliti»170 nel mutismo che aspettano di essere portati alla luce171. Dunque, entrambe le autrici pongono con le loro affermazioni le basi per un nuovo femminismo, un femminismo che si scaglia contro ogni retorica dell’omologazione e dell’inferiorità di un sesso rispetto all’altro. Quella iniziata dall’Aleramo, e sviluppata successivamente dalla Woolf è dunque una nuova generazione di donne-scrittrici, con un proprio modo di scrivere, da un punto di vista strutturale, contenutistico, e di linguaggio, che rispecchiava le esigenze e le condizioni delle donne stesse. Per quanto riguarda innanzitutto la struttura degli scritti femminili, si trattò inizialmente di generi dominati dalla logica del frammento, quali epistolari, diari e autobiografie172. Questo perché si trattava di generi, in primo luogo non molto utilizzati dal mondo maschile, e poi legati ad un tipo di linguaggio intimo e personale, in cui le donne potevano esprimere liberamente sé stesse tramite la scrittura; da qui la nascita di un linguaggio

167 V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., 28. 168 Ibid. 169 Ibid., 255; cfr. L. Melandri, ‘Scrittura e immagine di sé’, art. cit., 79. 170 V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op. cit., 234. 171 L. Melandri, ‘Scrittura e immagine di sé’, art. cit., 79. 172 A riguardo, vd. R. Guerricchio, ‘Il romanzo epistolare o l'epistolario romantico di Sibilla Aleramo’, in Svelamento, op. cit., 46-50. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

tipicamente femminile, costituito da flussi di pensieri, considerazioni personali, prese di coscienza, con un gergo da cui emergeva la dolcezza e la fermezza d’animo di queste ‘donne nuove’, che potevano, finalmente, attraverso la propria scrittura, esprimersi e confrontarsi con il mondo esterno. Difatti, da un punto di vista contenutistico, gli scritti delle nuove scrittrici ruotavano, per la maggior parte, intorno a quei temi tanto amati e affrontati da Sibilla, così come dalla Woolf, quali: la rivendicazione della propria autonomia, dei propri diritti di donna, della possibilità di avere un lavoro e con esso un’indipendenza economica, ma ancora la pretesa di poter accedere al mondo della cultura, di leggere, di scrivere, di poter porre fine legalmente ad un matrimonio ormai privo d’amore, di poter agire liberamente seguendo il proprio essere senza nessun tipo di costrizione sociale e così via. Un’attenzione particolare merita il romanzo, che in quanto genere ‘giovane’ era svincolato da modelli letterari maschili, prestandosi come i generi già citati, alle esigenze della ‘donna nuova’, per una libera espressione della sua creatività e del suo vero essere 173. Alla luce di ciò, appare chiaro perché Sibilla, ad oggi, è considerata con il suo primo romanzo l’iniziatrice di un importante filone letterario novecentesco, qual è la prima letteratura femminista, anzi a tal proposito è interessante notare come il Novecento si apra proprio con la pubblicazione – nel 1906 – del romanzo ‘pseudo-autobiografico’ dell’Aleramo Una donna, che Maria Corti ha definito la «sua dichiarazione di guerra»174; una guerra ad un’idea della donna retrograda e sbagliata, ad una cultura maschilista e patriar cale che ha imposto alla donna dei prototipi nei quali rispecchiarsi annientando la propria identità, una guerra contro tutto ciò che è oppressione 175. Ebbene Sibilla, con la sua testimonianza letteraria, contribuì alla nascita di una nuova epoca, di una nuova donna e di un nuovo modo di pensare e di esprimersi, che si sviluppò sempre maggiormente nel tempo e nello spazio, basti pensare anche al proseguimento di questa 38

evoluzione avuto con Virginia. Ormai, le donne sentono come acquisito - e non vogliono assolutamente tornare indietro - il progresso individuale e soggettivo, cioè l’accettazione da parte dell’opinione pubblica della normalità dello scrivere femminile e della scelta della letteratura come professione e come status sociale176. La donna - scriveva Donna Paola - che fino a trent’anni addietro era stata consumatrice, è diventata a poco a poco una produttrice. Tuttavia, diventando produttrice, essa ha sconvolto «l’equilibrio secolare che reggeva i rapporti tra i due sessi», ponendosi «di fronte all’uomo da pari a pari», chiedendogli e imponendogli in qualche modo, «libertà per libertà, dovere per dovere, diritto per diritto»177. Dunque, se in secoli di storia della letteratura, la donna è sempre stata protagonista attraverso la penna dell’uomo, come se la voce femminile potesse farsi intendere solo attraverso la voce maschile, con Sibilla e le donne scrittrici, la donna entrò, a piena voce, ufficialmente, nel mondo letterario in veste di professionista, di soggetto scrivente.

Conclusioni

173 Cfr. T. Pugliese, Sibilla Aleramo, op. cit., 85-87. 174 M. Corti, ‘Prefazione’ in S. Aleramo, Una donna, Milano 1994, 8. 175 Cfr. M. Muscariello, ‘Il romanzo femminile’, art. cit., 107. 176 A. Arslan, ‘Ideologia e autorappresentazione. Donne intellettuali fra Ottocento e Novecento’, in Svelamento, op. cit., 165- 166. 177 D. Paola, La donna della nuova Italia. Documenti del contributo femminile alla guerra (maggio 1915-maggio 1917), Milano 1917, 23. Inoltre, una tale trasformazione, accompagnata alla nascita consequenziale del movimento di emancipazione femminile, fu vista nella cultura di fine Ottocento-primi Novecento, come un evento epocale, pari, come sottolinea la Buttafuoco, ai processi che avevano investito l’Europa nell’ultimo secolo, stabilendo nuovi assetti economici, sociali, culturali e politici, e facendo emergere sulla scena nuovi soggetti sociali, portatori di bisogni diversi, di diverse visioni della vita e dei rapporti umani: i lavoratori e le donne. Caterina Negro Sibilla Aleramo: il caso di Una Donna

Dopo aver analizzato il caso di Una donna, facendo un excursus attraverso il contesto sociale, politico e culturale di una scrittrice che ha posto le basi per una rivoluzione di genere, possiamo tracciare delle brevi conclusioni. Con Sibilla Aleramo, abbiamo conosciuto una donna che ha rifiutato il prototipo della sposa tradizionale, quindi quello della moglie subordinata e della madre che si annienta per le sue creature, per rappresentare un prototipo moderno, quale quello della donna indipendente, della professionista, nello specifico, della scrittrice. Perché, effettivamente, con l’Aleramo, nasce in maniera ufficiale la figura della scrittrice; dopo essere stata tanto a lungo decantata, descritta, raccontata, protagonista indiretta della letteratura attraverso la penna dell’uomo, adesso la donna può in prima persona scrivere, narrare, raccontare, essere protagonista diretta della letteratura. Quella di Sibilla è stata sicuramente una scelta rivoluzionaria considerando l’epoca in cui visse – siamo comunque alla fine dell’Ottocento-primi del Novecento – un’epoca costituita da una società patriarcale, in cui il matrimonio rappresentava in un certo senso la negazione della donna, considerando che quest’ultima smetteva di vivere per sé, per dedicare la sua vita solo al marito e ai figli. Sibilla invece, scappando da quella relazione di forza basata sulla disuguaglianza, rivendica sé stessa, abbandonando la sua prima vita, una vita che non le apparteneva - con tutte le conseguenze del caso - per iniziarne un’altra in cui finalmente riconoscersi. Sicuramente con il suo gesto, l’Aleramo è stata considerata un modello positivo da emulare per molte donne, così come un esempio negativo da non seguire per tante altre, che ancora non erano pronte ad un tale cambiamento; comunque non è pensabile che una rivoluzione socio- culturale così profonda si inneschi, fino in fondo, in poco tempo. Ovviamente, Sibilla sogna e agogna per il futuro una società ideale, ossia una società in cui il matrimonio e l’identità femminile possano coincidere, qual è effettivamente la società attuale, in cui la donna ha la possibilità di occuparsi sia della famiglia che della vita intellettuale, senza dover 39

fare una dolorosa scelta tra i due aspetti. Tuttavia, il tempo presente porta con sé nuove difficoltà per le donne così come vecchi strascichi del passato, tale che, possiamo osservare come il romanzo dell’Aleramo sia ancora dentro la storia. La lettura, infatti, piuttosto che riportare indietro e collocare con distacco la vicenda in un passato ormai morto, purtroppo per alcuni aspetti, riconduce con prepotenza al tempo presente, ritrovandovi tutta l’inferiorità, il dolore, la violenza e i soprusi che ancora oggi, nonostante la conquista di leggi e diritti, molte donne vivono in tante parti del mondo. Questo rende Una donna un romanzo attuale, nonostante siano passati così tanti anni dalla data di pubblicazione.

MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

ELISA DI BONA

ella schiera delle grandi personalità femminili che la storia gelosamente custodisce, ricorda e tramanda, Cleopatra, la maestosa regina d’Egitto, occupa sicuramente un posto d’onore. Moltissimi furono gli autori di tutte le epoche che, in un modo o nell’altro, furono affascinati da questa giovane donna, contraddistinta da autorità, potere, cultura e bellezza. Non sempre la sua precoce emancipazione, frutto anche della briosa civiltà dalla quale proveniva, fu compresa e accettata, sia dai suoi contemporanei che dagli intellettuali delle epoche successive. Anzi, proprio questa le valse attacchi e giudizi negativi da parte dei più intransigenti e non solo. Ma nonostante le critiche e lo sguardo severo di alcuni, la fama della sovrana egizia non è mai stata sepolta o cancellata dal velo degli anni. Al contrario, proprio l’enorme curiosità, talvolta anche scettica, che ha suscitato in molti, ha fatto sì che si accumulasse intorno alla sua memoria un patrimonio intellettuale ed artistico davvero notevole, che sempre più ha alimentato l’aura di fascino che proviene da una figura così imponente, suggestiva ed intrigante della storia antica. In particolare il focus dell’indagine si sofferma su quei biografi e quei pittori che nel Cinquecento e nel Seicento decisero di studiare e ritrarre la nostra Cleopatra. Questi due secoli, infatti, seppur in modo differente, vedono germogliare molteplici e diversi esperimenti artistici incentrati proprio sulla regina tolomea. Gli autori presi in esame trattano questa vita secondo le fonti a loro pervenute, quindi analizzano il personaggio attraverso il proprio punto di vista e il proprio retaggio culturale. Grazie ai due biografi selezionati, Giulio Landi per il Cinquecento e Paganino Gaudenzi per il Seicento, vedremo la differenza ideologica e d’approccio che le due epoche avranno nei confronti della stessa materia. Da un lato ci sarà la piena fiducia nelle capacità umane del Rinascimento, dall’altro lato la combattuta ammirazione del Barocco verso un soggetto da biasimare. Da un lato una storia interessante da raccontare, dall’altro lato uno snocciolamento di nozioni ora profonde e colte ora più superficiali e curiose. Da entrambe le parti, però, è posta come base una grande ammirazione nei confronti di una donna capace di distinguersi ed imporsi non solo nel suo tempo, ma anche nella storia da ricordare. Nell’età moderna, però, l’interesse verso Cleopatra non si ferma solo ed esclusivamente all’ambito letterario e biografico, ma abbondantissima sarà anche la produzione artistica. La pittura, in particolare, si innamora di questa donna e, pur trasfigurandone la silhouette a causa dei cambiati canoni estetici, sceglie di tramandarne l’esistenza e di ritrarla nell’attimo più patetico della sua vita: la morte. Una morte che poi in effetti viene anch’essa trasfigurata, poiché ricerche più recenti ed approfondite sostengono non esserci stato nessun aspide, né tanto meno ceste di fichi, morsi velenosi e tutto ciò che la tradizione tramanda. Il reale suicidio sembra essersi svolto proprio alla luce dell’enorme e invidiabile cultura di Cleopatra, la quale era ben a conoscenza del fatto che un piccolo serpente non le avrebbe procurato una morte né rapida né tantomeno indolore. La regina, infatti, sembra che, per togliersi la vita, avesse scelto un cocktail ipervelenoso con cicuta, aconito e oppio. Tutto l’apparato iconografico dell’epoca moderna, però, si basa appunto sulle conoscenze storiche del tempo e quindi l’aspide è sempre presente Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

nelle tele dei vari autori. I pittori che in questi due secoli si appassionarono al titanismo della regina Cleopatra sono di un numero molto cospicuo, ma ognuno di loro ha scelto un particolare, un’espressione, uno sguardo, un tocco diverso da dare alla donna. La regina viene da questi spiata e ritratta in tutte le sue sfaccettature. La vedremo nelle vesti di memorabile personaggio storico, di donna caparbia e colta, di regina forte, di affascinante amante e di ‘martire’. Un martirio laico in nome dei suoi ideali, dell’amore verso se stessa, dell’orgoglio e della fierezza, che per sempre ha immortalato la sovrana egizia tra le eroine più ammirate della storia.

1. La figura di Cleopatra nel ’500 attraverso la biografia di Giulio Landi

Il destino dei personaggi importanti della storia è quello di dover subire continue metamorfosi a seconda dell’epoca e della cultura che li recepisce. Non c’è un ritratto fisso, una stima generale o un rifiuto collettivo. La fama e la notorietà rendono automaticamente uomini e donne, un tempo fatti di carne e ossa, creta malleabile e in continua trasformazione a seconda delle mani in cui si trova. Fattori religiosi, ideologici, alleanze e conflitti, il mercato, la politica, la cultura diventano tutti elementi fondamentali e determinanti. Queste figure contemporaneamente in zone diverse, o anche nella stessa, possono essere amate o odiate, rispettate o disprezzate, modelli da seguire o da evitare. Entrano in gioco così tanti fattori che non sarà più possibile scindere la realtà dalla deformazione, i dati di fatto dalle leggende, soprattutto se il soggetto in esame appartiene ad un’epoca per niente recente e oggetto di maggiori stravolgimenti. Il Cinquecento, come è noto, è stato un secolo di incredibili cambiamenti, che per sempre hanno sconvolto, anche in senso decisamente letterale, la fisionomia del mondo. La scoperta di nuove terre e culture fece vacillare gli equilibri e i dogmi su cui il ‘Vecchio Continente’ aveva basato tutti i suoi rapporti e le sue gerarchie. Ma le novità non portano solo scosse negative, spesso sono anche punto di

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partenza. L’attenzione verso il diverso e l’estraneo, infatti, genera anche una sorta di nostalgia per il proprio passato e per le proprie radici. In questo clima culturale, dunque, il Rinascimento raggiunge il suo apice. Si torna a rivolgere lo sguardo all’antichità classica, sia greca che latina, e si rafforza l’idea della centralità dell’uomo, il quale con le sue forze e la sua intelligenza può creare e mettere direttamente mano al suo destino. A questo si accompagna il culto della bellezza e della raffinatezza, dove anche l’elemento estetico assume rilievo. Forse, dunque, proprio questo quadro culturale è il motivo per il quale nel Cinquecento non vedremmo una Cleopatra invischiata totalmente nei suoi vizi, come era invece descritta nei secoli precedenti, più improntanti alla sfera etica. Il profilo che viene delineato diventa semplicemente una descrizione curiosa di una vita che, al suo tempo, si distinse dalle altre per capacità e virtù proprie, senza troppi attacchi e prediche morali.

1.1 Giulio Landi e il contatto con le fonti

Il ritratto cinquecentesco della regina d’Egitto proposto è quello tracciato dal conte Giulio Landi, vero e proprio uomo del Cinquecento, che nasce sul finire del XV secolo, precisamente nel 1498 a Piacenza, e muore nel 1579 a Lodi. Egli si impegnerà nello studio di varie discipline: la filosofia, la giurisprudenza, la retorica e la letteratura, soprattutto quell’antica, sia greca che latina. Ecletticamente spazierà in tutti i generi letterari con grande arte, scrivendo una descriptio, trattati, traduzioni, lettere, biografie, dialoghi morali e religiosi.1 Questa fecondità andava di pari passo con le sue numerose attività e con i suoi interessi, come si evince dalle parole del bibliografo settecentesco Cristoforo Poggiali, quando in una breve biografia dedicata al nobile piacentino scrive: «Varie furono le circostanze della Vita del conte Giulio, protratta, […], fino all’ultima vecchiezza; diversi gl’impieghi, frequenti, e in lontani Paesi i

1 Cfr. P. Cosentino, s.v. ‘Landi Giulio’, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 63, Roma 2004, 385-388. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

viaggi, stravaganti»2. In questa analisi, però, ci si focalizza in particolar modo sulla sua attività di biografo. Interessato all’antichità, scriverà della vita di Esopo e tradurrà alcune sue favole, poi in un secondo momento si dedicherà ad indagini e ricerche sulla nostra bella egiziana. Instancabile studioso e uomo di grande cultura, dunque, approdò all’idea di una biografia relativa alla regina Cleopatra leggendo il volgarizzamento di Giuseppe Betussi del De mulieribus claris, un’opera in lingua latina composta da Giovanni Boccaccio tra il 1361 e il 1362, il quale si poneva il fine «di utilizzare la cultura classica a scopo pedagogico»3. Nelle pagine boccacciane la donna, sin dalle prime righe a lei dedicate, è contraddistinta e marchiata da numerose caratteristiche negative: «fu conosciuta per tutto il mondo per avarizia, crudeltà e lussuria»4. Le uniche doti che le vengono accordate sono l’innata bellezza e la sua mirabile eloquenza, utilizzate però, secondo la versione del trecentino, solo maliziosamente e per ottenere pravi obiettivi: la conquista del regno egizio, la ricchezza, la mansuetudine e la fedeltà dei capi romani. Betussi, infatti, in riferimento al primo incontro tra la regina e Cesare, tradurrà:

«Cleopatra piena di malizie, confidandosi molto in sé, l’andò a ritrovare, adornata come Reina superbamente, […], essendo bellissima, e con l’arte de gli occhi risplendenti, e col ‘dolce parlare’ atta ad allacciar quasi tutti quei che volesse, con sua poca fatica trasse il libidinoso principe ne i suoi congiungimenti, e dormì seco molte notti5».

La scellerata Cleopatra boccacciana arriva al Landi, come già detto, proprio attraverso questo volgarizzamento betussiano del 1545, che non è mera traduzione dal latino al volgare, ma anche momento creativo e compositivo. L’autore bassanese, infatti, amplia l’opera del Boccaccio «per donare all’eternità i nomi di tante degne, et honorate donne».6 Giuseppe Betussi, delle 106 donne illustri dipinte nel De mulieribus claris e di quelle da lui aggiunte, particolarmente sottolinea la virtù della pudicizia e quindi automaticamente, per coloro che risultavano manchevoli di questa, il suo diretto contrario, la lussuria. Alla virtuosissima Elisabetta Gonzaga, duchessa d’Urbino, costretta all’eterna castità dall’impotenza del marito, il duca Guidubaldo, è opposta appunto la nostra Cleopatra. La regina egizia è 42

collocata tra le «eroine malefiche»7 ed è raffigurata come una donna che «arde»,8 in tutti i sensi metaforici che il termine concede: di fuoco passionale ed erotico, di desiderio bruciante di ricchezza e lusso, di potere, di sentimenti forti, per lo più dannati, agli occhi di un autore che tende ad una radiografia etica del personaggio.

1.2 La vita di Cleopatra regina d’Egitto di Giulio Landi

Da questo ritratto, però, Giulio Landi, contro ogni aspettativa, ricava poi un’opera nella quale troviamo una Cleopatra che molto si discosta da quella boccacciana e poi betussiana. Ne La vita di Cleopatra regina d’Egitto, pubblicata per la prima volta nel 1551 a Venezia, il conte piacentino dipinge una donna piena di tutte le virtù e ogni suo lato contrassegnato da biasimo dai precedenti autori viene giustificato, motivato o tramutato nella sua accezione positiva. La regina non è più carnefice, ma vittima della brama di potere altrui; non più perversa lussuriosa, ma innamorata amante; non più traditrice voltafaccia, ma fedele compagna. Come scrive, infatti, il ricercatore e docente universitario Vincenzo Caputo:

2 C. Poggiali, Memorie per la storia letteraria di Piacenza. Volume Secondo, Piacenza 1789, 196. 3 P. Cosentino, ‘Sulla fortuna cinquecentesca del De Mulieribus claris. Boccaccio, il teatro e la biografia femminile’, Critica Letteraria, 44, n. 170, 2016, 42. 4 D. Albanzani da Casentino, Volgarizzamento di maestro Donato da Casentino dell’opera intitolata De claris mulieribus di M. Boccaccio, Milano 1841, 362. 5 G. Betussi, Libro di M. Giovanni Boccaccio Delle donne illustri. Tradotto di Latino in Volgare per M. Giuseppe Betussi, con una giunta fatta dal medesimo d’altra donne famose, Firenze 1596, 228. 6 G. Betussi, Libro, op. cit., 1. 7 V. Caputo, Ritrarre i lineamenti e i colori dell’animo. Biografie cinquecentesche tra paratesto e novellistica, Milano 2012, 183. 8 Ibid. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

«Il biografo presenta la protagonista dell’opera come una donna, le cui azioni, pur non essendo tutte ugualmente virtuose, non devono comunque essere interamente biasimate […], considerando inoltre le leggi e i costumi degli Egizi, i quali ‘furono sempre (come oggi ancora sono) da la nostra religion cristiana molto varij, & differenti’9».

L’opera del Landi nelle prime pagine fornisce informazioni apparentemente di contorno: l’estensione del regno d’Egitto, le vicissitudini politiche, le carestie, la popolosità, la fertilità e le esondazioni presso le rive del Nilo. Questo potrebbe risultare irrilevante nella trattazione di una biografia, o comunque un ritardare quella che egli stesso definisce una «graziosa storietta»10, espressione dalla quale scorgiamo il suo intenzionale disimpegno nei confronti di una proposta moraleggiante. In realtà esaltare il passato egizio e delineare le caratteristiche positive del regno sono elementi necessari per tessere un elogio ancora maggiore di colei che ne sarà alla guida e ne deterrà il comando. Abbozzando la storia, l’etnografia, la demografia, la prosperità egiziana costruisce l’immagine di un regno grandioso, specchio della grandezza di chi è riuscito a renderlo tale. Il suo intento è reso poi chiaramente esplicito quando al termine di questo incipit, che ha l’aspetto di una digressio etnografica posta all’inizio dell’opera, scrive: «di questa così meravigliosa e felice regione Cleopatra fu regina e padrona, la quale fu del sangue reale della nobilissima casa de’ Tolomei»11. A questo punto l’autore piacentino ancora ritarda l’entrata in scena vera e propria di Cleopatra e tesse una breve cronistoria della ‘schiatta de’ Tolomei’, che per ben duecentonovanta anni resse l’Egitto. Tramite la figura di Tolomeo Aulete, padre di Cleopatra, nonché «l’ultimo Tolomeo adunque re d’Egitto»,12 Giulio Landi ci mostra anche i legami che stringevano il regno egizio all’Impero romano, rapporti che poi saranno fondamentali e decisivi nella vita della regina. L’immagine di Tolomeo Aulete che si ricava dall’opera non è per niente positiva. Viene descritto come un uomo tanto incapace nella gestione del regno, avaro e di poco valore, da essere addirittura scacciato dal comando dai suoi stessi sudditi. Fuggito a Roma, solo grazie all’intercessione di Pompeo riuscì a riottenere il trono, sottrattogli da Berenice, prima dei suoi cinque figli (Berenice, Cleopatra, Arsinoe, Tolomeo maggiore e Tolomeo 43

minore). Tornato al potere fece giustiziare la figlia, scelta che ulteriormente delinea il personaggio negativamente, mancando egli della misericordia e del perdono («tanto preme agli uomini l’avarizia e l’ambizione, che per gelosia ed interesse degli stati, né a padri, né a figliuoli si perdona»13). Lasciò poi un testamento, nel quale dichiarava che Cleopatra e Tolomeo maggiore, una volta maritati, prendessero il potere, ma poiché molto giovani (probabilmente Cleopatra contava 18 anni, Tolomeo circa 10) regnassero sotto la tutela romana.

1.3 Cleopatra raggiunge il potere con la dote dell’eloquenza

Iniziano così le vicissitudini della giovane regina, che fin da subito dovrà farsi valere attraverso le sue doti strategiche e diplomatiche, poiché il suo primo insediamento come sovrana del regno non sarà semplice. I tutori dei due giovani eredi al trono – Teodoro, Achilla e Fotino – infatti, iniziano a disseminare discordia e rivalità tra i fratelli-amanti per brama di potere e ambizioni personali, tanto da costringere la giovane a fuggire in Sorìa. Cleopatra riesce a distinguersi per tre pregi fondamentali: il coraggio, la capacità persuasiva e l’estrema bellezza. Depredata dei suoi diritti e possedimenti non si perde d’animo, organizza un grande esercito, persuade vari principi ad aiutarla e, quando necessario, pur di piegare quanti più animi possibile dalla sua parte, utilizza il suo fascino. Memore dei legami che strinsero suo padre alla tutela latina, conta tra gli alleati anche Roma, ma questa indebolita dalla guerra

9 V. Caputo, Ritrarre, op. cit., 139; G. Landi, ‘A la Illustriss. Signora Gostanza del Carretto’, in G. Landi, La vita di Cleopatra reina d’Egitto, in Vinegia, 1551, cc. Vv-VIr. 10 G. Landi, La vita di Cleopatra regina d’Egitto. Scritta dal conte Giulio Landi. Nuova edizione corretta, e ricorretta, Napoli 1818, 2. 11 Ibid., 16. 12 Ibid., 17. 13 Ibid., 18. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

civile, che vedeva fronteggiarsi Pompeo e Cesare, non può prestare soccorso alla questione egiziana. Perseverando nell’obiettivo di riprendersi il regno, l’audace Cleopatra, senza l’aiuto latino, continua la sua lotta. Tra le qualità della giovane, l’acutissima intelligenza le permetteva di sfruttare i momenti adatti. Infatti, mentre lo scompiglio egiziano proseguiva, Roma vedeva volgere al termine le sue lotte intestine, con la vittoria di Cesare su Pompeo a Farsàlo. Il Magno14 vide un rifugio nell’Egitto, in debito nei suoi confronti per il supporto reso a Tolomeo Aulete in passato. Qui il Landi lascia emergere la differenza strategica tra le due fazioni egiziane che si contrapponevano. La sconfitta di Pompeo risultava scomoda tanto a Tolomeo, quanto a Cleopatra, poiché entrambi avevano supportato l’esercito pompeiano durante la guerra civile. Ambedue, quindi, erano minacciati dall’ira di Cesare e necessitavano di ingraziarselo. Tolomeo e i tutori scelgono di tradire Pompeo, tagliandogli la testa e porgendola a Cesare come segno di fedeltà, il quale però, in nome della clementia romana, invece di gradire il dono, giura vendetta. La mossa politico-diplomatica di Cleopatra sarà ben diversa, poiché punterà su quelle doti talmente evidenti e splendide che neppure il Boccaccio prima e il Betussi poi potettero sottrarle: la bellezza e l’eloquenza. La regina egizia spesso, infatti, nelle arti, nell’immaginario collettivo e nelle curiosità storiche è ricordata come una donna acuta, incredibilmente affascinante, dall’estrema cultura, teatralità e raffinatezza, istruita di un gran numero di lingue. Cleopatra si destreggiava abilmente nell’ars oratoria15, tanto che il biografo piacentino a proposito di ciò scrive di lei:

«nel conversare umana, piacevole, graziosa, e con belle maniere sapevasi accortamente a tutte le specie e condizioni degli uomini accomodare; la prudenza sua nel parlare era pari alla prontezza del rispondere; le parole accompagnava con gesti e modi graziosissimi; i movimenti avea sciolti e ben misurati; la voce delicata, dolce e soave, di così fatta maniera, che quando parlava pareva che la sua lingua di un dolcissimo istrumento di varie corde movesse, da cui un armonioso e dolcissimo suono uscire sentivasi. Sapeva inoltre in vari idiomi favellare, onde che nella varietà delle lingue nelle udienze sue d’interprete non abbisognava16».

44 Fondendo quindi teatralità e arte oratoria, Cleopatra, furbamente, avvolta in un sontuoso tappeto, di notte, perché «la luce de’ lumi notturni alle donne belle accresce la bellezza, ed alle brutte diminuisce i difetti»,17 si presenta a Cesare. Con un eccellente discorso che oscilla tra lodi, momenti patetici e preghiere, molto ricamato dal Landi nell’opera, convince il generale a porle il suo aiuto, col quale riotterrà il regno.

1.4 Gli amori fedeli e sinceri di Cleopatra

Da questo momento in poi il focus, anche nel trattare episodi politici e bellicosi, si concentra per la maggiore su uno di quegli aspetti che più affascinano della figura di Cleopatra: i suoi amori. Proprio questi, che le valsero l’appellativo di «Cleopatràs lussurïosa»18 nel capolavoro dantesco e per molte generazioni, sono, invece, trattati dal Landi come sentimenti vissuti con grande sincerità e devozione che porteranno, anzi, anche sofferenze, diffidenze, prove d’amore e atti estremi. Cesare completamente ammaliato dalla raffinatezza, dai modi e dall’intelligenza della regina promulgò una nuova norma pur di sposarla. Lo ius romanum, infatti, vietava un secondo matrimonio a meno che la prima moglie non fosse deceduta o ripudiata. Il duce romano, allora, «fece una legge, che lecito fosse all’uomo maritato, lontano dalla moglie trovandosi, per cagione di procrear figliuoli, torre un’altra moglie»19. Con questo episodio il biografo piacentino mette in luce quanto fosse forte il potere

14 Epiteto esortativo di Pompeo. 15 Nell’antichità coloro che erano destinati all’attIbid.tà oratoria accompagnavano agli studi di retorica lezioni di teatro e di dizione, perché l’actio e la pronuntiatio erano ritenuti elementi fondamentali per spettacolarizzare ed enfatizzare il discorso. 16 Ibid., 49. 17 Ibid., 24. 18 Dante Inferno, V 63. 19 G. Landi, La vita op. cit., 41. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

attrattivo e seduttivo di Cleopatra. Infatti, per quanto Giulio Cesare sia conosciuto oltre che per i suoi successi militari, anche per la sua debolezza verso le donne, resta un gesto estremo per un capo romano, dedito al potere e allo Stato, modulare il diritto per un suo desiderio affettivo. I due amanti, una volta legittimati, sono ritratti nell’opera mentre passano il loro tempo in piaceri, feste, banchetti, il tutto circondato da un’aura di profondo sfarzo e lusso, data la predilezione della bella egiziana per la pompa e lo spettacolo. Questa quiete, però, non durerà a lungo, poiché Cesare, assassinato, lascerà Roma nello scompiglio e la sua amata senza alcun appoggio politico nei rapporti con il mondo latino. Per quanto fosse stato vero l’amore di Cleopatra verso Cesare, nell’opera del Landi, è Marco Antonio a far apprezzare davvero alla regina egizia il sentimento eterno. Il biografo, infatti, dedica a questa storia d’amore, vissuta tra godimenti, lusso, allontanamenti, sofferenze e note tragiche, la maggior parte delle pagine del suo libro. Delinea, però, una Cleopatra fedele e leale, diversa dalla scellerata sfruttatrice delle fonti e quello che spesso viene dipinto come un rapporto d’interesse e utilità, assume i caratteri di un amore bruciante, ricco di giochi e frivolezze prima, di diffidenze e dimostrazioni poi. Giulio Landi ci racconta di come le intenzioni originarie fossero di sfruttarsi a vicenda: Cleopatra voleva la protezione di Roma, Antonio la ricchezza dell’Egitto per poter pagare l’esercito impiegato contro i cesaricidi. Marco Antonio, infatti, intendeva accusare la regina di aver supportato l’esercito di Cassio20, ma Cleopatra evitò ciò ‘stregandolo’. Si presentò a lui a bordo di una ricca galera, la Capitana, con la poppa in oro massiccio, le vele di seta, i remi d’argento, vestita da dea e circondata da danzatori e suonatori. «A questo spettacolo corsero tutti gli Efesini e popolarmente erasi sparsa una voce e fama, che Venere21, per utilità dell’Asia, era venuta a beffeggiare Bacco22»23 e ottenne il suo obiettivo, poiché, «[Antonio] invaghito della piacevolezza e del grido della bellezza di Cleopatra, lasciossi vincere».24 L’autore, a questo punto dell’opera, per alcune pagine si sofferma sulla descrizione dei loro giochi, banchetti e motti. Marco Antonio, così tanto intrigato e ammaliato dalla regina egiziana, inizia a tralasciare i suoi doveri, sia politici che matrimoniali. Questa negligenza genera delle problematiche nel

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mantenimento delle province e con sua moglie Fulvia, la quale, infatti, favorisce la nascita di forti tumulti in Italia, sperando in questo modo di sottrarre il marito dalle braccia di Cleopatra. Antonio scopre il sotterfugio, la ripudia e pacifica le zone sollevate. Ciò favorisce il riappacificamento tra Marco Antonio e Ottavio, i quali si erano ritrovati in rapporti tesi a causa della cattiva gestione dei territori. Per suggellare la pace e nel tentativo di allontanare il generale romano dalla regina egizia, viene a lui data in moglie Ottavia, sorella di Ottavio. Questa nelle pagine landiane viene assai lodata: «matrona molto veneranda, di viso bella, di corporatura leggiadra, di costumi gentili e virtuosi; di animo buona e sincera, amatrice della quiete e della pace pubblica».25 Il Landi, in realtà, elogiando Ottavia non fa altro che avvalorare ancor più le virtù di Cleopatra, che riusciva a tenere testa alle «egregie e perfette qualità»26 di una delle più rispettabili signore romane. Antonio, infatti, continuava nei suoi eccessi amorosi, donando alla regina egiziana intere province e dilapidando la ricchezza romana in effimero sfarzo e sfrenato lusso. A Roma, quindi, cresceva un forte odio verso il generale e Ottavia tentò di riportare in senno il marito, ma imbarcatasi verso Alessandria con i figli fu scacciata, disprezzata e ripudiata. A questo punto Ottavio dichiara guerra a Cleopatra, ritenuta causa dei mali e nemica, per aver circuito Marco Antonio. I due amanti, allora, organizzano un esercito che supera in numero quello di Ottaviano, ma ciò non evita la sconfitta, sancita dal ‘troppo amore’ e non da scarsa preparazione militare. Infatti, alcune navi della

20 Cassio, insieme a Bruto, è uno dei maggiori promotori del cesaricidio. Fu sconfitto da Marco Antonio nella battaglia di Filippi, avvenuta nel 42 a.C. 21 Venere, dea della bellezza nella mitologia romana, Afrodite in Grecia, sta ad indicare in questo caso Cleopatra. 22 Bacco, dio del vino nella mitologia romana, Dioniso in Grecia, sta ad indicare in questo caso Marco Antonio. 23 Ibid., 47. 24 Ibid., 48. 25 Ibid., 52. 26 Ibid. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

flotta di Antonio furono catturate dall’armata di Cesare27, Cleopatra, temendo un tradimento, si allontana: «Marc’Antonio credendo che Cleopatra si fuggisse, né potendo l’assenza di lei sopportare, come uomo fuori di se stesso, e solamente con l’amata vivendo, […], cominciò a seguirla»28.

1.5 La morte di Cleopatra tra lealtà, fedeltà e astuzia

A seguito della sconfitta i due non si arrendono alla sorte avversa e si godono ancora i piaceri della vita, frequentando i conviti della compagnia dei Commorienti29. La disfatta, però, ebbe comunque delle conseguenze negative sul loro rapporto, generando forti diffidenze del generale verso la regina. Qui il Landi dà vita al maggiore stravolgimento del personaggio rispetto alle fonti, poiché Cleopatra non solo è dipinta come fedelissima amante, ma anche vittima del sospetto di Antonio. Quest’ultimo, circospetto, teme che ella, pur di mantenere regno e potere, possa pattuire con Ottavio una trama a suo danno. In più episodi, però, Cleopatra dimostra fedeltà, manifestando di avere i mezzi necessari per uccidere o tradire, ma di non utilizzarli («se io infedele e traditrice fossi, e senza te vivere potessi, vana sarebbe questa tua credenza, che volendo io insidiarti non mancherìano i modi»30). Tuttavia è al momento della morte di Antonio, che la regina dimostra nell’opera la sua più grande sincerità e devozione. Il generale romano, perso esercito, potere e gloria, fu raggiunto dalla falsa notizia della morte della sua amata e si suicidò. Cleopatra fu catturata da Ottavio, che desiderava portarla prigioniera a Roma come simbolo di vittoria sul nemico e, poiché la regina per il dispiacere digiunava, le fece visita per ingannarla con false promesse. Questo incontro permette al nostro biografo di far emergere tutta la soggezione, il rispetto e il timore che suscitava una donna come Cleopatra e di sottolineare nuovamente la sua intelligenza, astuzia e cultura. Ottavio si reca presso la donna con le dovute precauzioni: «non volle in viso guardarla giammai, temendo che i vaghi e dolci suoi movimenti, conformi alle sue belle e soavi parole non rompessero la fortezza del suo cuore, […], e perciò tenne Cesare gli occhi sempre a 31 46 terra fissi» . Da parte sua Cleopatra non si lascia ingannare dall’imperatore, anzi riesce a persuaderlo con abbondanti parole di essere ancora attaccata ai beni materiali e alla vita. Il discorso della regina egizia, riportato dal Landi, mostra ancora una volta la grande facoltà d’eloquenza della donna e il suo acume, poiché dichiara di essere stata costretta dall’amato, nemico di Ottavio, ad agire contro Roma, ed elogia invece Cesare, suo avo. Tuttavia, quello che può sembrare un tradimento verso Antonio non è altro che un atto d’astuzia per potersi ricongiungere a lui nella morte. Inoltre l’autore, per enfatizzare ancora di più la profonda erudizione della donna, si dilunga sulla grande conoscenza di questa riguardo i veleni. Cleopatra, a seguito di diverse analisi su sostanze e animali letali, aveva eletto l’aspide come l’unico serpente in grado di indurre la morte in modo rapido e senza sofferenze. Convinto, allora, Ottavio ad abbassare la guardia, si fece recapitare in un cestino pieno di fichi il piccolo rettile. L’’infedele e lussuriosa’ Cleopatra, dunque, si dà la morte nell’opera di Landi per nobili motivi: la perdita del suo grande amore, del suo amato regno e per non piegarsi, lei fierissima e orgogliosa regina, all’umiliazione della schiavitù.

2. La figura di Cleopatra nel ’600 attraverso la biografia di Paganino Gaudenzi

27 Appellativo onorifico che si dava agli imperatori che regnarono su Roma successivamente alla dittatura di Cesare. In questo caso è riferito ad Ottavio. 28 Ibid., 68. 29 Una compagnia fondata da Marco Antonio e Cleopatra e composta di uomini e donne che intendevano vivere e morire insieme, godendo di tutte le piacevolezze della vita. 30 Ibid., 71. 31 Ibid., 88. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

Diversa sarà, invece, l’immagine della regina egizia che ci perviene dal Seicento. Questa trasformazione è dovuta ai nuovi costumi, alla nuova cultura, ai mutamenti politici, a tutti quegli elementi che portano a cambiare punto di vista nel corso del tempo. Questo secolo, infatti, a causa degli eventi storici che si andavano susseguendo, costringe gli intellettuali italiani a una sorta di compromesso psicologico e ideologico con se stessi e con i loro prodotti artistici. Tale compromesso ben emerge dalle parole dell’autore contemporaneo Giuseppe Godenzi quando in un articolo scrive:

La crisi seicentesca, iniziata dopo il 1620, quando i domini spagnoli furono invasi dagli eserciti, fu aggravata dalle tragiche pestilenze del 1630-31, che decimarono le popolazioni, soprattutto del nord, creando uno squilibrio economico assai importante. […] In questo contesto si capisce maggiormente l’impotenza ideologica di molti letterati, la rassegnazione psicologica al potere politico e la ricerca di un rimedio, almeno parziale, di una compensazione, che trova sbocco nell’onore personale, nell’adattamento dello scrittore alla vita di corte32.

In questo quadro storico scrive Paganino Gaudenzi, l’autore proposto per analizzare il ritratto letterario seicentesco di Cleopatra. Nato nel 1595 a Poschiavo e vissuto tra due dei più importanti centri culturali del XVII secolo, Roma e Pisa (dove poi morì nel 1649), Gaudenzi è un vero scrittore barocco, poiché mantiene quell’oscillazione «tra l’innovazione e la conservazione, tra l’ambizioso miscuglio di sacro e di profano in ogni esperienza artistica, tra le forme tendenzialmente classicistiche e le barocche»33. L’autore, vivendo in questo dato scenario politico e derivando da una famiglia cristiana, si lega molto sia all’ambiente erudito delle Accademie che a quello religioso della corte papale. Si stringerà alla famiglia dei Barberini, di estrazione principesca e papale, dalla quale discenderà anche papa Urbano VIII34. Questa sua doppia aderenza, da una parte all’élite colta del tempo e dall’altra alla sfera religiosa, influirà molto nelle sue opere. Nella sua fase romana i rapporti con il dogmatismo ecclesiastico alla lunga furono incrinati dalla sua propensione alla libertà di giudizio, dalle contraddizioni con la morale 47 cristiana dei suoi scritti e dalla tendenza alle curiosità storiche, politiche e filosofiche che non sempre si coniugavano con la sua professione religiosa. Egli stesso, consapevole di questa sua spinta alla libertà di pensiero e al progresso, ammetterà in una lettera inviata ad Alessandro Piccolomini, arcivescovo di Siena, Pisa, 7 gennaio 1633, di ritrovarsi spesso a «contrastar con frati e con politici»35. Questa, infatti, sarà la causa principale del suo allontanamento dalla corte papale e dello stabilirsi in Pisa. Nel fiorente e attivo centro culturale toscano riuscirà ad avere meno pressione e controllo da parte dei Barberini e molto più margine di movimento per i suoi studi, i quali si rivolgeranno sempre con maggiore frequenza alla filosofia e alla storia. Le conseguenze vantaggiose di questo trasferimento sull’attività del Gaudenzi sono confermate dall’entusiasmo del suo amico e corrispondente Alessandro Tassoni, scrittore e poeta barocco, quando in una lettera gli scrive:

«Gaudio gavisus sum magno valde alla ricevuta della vostra lettera e del trattato di V.S. veggendola finalmente uscita dagli stracci della Corte di Roma e dalle mani dei Barbari. V.S. canti In exitu Israel de Aegypto et de populo barbaro, perchè mi pare che faccia giusto a proposito per lei, che è stato tanto tempo imbarbarito per non dire imbarberinato. Ora V.S. si goderà i tordi e il Greco di Pisa»36.

2.1 La biografia barocca Di Cleopatra reina d’Egitto la vita

32 G. Godenzi, ‘Uno scrittore barocco in bianco e nero: Paganino Gaudenzi’, Quaderni grigionitaliani, 64, 2, 1995, 148. 33 Ibid., 149. 34 Cfr.. G. Brunelli, s.v. ‘Gaudenzi Paganino’, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 52, Roma 1999, 676-678. 35 G. Godenzi, Epistolario (1633-1640) di Paganino Gaudenzi, Poschiavo 1991, passim. 36 M. Lardi, ‘Paganino Gaudenzi(o): alcuni testi originali per ricordarlo’, Quaderni griogionitaliani, 63, 2, 1994, 102. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

Ponendo maggiore attenzione su argomenti di ambito storico, il Gaudenzi arriva a partorire l’opera qui presa in esame: Di Cleopatra reina d’Egitto la vita, pubblicata a Pisa nel 1642. L’immagine che delineerà della donna è una via di mezzo, dove vengono esaltate le virtù e criticati i vizi, non c’è né demonizzazione né totale esaltazione. Nell’iter biografico sono evidenziate sia bellezza, intelligenza, cultura, nobiltà e fascino della donna, sia la sua lussuria, la sua sfrenatezza, la tendenza allo spreco e allo sfarzo. La biografia assume sicuramente molte delle caratteristiche tipiche di un’opera barocca. Il Barocco esplode nel ’600, quando Inquisizione e censura erano molto forti, per questo spesso viene ritenuto uno stile vuoto, di poco contenuto e volto solo a meravigliare con i suoi artifici tecnici. In realtà, per paura di ripercussioni, nasce la tendenza ad avere un grande controllo sul messaggio morale che può contenere un’opera. Non sempre l’elemento paideutico viene totalmente soppresso, talvolta semplicemente viene fatto coincidere con l’etica cristiana, sebbene questo preveda un compromesso con il progresso e il proprio personale punto di vista. Nonostante ciò resta vero, comunque, che gli autori barocchi danno importanza primaria all’artificio, alla minuzia, alla ricchezza di fonti e di conoscenze, perciò spesso i testi venivano farciti di digressioni e di particolari. Questi tre elementi – il compromesso con la norma religiosa, la ricchezza di fonti e l’ostentazione del sapere – si ritrovano in maniera abbastanza evidente nell’opera trattata.

2.2 Il rapporto con le fonti: tra ricerca e critica

L’abbondanza delle fonti, dalle quali il Gaudenzi ricava informazioni su Cleopatra, è esplicitata già nel primo capitolo dell’opera, dedicato proprio a tutti gli scrittori antichi che ne avevano parlato. Il biografo sostiene l’importanza del basarsi su «le narrazioni prische, non così note al volgo»37, quindi autorevoli e rare, intaccate il meno possibile da voci, leggende, deformazioni. Quando due storiografi riportano un determinato fatto o episodio in maniera diversa, l’autore seicentesco compie delle ricerche, riporta

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entrambe le versioni, ma sostiene quella più verisimile e plausibile a seconda delle caratteristiche del personaggio. Gaudenzi non accusa mai a priori la regina, non si lascia piegare sempre dal pregiudizio, anzi talvolta svolge un lavoro quasi filologico, di tendenza umanista. Ad esempio quando racconta della disfatta dell’esercito di Antonio e Cleopatra contro quello di Ottavio da un lato ha Dione38, che accusa la regina di tradimento, dall’altro Plutarco39 ne riporta la fedeltà. Tra le due fonti Gaudenzi sceglie di dare adito alla seconda, mostrando di preferire la veridicità storica di uno storiografo della portata di Plutarco, piuttosto che assecondare la versione che avrebbe fatto più comodo, essendo aderente al preconcetto dei contemporanei. Inoltre, al di là degli scrittori antichi, l’autore guarda anche intorno a sé, indagando tra quei suoi contemporanei che pure avevano trattato della regina egizia, nonostante ci tenga a sottolineare la loro subalternità agli storici del passato. Si sofferma in particolare su Giambattista Marino, uno dei maggiori esponenti del barocco italiano, che il Gaudenzi più volte commenterà, molto stimandolo, ma anche criticandolo talvolta. Il problema dibattuto è quello della morte della regina: secondo il Marino, che si era basato solo sulle raffigurazioni pittoriche della donna, fu morsa da più serpenti al seno. Il biografo poschiavino, «fanatico dell’esattezza storica»40, di contro, scrive:

37 P. Gaudenzi, Di Cleopatra reina d’Egitto, la vita considerata da Paganino Gaudenzio, e poi dall’istesso riletta, con piccola varità di cose tanto moderne quanto antiche, Pisa 1642, 25. 38 Cassio Dione è un senatore romano vissuto tra il II e il III sec. d.C., che oltre all’interesse politico coltivò anche quello per la storia. Scritte un’opera intitolata Storia romana, dIbid.sa in 80 libri. Da questa Paganino Gaudenzi raccoglie notevoli informazioni per la sua Di Cleopatra reina d’Egitto la vita. 39 Plutarco è un importante biografo greco vissuto tra il I e il II sec. d.C. Autore delle Vite Parallele, all’interno della sua opera presenta coppie di biografie, in una di queste c’è quella di Antonio, utile a Paganino Gaudenzi per raccogliere ulteriori informazioni sulla sua amante e sposa Cleopatra. 40 G. Godenzi, Paganino Gaudenzi, Berna-Francoforte 1975, 27. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

«Asserisco nientedimeno, che non più Serpenti, ma la sola aspide morse la Reina, non nelle poppe, ma nel braccio; non volendo la ragione, che si discostiamo dalla chiara, ed irrefragabile testimonianza de gl’istorici, […] per aderir al capriccio de’ moderni scrittori, per lo più privi d’erudizione, e di cognizione d’istoria»41.

Qui la critica che Gaudenzi rivolge spesso ai suoi contemporanei e in questo caso specifico a Marino, cioè di scrivere con grande arte e magniloquenza, ma «senza il supporto di una vasta e sicura dottrina»42.

2.3 Cleopatra come mezzo per toccare più ambiti del sapere

Tra le tavole introduttive della biografia, l’autore poschiavino ne inserisce una in particolare dove stila una lista di tutte le materie che tratta nelle varie digressioni, diramandosi dal tema principale. Gli argomenti toccati sono molteplici, si passa da digressiones politiche o filosofiche a inserzioni riguardo i vini, i banchetti, i rituali. La varietà di questi temi rispecchia ovviamente l’ecletticismo dell’autore, che sapeva di filosofia, di zoologia, di etica, di storia e così via. Questo miscuglio di dottrine è valso anche delle critiche al Gaudenzi, del quale Girolamo Tiramboschi, erudito settecentesco, dirà: «Volendo egli abbracciare ogni cosa, niuna ne strinse, e fu scrittore superficiale e leggero»43. In realtà spesso questo apparente divagare e queste spinte centrifughe, che talvolta portano a perdere il centro del discorso, sono necessarie per avvalorare maggiormente l’opera e far sì che venga presa in considerazione. L’autore stesso, in un ampliamento dell’opera, scrive: «Oh infelicità della nostra etade, nella quale non si può creder quanto sia l’abuso dell’ingrossar libri per accreditarli»44 e poi conclude: «Sù obbediscasi al vostro voler, proviamo se con rilegger Cleopatra ella sa ricever da me accrescimento».45 Il Gaudenzi, tuttavia, sfrutta ciò come un’occasione e aggiunge sia commenti riguardo il tecnicismo e il nozionismo della modernità sia nuovi dati sull’antichità. Continua la sua nobilitazione della regina, parla degli egizi come un popolo civile e per niente barbaro, racconta della casata tolomea, aggiunge episodi curiosi della vita di Cleopatra, i suoi giochi con Antonio, i suoi discorsi con Cesare. In queste aggiunte a posteriori 49

l’autore conserva la linea che aveva impostato originariamente mantenendo un forte eruditismo. Se il Landi nel ’500 aveva considerato la biografia della regina come «graziosa storietta»46 da raccontare, il Gaudenzi si impegna in una concatenazione di nozioni, conoscenze e dati di fatto da snocciolare, arricchita da inserzioni sulle discipline più varie (filosofia, politica, etnografia, storia, filologia, ecc.).

2.4 Scontro tra amore per il progresso e morale cristiana

Nel dipingere Cleopatra, il biografo mette in atto una sorta di distinzione, che analizza da un lato le doti virtuose e dall’altro i peccati viziosi della donna. Questa divisione viene fatta sulla base della morale cristiana, infatti, sebbene il Gaudenzi si trovi già nella sua fase pisana, cioè quella in cui «è pronto a consegnarsi completamente allo spirito del progresso, al vento nuovo delle scoperte […] e delle innovazioni tecniche»47, resta comunque legato a quel suo originario desiderio di «connubio fra erudizione e aspirazione morale»48, Tanto è vero che se da una parte l’autore poschiavino accusa gli storiografi a lui contemporanei, perché ritiene che raccontino un tipo di storia «adulatrice verso i suoi, e maledica maligna verso i nemici»49, dall’altra parte sente il bisogno di giustificarsi continuamente

41 P. Gaudenzi, Di Cleopatra reina, op. cit., 157. 42 F. Guardiani – A. Rossini, ‘Un’apologia del Marino ex cathedra: L’orazione di Paganino Gaudenzi (1595-1649)’, Quaderni d’italianistica, 19, 1, Primavera 1998, 103. 43 G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana: dall'anno MDC all'anno MDCC, Tomo VIII, Parte I, Modena, 1793, 266. 44 P. Gaudenzi, Di Cleopatra reina, op. cit., 189. 45 Ibid., 192. 46 G. Landi, La vita di Cleopatra regina d’Egitto. Scritta dal conte Giulio Landi. Nuova edizione corretta, e ricorretta, Napoli 1818, 2. 47 F. Guardiani – A. Rossini, ‘Un’apologia’. art. cit., 103. 48 Ibid., 101. 49 P. Gaudenzi, I fatti di Alessandro il Grande, Pisa 1645, 6. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

proprio con questi e con i loro schemi mentali. Ciò emerge già dalle prime pagine dell’opera, quando nella dedica ‘alle dame’ sostiene di aver scelto di parlare di Cleopatra perché «ognuno che vuol comporre, ed a gli occhi di tutti esporre il parto del suo ingegno, deve préder un soggetto illustre, e famoso»50. Tuttavia l’autore aggiunge che, seppur venga concesso a questa di discolparsi con un lungo discorso ricco di arte e di eloquenza, nel quale la donna motiva le sue scelte e i suoi sentimenti, «non scusiamo Cleopatra […], anzi condanniamo la sua lussuria come grave peccato»51. La lussuria, appunto, è il punto critico sul quale anche il Gaudenzi – un intellettuale talvolta scomodo e pungente, definito dai suoi stessi amici e colleghi «bon homme, franc, et un peu libre pur le païs où il est»52 – non riesce a transigere. Tanto che in un passo, parlando dell’abitudine di Cleopatra e Antonio di uscire di notte «per sfogar la lor libidine, e con ogni licenza prender ogni gusto possibile»,53 scrive:

«Quando la donna si prende gusto d’andar attorno, benche di giorno, io non ardirei prometter per lei, che sia casta. Che diremmo di quelle, ch’escono di casa nel notturno tempo o mascherate, o senza maschera? Stanno conci quei mariti, c’hanno simili moglie, o padri, c’hanno tali figliole. Qual fusse Cleopatra, si sa»54.

2.5 La Cleopatra landiana e quella gaudenziana a confronto

Emergono evidenti, quindi, le differenze che scorrono tra la regina egiziana descritta da Giulio Landi nel Cinquecento e quella descritta da Paganino Gaudenzi nel Seicento. Se nella prima biografia il focus si concentra su una vita straordinaria, vissuta da una donna capace di affrontarla sia nei suoi momenti di fortuna che in quelli di cattiva sorte, nella seconda è presente talvolta un accento di critica etica. L’attenzione sul tema della pudicizia sembra riprendere l’importanza che aveva avuto con il Boccaccio e con il Betussi. Se il Landi non si avvicina mai a un tono di rimprovero o distacco, ma anzi giustifica e motiva gli amori di Cleopatra, il Gaudenzi, invece, per certi versi dubita anche del sentimento di questa. L’autore poschiavino, infatti, sostiene che la donna avesse utilizzato delle ‘malie’ per assoggettare 50

l’animo di Antonio, riferendosi non solamente a riti magici, pozioni o tutto quel mondo di occultismo al quale non tutti credevano, ma anche alla capacità di stregare attraverso atteggiamenti e parole:

Qual più bella malia si può trovar per mettere in schiavitù l’incaute persone, che la bellezza, la grazia, il dolce parlare, le lusinghe, i sguardi, il portamento della vita, delle quali cose a meraviglia si trovava provvista Cleopatra55?

Proprio con la sua bellezza, con il suo ‘dolce parlare’ e con il suo atteggiamento, la regina Cleopatra nell’opera del biografo seicentesco attira e stringe a sé più uomini di quelli effettivamente amati. In Landi vengono tracciati solo i due più grandi amori della donna, Cesare e Marco Antonio, e questi vengono descritti come leali e sinceri. In Gaudenzi il fascino di Cleopatra emerge più come una specie di sortilegio e la lista degli amanti si allunga: Cesare, Sesto Pompeio, Antonio, Erode. È definita astuta, causa degli errori politici di Antonio, rapace, «ugualmente al rider, e al pianger pronta»,56 tuttavia, non le viene sottratta la lealtà, né viene del tutto condannata. Gli amori di Cleopatra restano uno dei punti più dibattuti della biografia della donna, perché spesso resta in dubbio se fossero solo strategie volte a salvaguardare se stessa e il suo potere o legami puri e sinceri. Probabilmente, entrambe le cose. L’ultimo exemplum, che può essere riportato, riguardo il dissidio gaudenziano tra ammirazione personale del personaggio e radiografia critica religiosa, sta nella morte di Cleopatra. Il biografo seicentesco dedica

50 Ibid., 1. 51 Ibid., 6. 52 R. Pintard, Le libertinage érudit dans la première moitié du XVIIe siècle, Ginevra 2000, 252, [“un buon uomo, franco, ma un po’ libero per il paese in cui si trova”]. 53 P. Gaudenzi, I fatti, op. cit., 84. 54 Ibid., 86. 55 Ibid., 88. 56 Ibid., 130. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

un intero capitolo (precisamente il Cap. XLVI) a questo argomento, cercando di motivare la scelta del suicidio con argomentazioni culturali e storiche, ma sottolineando comunque la disapprovazione del fatto e mantenendo un punto di vista cristiano ed etico.

«[I personaggi grandi] facevano dunque maggior stima dell’honor, che della vita, e credevano esser molto peggio viver in potere dell’inimico, che morir presto, col veleno, o spada, o qualsivoglia modo. […]. La quale però oppenione viene dannata dalla religion Cristiana, insegnante, che per niun caso sia lecito a se stesso levar la vita, se ben i Padri antichi non riprendono alcune fanciulle, e sante donne, le quali per conservar la sua pudicizia non dubitarono gettarsi ne’ fiumi, o in altra maniera morire. Il che però s’attribuisce a un impeto divino, che non deve facilmente esser dalle donne ordinarie imitato. Favellandosi dunque del fatto di Cleopatra secondo il secolo, nel quale visse, fece generosamente: ma secondo la verità Cristiana l’atto suo merita riprensione57».

2.6 La bellezza, l’eloquenza, la furbizia: doti positive

Se inizialmente si è analizzato come il Gaudenzi ‘sfrutti’ il personaggio di Cleopatra come ‘mezzo’ per ostentare cultura e sapienza e poi si è passati a quei lati di essa – lussuria, fedeltà, morte – da sempre motivo di contrasti, ora si parla dell’altra faccia della medaglia. Sebbene Cleopatra sia una delle donne più ricche di sfaccettature che la storia ci offre e sia, spesso e volentieri, soggetta a critiche negative, le sue virtù restano il punto di forza, motivo di tanto successo e fama. Prima tra tutte sicuramente la bellezza, non da concepire come meramente fisica, ma anche di gesti, sensualità, portamento, cultura e atteggiamenti. Il Gaudenzi, oltre a parlarci della già nota regina elegante e teatrale, si sofferma anche su alcuni deliziosi dettagli. Parlando, infatti, dell’imminente incontro tra Cleopatra e Antonio, dedica diverse pagine su come la regina ‘indossasse’ amabilmente gli anni migliori per una donna.

«La regina non giovinetta, come quando allettò Cesare, ma ne gli anni, ne’ quali con la prudenza, e col consiglio 51 sanno far le donne più comparir la bellezza. […] La donna per esser potente, per farsi stimare, e far fortuna non dee esser ne giovinetta acerba, ne declinante alla vecchiaia, ma tra venticinque, e trentacinque anni dell’età sua in circa. […] Dunque in quella, che non è vecchiaia e non è giovinetta acerba si trova il vero stato della donnesca felicità, per valersi della sua beltà, e grazia58».

La regina, inoltre, acconciava il suo aspetto anche a seconda della situazione e molte volte la sua bellezza camminava di pari passo con la sua intelligenza e la sua astuzia. Ciò si può evincere anche dai modi differenti in cui si propone ai tre capi romani con i quali si troverà ad avere a che fare. A Cesare, amante delle donne, si mostrerà in tutta la sua bellezza fisica; ad Antonio, amante dello sfarzo, si mostrerà circondata dal lusso, vestita da dea; ad Ottavio, amante del dominio, si mostrerà con abiti umili e si getterà ai suoi piedi, supplice, in preghiera. All’aspetto e al comportamento, furbo e circostanziale, abbinava la sua seconda innegabile dote: l’erudizione, in particolare nell’eloquenza. Il Gaudenzi più volte si sofferma sul ‘dolce parlare’ della regina egizia, riporta diversi suoi discorsi, dedica un intero capitolo alla brillantezza di Cleopatra nel saper motteggiare, evidenzia con quanta cultura sapesse destreggiarsi in un gran numero di lingue. La bella egiziana sa muoversi in tutte le varie sfumature dell’oratoria: il monologo iniziale difensivo, dove cerca di discolparsi o quanto meno di giustificare i suoi atteggiamenti definiti ‘lussuriosi’; i discorsi esortativi; la supplica ad Augusto. Concludendo, il Gaudenzi, nella dedica ‘alle dame’, scrive: «Veggiamo adesso se Cleopatra hebbe cervello, e fù accorta sapendosi di tante doti, e del corpo, e dell’animo valersi»59. Questo proposito, filo conduttore di tutta l’opera, in realtà, è dimostrato già dalle prime righe, avendo egli stesso ammesso, nel giustificare la scelta di questa biografia: «ella nel teatro della fama ancora oggidì dopo molti, e molti

57 Ibid., 165. 58 Ibid., 39-40. 59 Ibid., 5. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

secoli tanto conspicua, che non so propriamente, qual donna a lei possa esser ò paragonata, o anco preferita»60. L’autore, quindi, ha ben chiaro quale grande donna sta andando ad affrontare e trattare, nonostante talvolta si rapporti a lei con qualche accento di critica e giudizio.

3. La figura di Cleopatra nella pittura del ’500 e del ’600

L’attenzione verso il personaggio storico di Cleopatra non si concentra, però, come già accennato, solo nell’ambito della letteratura biografica. La regina tolomea, infatti, incarna una delle donne più affascinanti e intriganti dell’antichità, al punto che proprio ad essa sono state dedicate numerose opere nelle arti figurative delle varie epoche. L’arte Cinquecentesca e, soprattutto, quella Seicentesca contano numerosissime tele e diversi autori che hanno scelto di prendere a soggetto la bella egiziana. Si parla di tele e non di opere artistiche in generale, perché l’ambito scultoreo è decisamente più carente rispetto all’evidente abbondanza di capolavori pittorici di questi due secoli, incentrati proprio sulla regina egizia.

3.1 La reale ‘bellezza’ della regina Cleopatra

Se nel campo letterario Cleopatra riesce a ‘catturare’ «quegli che ella voleva con l’arte degli occhi, e con l’ornamento delle parole»61, in quello artistico il problema estetico si pone con maggiore imponenza. Privi del supporto del ‘dolce parlare’, che molto influiva sulla capacità seduttiva della donna, i pittori moderni devono trovare degli espedienti per poter raffigurare materialmente una donna attraente. Quei contorni idealizzati, stabiliti dalle perifrasi degli scrittori, spesso venivano calcati anche sulla base della personalità, della cultura e della raffinatezza della regina. Paradossalmente, quindi, risultava più semplice ad un biografo, piuttosto che ad un pittore, tracciare Cleopatra in modo affascinante e sensuale. Inoltre, l’immagine di «beltà, e grazia sopra l’altre Dame»62 inizia a diffondersi con il passare del tempo, ma fonti

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più antiche e più vicine all’epoca della regina, ci riportano ben altra testimonianza. Plutarco (Vit. Ant. 27, 3), scrive di Cleopatra che la sua bellezza non era irresistibile quanto invece la sua compagnia e il suo fascino. La carismatica regina egizia, dunque, si è conquistata la reputazione di ‘impareggiabile’ anche grazie alla sua intraprendenza, erudizione e autorevolezza, oltre che al mero aspetto fisico. Nonostante ciò, pur senza eccellere né predominare su tutte, rispettava i canoni di bellezza del suo tempo.

Figura 1. Gruppo numismatico classico, Denarius, argento, 3.45g x 12 mm, 32 a.C.

La vera fisionomia di Cleopatra giunge a noi grazie ad alcune monete del I sec. a. C. (fig.1). La donna è rappresentata sempre con mento pronunciato, naso aquilino e capelli raccolti. Questi tratti,

60 Ibid., 1-2. 61 D. Albanzani da Casentino, Volgarizzamento di maestro Donato da Casentino dell’opera intitolata De claris mulieribus di M. Boccaccio, Milano 1841, 363. 62 P. Gaudenzi, Di Cleopatra reina d’Egitto, la vita considerata da Paganino Gaudenzio, e poi dall’istesso riletta, con piccola varità di cose tanto moderne quanto antiche, Pisa 1642, 1. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

completamente differenti da quelli ammirati dagli uomini rinascimentali e barocchi, al tempo della regina erano, invece, valore aggiunto. Forte, infatti, nell’antichità era il culto della fisiognomica, una disciplina pseudoscientifica secondo la quale si può dedurre il carattere di una persona dai suoi attributi fisici. Dunque, questi lineamenti, quasi caricaturali, hanno una simbologia: il naso arcuato era associato alla forza e all’autorità, i capelli raccolti indicavano potere e compostezza.

3.2 La trasformazione della regina egizia nel ’500 e ’600

La metamorfosi dell’aspetto di Cleopatra che avvenne nel Cinquecento e nel Seicento, però, non deve essere associata ad ignoranza o inconsapevolezza, bensì fu una modellazione volontaria e cosciente del personaggio, basata sul mutamento dei canoni estetici e sul desiderio di assecondare questi:

«Pur troppo sembra che non fosse così bella; e, dopo aver cercato di raffigurarla nell’Arianna dormiente nel Vaticano, nel bronzo di Ercolano, in ogni bella figura contraddistinta dal serpente, si è costretti a riconoscerla, quale fu, nelle monete che ne portano l’impronta. Bella no; e quel naso, che costituiva la preoccupazione di Pascal, ha l’aria proprio di essere più lungo del dovere, ed assai spiccatamente aquilino63».

Un celebre aforisma di Blaise Pascal, filosofo e matematico seicentesco, infatti, riporta: «Si le nez de Cléopatre eut été plus court, toute la face de la terre auroit changé»64. I moderni, dunque, erano ben a conoscenza dei reali lineamenti della regina egiziana, ma non accettavano che fosse così diversa dalla loro idea di ‘attraente’. Per gli uomini cinquecenteschi e seicenteschi, infatti, una donna bella doveva avere lunghi e folti capelli biondi, la pelle chiara, il naso e la bocca piccoli, il mento rotondo e doveva essere in carne65. Questi particolari si possono dedurre dalle raffigurazioni rinascimentali e barocche, ma in realtà si hanno anche delle vere e proprie trattazioni scritte al riguardo. Un esempio è l’opera di Agnolo Firenzuola Dialogo delle bellezze delle donne, dalla quale emerge l’importanza data all’elemento 53 estetico, tanto da diventare argomento di accurate analisi. La donna perfetta dei moderni era l’esatto contrario della regina egizia. Ciccotti, autore contemporaneo, nella descrizione di Cleopatra, dice:

«Pure la bocca assai larga, […]; le abbondanti trecce costrette dal diadema; […]; il corpo serpentino, che quella faccia un po’ affilata fa supporre; lasciano agevolmente concepire come questa donna, […] potesse riescire irresistibile. Quanto diversa dalla paffuta e giunonica Cleopatra di Guido Reni66».

63 E. Ciccotti, Donne e politica negli ultimi anni della repubblica romana, Milano 1895, 41. Inoltre, Cfr.. J. J. Bernoulli, Römische Ikonographie, Stoccarda 1882, 226-232. 64 B. Pascal, Pensées, Parigi 1812, 255, [“se il naso di Cleopatra fosse stato più corto, tutta la faccia della terra sarebbe cambiata”]. 65 Cfr. A. Firenzuola, Dialogo delle bellezze delle donne, Venezia 1552, 62-70. 66 E. Ciccotti, Donne, op. cit., 42. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

Figura 2. Guido Reni, Cleopatra, olio su tela, 125.5 x 97 cm, Firenze, Palazzo Pitti, 1640 ca.

La regina egizia è un soggetto femminile che il pittore bolognese Guido Reni (1575-1642) più volte sceglierà di riprodurre, rispettando, però, i gusti dei suoi contemporanei: fisico robusto e abbondante, ovale del viso rotondo, carnagione pallida, capelli biondi, naso e labbra aggraziati (fig. 2). Prendendo spunto proprio dalla Cleopatra reniana, dunque, possiamo raccogliere alcune tipizzazioni che si fissano, nel Cinquecento e nel Seicento, nella raffigurazione pittorica della regina e quei dettagli che, invece, nati da diverse leggende, creano versioni differenti dello stesso soggetto. Dal XVI sec. in poi, infatti, oltre l’idealizzazione estetica secondo i propri canoni di bellezza, avviene anche un’altra standardizzazione di questo personaggio storico: Cleopatra è morente. La donna verrà dipinta dagli autori italiani sempre nell’atto di morire o negli istanti subito successivi e, quindi, accompagnata dal famoso serpente. Ma per 54 quanto possa essere omogenea la scelta del momento da dipingere, numerose sono le variazioni e i dubbi riguardo il modo in cui questo reale suicidio fosse stato compiuto. Ogni artista risponderà a queste leggende in maniera del tutto personale, basandosi su fonti e dicerie differenti. Anche lo stesso Landi, nella sua biografia, tentenna, chiara testimonianza del numero elevato di miti che circolavano:

«In che modo Cleopatra morisse varie furono le opinioni; dissero alcuni che in un vasetto tenesse nascosto un aspido sordo, il quale con una verghetta d’oro irritando fecesi il manco braccio morsicare. Altri pensarono che ella nella cestella de’ fichi, avesse fuori della sua opinione trovato l’aspido […], ringraziando Marc’Antonio, come che egli tal dono gli avesse dal cielo inviato, e porgendogli il manco braccio ignudo, in questo ei ficcasse i velenosi denti; [..]. Altri affermarono che Cleopatra uno scriminale o ago da capelli avesse di forte veleno temprato, col quale pungendosi se qualche poco di sangue toccato avesse, induceva una subita morte senza dolore. Altri dissero che sotto i capelli portasse nascosta una verghetta d’oro, nella quale chiuso teneva il veleno67».

Guido Reni, in tutte le tele in cui raffigura Cleopatra, resta fisso sulle sue scelte, apportando pochissime variazioni da una versione all’altra. Non cede alla tentazione di sensualizzarla troppo, al contrario la idealizza. La donna pur essendo rappresentata col seno scoperto e le vesti slacciate, non ha alcunché di erotico. L’aspide, tenuto tra le dita, essendo estremamente piccolo e sottile, non risulta minaccioso o letale. Infine inserisce spesso il particolare della cesta di frutti, la quale in questo caso si trova in una posizione di primo piano (fig. 2), ma in altre versioni è relegata in un angolino nella penombra dello sfondo. Questa coerenza riguardo la versione da assecondare, però, non è prerogativa comune a tutti coloro che sceglieranno di dipingere più volte la morte di Cleopatra, come vedremo.

67 G. Landi, La vita di Cleopatra regina d’Egitto. Scritta dal conte Giulio Landi. Nuova edizione corretta, e ricorretta, Napoli 1818, 95-96. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

3.3 La morte di Cleopatra nell’arte pittorica cinquecentesca

Le tele selezionate, per analizzare le diverse versioni pittoriche cinquecentesche riguardanti Cleopatra morente, sono due: da un lato la Morte di Cleopatra di Giampietrino (fig. 3); dall’altro l’omonima Morte di Cleopatra di Rosso Fiorentino (fig. 4).

Figura 3. Giampietrino, Morte di Cleopatra, olio su tela, Figura 4. Rosso Fiorentino, Morte di Cleopatra, olio su tela, 73x57 cm, Parigi, Museo del Louvre, 1515. 98.5x76.5 cm, Braunschweig, H.A.Ulrich-Museum, 1525.

I due pittori scelgono lo stesso soggetto, lo ritraggono con fisionomie simili, ma seguono due versioni evidentemente differenti dello stesso episodio. Entrambe le donne raffigurate hanno lunghe trecce bionde, l’incarnato candido, la corporatura giunonica, il profilo alla greca, eppure la Cleopatra del Giampietrino assomiglia alle donne del suo maestro Leonardo da Vinci, mentre quella del Fiorentino è 55 un chiaro rimando all’Arianna dormiente (fig. 5). Questa scultura, che per anni fu creduto rappresentasse Cleopatra per via del serpente intorno al braccio sinistro, viene ripresa attraverso più particolari: il dettaglio dell’aspide, la posa scomposta, la posizione del polso. Pure le ambientazioni sono diverse: la prima luminosa e aperta, ma umile e dimessa; la seconda chiusa e drammatica, ma sontuosa e drappeggiata. Nel primo dipinto ritroviamo la cesta di fichi, assente nel secondo, nel quale, però, compare un’ancella. Anche il fatale serpente è trattato in modi e momenti diversi: da un lato massiccio, nell’atto di mordere la donna ancora in vita; dall’altro sottile e avvolto al braccio dell’esanime fanciulla. I due autori, dunque, pur trattando un evento stereotipato, riescono a proporre delle varianti originali.

Figura 5. Arianna dormiente (particolare), marmo, Città del Vaticano, Musei Vaticani, III sec. d. C.

3.4 La morte di Cleopatra nell’arte pittorica seicentesca

Nel Seicento troviamo un numero ancora maggiore di opere raffiguranti la regina, anche perché, come pure fece il già citato Guido Reni, molti artisti non si accontentarono di dedicarle una sola tela. Data Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

l’ingente mole sono stati selezionati solo alcuni dipinti, emblema delle varie sfaccettature in cui è stato fratto questo storico suicidio dalle diverse leggende diffusesi e dalle reinterpretazioni personali.

Artemisia Gentileschi (1593-1645), rarissima pittrice del ’600, ritrasse Cleopatra morente in più dipinti. Tra tutti il primo, intitolato Cleopatra (fig. 6), di certo, è quello più soggettivo e intrigante, estremamente diverso dalle altre versioni circolanti. Artemisia, infatti, a favore di un realismo tutto caravaggesco, stravolge uno di quei tratti che gli altri artisti avevano ritenuto imprescindibile: la grazia.

«Il suo realismo è assoluto, imminente, senza nessuna concessione lirica o intimistica. […] Raramente un nudo ha rinunciato nelle forme e nella posa ad ogni esterna gradevolezza. Noi, di questa Cleopatra, sentiamo gli odori, il sudore, la puzza. […] una Cleopatra mai meno regale. Una donna e basta, corpo prima che anima, esistenza prima che essenza68».

In effetti la regina egizia non è più rotonda, ma corpulenta; non è più elegantemente posata come un’antica statua greca, ma scomposta; non tiene tra le dita il mortale rettile, ma lo stringe; non ha bisogno di panneggi, cesti e ancelle, ma sola riempie drammaticamente tutta la scena. Eppure non è questo realismo ciò che colpisce di più, perché uno dei dettagli più avvincenti è il volto. Da cornice a quello sguardo disilluso, si ritrova un viso noto e non solo perché conforme alla tipica estetizzazione barocca. La giovane pittrice, infatti, durante il suo apprendistato, fu vittima di uno stupro da parte del suo maestro Agostino Tassi. La Gentileschi ebbe il coraggio di denunciare l’aggressore non solamente per vie legali, ma anche attraverso le sue opere e compiendo «un’operazione di autoaffermazione […], si fa protagonista assoluta dei suoi dipinti, in un continuo ammiccamento»69. Inoltre mostra ‘stima’ verso Cleopatra, poiché, generalmente, era solita inserire il proprio autoritratto nelle vesti di grandi personaggi femminili biblici: sante, martiri, la Vergine stessa. La regina egizia, quindi, viene inserita in un corollario di donne forti e ammirabili. Con Artemisia Gentileschi, dunque, si assaggia il maggior 56

grado di personalizzazione possibile nella raffigurazione pittorica della fiera Cleopatra.

Figura 6. Artemisia Gentileschi, Cleopatra, olio su tela, 97 x 71.5 cm, Ferrara, Fondazione Cavallini-Sgarbi, 1620 ca.

Con Guido Cagnacci (1601-1663), invece, emerge una resa di Cleopatra completamente diversa da quella artemisiana. Nella Morte di Cleopatra (fig. 7) la regina egizia riacquista tutta la sensualità e l’eleganza perduta. L’aspide questa volta le morde il braccio, strisciando su un lussuoso trono, riproposto dal

68 Artemisia Gentileschi. Cleopatra. Catalogo della mostra (Urbino, Sale del Castellare di Palazzo Ducale, 29 marzo – 28 giugno 2015), a cura di V. Sgarbi, Urbino 2015, 3. 69 V. Sgarbi, ‘Artemisia Gentileschi e quel narcisistico trucco di dare il suo volto ai suoi dipinti’, IO Donna, 16 gennaio 2018, 22. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

pittore anche in altre tele dedicate all’egiziana, che, insieme alla corona di diamanti, restituisce alla sovrana tutta la sua regalità. In più la donna è circondata da sei ancelle, che con i propri gesti conferiscono drammatica enfasi alla scena. La tela del Cagnacci è affollata, ma questo non impedisce all’esanime regina di dominare con la sua «bellezza languida e struggente […] in bilico tra peccato ed estasi70». I volti visibili delle serve sono segnati dal tempo, Cleopatra, invece, con il viso sereno, sembra quasi mostrarsi «in una sorta di estatico abbandono al proprio destino71».

Figura 7. Guido Cagnacci, Morte di Cleopatra, olio su tela, 153 x 168.5 cm, Vienna, Kunsthistoriches Museum, 1659.

L’elemento dell’estasi lo ritroviamo anche in una delle versioni di Giovanni Francesco Barbieri (1591- 1666), chiamato Guercino a causa del suo occhio guercio. L’artista, nel Suicidio di Cleopatra (fig. 8), ritrae la regina come fosse una santa, arricchendola di lussuose vesti e ponendola nell’ambientazione di un’antica rovina. Ritorna il cesto di fichi in primo piano, la posa teatrale, il fisico idealizzato, né realistico né sensuale, lo sguardo rivolto verso l’alto. Tutto questo rimanda alla versione di Guido Reni 57 (fig. 2), ma con la differenza che il Guercino esagera e impreziosisce il tutto, conferendo un tono sovrabbondante all’opera. Un’altra differenza con Reni è visibile nelle diverse varianti proposte dai due pittori: se il pittore bolognese conserva sempre gli stessi elementi, pur cambiandone la disposizione, e le stesse scelte nelle varie tele; il pittore guercio, invece, non mantiene la stessa congruenza di immagini. Evidenti, infatti, sono le differenze tra il Suicidio di Cleopatra del 1621 (fig. 8) e la successiva tela della Cleopatra morente del 1648 (fig. 9).

Figura 8. Guercino, Suicidio di Cleopatra, olio su tela, Figura 9. Guercino, Cleopatra morente, olio su tela, 116.8 x 93.3 cm, Pasadena, Norton Simon Museum, 1621. 173 x 287 cm, Genova, Musei di Strada Nuova, 1648.

70 O. Leotta, Col volto reclinato sulla sinistra, Catania 2015, 169. 71 Ibid. Elisa di Bona Cleopatra nella letteratura e nella pittura del ‘500 e del ‘600

In questa seconda versione resta una scenografia ricca di drappi, panneggi, grinze del letto e delle vesti, in linea con le scelte pittoriche del Guercino. Tuttavia questa coerenza si ferma alla tecnica, la scena, invece, cambia. Cleopatra non rimanda più a una santa, ma a una venere dormiente, manca l’estasi, manca il cesto, ma soprattutto manca la vita. La regina è già morta, l’aspide ha già effuso il suo veleno. La nostra Cleopatra riposa per sempre, in un sonno senza fine che ha scelto di autoimporsi. Il suo regno diverrà provincia romana, le sue ricchezze saranno di altri, alcuni dei suoi figli verranno uccisi, ma tutto questo lei non lo vedrà. Lei non diverrà mai né schiava, né povera, né offesa. Lei resterà eternamente Cleopatra, la regina d’Egitto.

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MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

La casa di Sallustio a Pompei

MARTINA LICIBERTO

a Casa, esplorata tra il 1805 e il 1809 e oggetto di campagne di scavo stratigrafico negli anni ’70 del ‘900, fu denominata di Sallustio da iscrizioni dipinte sulle facciate di case ad essa adiacenti, disposte ai lati della via di Narciso: la cosiddetta Casa di Atteone, dal dipinto presente nel peristilio, e la Casa di A. Cossius Libanus, da un sigillo ritrovato al suo interno. In realtà nell’ultimo periodo di vita della città vesuviana, e forse anche da prima, essa non fu utilizzata come dimora domestica, ma piuttosto come albergo, come attrezzato termopolio in cui era possibile ristorarsi e riposare. Nella sua struttura molto regolare, inserita entro compatti muri perimetrali, si riconosce l’impianto primitivo risalente almeno al II sec. a.C., con l’atrio (10), il tablino (19) fiancheggiato dai due oeci (22 e 20-28), le alae (17) e (42) e i cubicoli (12), (14), (15), (41), intorno ad esso.

Innanzitutto abbiamo l’ingresso della Casa, rappresentato dal vestibolo.

 Il presente articolo è la rielaborazione di un lavoro realizzato per l’esame di Archeologia presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’, sotto la direzione del Prof. F. Rausa. Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

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Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

Il vestibolo segna lo spazio tra la strada e la porta che si apre sulla facciata e che immette nelle fauces, stretto corridoio che conduce all’atrium. La Casa presenta un atrio tuscanico: facendo incrociare a due a due quattro travi, veniva disegnato il compluvium; bastava poi collegare gli angoli della stanza a quelli del compluvium per posarvi le assicelle che dovevano sostenere le tegole; ciascuna falda del tetto era così inclinata verso il compluvium.

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Questa immagine rappresenta la veduta Est dell’atrio con il portale di ingresso e le porte di due botteghe con il bancone di vendita e il retrostante tavolo; in primo piano c’è l’impluvium. Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

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La parete Nord dell’atrio conserva la decorazione di I stile. In questa parete è visibile la stretta correlazione tra decorazione e struttura architettonica: l’ampiezza delle porte è infatti uguale a quella delle campiture di ortostati. Il passaggio d’angolo verso l’ala è risolto con il finto pilastro d’anta che si affaccia su entrambi gli ambienti. Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

La struttura muraria in opera quadrata è visibile per le lacune dell’intonaco in corrispondenza dello zoccolo; resta la zona mediana con filari di grosse bugne gialla, rossa e a finta breccia, aggettanti e separate da solcature; segue una fascia viola e la cornice a dentelli di stucco, al di sopra una zona rossa chiusa in alto dalla cornice modanata di stucco.

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Nell’angolo sud-ovest dell’atrio si trovava la cucina (16), con un pozzo nell’angolo nord-est. Un ampio giardino circondava l’edificio su tre lati (nord, est e sud), mentre nel quarto si disponevano sei botteghe aperte verso la strada e le fauces di ingresso. Intorno alla fine del secolo, in coincidenza con l’esecuzione della decorazione del I stile, la cucina, dapprima comunicante con il giardino, fu trasformata in cubicolo e il pavimento fu rialzato a livello di quello dell’atrio, nel quale furono aggiunte le soglie di travertino e furono impiantate canalette di collegamento tra la cisterna sottostante l’impluvio e i pozzi presenti nei lati ovest e sud del giardino. A proposito dell’impluvio, la cui modanatura del bordo è stata presa a modello per la determinazione del tipo A nella classificazione degli impluvi, è da ricordare che era dotato di una mensa marmorea con sostegni a zampe di grifo e, come getto di fontana, esibiva il gruppo bronzeo di Ercole e la cerva cernite ora al Museo Archeologico di Palermo, con una vasca di raccolta a forma di conchiglia. Secondo Anne Laidlaw, alcuni dei principali ritrovamenti fatti durante il primo scavo ufficiale, nel febbraio del 1805 davanti alla regina Maria Carolina, la regina borbonica, furono portati a Palermo quando i francesi presero il controllo nel marzo del 1806 sotto Napoleone, e ora sono nel Museo Archeologico Regionale di Palermo. Il più sorprendente fu appunto il grande gruppo di fontana in bronzo di Ercole e il Cervo, trovato sul retro dell’impluvio su un piedistallo. Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

Questo gruppo bronzeo rappresenta la quarta fatica di Ercole: catturare la cerva Cernite che viveva ad 64

Enoe (terra del vino), ultima terra in cui era venerata Artemide. Il suo compito non era uccidere la cerva, ma portarla viva ad Euristeo, re di Micene.

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Tra la fine del I sec. a. C. e gli inizi del I sec. d. C., in coincidenza con una trasformazione d’uso del complesso, si realizzarono importanti modifiche più funzionali che sostanziali riguardo al primitivo impianto, che resta perfettamente riconoscibile per le caratteristiche murarie, in regolari blocchi di opera quadrata di tufo con muri divisori in opera incerta di calcare e lava e per le porte di slanciate proporzioni. Lo oecus a destra del tablino fu diviso in tre ambienti, una faux (20), un piccolo armadio e un cubicolo (28) aperto verso il giardino; lo oecus di sinistra, dapprima accessibile dall’atrio, fu invece aperto verso il giardino e verso il tablino, e la porta verso l’atrio fu murata e trasformata in larario dipinto verso l’atrio e in finta porta del II stile nello oecus stesso. Per quanto riguarda il larario, al centro c’era un tripode ardente, a destra del quale stava il Genio con in mano una ciotola sopra la fiamma. A sinistra del treppiede c’era un fanciullo che suonava con il piede su uno sgabello. Su ciascun lato c’era un Lar in tunica blu e pallio rosso con in mano un corno e una ciotola. Dall’alto c’erano ghirlande che pendevano da entrambi i lati. Nella parte inferiore del muro c’era un solo serpente. Quattro fori nella parete sotto il dipinto indicano la posizione di una sporgenza per le offerte o le immagini degli dei. L’immagine che segue rappresenta una pittura del 1852 di Gell, che mostra la parte superiore del larario. Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

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Nell’angolo Nord-Est della casa si trova il triclinio estivo con una vasca e il monopodio di marmo al centro del bancone in muratura; le pareti Nord ed Est erano decorate in III stile, con zoccolo rosso e zona mediana a semplice struttura paratattica con pannelli rossi con quadri, ora evanidi e non descritti all’epoca dello scavo, separati da stretti scomparti neri; il fregio è del tutto scolorito.

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Il giardino fu dotato di un portico colonnato, che si estendeva sui lati est e nord.

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Sul portico, in un momento ancora successivo verisimilmente dopo il terremoto del 62, furono ricavati, con la chiusura degli intercolumni, alcuni ambienti di piccole dimensioni (39), (23) e (18). In uno di essi (18) fu realizzata la scala che permetteva di accedere al piano superiore, aggiunto appunto in quel

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periodo, sul lato nord dell’atrio; in quella medesima circostanza la parte occidentale del braccio nord del giardino e le due botteghe più settentrionali, sul fronte strada, furono trasformate in panificio con macine e forno; nell’angolo nord-est del giardino fu impiantato un biclinio estivo protetto da una pergola e le pareti furono decorate con pitture di giardino che, collocate illusionisticamente al di là di lesene di stucco, tra le quali pendevano ghirlande, accrescevano lo spazio reale.

La mistione tra realtà e illusione era ulteriormente sottolineata dalla presenza di una vaschetta di fontana accanto a finte fontane di marmo, anteposte alle incannucciate dipinte, che separavano il Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

giardino reale da quello di fantasia. Agli inizi dell’età imperiale era stato impiantato anche il termopolio (3), aperto verso la strada e verso l’atrio, comunicante, ma non accessibile, dal vestibolo di ingresso (1), prova ulteriore di come tutto il complesso intorno all’atrio fosse divenuto un pubblico esercizio. Il vestibolo presenta un pavimento in cocciopesto con rete li losanghe di tessere bianche con tessere nere agli incroci.

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Il quartiere privato fu allora relegato nel braccio meridionale del giardino, accessibile solo attraverso l’ambiente (29). In quella zona, la tecnica muraria (opera incerta con inserzione di laterizi) e la decorazione pittorica (riferibile al III e al IV stile), comprovano la seriorità di esecuzione rispetto al resto dell’edificio. Furono realizzati ambienti di soggiorno, cubicoli (33 e 34), triclinio (35) attorno a un peristilio (31) con viridarium (32) ornato con la pittura di Artemide e Atteone, che diede il nome alla casa e che andò parzialmente distrutta durante un bombardamento nel novembre 1943, che inflisse irreparabili perdite alla zona sud-est di tutto il complesso. Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

Il cubicolo (33) presenta un pavimento in mosaico bianco e nero con tappeto dal complesso disegno di una rete di meandri sovrapposta a ottagoni, riferibile al I sec. d.C., periodo in cui fu decorata in IV stile questa parte della Casa.

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Si tratta di una riproduzione ad acquerello di particolari delle pareti di questo ambiente. Lo zoccolo presenta un’alternanza di pannelli rossi e neri con piante, separati da scomparti con sfinge elmata e con delfini. La zona mediana è gialla; i pannelli centrali, con nicchia ricavata tra la zona mediana e quella superiore, sono separati dai semipannelli laterali da scorci architettonici che proseguono nella zona superiore. Le vignette sono un cigno in volo ed un guerriero elmato, con lancia e scudo. Nella zona superiore ci sono bordi di tappeto e quadretti con thyasoi marini, ghirlande, brevi candelabri metallici, un cigno entro un riquadro e una sirena sotto un’edicola con trabeazione a grottesche. È riprodotta anche la cornice di stucco azzurro con trifogli. L’altro cubicolo (34) presenta, invece, un pavimento in opus sectile di piastrelle quadrate e triangolari di marmi colorati e particolare del rettangolo centrale.

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L’immagine sottostante, ovvero una tempera realizzata da F. Morelli, raffigura la parete Sud: abbiamo lo zoccolo suddiviso in pannelli a finto marmo che riprendono il disegno di quelli reali della parete Nord; la zona mediana rossa presenta nel pannello centrale un quadro (Elena e Paride) e in quelli laterali coppie di amorini in volo; scorci architettonici del tutto indipendenti dallo zoccolo sottostante e dalla zona superiore, separano i pannelli e sorreggono ghirlande, su una delle quali poggia un pavone; una cornice di stucco a loti e trifogli funge da appoggio ad un quadro riportato, con Ares e Afrodite, collocato al centro della zona superiore, rivestita di semplice intonaco grezzo. Il ricorrere sulla stessa parete di soggetti amorosi nei quadri e nelle vignette è chiaro indice dello svolgimento di un unitario programma decorativo, perfettamente consono alla destinazione d’uso dell’ambiente in cui veniva realizzato.

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Entrando nel dettaglio, è possibile osservare il quadro con Ares e Afrodite e ricavare delle riflessioni. Il dio, vestito di un manto azzurro, trattiene con la sinistra il polso sinistro di Afrodite che gli siede accanto su di una roccia e con la destra le tiene sollevato il manto rosso, quasi a fare da sfondo al suo candido corpo, nudo fino alle anche; la dea, sollevando la destra al di sopra del capo, tende tra le mani una ghirlanda. Un amorino, piedi a sinistra, regge la lancia e solleva lo scudo di Ares perché la dea possa specchiarvisi, mentre un altro, seduto sulle rocce a destra, tenta di infilarsi il pesante elmo; accanto è appoggiata la spada.

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Conservatasi pressoché integra fino al secondo conflitto mondiale, durante il quale venne bombardata, fu la parete Sud del viridarium. Oggi restano solo pochi particolari, come l’immagine della morte di Atteone. Quella che segue è, invece, una riproduzione ad acquerello di tutto il dipinto di Artemide e Atteone.

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La parete, a fondo rosso e con zoccolo nero con pannello giallo e sfingi affrontate ai lati di un gorgoneion, era immaginata come preceduta da due statue di Ninfe-fontana su pilastrino, sorreggenti ciascuna un bacino a conchiglia, con uccelli in volo e tamburelli sospesi a nastri, sfondata da un grande finestrone arcuato attraverso il quale si vedeva la scena della morte di Atteone. La narrazione dell’episodio si svolge in due momenti: il giovane cacciatore, raffigurato in secondo piano dietro le rocce nel gesto dell’aposkopein, scorge Artemide al bagno in un anfratto roccioso che assume quasi la forma di una nicchia, davanti alla quale sono l’hydria, simbolo delle acque sorgive da un lato e il tucasso, le lance, la corona radiata e il manto della dea dall’altro. Quest’ultima, in una posa derivata, ma con notevoli modifiche nella posizione delle braccia, si rivolge verso Atteone con gesto minaccioso e, trasformatolo in cervo, gli aizza contro i suoi stessi cani che, in questo quadro, hanno le caratteristiche di molossi. Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

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Passiamo alle alae. In questo caso abbiamo la veduta da Sud dell’ala (42). La finestra nella parete di fondo è riferibile al primitivo impianto della casa, nel quale, essendo l’atrio privo di compluvio, le fonti di luce erano appunto le finestre di questa e dell’opposta ala (17). Il passaggio verso la stanza (18), realizzata successivamente, e nella quale si trova la scala di accesso al piano superiore, è da ricondursi forse alle modifiche realizzate dopo il terremoto del 62 d.C. Lo schema della decorazione di I stile era molto ben conservato fino alla classificazione della Laidlaw; le bugne in corrispondenza degli angoli sono rappresentate come se fossero dei veri e propri blocchi che proseguono all’interno della parete; tale effetto è dato accostando, appunto nell’angolo, bugne di colore contrastante. Segue un’immagine della parete Est con la porta verso lo oecus (22) murata e trasformata in larario, la cui pittura con Genius e Lari era ancora visibile alla fine del XIX secolo. I tre fori ospitavano probabilmente le assi di sostegno di un ripiano per le offerte. Lo zoccolo è giallo, gli ortostati, ora scoloriti, erano neri. Al di sopra del pianetto con kyma, troviamo i due filari di bugne gialle, rosse, verdi e a finto marmo, il fregio viola e la cornice a dentelli. La zona superiore, come di consueto, è grezza.

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Infine analizziamo il tablino (19). Il pavimento, leggermente rialzato rispetto all’atrio, era in battuto di calcare con scaglie di marmo. La parete Nord fu interrotta in antico, all’estremità Est, per realizzare la porta verso lo oecus (22) e in quella circostanza fu anche eseguita la parete in laterizi, visibile sulla destra. La decorazione di I stile si conserva dal plinto bianco con zoccolo giallo, alla zona mediana con i regolari ortostati neri, le bugne viola, gialle, verdi e rosse, disposte su due filari separati orizzontalmente da un’incisione a sezione triangolare, coronata da un pianetto viola con un tralcio ondulato e dalla cornice di stucco modanata. Al di sopra sono dipinte in viola e a finto marmo, quattro bugne incise con cornice di stucco modanata; la parte soprastante è perduta.

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Martina Liciberto La casa di Sallustio a Pompei

La parete Sud ripete lo stesso schema di quella Nord; il fregio è caratterizzato da bugne incise rosse e a finto marmo, al di sopra delle quali c’è la cornice modanata; segue ancora un pianetto di stucco grezzo e quindi la cornice a dentelli.

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A partire dal giugno del 2005 sono state condotte nuove ricerche sulla Casa di Sallustio al fine di rileggere, ridefinire e integrare tutte le notizie pubblicate su di essa, in vista di un’esaustiva pubblicazione scientifica del complesso.

Riferimenti bibliografici E. Cantarella – L. Jacobelli, Pompei è viva, Milano 2013. R. Ètienne, La vita quotidiana a Pompei, Milano 1973 [tr. it. di La vie quotidienne à Pompéi, Paris 1966]. F. Zevi – M. Jodice, Pompei, Napoli 1992.

MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

Le passioni di Ippolito nell’età dell’oro tra Euripide e Seneca

GIULIO COPPOLA

cosa nota che vastissima sia stata la fortuna che la tragedia di Euripide Ippolito coronato1 ha avuto nella letteratura occidentale2. A fronte di una bibliografia che risulta proprio per questo immensa, oggetto di queste pagine sarà più limitatamente il rapporto che il personaggio Ippolito stabilisce con l’ambiente naturale tanto nell’opera di Euripide che in quella di Seneca (§ 3): a questo obbiettivo si giungerà dopo aver rapidamente esaminato le principali differenze tra il testo euripideo e quello senecano (§ 2).

1. Gli elementi del mito

Come è noto, la vicenda di Ippolito e Fedra presenta caratteri che potremmo definire tradizionali e altri decisamente più innovativi. In merito ai tratti ‘folclorici’, non sfugge che l’amore di una donna sposata per un bel giovane che, a causa del suo rifiuto, viene poi falsamente accusato di aver arrecato violenza alla donna stessa si ritrovi non solo in altri miti greci (nel mito di Peleo e moglie di Acasto, in quello di Bellerofonte e Stenebea), ma anche nella letteratura ebraica. Si parla infatti del ‘motivo della moglie di Putifarre’ dal famoso episodio della Bibbia (Gen. 39): il casto Giuseppe, al servizio di Putifarre, capo delle guardie egizie, è oggetto, suo malgrado, delle attenzioni della moglie del padrone e al suo rifiuto scatena la vendetta della donna che lo accusa ingiustamente di violenza. A questo canovaccio, la versione di Ippolito e Fedra aggiunge una complicazione non da poco: il primo è il figliastro della seconda3. Per comprendere meglio l’identità di personaggi del mito risulta di grandissima importanza ricostruire la loro genealogia: cosa possiamo dire allora dei nostri due protagonisti? Sappiamo che Ippolito è sempre

 Il contributo che qui si presenta è la rielaborazione di un intervento tenuto dal sottoscritto il 13 marzo 2019 presso il Liceo ‘F. Quercia’ di Marcianise (CE) nell’ambito del corso di formazione ‘Le passioni degli antichi e dei moderni’. Ringrazio l’amica e collega Maria Delle Curti per le indicazioni di cui mi è stata prodiga nell’elaborazione di questo scritto di cui rimango ovviamente unico responsabile. 1 L’opera fu rappresentata nel 428 a.C. e fu una delle poche che fruttò al poeta il primo premio; sappiamo però che precedentemente l’autore aveva portato in scena il cosiddetto Ippolito velato che tanto scandalo aveva suscitato da costringerlo a riscriverlo profondamente (Argum. 28: ἔστι δὲ οὖτος Ἱππόλυτος δεύτερος, ὁ καὶ στεφανίας προσαγορευόμενος. ἐμφαίνεται δὲ ὕστερος γεγραμμένος˙ τὸ γὰρ ἀπρεπὲς καὶ κατηγορίας ἄξιον ἐν τούτῳ διώρθωται τῷ δάματι). Sulla vexata quaestio del rapporto tra il Coronato e il Velato rimandiamo al commento di W.S. Barrett (Euripides. Hippolytos, ed. by W.S. Barrett, Oxford 20012 [1° ed. 1964], 15-29). 2 Cfr. D. Susanetti, Favole antiche. Mito greco e tradizione letteraria europea, Roma 2005, 241-271. 3 M. Bettini, ‘L’incesto di Fedra e il corto circuito della consanguineità’, Dioniso n.s. 1, 2002, 88-99 sottolinea come il carattere incestuoso della relazione è legato al fatto che nel ventre di Fedra si unirebbe il seme del padre Teseo con quello del figlio Ippolito: quasi una relazione omosessuale tra consanguinei che tramite la mediazione del grembo di Fedra corre il rischio di produrre figli. Giulio Coppola Le passioni di Ippolito nell’età dell’oro tra Euripide e Seneca

presentato come figlio di Teseo4, ma a variare è il nome della madre (Antiope, Melanippe, Ippolita, Glauce)5: quel che conta per il nostro discorso è che il giovane, per parte di madre, sia legato alla stirpe delle Amazzoni. Si tratta infatti di una realtà mitologica particolare, costituita da sole donne che vivono senza il controllo del maschio, che si dedicano ad un’attività prettamente maschile come quella della guerra, che per riprodursi si univano a stranieri: in definitiva, costituiscono il modello negativo di comunità assolutamente da rifuggire6. In quanto poi a Fedra, è noto che se il padre fu il famoso Minosse, madre fu quella Pasifae resa celebre dall’insana passione per il toro dal quale generò il Minotauro7. Già da questi semplici dati relativi alla genealogia di parte femminile appare evidente come i due personaggi si caratterizzino per il loro essere più dalla parte del ‘selvaggio’, dell’ ‘Altro’ che da quello della civiltà8: a voler essere più precisi, non è difficile notare che se Ippolito appare ‘eccessivo’ nel suo completo rifiuto delle gioie d’amore, Fedra lo è nella ricerca di un amore con un consanguineo9.

2. Un confronto tra Euripide e Seneca Per il prosieguo del nostro discorso, può essere utile prendere in considerazione il seguente schema.

Euripide Seneca 1. È la nutrice a rivelare l’amore di Fedra 1. È Fedra stessa a farlo ad Ippolito 2. Fedra muore dopo aver scritto lettera 2. È la nutrice ad inventare la storia della che accusa Ippolito violenza 3. Fedra muore prima che Teseo torni 3. È Fedra stessa (benché costretta) a rivelare a Teseo la presunta violenza

4. C’è lo scontro diretto tra Teseo e 4. Maledizione ‘indiretta’, in contumacia 79

Ippolito di Teseo per Ippolito assente 5. La vicenda è sciolta dall’apparizione di 5. È Fedra stessa a svelare il suo inganno Artemide e poi muore

Senza alcuna pretesa di esaustività, emergono chiaramente alcune evidenze: 1. In Seneca Fedra riveste un ruolo maggiormente attivo e non a caso la tragedia è intitolata Fedra, non Ippolito (vd. punti 1, 3, 5 dello schema); in Euripide è un personaggio caratterizzato dalla passività (vittima della vendetta di Afrodite; dell’indifferenza e disprezzo di Ippolito, dai maneggi della nutrice: unica sua iniziativa è la tragica lettera dopo la quale si dà la morte)10.

4 Euripides. Hippolytos, ed. by W.S. Barrett, op. cit., 6. 5 Cfr. Apd. Ep. 1, 16 che riporta tutti e quattro i nomi; Plut. Thes. 26, 1 = Philoc. FGrHist 328 fr. 110 = Pherec. FGrHist 3 fr. 151 = Hellan. FGrHist 323a fr. 16 = Herodor. FGrHist 31 F 25a (Antiope); Plut. Thes. 27, 5 = Clidem. FGrHist 323 fr. 18 (Ippolita); Tabula Albana FGrHist 40 Ia, 114-5 (Ippolita); Diod. 4, 28, 1 (Antiope o Ippolita); Paus. 1, 2, 1 = Pind. fr. 175 Sn.- Maehl. = Nostoi fr. 15 Bernabé (Antiope); Apd. Ep. 1, 16 = Simon. fr. 551 A (Ippolita). 6 Vd. per tutti E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Roma 1981, 32-33 con bibliografia. 7 Ci limitiamo a segnalare Apd. 3, 1, 4 (9); Hyg. Fab. 40; Diod. 4, 13, 4; 77, 2; Zenob. 4, 6. 8 Cfr. A. Casamento, ‘Ippolito figlio degenere (Sen. Phaedr. 907-8)’, Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici, 39, 2008, 94- 99 che si riferisce in particolar modo all’opera di Seneca, ma le sue considerazioni si estendono facilmente all’intero complesso mitico di Ippolito e Fedra. 9 Cfr. A. Grilli, ‘Seneca di fronte a Ippolito’, in Filologia e forme letterarie. Scritti offerti a Francesco Della Corte, III, Urbino, 299-300 che limitatamente all’opera senecana afferma che «la Phaedra è in quei suoi personaggi il dramma degli eccessi». 10 G. Paduano, ‘Ippolito: la rivelazione dell’eros’, Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici, 13, 1984, 45 nota come i principali rifacimenti del testo euripideo (Seneca, Racine, D’Annunzio) si oppongano in ciò alla versione di Euripide. Lo stesso autore (47) sottolinea come tale scelta, oltre ad essere innovativa rispetto alla precedente versione del Velato, sia alternativa anche rispetto al tradizionale motivo della moglie di Putifarre. Ciononostante, è stato evidenziato giustamente che Giulio Coppola Le passioni di Ippolito nell’età dell’oro tra Euripide e Seneca

2. Seneca elimina completamente l’intervento degli dei nella vicenda; al contrario Euripide apre e chiude l’opera con le divinità: Afrodite nel prologo, Artemide nell’esodo (entrambe pretendono giustizia/vendetta anche a costo che a pagare sia una vittima innocente: Fedra per Afrodite, Adone per Artemide)11.

In una logica di confronto tra i due testi, risultano meritevoli di attenzione le riflessioni G.G. Biondi12: il personaggio Fedra di Seneca rappresenta il modello umano di conflitto tra ratio e furor. Espressione chiave: vv. 604-5:

Vos testor omnis, caelites, hoc quod volo Me nolle Fedra chiama a testimoni gli dei che quel che vuole, lei non lo vuole. Si tratta – a detta del Biondi – dell’interiorizzazione dello scontro tra ratio e la passione. Ne consegue una lacerazione della voluntas:

 La voluntas della passione porta Fedra a confessare a Ippolito il suo amore (novità rispetto a Euripide)  La voluntas della ratio la spinge a confessare a Teso l’inganno (altra novità). Ma tutto ciò riflette l’ideologia di Seneca e cioè la sua visione dualistica: il logos (stoico, la ratio) c’è, ma esiste anche il male (il furor). La storia allora altro non è se non il campo di scontro di queste due forze con l’uomo travolto da questa dinamica: per questo gli dei non ci sono (quasi a voler definitivamente ‘responsabilizzare’ l’agire umano). Si tratta di una visione insieme pessimistica e ottimistica: il male non può essere eliminato, gli errori si fanno e soprattutto si pagano amaramente: Fedra non può negarsi alla sua passione e nel tentativo di trovare un orizzonte di realizzazione al suo amore sconta la sua 80 irrealizzabilità. E Ippolito? Il personaggio sia nell’opera di Euripide che di Seneca è totalmente calato in un ambiente naturale dominato dalla figura di Artemide-Diana: di qui la necessità di esaminarlo in rapporto al contesto in cui si muove.

3. Lo scenario naturale di Ippolito Riportiamo i versi iniziali della tragedia di Euripide in cui a parlare è Ippolito (vv. 73 e ss.)

σοὶ τόνδε πλεκτὸν στέφανον ἐξ ἀκηράτου λειμῶνος, ὦ δέσποινα, κοσμήσας φέρω, νθ' οὔτε ποιμὴν ἀξιοῖ φέρβειν βοτὰ 75 οὔτ' ἦλθέ πω σίδηρος, ἀλλ' ἀκήρατον μέλισσα λειμῶν' ἠρινὴ διέρχεται, Αἰδὼς δὲ ποταμίαισι κηπεύει δρόσοις, ὅσοις διδακτὸν μηδὲν ἀλλ' ἐν τῆι φύσει τὸ σωφρονεῖν εἴληχεν ἐς τὰ πάντ' ἀεί, 80 deve essere tradizionale (almeno per Atene) il motivo della passione della donna per il figliastro: nelle Rane di Aristofane, il personaggio Euripide, accusato di aver riportato sulla scena delle donne definite pornai quali Stenebea e Fedra, risponde ribadendo di aver solo riportato un logos noto a tutti, v. 1052 (C. Brillante, ‘Fedra e l’aidos nell’Ippolito di Euripide’, Dioniso 5, 2006, 41). 11 D. Susanetti, Gloria e purezza. Note all’Ippolito di Euripide, Venezia 1997, 21-22 nota come la costruzione simmetrica della tragedia preveda che dopo l’intervento di Afrodite nel prologo ci sia un canto in onore di Artemide, così come prima che compaia sulla scena finale Artemide ci sia il canto di lode per Afrodite. 12 G.G. Biondi, ‘La tragedia congestionata’, in Lucio Anneo Seneca. Medea – Fedra, a cura di G.G. Biondi, Milano 1989, 37 e ss. Giulio Coppola Le passioni di Ippolito nell’età dell’oro tra Euripide e Seneca

τούτοις δρέπεσθαι, τοῖς κακοῖσι δ' οὐ θέμις. ἀλλ', ὦ φίλη δέσποινα, χρυσέας κόμης ἀνάδημα δέξαι χειρὸς εὐσεβοῦς ἄπο. μόνωι γάρ ἐστι τοῦτ' ἐμοὶ γέρας βροτῶν· σοὶ καὶ ξύνειμι καὶ λόγοις ἀμείβομαι, 85 κλύων μὲν αὐδῆς, ὄμμα δ' οὐχ ὁρῶν τὸ σόν. τέλος δὲ κάμψαιμ' ὥσπερ ἠρξάμην βίου.

Ti porto, o signora, questa corona di fiori raccolti in un prato puro dove il pastore non osa portare a pascolare il suo gregge e dove mai è passato il ferro. Soltanto le api lo frequentano in primavera e il Pudore innaffia il prato puro con l’acqua del fiume. Solo chi possiede una virtù non appresa, ma naturale e universale, può cogliere questi fiori: ai malvagi non è permesso. Accetta, dunque, cara signora, questa corona colta con mano pia, per i tuoi capelli d’oro. Solo a me tra gli uomini è concesso l’onore di stare assieme a te e di parlarti; sento la tua voce anche se non vedo il tuo volto. E possa così compiersi, come l’ho iniziato, il corso della mia vita. Trad. di G. Paduano

Siamo immediatamente dopo l’uscita di scena di Afrodite che nel prologo ha spiegato i motivi della sua ira nei confronti del figlio di Teseo e annunciato l’imminente rovina del giovane. Ippolito quindi avanza sul palco recando una corona di fiori per la statua di Artemide (di qui l’Ippolito coronato). Alcuni punti del suo discorso sono degni di particolare attenzione. In primo luogo egli dice di aver colto fiori da un puro prato (vv. 73-74: ἐξ ἀκηράτου/ λειμῶνος). Come nota E. Cantarella commentando il passo omerico in cui si parla delle due Sirene che da un ‘prato’ cercano di sedurre Ulisse13, il sostantivo λειμών (che compare poco sotto con lo stesso aggettivo, vv. 74-75) è utilizzato anche per indicare il sesso femminile. 81 Non basta. Da rilevare anche l’aggettivo verbale ἀκήρατος che si compone di α- privativo e il verbo κερράννυμι, ‘mescolare’ (quindi ‘puro’ perché non ‘mescolato’) oppure κεραΐζω, ‘saccheggiare’ (quindi ‘puro’ in quanto ‘non saccheggiato’)14. Non sfugga che lo stesso aggettivo Euripide lo usa nella tragedia Le Troiane v. 675: Andromaca afferma che lo sposo Ettore portò via dalla casa del padre lei ancora ἀκήρατος, ‘illibata’. Siamo dunque sempre in uno stesso campo semantico, campo semantico a cui inoltre rinvia il verbo ξύνειμι, (v. 85), ‘sto insieme’, ma che può anche indicare ‘aver rapporti’, ‘unirsi’15. Appare allora paradossale che proprio l’Ippolito che rivendica un’assoluta castità (indicativo in tal senso è il τὸ σωφρονεῖν, che il giovane rivendica come propria prerogativa e che acquista in tal contesto soprattutto il significato di astinenza sessuale16) adoperi un linguaggio così allusivo nei confronti del mondo del sesso17. In effetti, ad accentuare lo ‘straniamento’ della situazione concorrono anche altri fattori.

1. Sappiamo che i prati fioriti sono lo scenario tipico in cui agisce una fanciulla, una παρθένος, impegnata - guarda caso - proprio a raccogliere fiori, prima di essere rapita dal maschio di turno

13 E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano 20042 (1° ed. 2002), 134 con bibliografia precedente. 14 P. Chantraine, Dictionnaire étymologique de la Langue Grecque, I, Paris 1968, s.v. ἀκήρατος. 15 Si può aggiungere che il verbo κηπεύει, ‘innaffiare, coltivare il giardino’ si costruisca da κῆπος, che propriamente indica il ‘giardino’, ma che è usato come sinonimo di λειμών sempre per indicare il sesso femminile (Diog. Laert. 2, 116). 16 Sulla sophrosyne – sophronein come continenza sessuale, vd. P. Campeggiani, Le ragioni dell’ira. Potere e riconoscimento nell’antica Grecia, Roma 2013, 39 e ss. con bibliografia precedente. La studiosa, partendo dalla definizione di Aristotele della σωφροσύνη (E.N. III 1117b 23-1119b 18) passa in rassegna diversi luoghi della letteratura tragica, comica, dell’oratoria, della storiografia e della filosofia in cui sophron si costruisce in opposizione a anaides o hybristes (ad es. Lys. 1, 10; Eur. Alc. 177-182; Hipp. 1034, 1100, 1365; Troad. 422-23; Plat. Resp. 389e; Symp. 196c) per concludere: «L’afferenza di sophrosyne alla dimensione del sesso e dei paiceri erotici sembra dunque plausibile» (42). 17 Devo ad un mio alunno, Vincenzo Di Cecio, la proposta di interpretare il σίδηρος del v. 76 come simbolo fallico. Giulio Coppola Le passioni di Ippolito nell’età dell’oro tra Euripide e Seneca

ad opera del quale perderà la sua condizione di παρθενία: è il caso di Europa portata via da Zeus trasformatosi per l’occasione in magnifico toro; è il caso di Persefone condotta negli Inferi da Ade, è il caso di Orizia che subisce l’aggressione di Borea18. 2. Al di là dei miti, sappiamo che la pratica della raccolta di fiori era propriamente femminile e in genere è associata a riti di matrimonio19: qui invece è un giovane a raccoglierli per di più non interessato affatto al matrimonio. Il tutto acquista una nuova luce se si confronta il testo euripideo con altri testi greci.

Schema di J.M. Bremer In un persuasivo contributo dedicato ai prati fioriti come scenari di incontri amorosi, J.M. Bremer20 ha evidenziato, tra le altre cose, come nei versi sopra presentati di Euripide ricorrano le stesse espressioni 82 presenti nel fr. 2 Voigt di Saffo21 e nel fr. 286 Davies di Ibico,22 come si evince dallo schema qui riportato. In effetti, una differenza non di poco conto sta nel fatto che mentre nei primi due le divinità chiamate in causa sono rispettivamente Afrodite e Eros, nel tragediografo ateniese è Artemide. Come intendere questa innovazione? Per poter rispondere a tale domanda, è necessario inquadrare i frammenti in questione. Nel passo molto lacunoso della poetessa di Lesbo, da quel che è dato capire, è chiamato in causa un «sacro locus amoenus»23 costituito da un grazioso boschetto di meli, irrigato da un corso d’acqua e impreziosito da un roseto dove in uno scenario primaverile ci sarebbe «l’epifania di Afrodite»24. Il poeta di Reggio, da parte sua, denuncia come Eros lo insidii in ogni stagione non solo quando il giardino puro (κῆπος ἀκήρατος) fiorisce in primavera. In definitiva, sembra evidente che i due frammenti ribadiscano lo stretto legame tra la vicenda d’amore (testimoniate da figure divine quali Afrodite e Eros), la primavera e i prati/giardini. Del tutto fuori luogo, allora, è la menzione da parte di Euripide di Artemide. Ne risulta un vero e proprio ‘corto circuito’ messo in scena dal tragediografo che fa pronunciare ad Ippolito una strenua difesa della castità nell’atto di omaggio ad Artemide, ma lo fa utilizzando un lessico fortemente ‘sessualizzato’ (λειμών ἀκήρατος, ξύνειμι), ricorrendo ad elementi di ambientazione che «far from excluding love, are the very cimcumstance and condition of it»25,

18 Cfr. C. Calame, I Greci e l’eros. Simboli, pratiche e luoghi, Roma-Bari 1992, 119 e ss.; E. Cantarella, Itaca, op. cit., 133-35. 19 Ch. Sourvinou-Inwood, ‘Due protettrici della donna a Locri Epizefiri: Persefone e Afrodite’, in Le donne in Grecia, a cura di G. Arrigoni, Roma-Bari 20082 (1° ed. 1985), 206-208 con bibliografia [trad. it. ridotta dell’articolo ‘Persephone and Aphrodite at Locri: a Model for Personality Definitions in Greek Religion’, Journal of Hellenic Studies, 98, 1978, 101-121. 20 J.M. Bremer, ‘The Meadow of Love and two Passages in Euripides’ Hyppolytos’, Mnemosyne 28, 3, 1975, 271. 21 Ostracon Flor., prim. ed. M. Norsa, ASNP, 2, 6, 1937, 8 e ss. 22 Athen. 13, 601b. 23 C. Neri – F. Cinti, ‘Commento’, in Saffo. Poesie, frammenti e testimonianze, a cura di C. Neri – F. Cinti, Roma 2017, 283. 24 Ibid. 25 J.M. Bremer, ‘The Meadow’, art. cit., 272. Giulio Coppola Le passioni di Ippolito nell’età dell’oro tra Euripide e Seneca

alludendo a miti e costumi che coinvolgono figure femminili (non maschili) impegnate nel superamento della condizione di verginità (laddove invece Ippolito si augura di terminare la sua vita così come l’ha iniziata, v. 87). Da quanto detto, è facile sottolineare la ‘eccessiva’ di Ippolito26: figlio dell’Amazzone, nel suo esclusivo rapporto con Artemide rifiuta l’amore e quindi la possibilità di integrarsi nella comunità. Vediamo ora cosa possiamo ricavare dal testo di Seneca (Phaedr. 483 e ss.):

Non alia magis est libera et vitio carens ritusque melius vita quae priscos colat, quam quae relictis moenibus silvas amat. 485 Non illum avarae mentis inflammat furor qui se dicavit montium insontem iugis, non aura populi et vulgus infidum bonis, non pestilens invidia, non fragilis favor; non ille regno servit aut regno imminens 490 vanos honores sequitur aut fluxas opes, spei metusque liber, haud illum niger edaxque livor dente degeneri petit nec scelera populos inter atque urbes sata novit… 495

Non c’è vita più libera e priva di vizi e più seguace dei costumi antichi di quella che abbandona le mura e ama le selve. Chi ha mantenuto la sua purezza fra i monti, non arde di folle cupidigia, non smania per una popolarità infida ai buoni, non è avvelenato dalla gelosia né illuso dal fragile favore dei potenti; non è lui a far la corte ai re,

o a inseguire, aspirando al regno, onori vani o un potere caduco, ma è libero da speranza e timore, non sente il 83

livido morso della bassa invidia, né conosce i delitti che germinano tra le folle di città… trad. di A. Traina

A parlare in questo frangente è Ippolito che sta rispondendo alle obiezioni della nutrice: quest’ultima, nel tentativo di saggiare il terreno per vedere come essere utile alla sua padrona, contesta al giovane la sua vita isolata nei campi, priva delle gioie dell’amore. Il figlio di Teseo ribatte esaltando la purezza della vita immersa nella natura selvaggia, lontano dalla corruzione della città (vitio carens, v. 483) e più vicina agli antichi costumi (ritusque… priscos, v. 484). È, in effetti, proprio questo particolare a meritare la nostra attenzione e su cui Ippolito ritorna nel prosieguo del suo discorso.

… Hoc equidem reor 525 vixisse ritu prima quos mixtos deis profudit aetas. Nullus his auri fuit caecus cupido, nullus in campo sacer divisit agros arbiter populis lapis; nondum secabant credulae pontum rates: 530 sua quisque norat maria; non vasto aggere crebraque turre cinxerant urbes latus […] Rupere foedus impius lucri furor 540 et ira praeceps quaeque succensas agit libido mentes; venit imperii sitis cruenta, factus praeda maiori minor

26 Con la definizione di ‘eccessivo’ si intendere utilizzare la categoria dell’ ‘eroico’ secondo la teoria di A. Brelich, Gli eroi greci, Milano 2010, 208 (1° ed. 1958): «Si tratta di un’idea essenzialmente religiosa, non riconducibile alle categorie di morale umana, sulle quali rifrange perciò in molteplici maniere, assumendo ora l’aspetto della violenza o prepotenza, ora quello della superbia o tracotanza, ora dell’empietà o sacrilegio, ora perfino quella dell’eccessiva sicurezza di sé, ora di un eccesso di qualsiasi genere: in sostanza è sempre un disconoscimento dei limiti che la concezione religiosa greca all’essere umano». Giulio Coppola Le passioni di Ippolito nell’età dell’oro tra Euripide e Seneca

Così penso si viveva, mescolati agli dei, nell’età più antica. Non cieca brama d’oro, non cippo sacro nei campi a segnare i confini, arbitro fra i popoli; non navi che si affidavano all’inganno dei flutti, ma a ognuno era noto solo il mare della sua patria; non cinture di torri e bastioni intorno alla città […] Ruppero questo accordo l’empia frenesia di guadagno, l’ira impaziente e le brame che non danno mai pace al cuore; venne la sete sanguinosa di potere, il più piccolo fu preda del più grosso: e la forza fu diritto. trad. A. Traina

È stato giustamente notato27 che in questo discorso di Ippolito sia operativa una contrapposizione aula/silva, cioè una dialettica tra il mondo di Fedra (l’interno della reggia, la ‘civiltà’ con tutta la sua corruzione e le tue tare morali) e quello di Ippolito (l’esterno dei boschi, la ‘natura’ vista come l’esatto contrario). In effetti, per il nostro ragionamento assume grande importanza la saldatura operata da Seneca tra il modus vivendi del figlio di Teseo e l’età dell’oro dei primi uomini che vivevano in prossimità con gli dei (reor/ vixisse ritu prima quos mixtos deis/ profudit aetas, vv. 525-27). Ma se tutto questo è innegabile, rimane da chiedersi se realmente Seneca consideri positivamente la condizione dei primi uomini e quindi anche la sua riproposizione ad opera di Ippolito. Per rispondere a questo interrogativo è necessario prendere in considerazione la famosa Epistola 9028 o per meglio dire la sezione finale in cui il filosofo spiega la sua idea di età dell’oro (Ep. 90, 44-46)29.

Sed quamuis egregia illis [gli uomini primitivi] uita fuerit et carens fraude, non fuere sapientes, quando hoc iam in opere maximo nomen est. Non tamen negauerim fuisse alti spiritus uiros et, ut ita dicam, a dis recentes; neque enim dubium est quin meliora mundus nondum effetus ediderit. Quemadmodum autem omnibus indoles fortior fuit et ad labores paratior, ita non erant ingenia omnibus consummata. Non enim dat natura uirtutem: ars est bonum fieri. 45. Illi

quidem non aurum nec argentum nec perlucidos lapides in ima terrarum faece quaerebant 84

parcebantque adhuc etiam mutis animalibus: tantum aberat ut homo hominem non iratus, non timens, tantum spectaturus occideret. Nondum uestis illis erat picta, nondum texebatur aurum, adhuc nec eruebatur. 46. Quid ergo est? Ignorantia rerum innocentes erant; multum autem interest utrum peccare aliquis nolit an nesciat. Deerat illis iustitia, deerat prudentia, deerat temperantia ac fortitudo. Omnibus his uirtutibus habebat similia quaedam rudis uita: uirtus non contingit animo nisi instituto et edocto et ad summum adsidua exercitatione perducto. Ad hoc quidem, sed sine hoc nascimur, et in optimis quoque, antequam erudias, uirtutis materia, non uirtus est. Vale.

Ma per quanto essi abbiano avuto una vita splendida, senza inganni, non furono sapienti, poiché questo nome spetta a coloro che attendono alla più grande delle opere. Ammetto che essi furono degli uomini di animo elevato e, per così dire, creati da poco dagli dèi, poiché non c’è dubbio che in quel tempo il mondo non ancora stanco, abbia dato alla luce esseri migliori. Allora tutti avevano una tempra più forte ed erano più pronti alla fatica, ma il loro spirito non aveva raggiunto la piena maturità. Non è la natura a dare la virtù: per divenire buoni c’è un’arte. Quelli non cercavano l’oro o l’argento e le pietre preziose nella profondità della terra e si astenevano dall’uccidere anche le bestie: tanto erano diversi dagli uomini d’oggi che non per ira, non per paura, ma solo per godersi lo spettacolo uccidono i loro simili. Non conoscevano ancora abiti a vari colori né tessuti ricamati d’oro, che non veniva ancora estratto dal suolo. Dunque, era la loro ignoranza che li rendeva innocenti: c’è una grande differenza fra il non voler fare il male e il non conoscerlo. Mancavano loro la giustizia, la prudenza, la temperanza e la fortezza; ma la loro rozza vita aveva qualcosa di smile a queste virtù. Possiede la virtù solo un animo educato e colto, che è pervenuto con un costante impegno alla perfezione. Noi nasciamo per raggiungerla, ma senza

27 O. Mignacca, Fugienda petimus. La Phaedra di Seneca come sistema complesso di antitesi, Diss. Trento 2011, 159 e ss. con bibliografia precedente. 28 A. Grilli, ‘Seneca’, art. cit., 305-306 elenca i loci communes tra la tragedia e l’Epistola 90 con bibliografia. 29 Rimandiamo per tutte le questioni inerenti questo testo al corposo saggio di G. Zago, Sapienza filosofica e cultura materiale. Posidonio e le altre fonti dell’Epistola 90 di Seneca, Bologna 2012. Giulio Coppola Le passioni di Ippolito nell’età dell’oro tra Euripide e Seneca

possederla già; e anche negli uomini migliori, prima che vengano educati, c’è materia per la virtù, ma non la virtù. Addio. trad. di G. Monti

Appare, dunque, molto chiaro il ragionamento del filosofo di Cordova: la descrizione delle condizioni dell’uomo primitivo può certo servire per una condanna dei vizi del presente30, ma siamo ben lontani dall’esaltazione di questa come età dell’oro. Ciò che distingue gli uomini delle età più lontane dal modello di perfezione immaginato da Seneca è appunto il fatto che essi non conoscevano il male e di conseguenza non potevano praticare il bene (Ignorantia rerum innocentes erant; multum autem interest utrum peccare aliquis nolit an nesciat). In definitiva, è il loro essere ‘fuori della Storia’ in quanto collocati in un’età che non ha ancora visto l’apparizione del male, a porli in una condizione che più che essere a-morale è pre- morale. Ma non è esattamente questa la condizione dell’Ippolito senecano che così ostentatamente rifiuta l’aula con tutte le sue degenerazioni per confinarsi nelle silvae? A guardar bene, l’isolamento del personaggio, la sua tragica fine, non sono forse la conferma che quella scelta di vita, lungi dall’essere esempio positivo da seguire, costituisce per uno stoico (per il quale nel mondo il male non solo non può essere negato, ma rappresenta la condizione necessaria perché possa esplicarsi la virtù del soggetto morale) modello da condannare?

Conclusioni

Da quanto sopra riportato, dovrebbe emerge l’importanza che l’ambiente naturale assume sia nell’opera di Euripide che in quella di Seneca. Per l’Ippolito del tragediografo ateniese, la natura selvaggia ed intatta, dominio incontrastato di Artemide e luogo scelto ad esclusiva dimora di Ippolito, si definisce come polo opposto alla civiltà della polis, lo spazio organizzato dal logos degli uomini e democraticamente 31 85 condiviso nell’Atene del V sec. a.C. ; l’errore del personaggio, la sua dimensione extra ordinem consiste proprio nel non volere ‘attraversare’ questa marginalità per poi ritornare alla polis ed integrarsi nell’orizzonte della ‘cultura’, ma nel voler rimanere al di qua da essa. Di qui la sua rovina. La tragedia di Seneca riprende la dialettica ‘natura’/‘cultura’ ma in una prospettiva nuova. Se, infatti, da un lato lo spazio della ‘cultura’ non si può certo definire positivo (caricato com’è di una forte valenza critica nei confronti delle degenerazioni della luxuria contemporanea), dall’altro non si salva nemmeno la dimensione della ‘natura’ in cui Ippolito sembra volersi rinchiudere e che viene interpretata come rifacimento dell’età dell’oro. Proprio la sua valenza di estraneità alla Storia appare lontana dalla visione stoica di certo non propensa a immaginare possibile la fuga verso una realtà edenica che non conosce il male.

30 È stato notato come in questa parte finale dell’epistola Seneca si allontani da quanto riportato in apertura (parr. 3-6) dove viene riportata la concezione posidoniate di età dell’oro: G. Zago, Sapienza, op. cit., 250-251 con bibliografia sottolinea la complessità della riflessione senecana che parte fingendo di condividere le idee del filosofo greco (nell’età dell’ora sarebbero presenti i sapientes) per poi procedere autonomamente fino a confutare questa ipotesi (l’età dei primordi non conosce il male, ma proprio per questo non ha visto neanche l’ ‘epifania’ del saggio che necessariamente deve essere cronologicamente successiva all’emergere del male). 31 Non si dimentichi che Ippolito rivendica per sé un ‘sapere’ non insegnato da nessuno (διδακτὸν μηδὲν…τὸ σωφρονεῖν, vv. 79-80), aspetto che richiamava inevitabilmente un’ideologia aristocratica di contro la fiducia sofistica nell’insegnabilità della virtù (D. Susanetti, ‘Note di commento’, in Euripide. Ippolito, a cura di D. Susanetti, Milano 20143 (1° ed. 2005), 161 n. 24).

MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

Folkloristi italiani al congresso internazionale di folklore di Parigi (1937)

MAURIZIO COPPOLA

1. Il congresso internazionale

l primo congresso internazionale di folklore rappresenta un evento importante nella storia europea degli studi di tradizioni popolari1. Organizzato a Parigi, dal 23 al 28 agosto del 1937, in occasione dell’esposizione internazionale, esso si colloca all’interno del processo di istituzionalizzazione del folklore francese. L’interesse per questa disciplina è promosso dal nuovo governo francese, retto dalla coalizione di sinistra del Fronte popolare. Difatti, nello stesso anno vengono creati il dipartimento delle arti e delle tradizioni popolari, il museo nazionale e, l’anno seguente, viene istituita una commissione nazionale, all’interno del ministero della pubblica istruzione e delle belle arti. Inoltre, è a livello europeo che si afferma un’attenzione sempre maggiore per il folklore che porta alla creazione di eventi e associazioni sovranazionali destinate al coordinamento dei vari movimenti folklorici in Europa2. Il congresso è anche un’occasione per determinare la solidità degli studi folklorici. In effetti, vi partecipano molti studiosi di caratura internazionale, tra cui, storici come Marc Bloch e Lucien Febvre, etnografi e folkloristi come Peter Bogatyrev, Albert Marinus, Arnold Van Gennep e Stith Thompson, storici delle religioni come Georges Dumezil, antropologi come Louis Dumont e Marcel Mauss, soltanto per citare qualcuno fra i più importanti. La massiccia presenza e l’alto prestigio di esponenti di diverse discipline ‘affini’, come ad esempio gli storici della scuola degli Annales, manifestano simbolicamente la considerazione positiva raggiunta dagli studi folklorici che si apprestano, così, nella solennità dell’evento, ad essere riconosciuti ufficialmente come scienza avente un proprio statuto paradigmatico ed una propria ‘autorità’ disciplinare. D’altronde, la partecipazione proviene non soltanto dal mondo accademico ma anche da parte di istituti, enti di ricerca, musei, partiti politici e funzionari governativi francesi e da altri paesi. La direzione è affidata all’etnologo Paul Rivet, direttore del Musée de l’homme mentre segretario generale è Georges Henri Rivière, futuro primo direttore del museo nazionale di arti e tradizioni popolari, coadiuvato in questo impegno da André Varagnac, conservatore del Dipartimento di tradizioni popolari3. Le numerose comunicazioni del congresso vengono separate in due macro-sezioni. La prima è nominata Folklore descrittivo, e in essa convergono nella maggior parte le comunicazioni destinate alla riflessione teorica e metodologica della disciplina. Nella seconda, denominata Folklore applicato alla vita sociale, sono esposte le tematiche che accordano al folklore un interesse economico, turistico e/o patrimoniale. Questa separazione riflette una duplice tendenza del congresso. In effetti, come è stato

1 Gli atti del congresso vengono pubblicati nel 1938. Cfr. Publications du département et du musées National des arts et traditions populaires, Travaux du 1er congrès international de folklore, Tours 1938. 2 Negli anni venti, viene creata una commissione internazionale per le arti popolari all’interno dell’Istituto internazionale di cooperazione intellettuale, organismo della Società delle Nazioni. 3 Cfr. C. Bromberger, ‘L’ethnologie de la France, du Front populaire à la Libération: entre continuités et ruptures’, in, (a cura di), Du folklore à l’ethnologie, éd. par J. Christophe, D.M. Boëll e R. Meyran, s.l., 2009, 1-10.

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ampiamente dimostrato, l’intenzione dei congressisti è di affermare il folklore non soltanto come un sapere scientifico ma anche come uno strumento di sviluppo sociale ed economico, destinato soprattutto alla valorizzazione dell’associazionismo popolare, dell’artigianato, dell’agricoltura, e, infine, alla ‘patrimonializzazione’ della cultura popolare in generale4. Vi partecipano anche degli studiosi italiani: il giovane folklorista Pier Settimio Pasquali e l’affermato etnografo Raffaele Corso, su cui ritorneremo più avanti. È opportuno notare come, nonostante l’importanza del congresso a livello europeo, vi è la presenza soltanto di due rappresentanti del movimento folklorico italiano. E questo a dispetto di un interesse crescente verso il folklore durante gli anni trenta in Italia. Pertanto, in questo articolo cercheremo di valutare l’impatto della presenza italiana analizzando le relative comunicazioni.

2. La situazione in Italia degli studi folklorici

La recente storiografia ha messo in luce come il periodo fra le due guerre è stato particolarmente determinante per lo sviluppo degli studi folklorici italiani. I vari contributi hanno messo in luce la vivacità, la continuità e l’espansione delle attività folkloriche, sostenute anche da un momento storico favorevole dal punto di vista politico e intellettuale5. All’epoca del congresso di Parigi, nel 1937, gli studi di folklore (che all’epoca in Italia si preferiva definire per ragioni politiche tradizioni popolari) erano una realtà consolidata6. Bisogna dire che è stato soprattutto il fascismo a svilupparne l’interesse, alimentandone la crescita e l’espansione a livello istituzionale e accademico. Già nel 1922, la riforma della scuola aveva contribuito al risveglio per le tradizioni italiane introducendo lo studio delle tradizioni popolari nelle scuole elementari e pubblicando una serie di manuali scolastici di cultura regionale7. Poi, nel 1929, la comunità degli studiosi si era riunita

nel primo congresso di tradizioni popolari, punto di partenza per la fondazione di un comitato 87 8 nazionale ed una rivista specialistica di folklore, Lares . In seguito, il comitato viene inquadrato per volontà del fascismo all’interno dell’Opera Nazionale Dopolavoro, divenendo Comitato italiano di arti e tradizioni popolari. Da qui al 1937, si organizzano altri due congressi (1931 a Udine e 1934 a Trento) e si cominciano i lavori per l’organizzazione di una grande mostra di tradizioni popolari da svolgere in occasione dell’esposizione universale di Roma del 19429. Il comitato non si occupa soltanto dell’aspetto scientifico delle tradizioni popolari. Così come per il congresso di Parigi, anche negli studi italiani vi è un interesse più prettamente politico che mira all’enfatizzazione degli aspetti economici e sociali del folklore. In effetti, le tradizioni popolari vengono

4 Per un approfondimento, vd. C. Velay Vallantin, ‘Le Congrès International de folklore de 1937’, in Annales. Histoire, Science Sociales, a. 54, 1999, 481-506; G. Laferté, ‘Tensions et catégories du folklore en 1937: folklore scientifique, folklore appliqué, folklore turistique et commercial’, in Du folklore à l’ethnologie, op. cit., 77-89. 5 Fra i molteplici contributi pubblicati ricordiamo E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia e storiografia (1869-1975), Firenze 2011; S. Cavazza, Piccole patrie. Feste popolari tra regine e nazione durante il fascismo, Bologna 2003. 6 Durante la campagna di purificazione della lingua italiana da parte del fascismo, a partire soprattutto dal 1935, la parola ‘folklore’ fu sostituita nella maggior parte dei casi con ‘tradizioni popolari’. Ad esempio, nel 1935, la rivista Il Folklore Italiano. Archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane (1925-1941) fu costretta a cancellare dal suo titolo la denominazione il Folklore italiano e mantenne soltanto Archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane. Cfr. E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia, op. cit., 157-159. 7 Sul folklore nella riforma ‘Gentile’, rinviamo a M. D’Alessio, A scuola fra casa e patria. Dialetto e cultura regionale nei libri di testo durante il fascismo, Lecce, Pensa Multimedia, 2013 ; M. Coppola, ‘Dialecte et culture régionale dans la réforme de l’école italienne en 1923. Débats et questions autour d’une nouvelle discipline scolaire’, in Lengas. Revue de sociolinguistique, 83, 2018, URL : http://journals.openedition.org/lengas/1460. 8 La rivista Lares è ancora attiva. Fondata originariamente da Lamberto Loria nel 1912, si spense nel 1915. Nel 1930, fu rifondata dal Nuovo comitato per le tradizioni popolari e, dopo una breve parentesi dal 1943 al 1949, riprese le pubblicazioni. 9 Per degli studi degli studi folklorici fra le due guerre rimangono ancora fondamentali il saggio di G. Cocchiara, Storia degli studi delle tradizioni popolari in Italia, Palermo 1947 (per un’ultima edizione, Storia del folklore in Italia, Palermo, Sellerio, 1989) e il saggio di A.M. Cirese, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palermo 1973. Per uno studio più recente, E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia, op. cit.

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concepite all’interno di un processo di educazione popolare che si rivolge alla rivalutazione delle attività artigianali e agricole del paese ed anche alla crescita turistica delle regioni italiane. Inoltre, il fascismo concepisce le attività folkloriche come una grande occasione di propaganda di massa, volta soprattutto al rafforzamento dei valori di unità nazionale delle classi popolari10. L’attenzione politica posta alle tradizioni popolari permette anche di spingere l’espansione a livello accademico. Dopo la tormentata esperienza della cattedra di demopsicologia di Giuseppe Pitrè11 del 1911, negli anni trenta vengono attivati dei nuovi insegnamenti che hanno per oggetto le tradizioni popolari. Questi insegnamenti sono delle libere docenze, denominate Letteratura e tradizioni popolari12, e che, nonostante siano degli insegnamenti precari e facoltativi, esse costituiranno la base per le future cattedre di Storia delle tradizioni popolari del secondo dopoguerra. Il sostegno al processo di istituzionalizzazione del folklore continua con la creazione dei musei di tradizioni popolari di Palermo 13 e di Roma, che raccolgono le eredità delle collezioni di Giuseppe Pitrè e di Lamberto Loria14. In breve, si può affermare che gli studi folklorici italiani, nel periodo fra le due guerre, vivono un momento di rinascita e di sviluppo e, al 1937, l’Italia si pone come un paese d’avanguardia in ambito europeo. È pertanto sorprendente che soltanto due rappresentanti italiani vengono invitati a prendere parte ai lavori del congresso di Parigi.

3. Le comunicazioni degli italiani

La prima comunicazione ‘italiana’ al congresso è quella di Pier Settimio Pasquali, un giovane folklorista, membro del comitato italiano di arti popolari, che si era fatto conoscere per una serie di pubblicazioni sulle maggiori riviste folkloriche italiane dell’epoca15. La sua comunicazione, intitolata, ‘Di alcune osservazioni d’ordine pratico in fatto di bibliografia’16, è inserita nella macro-sezione del folklore

descrittivo e nella sotto-sezione ‘metodologia’. 88

Il suo intervento, l’unico in lingua italiana di tutto il congresso, consiste in una esposizione di alcuni punti metodologici e bibliografici essenziali per quanto riguarda la redazione degli articoli, delle recensioni e delle bibliografie all’interno delle riviste di folklore. Ad esempio, Pasquali suggerisce di

10 Cfr. S. Cavazza, Piccole patrie, op. cit., 137-145. 11 Giuseppe Pitrè (1841-1816), medico e folklorista siciliano, è stato l’autore della imponente Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, scritta in venticinque volumi dal 1870 al 1916. Inoltre, è stato fondatore e direttore dell’Archivio per lo studio delle tradizioni popolari (1882-1909) nonché creatore del museo etnografico siciliano. Per i suoi meriti nel campo del folklore, fu nominato dall’Università di Palermo, professore di demopsicologia, termine utilizzato dallo stesso Pitrè per indicare lo studio delle tradizioni popolari. L’insegnamento si spense con la morte di Pitrè nel 1916 senza lasciare una continuità. Per una sua biografia, cfr. F. Dei, s.v. ‘Pitrè Giuseppe’, in Dizionario biografico degli Italiani, Roma 2015, Vol. 84, disponibile sul sito http://www.treccani.it. 12 Fra le libere docenze di Letteratura e tradizioni popolari, ricordiamo quelle di Giuseppe Cocchiara e Cesare Caravaglios nel 1932 e quella di Paolo Toschi nel 1933. Per una storia delle libere docenze, cfr. E.V. Alliegro, Antropologia italiana, op. cit., 193- 197. 13 Il museo etnografico siciliano, fondato da Giuseppe Pitrè nel 1909, è stato risistemato nella sua sede attuale, presso il Parco della Favorita di Palermo, da Giuseppe Cocchiara nel 1935. 14 Lamberto Loria (1855-1913) è stato ideatore e organizzatore della Mostra di Etnografia Italiana del 1911 a Roma, realizzata nell’ambito dei festeggiamenti dei cinquant’anni dell’unità italiana. La sua collezione confluirà nel secondo dopoguerra nel Museo delle Arti e delle Tradizioni Popolari di Roma, ora riorganizzato all’interno del Museo delle Civiltà. Per uno studio sulla mostra, cfr. S. Puccini, L’Italia gente dalle molte vite. Lamberto Loria e la Mostra di Etnografia italiana del 1911, Roma 2005. 15 Pier Settimio Pasquali (1910-1940), folklorista, è stato autore di vari studi, pubblicati su riviste italiane e straniere, e di un volume sulla toponomastica I nomi di luogo del comune di Filattiera (alta Val di Magra) (Milano, Vita e Pensiero, 1938), che rappresenta anche il soggetto della sua tesi di laurea. Nel 1936, vinse una borsa di studio per la Francia e studiò alla Sorbona di Parigi. Divenne professore incaricato dell’insegnamento di Lingua e letteratura francese all’Università di Cagliari. Postumo, è stata pubblicata una sua edizione del vocabolario valdostano di Costantino Nigra, (in Aevum, Anno 15, Fasc. 1/2, 1941, 3- 48 e Aevum, 15, 3, 1941), 316-354. Per una sua biografia e bibliografia, cfr. L. Sorrento, ‘Pier Settimio Pasquali’, Aevum, 15, 1/2, 1941, 274-280. 16 P.S. Pasquali, ‘Di alcune Osservazioni d’Ordine pratico in Fatto di Bibliografia’, in Publications du département et du musées National des arts et traditions populaires, Travaux du 1er congrès, op. cit., 266-267.

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porre l’indirizzo degli autori degli articoli delle riviste, di far in modo che le recensioni siano costituite anche di una parte critica, di non tradurre il titolo di un’opera e il nome dell’autore o almeno di lasciare sempre il titolo originale, di fare sommari analitici, di stilare delle bibliografie annuali o, in alternativa, comporre degli schedari bibliografici. In definitiva, si tratta di un insieme di ‘pratiche utili’ e di ‘buone norme’ che il folklorista dovrebbe adottare per quanto riguarda le pubblicazioni scientifiche17. Pertanto, la comunicazione di Pasquali mira alla ricerca di una standardizzazione delle metodologie nel campo degli studi folklorici fornendo dei modelli di base che possano essere applicate in ogni contesto e in ogni paese. Si tratta, quindi, di sancire un sapere folklorico globale, mettendo in comunicazione la comunità degli scienziati e sviluppando i suoi supporti tecnici, e allo stesso tempo, favorendone gli scambi e i contatti fra gli studiosi, così come già avviene per altre discipline più affermate, come ad esempio l’antropologia18. Pasquali vuole, quindi, suggerire nel suo breve articolo che la creazione di un paradigma del folklore passa innanzitutto dalla definizione di un insieme di principi metodologici fondamentali. In realtà, seppur a prima vista questa questione possa apparire marginale, l’attenzione per la bibliografia o per la metodologia serve ad affermare indirettamente la solidità del sapere folklorico. Pasquali, nei limiti di una comunicazione, cerca di definire i metodi e i principi che possano ‘elevare’ scientificamente il folklore da un punto di vista metodologico, soprattutto per quello che riguarda la presentazione delle ricerche. Si tratta, quindi, per Pasquali, di dare ‘sostanza’ al paradigma del folklore e stabilizzarne i criteri di fruizione, permettendo così alla disciplina di affermarsi dal punto di vista scientifico. Questo proposito assume un valore ancora più importante all’interno di un evento internazionale come appunto quello del congresso di Parigi, dove folkloristi e studiosi di altre discipline si sono riuniti per discutere sui metodi della disciplina. D’altronde, la questione bibliografica del folklore è un problema antico per gli studi folklorici. Già nel 1894, Giuseppe Pitrè aveva realizzato un’ampia bibliografia delle 19

tradizioni popolari italiane , contenente più di 6000 voci, con lo scopo di affermare il valore 89

‘quantitativo’ della disciplina folklorica. Soprattutto, in un periodo, come l’ottocento italiano, in cui il folklore procede maggiormente attraverso iniziative personali più che istituzionali. L’altra comunicazione ‘italiana’ presentata al congresso, questa volta in lingua francese, è quella di Raffaele Corso20, intitolata ‘Sur l’art des bergers’21, collocata nella sezione del folklore applicato alla vita sociale e, più precisamente, nella sottosezione Arte popolare, artigianato, costume. Bisogna sottolineare che, contrariamente a Pasquali, Corso è nel 1937 un ricercatore affermato e conosciuto a livello internazionale. Docente di etnografia all’Università Orientale di Napoli, all’epoca è direttore della rivista Il Folklore Italiano, e autore di molte opere in ambito folklorico. È quindi relativamente sorprendente come egli sia collocato nella sezione del folklore applicato nonostante egli sia stato l’autore di un manuale di folklore in cui si interroga proprio sulle definizioni e sui metodi di questa scienza22.

17 Cfr., P.S. Pasquali, ‘Di alcune Osservazioni’, art. cit. 18 A dispetto del folklore, l’antropologia ha avuto un riconoscimento ed un processo istituzionale molto più rapido, cominciato già nell’ottocento, con l’istituzione nel 1869 della prima cattedra all’Università di Firenze. Per una storia dell’Antropologia (ed anche dell’Etnologia) in Italia, cfr. E.V. Alliegro, Antropologia italiana, op. cit., passim. 19 G. Pitrè, Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia, Torino 1894. 20 Raffaele Corso (1885-1965), è stato folklorista ed etnografo. Discepolo di Giuseppe Pitrè, si orienta successivamente verso l’etnografia, senza tuttavia abbandonare il campo delle tradizioni popolari. Nel 1923 pubblica il manuale Folklore. Storia, obbietto, metodo, bibliografia, Roma, Leonardo Da Vinci. Nel 1925 fonda la rivista, da lui stesso diretta, Il Folklore Italiano. Archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane e che continuerà anche nel secondo dopoguerra col titolo Folklore. Rivista di tradizioni popolari (1946-1959). Nel 1932, è nominato professore ordinario di etnografia africana (poi etnografia), all’Istituto Orientale di Napoli. Per una sua biografia, cfr. M. Santucci, s.v. ‘Corso, Raffaele’, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 29, Roma 1983, disponibile sul sito http://www.treccani.it. 21 R. Corso ‘Lart des bergers’, in Publications du département et du musées National des arts et traditions populaires, 1938, Travaux du 1er congrès, op. cit., 336-341. 22 Il manuale è stato oggetto di altre tre riedizioni (1943, 1946, 1953), con alcune aggiunte e modifiche da parte dell’autore, tutte pubblicate dall’editore Pironti di Napoli. Inoltre, il manuale è stato tradotto in spagnolo e pubblicato in Argentina con il titolo El folklore (Buenos Aires, Eudeba, 1966).

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Al contrario, nella sua comunicazione, Corso cerca soprattutto di mettere in evidenza l’aspetto ‘poetico’ del folklore, elemento che è possibile ritrovare soprattutto all’interno della categoria sociale dei pastori. Per lui, in effetti, il folklore prodotto da quest’ultimi rappresenta l’esempio più alto e più originale di arte popolare. Secondo Corso, l’arte dei pastori sarebbe il risultato di una particolare interazione fra condizioni sociali, culturali ed economiche che avvengono nella vita dei pastori. Come ci spiega Corso stesso:

La gioia e la semplicità sono le due caratteristiche principali dell’arte popolare in generale, e in particolare di quella dei pastori. Quest’ultima rappresenta la forma più umile e sincera, la più nascosta e la più viva di tutte quelle che si rivelano nell’arte del popolo; è la stessa forma tipica dell’arte popolare perché l’arte dei pastori subisce molto difficilmente i contatti e le influenze dell’arte nobile evoluta. La prova di questo è che essa si rassomiglia sempre, in qualsiasi luogo fiorisca o sotto qualsiasi cielo si trovi. Le vecchie tradizioni passano di focolare in focolare e formano il cibo spirituale degli abitanti delle montagne e delle vallate, e le idee fantastiche e emotive sono tanto più uniformi quando l’anima vive in contatto con la cultura e nella natura stessa23.

Per Corso, quindi, i pastori con il loro modo di vivere in un ambiente naturale come le montagne o le campagne, manifesterebbero una propria essenza artistica ‘originale’ che si contrappone all’artificialità della cultura prodotta, ad esempio nei contesti urbani, particolarmente sensibili alle influenze esterne. Questa essenza naturale del folklore pastorale è amplificata dalle condizioni ambientali in cui si trovano a vivere i pastori, ovvero a contatto diretto con la natura. Il loro modo di vita, quindi, permetterebbe a loro di preservare la più autentica, originale e spontanea cultura che si possa ritrovare fra le classi popolari. La prova di questo è dimostrata da un principio universale dell’arte popolare. Ammettendo come

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principio l’unicità della natura in tutte le sue varianti, sarebbe possibile, per Corso, stabilire un rapporto proporzionale fra natura e cultura in cui la ‘naturalità’ della cultura è la conseguenza dalla sua prossimità ad uno stato ‘primitivo’ e primordiale dell’umanità. Ciò significa che quelle popolazioni che hanno uno sviluppo tecnologico elementare e che sono a contatto con ambienti naturali, costituirebbero le forme più originali e più ‘vere’ di cultura, in quanto non ‘corrotte’ da elementi introdotti estranei al loro essere, come potrebbe essere l’arte ‘ufficiale’ o di origine straniera. In effetti, il modo di vivere essenziale dei pastori, privo delle comodità della modernità e protetti dalle influenze negative del mondo esterno per via del loro isolamento, costituisce l’esempio di questo principio universale e, così, permetterebbe alle loro produzioni artistiche di preservare una peculiare originalità, ovvero la sua essenza primordiale così come essa è sorta. È in questo senso che Corso utilizza i termini ‘semplici’ e ‘umile’ riferendosi all’arte dei pastori poiché essa comunicherebbe soltanto le impressioni più prossime alla natura, formando un’arte simile alla natura stessa e immaginate come il livello più elementare ma anche il più vero di cultura, che si contrappone alle elaborazioni complesse e laboriose dell’arte ufficiale24. Pertanto, coerentemente alla sezione nella quale è inserita la sua comunicazione, Corso cerca piuttosto di definire nel suo articolo un ‘manifesto di propaganda’, volto alla celebrazione del senso di

23 R. Corso ‘L’art des bergers’, op. cit., 337. Traduzione dell’autore: “La joie et la simplicité sont les deux caractéristiques principales de l’art populaire en général et de celui des bergers, en particulier. Ce dernier représente la forme la plus humble et la plus sincère, la plus cachée et la plus vivante de toutes celles par qui l’art du peuple se révèle; c’est même la forme typique de l’art populaire, parce que l’art des bergers subit très difficilement les contacts et les influences de l’art noble et évolué. La preuve en est que, sous n’importe quel ciel et sur n’importe quelle terre il fleurisse, il se ressemble toujours. Les vieilles traditions passent de foyer en foyer et forment la nourriture spirituelle des habitants des montagnes et des vallées, et les idées fantastiques et émotives sont d’autant plus uniformes que l’âme vit au contact de la nature et dans la nature même.” 24 Come è stato dimostrato da Daniel Fabre, fin dal XVIe secolo, le capacità artistiche e poetiche dei pastori sono state oggetto dell’attenzione di letterati ed etnografi. Cfr. D. Fabre, ‘Torquato Tasso chez les bergers’, in Scripta volant, verba manent. Les cultures de l’écrit en Europe entre 1500 et 1900, éd. par A. Messerli, R. Chartier, Bâle, 2007, 359-373.

Maurizio Coppola Folkloristi italiani al congresso internazionale di folklore di Parigi (1937)

‘autoctonia’ della cultura popolare. L’intenzione è di valorizzare lo stile di vita dei pastori e dei loro prodotti, aumentandone di conseguenza l’interesse turistico ed economico verso questa categoria.

4. Conclusioni

Il congresso di Parigi può definirsi un’occasione mancata per il movimento folklorico italiano degli anni trenta. La brevità e il carattere ‘tecnico’ della comunicazione di Pasquali e l’assenza di Corso nella sezione del folklore descrittivo mettono in dubbio la considerazione internazionale verso gli studi italiani dell’epoca. La ragione di questa chiusura nei confronti del folklore italiano potrebbe ricercarsi nelle motivazioni politiche e storiche che circondano i lavori del congresso. Nel 1937 è una coalizione di sinistra, il Fronte Popolare, a sostenere l’organizzazione del congresso. In Italia, come è stato detto, gli studi folklorici sono patrocinati dal fascismo e ampiamente inseriti nelle dinamiche di propaganda del regime. Tuttavia, le ragioni politiche non spiegano del tutto l’assenza al congresso di esponenti di alto prestigio del Comitato di arti popolari. Come è stato dimostrato, al congresso di Parigi partecipano alcuni rappresentanti della Volkskunde, il movimento folklorico tedesco che pone gli studi di folklore su una base fortemente nazionalista e che è sostenuta direttamente dal nazismo25. La stessa partecipazione di Corso è prova che le ragioni politiche non sono il motivo principale della scarsa presenza italiana al congresso, in quanto egli stesso ha sostenuto e collaborato con il fascismo, tanto che è stato spesso definito un ‘folklorista di regime’26. Probabilmente, le ragioni della svalutazione degli studi italiani sono più profonde e riguardano principalmente la perdita di autorità in ambito teorico del pensiero italiano. L’esempio di Corso è evidente: autore prolifico di saggi e studi folklorici, egli è ‘confinato’ all’interno della sezione del

folklore applicato. Inoltre, questa mancanza di autorità dei folkloristi italiani avrà delle ripercussioni 91 soprattutto nel secondo dopoguerra quando vi sarà l’introduzione degli approcci provenienti dai paesi vincitori della guerra, come ad esempio l’antropologia culturale americana, che metterà in ‘crisi’ gli studi folklorici italiani e li condurrà al loro definito assorbimento all’interno della macro-categoria delle scienze demo-etno-antropologiche27. In conclusione, possiamo affermare che l’approfondimento dei congressi di folklore del novecento risulta fondamentale dal punto di vista storiografico per fare luce sulle dinamiche che hanno condotto allo sviluppo delle discipline demo-etno-antropologiche in Italia nel secondo dopoguerra.

25 Cfr. C. Velay Vallantin, ‘Le Congrès International’, art. cit., 492. 26 S. Cavazza, Piccole patrie, op. cit., 105 27 E.V. Alliegro, Antropologia italiana, op. cit., passim. MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

I pathe delle iniziazioni: alcune considerazioni

GIULIO COPPOLA

Premessa a scena forse più intensa del film Viva la libertà! del regista Roberto Andò1 è quella del comizio politico in cui viene recitata la poesia di Bertold Brecht A chi esita2: è quello infatti il momento di completo riscatto sia del segretario del principale partito d’opposizione, sia di un popolo di sinistra fortemente smarrito. A tale riscatto, in effetti, si giunge in maniera più che rocambolesca. Infatti, precedentemente Enrico Olivieri (Toni Servillo), il capo politico in crisi di consensi, ma anche sull’orlo della depressione, era fuggito in Francia presso la sua vecchia fiamma Danielle (Valeria Bruni Tedeschi) lasciando in gravissima difficoltà il suo braccio destro e collaboratore Bottini (Valerio Mastrandrea). Quest’ultimo in modo fortunoso riesce a rintracciare il fratello gemello del segretario (sempre Toni Servillo) di cui nulla si sapeva da decenni visto che sotto lo pseudonimo di Giovanni Ernani aveva nel frattempo completato la terapia riabilitativa presso una clinica psichiatrica. Il professore Ernani si lascia convincere a recitare la parte del fratello scomparso e in questa finzione si dimostra particolarmente abile: con la sua imprevedibilità e la sua empatia riesce a scuotere e rianimare le sorti di un partito mobilitando intorno a sé gli entusiasmi dell’intero popolo della sinistra. Il comizio su citato rappresenta infatti la consacrazione di questa ‘rinascita’. Al centro del suo intervento c’è il motivo della ‘passione’ e la coinvolgente recita della poesia di B. Brecht che qui riportiamo3: Dici: per noi va male. Il buio cresce. Le forze scemano. Dopo che si è lavorato tanti anni noi siamo ora in una condizione più difficile di quanto si era appena cominciato. E il nemico ci sta innanzi più potente che mai. Sembra gli siano cresciute le forze. Ha preso un’apparenza invincibile. E noi abbiamo commesso degli errori, non si può negarlo. Siamo sempre di meno. Le nostre

 Il contributo che qui si presenta è la rielaborazione di un intervento tenuto dal sottoscritto il 10 aprile 2019 presso il Liceo ‘F. Quercia’ di Marcianise (CE) nell’ambito del corso di formazione ‘Le passioni degli antichi e dei moderni’. 1 Il film trae spunto dal romanzo dello stesso R. Andò (Il trono vuoto, Bompiani, Milano 2012, vincitore del ‘Premio Campiello Opera Prima 2012); regia: R. Andò; genere: drammatico; produttore: A. Barbagallo; casa di produzione: BiBi Film – Rai Cinema; anno: 2013. 2 È possibile vedere la scena al seguente indirizzo: https://www.youtube.com/watch?v=TK4Akd1M2dM (ultima visualizzazione aprile 2019). 3 Nel romanzo (Bompiani/R.C.S. Libri, Milano2 2013, 124-125) «il comizio del segretario era durato solo sei minuti», tempo necessario, tra lunghi silenzi, solo alla recita della poesia. Giulio Coppola I pathe delle iniziazioni: alcune considerazioni

parole d’ordine sono confuse. Una parte delle nostre parole le ha stravolte il nemico fino a renderle irriconoscibili. Che cosa è errato ora, falso, di quel che abbiamo detto? Qualcosa o tutto? Su chi contiamo ancora? Siamo dei sopravvissuti, respinti via dalla corrente? Resteremo indietro, senza comprendere più nessuno e da nessuno compresi? O dovremo contare sulla buona sorte? Questo tu chiedi. Non aspettarti nessuna risposta oltre la tua4. I pathe delle iniziazioni

È notorio che il termine ‘passione’ è etimologicamente legato al greco πάθος (cfr. il verbo πάσχω, lat. ‘patior’) con cui si indica un turbamento, un’alterazione della normale condizione interna ad opera di un agente esterno. Ma, come vedremo, il termine è specifico anche del lessico delle iniziazioni. Quel che intendiamo con ‘iniziazioni’ lo spiega bene la voce dell’Enciclopedia Treccani5: L'iniziazione è data da un insieme di riti che esprime e consacra il passaggio dell'individuo da uno stato o condizione di vita religiosa e sociale a un altro del tutto nuovo, che si può considerare quasi una nuova vita rispetto a quella antecedente, una rinascita dell'uomo nuovo dopo la morte dell'uomo vecchio. Come vedremo, questa definizione, che definisce l’iniziazione come momento di passaggio da una condizione ad un’altra, mette in campo la metafora di una morte ‘rituale’ a cui fa seguito una rinascita ‘simbolica’ utilizzando una terminologia che è propriamente antica. Forzando un po’ i termini, anche il discorso di Ernani, che prende le mosse esattamente dal termine ‘passione’, comporta nel popolo di

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sinistra a cui è diretto il suo intervento una ‘rinascita’: dalla sfiducia e dallo smarrimento angoscioso all’entusiasmo e alla speranza. Continuando, però, in un questo azzardato parallelismo, è possibile rinvenire un’altra corrispondenza tra la scena del film e i rituali iniziatici. Sappiamo, infatti, che la dinamica dell’iniziazione prevede la successione di tre momenti6: 1) allontanamento del soggetto dalla sua normale condizione di vita; 2) segregazione per un certo arco di tempo durante il quale l’interessato è sottoposto a delle prove ‘significative’; 3) reintegro del soggetto nella sua comunità, ora però con uno status diverso rispetto a quello di partenza. Ebbene, tenuto conto della ‘compressione temporale’ inevitabile nella finzione cinematografica rispetto al tempo normale del rito, sembra emergere una identica successione: 1) il momento del comizio corrisponderebbe all’allontanamento previsto dal rituale; 2) il discorso di Ernani rappresenterebbe la fase di segregazione con la ‘prova iniziatica’; 3) l’entusiasmo finale degli spettatori sarebbe la dimostrazione dell’acquisizione di una nuova condizione (di speranza e fiducia) rispetto a quella precedente (di depressione). Le diverse forme di iniziazione Se la definizione della Treccani ci dava una definizione generale di iniziazione, è opportuno partire dalle riflessioni di A. Brelich7 per stabilire le differenze tra iniziazioni ‘tribali’ e quelle ‘sciamaniche’. Le prime, infatti, hanno carattere ‘comunitario’ (perché coinvolgono intere classi di età), ‘necessitato’ (nel senso che la comunità impone ai soggetti di affrontare determinate prove pena l’esclusione dal proprio corpo), e reintegrano gli interessati nella stessa società che ha stabilito il rito. Le iniziazioni sciamaniche, invece, non hanno carattere ‘comunitario’ (cioè non coinvolgono una pluralità di individui, ma solo

4 B. Brecht, Poesie politiche, a cura di E. Ganni, Torino 2006, 68-70 (titolo originale An den Schwankenden). 5 Enciclopedia Online s.v. (i grassetti sono nostri). 6 Inevitabile il riferimento al classico studio di A. Van Gennep, I riti di passaggio, Torino 19883, [tr. it. di Les rites de passage, Paris 1909]. 7 A. Brelich, Le iniziazioni, a cura di A. Alessandri, pref. di D. Fabre, Roma 2008, 86-87. Giulio Coppola I pathe delle iniziazioni: alcune considerazioni

alcuni prescelti), non sono imposte dalla comunità e non comportano il reintegro nella comunità: si tratta, infatti, dell’acquisizione di un sapere ‘speciale’ che pone l’iniziato non sullo spesso piano dei suoi compagni, ma nella condizione superiore di ‘sciamano’. Fatta questa importante distinzione, è bene precisare che d’ora innanzi ci riferiremo solo alle iniziazioni sciamaniche. Il lessico delle iniziazioni Ma in che modo i Greci e i Latini chiamavano l’iniziazione? I primi utilizzavano il termine generico di τελετὴ, che rimanda al sostantivo τέλος, ‘compimento’, ‘realizzazione’, ‘fine’, ‘scopo’, ma anche al verbo τελέω, ‘completare’, ‘finire’ e al verbo τελευτάω, ‘terminare’, ‘morire’. I romani, invece, ricorrono al sostantivo plur. initia, che si costruisce dal verbo ineo, ‘entrare’. Appare interessante il fatto che le due lingue guardino allo stesso fenomeno da angolazioni diverse: 1) per i Greci, l’iniziazione è il processo tramite il quale l’individuo si ‘realizza’, si ‘completa’, si ‘perfeziona’8 e questa trasformazione necessita una ‘morte’; 2) al contrario i Romani valorizzano con il termine in uso il momento dell’ ‘ingresso’ da parte dell’iniziato nella ‘nuova’ dimensione. Il pathos delle iniziazioni Nel filmato preso in considerazione sopra, il pathos che gli spettatori subivano alle parole dell’oratore si configurava come un’emozione forte. Cosa ci dicono le fonti antiche dell’emozione provata dall’iniziato? Ci vengono in aiuto alcuni passi molto interessanti, partiamo dalla testimonianza di Plutarco. Plut. fr. 178 (= Stob. 4, 52, 49):

ἐνταῦθα δ᾿ἁγνοεῖ (sc. ἡ ψυχὴ), πλὴν ὅταν ἐν τῷ τελευτᾶν ἤδη γένηται˙ τότε δὲ 94 πάσχει πάθος οἷον οἱ τελεταῖς μεγάλαις κατοργιαζόμενοι. διὸ καὶ τὸ ῥῆμα τῷ ῥήματι καὶ τὸ ἔργον τῷ ἔργῳ τοῦ τελευτᾶν καὶ τελεῖσθαι προσέοικε. πλάναι τὰ πρῶτα καὶ περιδρομαὶ κοπώδεις καὶ σκότους τινὲς ὕποπτοι κορεῖαι καὶ ἀτέλεστοι, εἶτα πρὸ τοῦ τέλους αὐτοῦ τὰ δεινὰ πάντα, φρίκη καὶ τρόμος καὶ ἱδρὼς καὶ θάμβος˙ ἐκ δὲ τούτου φῶς τι θαυμάσιον ἀπήντησεν καὶ τόποι καθαροὶ καὶ λειμῶνες ἐδέξαντο, φωνὰς καὶ χορείας καὶ σεμνότητας ἀκουσμάτων ἱερῶν φασμάτων ἁγίων ἔχοντες˙ ἐν αἷς ὀ παντελὴς ἤδη καὶ μεμυημένος ἐλεύθερος γεγονὼς καὶ ἄφετος περιιὼν ἐστεφανωμένος ὀργιάζει… Quando è qui sulla terra, l’anima non sa nulla, salvo quando è vicina alla morte. Allora prova un’emozione simile a quella di quanti sono iniziati ai Grandi Misteri. Perciò è parso legittimo accostare la parola e il fatto di morire alla parola e al fatto di essere iniziato. Dapprima l’uomo affronta un faticoso vagabondare e un ritrovarsi sempre al punto di partenza e un cammino incerto e senza meta tra le tenebre e poi, prima della fine prova tutte le esperienze spaventose: terrore, tremito, sudore e sbigottimento. Ma dopo questo momento, gli si fa incontro una luce meravigliosa e lo accolgono luoghi e prati incontaminati dove sono voci e danze e solenni canti sacri e visioni santificanti. In questi luoghi l’uomo ormai giunto alla perfezione e iniziato al mistero, libero e sciolto da ogni legame terreno, se ne va in giro con la corona sul capo, rapito in estasi. Trad. di R. Rossa Da quanto riporta Plutarco, appare chiaro come siano gli stessi antichi ad aver immaginato l’esperienza misterica come un’esperienza di morte e di rinascita; si tratta, dunque, di una ‘passione’ forte, dolorosa che, però, inserisce la sofferenza in un orizzonte di senso: il buio, il turbamento e la pensa non sono fini a sé stessi, ma funzionali al raggiungimento di una condizione di beatitudine. L’immagine che Plutarco

8 E, infatti, il ‘non iniziato’ è ἀτελής, lett. ‘imperfetto’. Giulio Coppola I pathe delle iniziazioni: alcune considerazioni

usa è quella di una luce che improvvisamente rischiara le tenebre, un’immagine che troveremo anche altrove.

Aristot. fr. 15 Ross (= Synes. Dio 10, 48a): καθάπερ Ἀριστοτέλης ἀξιοῖ τοὺς τελουμένους οὐ μαθεῖν τί δεῖν, ἀλλὰ παθεῖν καὶ διατεθῆναι, δηλονότι γενομένους ἐπιτηδείους. Come ritiene Aristotele, gli iniziati non devono imparare qualcosa, ma soffrire/provare emozione e porsi in uno stato d’animo essendone evidentemente adatti. Aristot. fr. 15 Ross (= Michael Psellus Schol. ad Joh. Climacum [Cat. des Man. Alch. Grecs, ed. Bidez, 1928], 6, 171): ὃ μεμάθηκα, ἀλλ᾿οὐχ ὃ πέπονθα, ἐξηγγειλάμην διδάσκειν ὑμᾶς …τὸ διδακτικὸν καὶ τὸ τελεστικόν. τὸ μὲν οὖν πρῶτον ἀκοῇ τοῖς ἀνθρώποις παραγίγνεται, τὸ δὲ δεύτερον αὐτοῦ παθόντος τοῦ νοῦ τὴν ἔλλαμψιν. Annunciai di insegnarvi non le cose che ho imparato, ma ciò che ho provato/sperimentato… il modo didattico e il modo telestico. Il primo perviene agli uomini grazie all’udito, il secondo perché l’intelletto stesso subisce un’illuminazione. La testimonianza di Aristotele acquista per noi un particolare interesse in quanto lascia intendere una vera e propria contrapposizione tra il pathos e il mathos, tra la modalità di acquisizione del sapere tramite l’esperienza iniziatica (τὸ τελεστικόν) e quella mediata dall’ascolto (ἀκοῇ) della parola dell’insegnante (τὸ διδακτικὸν). Si fronteggiano, in altri termini due opposti modelli del sapere: quello divino-

iniziatico-verticale in cui l’illuminazione improvvisamente apre nuove dimensioni dell’essere e quello 95 umano-orizzontale che si sviluppa nel tempo e che costruisce gradualmente il suo sapere non senza ripensamenti ed errori. È evidente, comunque, che in gioco non c’è solo una diversa forma di acquisizione del sapere, ma soprattutto il raggiungimento di una più completa forma di vita: in una parola, la vera felicità. E sono le stesse parole degli antichi a confermarlo. Hymn. Hom. 2, 480-482: ὄλβιος ὃς τάδ' ὄπωπεν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων· ὃς δ' ἀτελὴς ἱερῶν, ὅς τ' ἄμμορος, οὔ ποθ' ὁμοίων αἶσαν ἔχει φθίμενός περ ὑπὸ ζόφῳ εὐρώεντι. Beato tra gli uomini colui che ha assistito a questi riti; colui che non è iniziato ai misteri, l’escluso, non avrà identica sorte neppure da morto sotto l’umida terra. Trad. di G. Zanetto

Pind. fr. 137 Snell-Mahler (Clem. Alex. Strom. 3, 3, 17): ὄλβιος ὅστις ἰδὼν κεῖν' εἶσ' ὑπὸ χθόν'· οἶδε μὲν βίου τελευτάν, οἶδεν δὲ διόσδοτον ἀρχάν. Beato colui che scende sotto terra dopo aver visto queste cose; conosce la fine della vita, ne conosce il principio dato da Zeus. I due passi (l’uno dell’Inno omerico a Demetra in cui vengono celebrati i misteri eleusini, l’altro appartenente alle opere di Pindaro) insistono entrambi su una condizione privilegiata dell’iniziato che in forza di quanto ha appreso con l’iniziazione può vantare un destino di felicità oltre la morte. Quel che Giulio Coppola I pathe delle iniziazioni: alcune considerazioni

colpisce è la ripetizione di formule identiche (ὄλβιος ὃς τάδ' ὄπωπεν… / ὄλβιος ὅστις ἰδὼν κεῖν'…) quasi si tratti di un formulario religioso9. Anche un passo di Cicerone ribadisce l’importanza per l’uomo dei riti iniziatici ai fini del superamento della condizione ferina. Cic. De leg. 2, 14 (36) Nam mihi cum multa eximia diuinaque uideantur Athenae tuae peperisse atque in uitam hominum attulisse, tum nihil melius illis mysteriis, quibus ex agresti immanique uita exculti ad humanitatem et mitigati sumus, initiaque, ut appellantur, ita re uera principia uitae cognouimus, neque solum cum laetitia uiuendi rationem accepimus, sed etiam cum spe meliore moriendi. La tua Atene mi sembra aver dato alla luce molti ed esimi ritrovati ed averli introdotti nella vita umana, ma nulla poi di meglio di quei misteri, dai quali ritolti a vita rozza e inumana, siamo stati educati e mitigati alla civiltà, e, così si chiamano iniziazioni, perché certo con esse abbiamo conosciuto i principi della vita; e non soltanto abbiamo appreso il modo di vivere in letizia, ma ancor quello di morire con speranza di miglior vita. Trad. di L. Ferrero

Non va dimenticato, infine, che il ‘modello iniziatico’ che contrappone l’iniziato al non iniziato, la vera vita alla non vita, la vera felicità alla falsa felicità, il sapiente all’ ‘uomo dormiente’10, opera ben oltre i confini delle religioni misteriche: come nota D. Susanetti «l’esperienza misterica è percepita come origine di una vera conoscenza e insieme costituita a modello di un pensiero e di una pratica di sé per coloro che vogliono attingere alla ‘perfezione’»11. Non a caso, allora, Platone dirà nel famoso passo della Settima Lettera12 che la sua dottrina non è come tutte le altre (ῥητὸν γὰρ οὐδαμῶς ἐστιν ὡς ἄλλα μαθήματα), cioè trasmissibile attraverso la lettura di testi, ma è una luce (φῶς) che improvvisamente si accende come un fuoco a seguito di una lunga frequentazione e da sé si alimenta (ἀλλ' ἐκ πολλῆς 96

συνουσίας γιγνομένης περὶ τὸ πρᾶγμα αὐτὸ καὶ τοῦ συζῆν ἐξαίφνης, οἷον ἀπὸ πυρὸς [d] πηδήσαντος ἐξαφθὲν φῶς, ἐν τῇ ψυχῇ γενόμενον αὐτὸ ἑαυτὸ ἤδη τρέφει). È facile rilevare13 come il linguaggio e le stesse immagini presentate da Platone per evidenziare la peculiarità del suo insegnamento risentano fortemente del modello iniziatico.

9 Altre testimonianze in tal senso si possono aggiungere: Soph. fr. 837 Radt (= Plut. Mor. 21f); Eur. Bacch. 73 e ss. Cfr. in generale P. Scarpi, ‘La morte addomesticata tra culti misterici ed esoterismi tardo-antichi’, in La morte e i morti nelle società euromediterranee, Atti del Convegno internazionale. Palermo, 7-8 novermbre 2013, a cura di I.E. Buttitta – S. Mannia, Palermo 2015, 59 e ss. 10 Sono in primo luogo Eraclito e Parmenide ad insistere sulla differenza ‘antropologica’ tra l’uomo comune (il ‘dormiente’, il ‘non vedente’) e il saggio: per il filosofo di Efeso, vd. 22 B 1 D.K. (= Sext. Adv. Math. 7, 132); 57 (= Hipp. Refut. 9, 10); 89 (= Plut. Mor. 166c). Per il filosofo di Elea, vd. 28 B 6 D.K. (= Simpl. Phys. 117, 2). 11 D. Susanetti, La via degli dei. Sapienza greca, misteri antichi e percorsi di iniziazione, Roma 2017, 22-23. In effetti, già K. Kerènyi in uno scritto del 1947 (‘L’uomo dei primordi e i misteri’, in K. Kerènyi, Miti e misteri, Torino 19904, 369 e ss. [tr. it. di ‘Urmesch und Mysterium’, Eranos-Jarbuch, 15, 1947, 41-74]) notava come quando «Parmenide ed Eraclito esprimono il loro disprezzo in tono profetico per l’ignoranza degli uomini, per la loro ‘sordità’ e ‘cecità’, dal punto di vista puramente stilistico le loro parole riecheggiano il linguaggio della predicazione misterica orfica». 12 Plat. Lett. 7, 341c-d. Per tutti i problemi di questo passo, si rimanda al commento di P. Butti de Lima (Platone. L’utopia del potere [La settima lettera], a cura di P. Butti de Lima, Venezia 2015, 169-170). 13 D. Susanetti, La via, op. cit., 23. Giulio Coppola I pathe delle iniziazioni: alcune considerazioni

Conclusioni Come abbiamo visto, l’esperienza iniziatica prevede necessariamente il pathos, da intendersi come esperienza forte, Nuova dolorosa, ma funzionale al superamento di vita uno stato sentito come imperfetto e mortificante per il raggiungimento di una condizione più piena e appagante. Se Sapere questo risulta inoppugnabile dalle nuovo testimonianze prese in esame, appare del tutto evidente quanto parziale e fuorviante Pathos sia la posizione di quanti14 contrappongono in maniera Dinamica delle eccessivamente meccanica il pathos antico iniziazioni (esperienza vista come esclusivamente passiva) alla passione moderna (emozione ed entusiasmo che spingono ad agire). A ben guardare – almeno per quanto riguarda il pathos iniziatico – passività e attività coesistono: il soggetto che affronta i riti misterici non può non ‘subire’ anche dolorosamente, ma perché il processo si completi quell’esperienza di dolore e sofferenza deve poi trasformarsi in energia funzionale alla ‘rinascita’.

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14 Penso in primo luogo al recente volume di U. Curi, Passione, Roma 2013, 11: «la radice greco-latina della parola (sc. passione) pur nelle molte varianti con le quali può presentarsi, allude a un’attitudine eminentemente passiva, nel senso che pathos-passio vuole dire essenzialmente ‘subire, ‘sopportare’ (patire, appunto). Dall’altro lato, con termini moderni modellati su questo stesso etimo, ci si riferisce a qualcosa che esprime una forte carica di attività, ma che è addirittura sinonimo di una tensione particolarmente intensa, al punto da essere spesso considerata paradigmatica di un impulso caloroso e perfino travolgente» (i corsivi sono dell’autore). MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

Il ritorno di Orfeo

LOREDANA FERRIGNO

arlare, oggi, della mitologia, con riferimento ad un testo specifico o ad un mito che venga interpretato o rivissuto nel suo valore simbolico-ideologico, significa non considerare soltanto l’approccio narratologico del mito preso in esame, ma capire la valenza comunicativa, performativa che un racconto mitologico ha avuto in un determinato contesto sociale e culturale. Infatti, se nel mondo moderno, la categoria del mito viene relegata nella sfera dell’eccezionale, del fantastico e dell’irreale, nel mondo antico, i racconti mitici raramente erano classificati come immaginifici ma, al contrario, l’uomo antico mostrava una fiducia profonda nella storicità del mito e nella sua architettura concettuale. In questo senso, lo spazio mitico, spesso, era reputato un riflesso di quello storico o, in certi casi, una chiave profonda di interpretazione della realtà, non solo nel complesso delle sue tradizioni antropologiche e rituali, ma anche nel suo patrimonio ideologico, di cui il mito diveniva esemplificatore. Individuare nel materiale mitico tutto un intreccio aneddotico e allegorico compresso è un po’ come attuare una campagna di scavo nell’interiorità di ognuno di noi, per scoprire che gli eroi greci non sono tanto lontani dall’uomo comune e che le loro storie esemplari nascono come espressione di uno stadio primitivo, pre-logico del pensiero e forse, come asseriva l’antropologo James G. Frazer, costituiscono il primo tentativo scientifico di interpretare la realtà. Infatti, il mito si cala perfettamente nella vita quotidiana di una comunità e diventa indirettamente, una chiave di trasmissione di tutti i suoi legami interni, tramite il continuo recupero di storie, di vicende, di narrazioni che non solo rafforzano il senso di appartenenza ad un determinato contesto storico-sociale, ma mostrano le tracce di una identità universale del genere umano. Dunque, credo che, memori di questa concezione greca dei miti, l’idea di farli rivivere o di riportarli alla luce, mediante rappresentazioni o feste locali, sia un pregevole tentativo volto a non polverizzare nella prospettiva della favola un universo culturale che, invece, rimanda alla continuità delle nostre radici storiche ed etnologiche. Un mito che ho particolarmente amato, molto vicino al mio sentire è quello di Orfeo, una delle figure più suggestive della mitologia greca, anche per l’evidente significato simbolico assunto da certi suoi comportamenti: egli stesso fu simbolo della poesia che commuove e incanta gli ascoltatori e della musica nel suo potere di persuasione esercitato sugli animi. Di questo poeta vorrei brevemente discorrere e della sua meravigliosa storia, che oggi è ancora ricordata e diventa il copione di tante iniziative culturali, come quella organizzata alle grotte di Castelcivita, nel Cilento, che con il loro incantevole paesaggio sotterraneo, si offrono quale scenario naturale perfetto per far rivivere l’emozione e l’intensità di questo mito. Probabilmente, secondo il mito, Orfeo fu figlio di una delle 9 Muse, Calliope, ispiratrice della poesia, e di Apollo; in altre versioni, figlio di Eagro, fiume a nord dell’Olimpo: ricevette la cetra da Mercurio, suo

 Impaginazione a cura di: Melissa Alba, Alessia Festa, Alessandra Piccirillo. Loredana Ferrigno Il ritorno di Orfeo

inventore e fu capace, per la soavità del canto, di ammansire le bestie feroci, nonché di arrestare il corso dei fiumi. La sua figura è collegata a 3 distinti, anche se non indipendenti filoni di fonti a noi pervenuti spesso in forma frammentaria, tuttavia tali da consentirci di ricostruire un’immagine di questa personalità al confine tra la leggenda e la storia. Orfeo compare, innanzitutto, come iniziatore ed eponimo dei riti che appunto da lui prendono il nome, quelli della setta orfica, di cui abbiamo testimonianze abbastanza certe a partire dal V sec. a.C..In secondo luogo, a Orfeo viene fatto risalire quel complesso di produzioni poetiche dal contenuto spesso oracolare ed enigmatico che va sotto il nome di ‘poesia orfica’, collegata con riti di natura iniziatica e misterica. Infine, Orfeo compare come protagonista di due grandi miti dell’antichità: il mito di Orfeo ed Euridice e il mito in cui Orfeo non è protagonista, ma compartecipe dell’impresa degli Argonauti, alla conquista del Vello d’Oro sotto la guida di Giasone. Esistono degli aspetti comuni a questi filoni di fonti diverse: infatti, in tutte e tre, la figura di Orfeo è collegata con una tensione alla ricerca che supera ogni vincolo umano e con situazioni che si pongono al limite; sia nelle versioni mitologiche, che prevedono la discesa agli inferi del protagonista, sia nelle testimonianze relative ai riti orfici, sia nella poesia, che da lui prende il nome, Orfeo è collegato con un’esperienza del limite e più specificatamente dell’aldilà, ossia di ciò che si colloca al di là della frontiera del conosciuto, quasi a confermare il suo carattere di figura di confine tra la leggenda e la storia. Inoltre, vi è anche un altro aspetto che emerge dal mito: il fatto che Orfeo non fosse un eroe o un superuomo, ma un poeta, un uomo comune dai sentimenti poetici e dall’animo puro, un musico, un artista, è questo un dato che ricorre in tutte le diverse e talora disparate tradizioni relative alla sua figura.

Il suo mito probabilmente trae origine dalla regola dell’invisibilità dei defunti. 99

Nel racconto di Virgilio (Georg. IV 453-527) Orfeo sposatosi con Euridice, mentre questa era seguita dal pastore Aristeo, di lei invaghitosi, lungo il fiume tracio, fu punta ad un piede dal morso di un serpe velenoso e morì. Orfeo allora in preda alla disperazione, osò scendere nell’Ade per pregare Plutone e Persefone di ricondurre sulla terra la moglie: armato solo della lira varcò la soglia del regno delle ombre e arrivato al cospetto degli dei infernali, riuscì a commuoverli con il suo canto tanto da ottenere di poter ritornare nel mondo con la sua amata, ma ad una sola condizione: che non si voltasse a guardarla prima che fossero usciti alla luce del sole. Orfeo, invece, non seppe resistere alla tentazione e si voltò indietro a guardare Euridice, perdendola per sempre. Disperato vagò per monti e valli, finché fu sbranato dalle Mènadi invasate dal furore bacchico: la sua testa staccata dal busto fu trasportata dalla corrente del fiume Ebro, ma tanto forte era l’amore del poeta, che anche dopo la sua morte, la lingua continuò a pronunciare il nome di Euridice. La narrazione virgiliana si sofferma soprattutto sulla forza simbolica e la profondità dell’amore, che vince persino i confini della morte ed ha un duplice valore simbolico: da un lato, pone in evidenza la virtù della poesia che ha il potere di dare nuova vita agli esseri insensibili, dall’altro sottolinea l’impossibilità dell’uomo di realizzare i suoi ideali, che spesso svaniscono proprio nel momento in cui stanno per realizzarsi. Anche Ovidio (Met. X 1-77) conferma il racconto di Virgilio, sulle doti di musico e poeta di Orfeo, che gli consentirono di ottenere da Persefone il permesso di ricondurre in vita la moglie; tuttavia, egli, avendola guardata prima di uscire dal regno dei morti, la perse per sempre e trascorse una vita misogina, attirandosi l’odio delle Baccanti che finirono per sbranarlo e gettarne le membra nel fiume Ebro (Ovidio, Met. XI 1-66). In Ovidio, l’imprudenza fatale di Orfeo che si volta a guardare la sposa è interpretata romanticamente: Euridice non può lamentarsi di quell’atto di debolezza del marito che fu in sostanza solo una colpa d’amore. Loredana Ferrigno Il ritorno di Orfeo

Quando Orfeo dilaniato dalle Baccanti muore, in Ovidio si pone molto l’accento sulla natura partecipe al lutto, e la storia si conclude con il ricongiungimento felice nei campi Elisi dei due sposi che resteranno uniti per l’eternità. La poesia virgiliana, invece, trova i suoi accenti più patetici nel racconto del distacco dei due sposi, quando Euridice richiamata indietro, scompare alla vista di Orfeo. Anche in Orazio, c’è un accenno a questo mito nelle Odi (I 12 vv. 7-12). Il mito è menzionato anche nel periodo tardo da Sant’Agostino nel De civitate Dei (XVIII e XXXVII) e da Boezio nel De Consolatione Philosophiae (III 12) secondo un’interpretazione allegorica per cui Orfeo diventa simbolo di Cristo. Nella letteratura greca, tale mito è citato da Eschilo nelle Baccanti: si dice che Orfeo salendo sul monte Pangeo per venerare Apollo s’imbatte nelle Baccanti e viene divorato; inoltre la vicenda di Orfeo ed Euridice è citata in celebre passo dell’Alcesti di Euripide; infine, è ricordata da Pausania (IX 30, 5) che narra di Orfeo assalito e ucciso dalle donne della Tracia ubriache, mentre egli vagava nella loro terra. Gli accenni alla persona di Orfeo sono sempre accompagnati da parole ammirative: unica voce discordante fu Platone (Simposio) che per bocca di Fedro rimprovera ad Orfeo di essere disceso vivo nell’Ade solo in virtù del canto e non da morto come Alcesti, che invece si sacrificò per il marito: il filosofo, non a caso, interpreta la morte inferta ad Orfeo dalle Menadi come punizione divina. Così Ermesianatte, poeta greco del periodo ellenistico (vissuto nel III sec. a.C.) racconta la discesa di Orfeo nell’Ade, nella parte più bella del frammento rimastoci del suo Leonzio (in metro elegiaco), mentre con toni più appassionati Fanocle, altro poeta ellenistico, nell’opera Gli Amori o i belli, cantò la morte di Orfeo: l’approdo della cetra e della testa del cantore tracio a Lesbo qui è interpretato quale causa della grande fioritura melica in quell’isola (si pensi alla poesia di Saffo/Alceo nel VI sec. a.C.). Sempre in età ellenistica, Conone di Samo, letterato alessandrino, connette il mito di Orfeo ed Euridice

a quello di Eco e Narciso: Orfeo sarebbe diventato, per Conone, l’inventore della pederastia per 100

consolarsi della perdita dell’amata e la sua storia, proprio come quella di Narciso sarebbe legata ad un esito infelice a causa del ‘guardare’. Come si è visto, il complesso mitico su questo personaggio appare poco organico. Il tema della discesa agli inferi per riportare la sposa tra i vivi, tuttavia, si ritrova in tradizioni mitologiche lontanissime ed è molto frequente anche nelle mitologie nord-americane, che potrebbero costituire, a mio avviso, un naturale precedente del rituale iniziatico che dal mito prese il nome: l’orfismo. Come si vede, il mito di Orfeo e di Euridice è connesso con alcune tematiche significative dal punto di vista filosofico: il problema del limite, il problema del rapporto tra amore e morte, l’inesorabilità del destino umano, un’interrogazione di stampo escatologico su quale sorte sia riservata all’uomo nell’aldilà. È significativo nella versione data da Virgilio che proprio quando i due sposi sono in prossimità della conclusione del loro penoso viaggio, accade l’irreparabile. La trasgressione del patto stipulato con Plutone è segnalata nel termine virgiliano furor, insania, cioè follia, che è un’espressione di irrazionalità tale da determinare il tragico epilogo della vicenda d’amore. Molte sono state le interpretazioni che gli studiosi del mito hanno cercato di dare sulla irragionevolezza di questo gesto legato al ‘guardare’; può essere allora, anche sulla scia del resoconto ovidiano, più utile spostare l’attenzione dall’analisi delle motivazioni irrazionali del comportamento di Orfeo ad un altro aspetto, spesso trascurato da studiosi e interpreti di questo mito e che invece può essere particolarmente significativo per coglierne la valenza filosofica: il significato delle condizioni poste da Plutone e Proserpina per il rilascio di Euridice. Apparentemente, la condizione posta dalle divinità infernali di non guardare, per una fase, la donna prima di averla ricondotta alla luce, sembra tale da essere agevolmente soddisfatta. Ma forse, proprio su questa apparente ovvietà occorre invece esercitare il rigore della problematizzazione filosofica. Infatti, Plutone e Proserpina, pur essendo i custodi dell’Ade, non sono tali da poter violare le leggi che governano e organizzano l’Oltretomba. Loredana Ferrigno Il ritorno di Orfeo

Se Orfeo avesse davvero potuto ricondurre fuori dagli inferi Euridice, queste leggi sarebbero state violate, poiché la donna che ritorna nel mondo della luce dalle ombre avrebbe infranto un Kòsmos e un’organizzazione legale a cui non solo sono sottomessi gli uomini, ma anche le stesse divinità. Dunque, la condizione posta da Orfeo doveva essere tale da non poter essere rispettata: per questo, si chiede ad Orfeo di non guardare l’amata, visto che nel mondo antico, esisteva una sostanziale equivalenza tra il vedere e l’amare; il comando richiesto ad Orfeo, per l’impossibilità di scindere l’amore dallo sguardo e dalla conoscenza è impossibile, per cui non poteva che essere trasgredito. La scissione tra amare e conoscenza che passa attraverso lo sguardo è il patto sigillato tra Orfeo e l’Ade e tuttavia basato sull’inganno delle divinità infernali, custodi di leggi irremovibili che esse stesse non possono modificare e che devono tutelare: la richiesta implicita in tale patto si sarebbe realizzata solo con la contraddizione che Orfeo non amasse più la sua Euridice, allo scopo di poterla far rivivere. Questo paradosso segnerà l’esito tragico della vicenda. Per il forte simbolismo cui è soggetta la vicenda del mito di Orfeo, egli diventa una ‘figura di transito’ nel rapporto tra la vita e la morte, sempre nel contesto di imprese spinte al limite dell’umano, ma simboleggia anche il furor amoris, la necessità del vedere per amare, a tutti i costi, anche a prezzo della stessa vita. Ma se è vero che Amor vincit omnia, allora non ci risulterà difficile rivedere i due sposi uniti in tutto ciò che nasce dalla passione, in ciò che amiamo e per cui lottiamo nel quotidiano, con le nostre forze e il nostro impegno. Non sarà difficile ingannare le divinità infernali e piegare le leggi del destino, se ancora cercheremo in noi stessi la voce di quel cantore che visse soltanto per amare e che divenne eroe nella ricerca dell’impossibile e dell’ignoto, immortale nell’energia e nel coraggio di andare oltre i vincoli prestabiliti, oltre le leggi costituite per altre leggi non scritte dell’animo.

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Del ‘diverso’ esilio. Esegesi di un aggettivo foscoliano

SALVATORE DELLI PAOLI

n interrogativo: perché Ugo Foscolo definisce ‘diverso’ l’esilio di Ulisse in quel sonetto che tutti hanno studiato a scuola, qualcuno in tempi di altra scuola, molto differente da quella attuale, e addirittura imparato a memoria, quando la memoria non era come ora disconosciuta, ma considerata come uno strumento essenziale per la comprensione della parola poetica? Se leggo a piè pagina le note dei vari commentatori, trovo le interpretazioni più disparate. ‘Diverso’ perché lo porta di qua e di là. ‘Diverso’ perché la sua è un’esperienza eccezionale che non può essere paragonata a quella di uomini comuni, visto che ad essere protagonista di tale esilio ‘diverso’ è appunto Ulisse, l’eroe, ma non semidio, si badi, della tradizione mitologica greca, bensì un uomo, sia pure un uomo eccezionale. ‘Diverso’ perché fonte di una esperienza di vita vissuta in un ambito strano in quanto ricca di fatti insoliti. Sono definizioni che dicono tutto e niente. Lasciano l’amaro in bocca perché non appagano. Mai come in questo caso la parola poetica è pesante. La si può misurare con il metro della logica e della scienza dei significati del termine. E sarebbe una sorta di violenza. Non c’è nulla di peggio che voler commentare un testo poetico, trascrivendo il linguaggio usato dal poeta, in una sorta di traduzione che è sempre un tradimento. La versione in prosa, una delle tecniche delle vecchie scuole era un esercizio utile alla comprensione propedeutica, ma implicava una banalizzazione del testo, se essa non fosse stata integrata, come in verità sempre avveniva, con il commento interpretativo. E allora perché ‘diverso’ questo esilio? Il sostantivo e l’aggettivo giocano nello stesso campo semantico, è come una sorta di endiadi che rafforza il concetto. Esilio è da exsulare ove la preposizione ex indica chiaramente un partire da un posto (un’isola), un allontanamento, una separazione. È lo stesso campo semantico cui ricorre Carducci in un’altra famosa poesia, la straordinaria San Martino, quando parla degli ‘esuli’ pensieri del cacciatore che fischietta sull’uscio di casa. Per Carducci, però, l’idea dell’esilio si mescola alla ricerca di una nuova patria, diversa dall’oggi, forse è un pensiero di natura metafisica. Le rondini lasciano l’inverno incombente e sono accompagnate dai pensieri esuli del cacciatore che vorrebbe, esiliandosi dall’oggi, ritrovare il calore di una patria senza inverno, come dire senza tempo. L’esilio di Foscolo, invece, ci riporta alla terrestrità. Al tempo e allo spazio. Almeno qui in A Zacinto la storia non viene ancora sublimata nel meta-mondo del classicismo, che alimenterà l’esperienza di Didimo Chierico. L’esilio si disperde nel mondo ed è nel mondo che esso diventa ‘diverso’ ove la preposizione latina che indica l’allontanamento è, non a caso, de che indica a rigore un allontanamento dall’alto verso il basso, un volgersi ‘de-verto’ verso il mondo, un distogliersi che però non si rifugia nell’empireo di un mondo altro ma che trova il suo approdo nelle esperienze conoscitive del tempo e dello spazio, ovvero nella storia di cui si è partecipi, da cui ci si lascia trascinare e travolgere proprio per sete di conoscenza. In questo senso l’allontanamento dalla patria, presente nella nozione di esilio si congela, si rafforza e si specifica nella sua funzione di ‘divertimento’ a cui questo esilio ci sottopone mediante un’ubriacatura di esperienze grazie alla quale si acquista insieme fama e sventura, insomma si vive, nell’unica forma attraverso la quale l’uomo, secondo Foscolo, possa vivere, ovvero fuggendo da, trasferendosi in un altrove storico che compensa, gratifica, e in qualche misura Salvatore Delli Paoli Del ‘diverso’ esilio. Esegesi di un aggettivo foscoliano

appaga, come ogni conoscenza raggiunta, senza eliminare tuttavia l’angoscia costante dell’esistenza, nella dimensione di un mondo entro cui l’essere può solo trasgredire. In questo senso il ritorno in patria, il compenso finale della patria ritrovata, è legittimo ed appagante. La morte qualora dovesse venire, segnerà per Ulisse il culmine dell’esperienza storica, il momento supremo che viene ad essere una sorta di naturale ritorno alla terra, un riprendersi e una riassunzione di senso in una fine pienamente riconosciuta come ineluttabile e non disperata. E’ a questo punto che si colloca la differenza tra Ulisse e Foscolo-Jacopo. A quest’ultimo è infatti destinata una morte senza ritorno in patria. Ma nel divenire del mondo umano e poetico del Foscolo ci sarà un tempo in cui lo iato si colmerà: è il mondo dei Sepolcri, in cui la disperazione può trovare compenso in una ‘diversità’ illusoria che implica l’azione. Certo il presupposto ideologico è difettoso, l’impostazione filosofica approssimativa, l’illusione ci illude appunto e ci consegna all’impegno: che pasticcio. Eppure la storia, forse, in nome di questo pasticcio può essere recuperata alla civiltà, anzi è stata salvata proprio da questo pasticcio. Forse che Vico non ci ha insegnato che l’uomo da belva che era è diventato tale tramite un’illusione, attraverso valori spirituali in nome dei quali l’istinto è stato superato dal sentimento, e il sentimento si è tradotto in istituzioni civili? Dunque solo il ‘divertimento’ può essere creatore di senso, almeno nei tempi brevi, nella lunghezza di un’esistenza, di una generazione, di secoli, prima che i secoli diventino millenni o milioni di anni, a spazzar via ogni prodotto dell’umano ‘divertimento’, anche le illusioni. A quel punto, però, non resta che la satira amara di Didimo Chierico, autore del velleitario sogno delle Grazie. Nessun ‘divertimento’ è più possibile.

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La Verità di Cassandra

LOREDANA FERRIGNO

gni storia ha le sue vittime, i suoi vinti e i suoi sconfitti: la storia di Troia, favolosa città asiatica caduta inesorabilmente nell’inganno dei Greci che ne determinò la fine funesta, si ripete ogni giorno, anche oggi, in nuovi scenari politici che ci rendono più che mai Troiani, destinati a perire sotto l’urto di illusori benefici e di nuovi governi pseudo-guaritori. Difatti, persiste in ognuno di noi uno stato di crisi profonda, probabilmente connesso alla consapevolezza che anche nelle nostre mura, come in quelle troiane, continuano ad entrare inesorabili ‘i cavalli rovinosi’ della crisi economica, politica e morale e a nulla valgono le labili resistenze dei pochi intellettuali illuminati, ridotti ad essere profeti di sventura, proprio come quella donna che tanto spazio ebbe nella mitologia greca: la sacerdotessa Cassandra. Di questa donna vorrei parlare, non a caso, ma per rinvenire il filo sottile che lega l’uomo di oggi a quello tanto immaginato e sognato in antichità remote che, al contrario, si rivelano quanto mai attuali nell’indagine delle radici profonde dell’animo umano. Cassandra, figlia della regina Ecuba e del re Priamo, fu la sacerdotessa di Apollo che, perdutamente innamorato di lei, volle donarle l’arte della preveggenza per conquistare il suo amore; ella tuttavia, lo rifiutò e tale determinato diniego fu causa dell’ira spietata del dio che la punì inesorabilmente, condannandola ad una tragica esistenza di solitudine e di esclusione, ad essere veggente odiata, profetessa di sventure destinata perennemente a non essere ascoltata né creduta. Cassandra appare figura singolare e affascinante , inascoltata in diverse situazioni: predisse infatti che il fratello Paride sarebbe stato la causa principale della distruzione della sua città, non solo alla sua nascita, ma anche quando partì per Sparta, evento che avrebbe determinato il rapimento della bella Elena e l’inizio delle ostilità tra Greci e Troiani; inoltre, profetizzò al suo popolo incredulo che il cavallo di legno, introdotto nella sua città era in realtà un inganno dei Greci nascosti all’interno, ma sempre la sua voce rimase invisa, eco di una verità mai accolta, rifiutata come la peggiore delle ipotesi; infine, anche dopo la distruzione di Troia, quando fu condotta come ostaggio da Agamennone a Micene e tentò di mettere in guardia l’Atride sulla sua rovina e sulla congiura organizzata contro di lui dalla moglie, neppure questa volta, le sue parole ebbero ascolto. La vicenda dolorosa di questa donna, a mio avviso, rispecchia simbolicamente il destino di ogni sapiente, tragico eroe inascoltato che con le sue grida di giustizia e di verità si oppone alla congiura del silenzio, affidandosi ad una percezione della realtà non razionale, ma legata ai sensi, ai ricordi, ad un’immagine interiore del bene che l’uomo conserva e custodisce soltanto nei recessi della propria spiritualità. Al tempo stesso, la donna ritenuta folle, perché unica capace di opporsi alla comune opinione del suo popolo nelle decisioni più importanti, rappresenta la tragedia di ogni individuo che tende alla ricerca, che non si accontenta delle verità precostituite dalla folla ignorante, ma costruisce con la lotta una sua verità, un suo mondo di opinioni, espressione di cultura e di civiltà.

 Impaginazione a cura di Salvatore Gianoglio. Loredana Ferrigno La Verità di Cassandra

Spesso, per prevedere il futuro basterebbe semplicemente osservare i segni drammatici del presente, le condizioni dell’attualità, il baratro del nulla, che rimane quello dell’umanità, non solo di Troia o di Micene, ma di tutti coloro che, come profetizzava Cassandra, ‘non sanno vivere’. Ella, in questo senso, diventa l’immagine dell’estraneità del pensatore dal mondo, la sacerdotessa vate che sacrifica una vita falsa di apparenza alla conoscenza e alla sapienza, doni divini che inevitabilmente espongono alla rovina e all’esclusione, perché il non-sapere spesso è preferito alla ricerca, perché la paura del vero condanna all’immobilismo sociale ed etico e uccide il germe vitale della rivolta, della tensione al cambiamento, condizione essenziale di ogni processo di crescita storica. La profetessa troiana nel nostro immaginario è l’eroina del cambiamento, è colei che sceglie una terza coraggiosa logica tra il morire e l’uccidere, quella meravigliosa del vivere. Per questa scelta di fede e di amore sarà ritenuta una scomoda voce da mettere a tacere, come del resto è accaduto in ogni tempo a tutti gli intellettuali ispirati, che nel loro sacro delirio hanno invano tentato di salvare l’umanità dalle sue turpi inclinazioni, nella ricerca disperata di un consenso, di una condivisione, di una appartenenza. La Verità di Cassandra diventa esplosione estatica, essenza che turba le menti e spaventa, intuizione che si traduce immediatamente in azione e che come tale va repressa, ignorata, sedata; tuttavia, tale inquietudine incarna il disagio esistenziale di tutta l’umanità, che oscilla nell’equivoco del relativismo etico, nel dramma del non-proferibile, nell’inganno dell’indecifrabile quando dimentica che il significato della vita va ben oltre la realtà vissuta.

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Alla ricerca della Rossano perduta

FRANCESCA LUPO

ell’anno 2012, insieme ad una mia cara amica decidemmo di fondare un’associazione culturale avente lo scopo di promuovere e valorizzare la storia, la cultura e il territorio della nostra città, Rossano (CS), perché ci accorgemmo che la maggior parte dei nostri concittadini non conosceva la lunga e ragguardevole storia della loro stessa città e tanto meno del territorio circostante. Da precisare che noi siamo state adottate da Rossano per motivi di lavoro delle nostre famiglie. Tutto nacque da un’idea che mi venne in mente e che io illustrai alla mia amica senza nessun ulteriore fine. A lei piacque talmente tanto che prese appuntamento con l’allora assessore alla cultura per farci dare l’autorizzazione e i finanziamenti necessari alla sua realizzazione. La sua risposta fu che l’idea era interessante ma che non avrebbero potuto dare finanziamenti a persone singole, bisognava mettersi in contatto con un’associazione interessata al progetto. Decidemmo di fondare noi un’associazione ad hoc affinché non ci sottraessero l’idea. Io ero sempre più titubante, ma mi feci caricare dall’entusiasmo della mia amica. Di qui l’Associazione Culturale Ruskia. Ogni volta che la nominiamo, dobbiamo sempre spiegare il significato del nome, in questo modo il nostro interlocutore può imparare qualcosa in più sulla nostra terra. Ruskia è l’antico nome che, a detta dello storico Procopio, aveva il porto-arsenale dell’antica Thurii-Copia, la città che sorse sopra le rovine di Sibari. Il borgo che si formò intorno al porto si trovava in una località nei pressi dell’antica Roscianum. Grazie al nome dell’associazione possiamo dare nozioni sulle origini greco-romane della città. C’è da precisare che essa è conosciuta soprattutto per il suo periodo d’oro avuto in epoca bizantina, quando, addirittura, fu capitale dei territori italiani dell’Impero Romano d’Oriente, per cui tutti in città, anche i più ignoranti, sanno perché Rossano è chiamata la Bizantina, ma cosa ci sia prima di quel periodo è a conoscenza di pochi. Dopo tutta la fatica che facemmo per aprire l’associazione, ci venne detto dall’assessorato che il progetto, così come lo avevamo strutturato non era realizzabile: mancavano i fondi ed era difficile fornire diverse autorizzazioni. Alla maniera italiana, ci spedirono da un assessorato all’altro fino a che finimmo all’assessorato alla Pubblica Istruzione che ci accolse con molto entusiasmo e insieme strutturammo il progetto in modo da poterlo realizzare con le scuole, ma ovviamente sempre a costo zero. Sicuramente non siamo gli unici, ma la frase che ci sentiamo ripetere ogni qualvolta ci rechiamo al Comune per un progetto è: «Il Comune non ha soldi!» il che significa: «Trovatevi uno sponsor di buona volontà». A questo punto, nomen omen, il titolo del progetto dovrebbe farvi comprendere di cosa si tratta, ma è come l’abbiamo strutturato che è stato davvero straordinario, soprattutto pensando che è stato realizzato quasi tutto a costo zero, tanto che ancora oggi, dopo diversi progetti di successo, le maestre ci ricordano soprattutto per il nostro esordio! Francesca Lupo Alla scoperta della Rossana perduta

Da evento di piazza, il nostro è divenuto un progetto didattico per le scuole di ogni ordine e grado, addirittura ha trovato benevola accoglienza presso i Servizi Divulgativi del Museo della Sibaritide ed il Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Per presentarlo, l’assessore di allora alla P.I., Stella Pizzuti, pensò che fosse necessario organizzare un seminario, così decidemmo di organizzarlo nell’aula magna del liceo scientifico. Per i relatori organizzammo una piccola mostra e un buffet a tema ‘antica Roma’, grazie alla collaborazione dei professori e degli alunni dell’Istituto alberghiero.

L’organizzazione del progetto ha previsto per le scuole primarie, secondarie di primo e secondo grado, in una scuola di periferia in disuso, l’allestimento di sei laboratori per far conoscere come si viveva nelle antiche Grecia e Roma:

Creazione di un abito antico (in TNT), Costruzione di una spada, elmo e scudo in cartone, Creazione di gioielli, Scrittura su argilla (DAS) in greco, Giochi antichi, Scavo archeologico con catalogazione dei reperti ritrovati e restauro degli stessi (nel giardino della scuola).

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A questi laboratori abbiamo associato una ‘visita al museo’. Praticamente, agli studenti delle scuole secondarie di secondo grado abbiamo dato un compito a casa inerente la propria scelta di studi: al liceo classico abbiamo chiesto di preparare una ricerca illustrata sul teatro greco, all’artistico naturalmente sull’arte greca, all’Istituto agrario sull’agricoltura e sulla pastorizia ai tempi degli antichi Greci e Romani, all’alberghiero sulla loro alimentazione. Ogni scuola ha preparato ciò che voleva e come voleva. Il risultato è stato sorprendente: poster illustrativi dei teatri greci; un tavolo con l’esposizione di cibi presenti a quei tempi e una relazione sui famosi pranzi dell’antica Roma; quadri e statue celebranti opere d’arte dell’antica Grecia. Peccato che gli altri istituti scolastici non abbiano aderito, avremmo avuto un museo più completo. Ogni laboratorio è stato gestito da un socio dell’associazione che ha tenuto una ‘lezione’ inerente l’argomento del laboratorio stesso, della durata di circa 1 ora; idem per il museo. Le lezioni e il laboratorio sono stati adattati all’età dei partecipanti. Ogni mattina abbiamo ospitato due gruppi, in totale circa sessanta alunni. Mentre un gruppo visitava il museo, l’altro partecipava ai laboratori. Abbiamo chiesto agli insegnanti di dividere gli alunni di ogni classe in sei gruppi in modo che in ogni classe ci fosse almeno un alunno che partecipasse ad ogni laboratorio, in questo modo, al ritorno in aula, tutta la classe sarebbe stata informata delle lezioni fornite dai soci per ogni argomento trattato. È stato un successo, tanto che abbiamo dovuto allungare il periodo del progetto di una settimana. Addirittura ci hanno chiesto di inventare qualcosa anche per i più piccini, quelli della scuola dell’infanzia, che non erano stati contemplati nel progetto. Per loro ci siamo inventati una favola interattiva sulle origini del borgo di Ruskia raccontata con un teatrino. La cosa più sbalorditiva erano gli inaspettati rumori di sottofondo: il gabbiamo, i delfini, il mostro, la tempesta, le zanzare e via dicendo. I bambini sono rimasti davvero entusiasti della favola, avrebbero voluto che durasse ancora più di venti minuti! Dopo il teatrino, i bambini si sono cimentati con alcuni dei laboratori già sperimentati con gli

Francesca Lupo Alla scoperta della Rossana perduta

alunni più grandi. Questa esperienza l’abbiamo voluta ripetere con i bambini del reparto pediatrico dell’ospedale e con gli ospiti dei centri per disabili della nostra città. Visto il successo della favola, l’anno successivo abbiamo ideato un concorso per le scuole dell’infanzia utilizzando come base su cui lavorare proprio un opuscolo con la favola. Anche noi siamo rimasti entusiasti e sorpresi della riuscita del progetto tanto che abbiamo deciso di prolungarlo anche con un evento estivo per intrattenere, in maniera didattica, i turisti. E così ci siamo inventati una sfilata di abiti d’epoca greco-romana e bizantina da realizzare nel magnifico chiostro del centro storico della città. Le acconciature le hanno realizzate alcuni parrucchieri e gli abiti greco- romani li abbiamo fatti realizzare dalle nonne e zie delle modelle e dai modelli (naturalmente non professionisti ma amici e parenti). Gli abiti bizantini erano - e sono ancora - in mostra nella sede dell’Assessorato al turismo. Essendo molto preziosi, l’assessore non voleva prestarceli, ma con l’opera di convincimento della nostra presidentessa non ci ha potuto dire di no, soprattutto dopo che ci aveva fatto costituire l’associazione senza darci l’autorizzazione a creare l’evento che avevamo pensato (che non era la sfilata!). Il nostro scopo didattico iniziale è stato ampiamente soddisfatto perché a tutte le persone coinvolte è stato mostrato quanto importante sia stato il territorio di Rossano nel corso del tempo, dall’età del Ferro all’epoca bizantina. Niente male per una giovane associazione in un solo anno di attività e senza esperienza alcuna! 108

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La mia costellazione

VIRGINIA BONIELLO

eggere evidentemente non è un’operazione che possa essere fatta con leggerezza e disinvoltura. La possibilità di entrare in rapporto con il mondo di un altro non può essere pensata come ‘naturale’ al punto da non richiedere un minimo di impegno da parte di chi legge. È necessario partire dal testo, leggerlo, studiare meticolosamente il mondo che ci offre senza affidarsi a scorciatoie belle e confezionate da altri lettori magari distratti. Debenedetti scrive che il compito del critico è quello di decifrare il racconto della perdita e del pianto, per capire che appartiene a tutti e fare in modo che tutti vi ritrovino il proprio ‘mito’. Credo che il lettore si trovi ad occupare una posizione simile a quella del critico. Il percorso lo compie per sé, senza la pretesa di volerlo spiegare a tutti; ciò nonostante il buon lettore deve rifare il ‘viaggio’ e d’altronde «la vita è programmata per leggere». Non posso non pensare che uno scrittore è prima di tutto un lettore che ha compiuto, evidentemente, il suo percorso e che è in grado di esplicitarlo essendo anche uno scrittore per dirlo con Calvino «scriviamo per rendere possibile al mondo non scritto d’esprimersi attraverso noi». La mia costellazione ha iniziato a comporsi da Bufalino, in particolare dal racconto Il ritorno di Euridice. Il racconto è contenuto nel libro L’uomo invaso pubblicato nel 1986. Il mito è letto dalla parte di Euridice che in qualità di narratrice protagonista esprime il suo punto di vista attraverso il monologo (il punto di vista è esclusivo). Riconsiderando la vanità del marito, la sua brama di successo, il suo amore per la gloria la sua conclusione è desolante: Orfeo si era voltato di proposito per poter cantare, sempre più osannato, il suo dolore «L’aria non li aveva ancora divisi che già la sua voce baldamente intonava – Che farò senza Euridice?- e non sembrava che improvvisasse, ma che a lungo avesse studiato davanti ad uno specchio…». Nella prospettiva di Euridice l’atto appare meschino e meschine le ragioni che l’hanno ispirato. In questo caso, l’autore non percorre il cammino di Orfeo per sé: sembrano, infatti, risolte le esigenze di analisi di Pavese in L’inconsolabile, tratto dai Dialoghi con Leucò, che cercava sé o di Calvino in L’altra Euridice, tratto dalle Cosmicomiche, che cercava la poesia ed in definitiva cercava sé stesso in un mondo che stava cambiando e che lo disorientava. Con Bufalino il mondo è ormai cambiato e il poeta non può che prenderne atto: le forme della comunicazione del post-moderno sono diventate gratuite e ciniche, artificiose ed indifferenti. Al di là delle differenze, i racconti usano la stessa forma per poter esprimere le proprie istanze. Sono prose brevi. La brevità è un dato che ritroviamo anche in altri autori del Novecento, come se il racconto fosse possibile solo attraverso ‘illuminazioni frammentarie’. Penso a Tozzi o ancora allo stesso Calvino ed a Parise.

 Il presente lavoro è la rielaborazione di attività svolte a suo tempo per l’esame della SICSI di Letteratura Italiana sotto la guida del Professore Silvio Perrella. Virginia Boniello La mia costellazione

«La mi anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in disparte…» è l’incipit della breve prosa che Tozzi dedica alla sua città. È evidente come il fondo autobiografico sia presente in modo violento e invadente. L’autore si chiude nell’angoscia di uno stato di assedio: il mondo esterno pesa sull’anima dello scrittore «senza amicizie, ingannata tutte le volte che ha chiesto di essere conosciuta». L’inetto di Tozzi trova il suo naturale nascondiglio in una città che è essa stessa ai margini dei centri culturali di questa fase della storia della letteratura italiana. A Siena Tozzi ritrova uno spazio più intimo e vero, in grado di metterlo al sicuro dall’invasione della modernità che mal si combina con il mondo contadino tradizionale in cui lui era cresciuto. Lo scrittore sembra smembrare il racconto per chiudere nel breve spazio di una poesia la sua volontà di sistemazione di un mondo con cui non riesce a comunicare se non per brevi spazi. Le stesse analogie con gli animali che accompagnano tutti i brevi racconti di Bestie, però, più che essere una sistemazione della realtà finiscono con condensare tutto il peso del mondo. La marginalità di Tozzi e di Siena mi hanno fatto pensare a Saba. Poeta marginale per varie ragioni: per la scelta di una poesia diretta e naturale, vicina alle cose e lontana sia dalle ideologie vitalistiche ed irrazionalistiche di inizio secolo sia dall’ironia dei crepuscolari; perché vive in una città posta ai margini come Trieste; perché è ebreo. Incarna il rifiuto di ogni legame tra poesia e ‘modernità’. Anche lui ha scritto versi dedicati alla sua città. In Trieste e una donna trovano spazio in particolare tre liriche (Tre vie, Trieste e Il torrente) in cui si possono cogliere pezzi importanti dell’anima inquieta del poeta. In Tre vie la descrizione che fa delle strade è molto precisa come a volerle ritrovare anche fisicamente. Quasi è possibile vedere la strada, il mare, la spiaggia, le operaie. L’atmosfera, comunque, è pesante sebbene lontana delle espressioni violente e drammatiche lette in Tozzi. La strofa che chiude la poesia è un richiamo alla via della gioia e dell’amore e, quindi, alla sua donna. Mentre Trieste è una dichiarazione d’amore alla sua città che nei versi centrali sembra incarnare una donna con un proprio carattere. Chiude la lirica la contrapposizione: «città che in ogni parte è vita…mia vita pensosa e schiva». In

110 entrambe le poesie c’è una strada che è «erta». Essa sembra indicare l’allontanarsi verso l’alto di uno spirito tormentato che può, così, osservare ogni cosa senza essere visto. A differenza di Tozzi, Saba non vuole evitare l’incontro con gli altri; più semplicemente lui vede senza essere visto. In Il torrente è possibile cogliere degli elementi che ci permettono di capire meglio alcuni riferimenti letti nelle altre liriche. Si legge: «Tu così avventuroso nel mio mito», verso che richiama lo sguardo del bambino in cui il mondo sembra ricomporsi leggero e cordiale, senza angoscia e apprensione, un mondo che si oppone con forza a quello cupo e distruttivo della realtà contemporanea. Si coglie il senso angoscioso del ritorno, il mescolarsi di infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia, luoghi e situazioni diverse. È una specie di ‘Odissea del ritorno’ a qualcosa di perduto. La sua lirica che si appoggia sempre ad esperienze concrete, a fatti e vicende reali, sconfina quasi nel racconto. Racconti che, invece, sconfinano nella poesia si incontrano nei Sillabari di Parise dove è possibile riscontrare lo stesso legame con la dimensione del quotidiano, del minimo. Il lavoro di Parise può essere visto come il risultato di un «corpo a corpo con la possibilità di raccontare delle storie al di fuori della dittatura del romanzo». Si tratta di esempi di poesia in prosa ed esempi di miniaturizzazione del romanzo. L’operazione di Parise è singolare: egli sottopone la realtà ad una profonda semplificazione, evidente nella indeterminatezza con cui presenta i suoi personaggi. Si parla sempre di un uomo, un bambino, una donna, un ragazzo (anche quando usa dei nomi propri); allo stesso tempo, però, è molto preciso e puntuale nel riferire la loro psicologia. I rapporti con se stessi e fra di loro sono resi con dovizia di particolari il che ci permette di sentirli e vederli pur nella loro indeterminatezza. Leggendo i racconti, tutti i racconti, la sensazione che colpisce è l’assenza del tempo anche quando di fatto passa: «La finestra era spalancata e l’uomo guardò per molto tempo la luna: era luglio, poi venne agosto, e così passò l’estate». Il presente e il passato non ci sono, è un tempo che non si muove o per meglio dire è immobilizzato. A tal proposito la Ginzburg scrive: Il mondo che egli disegna è un mondo di cui ha individuato la fragilità, e sulle spiagge, sui campi di neve, sui suoi interni familiari pesa la consapevolezza che essi siano destinati a sparire o a trasformarsi così da diventare irriconoscibili ai nostri occhi. Perciò lo sguardo che li contempla è uno sguardo di congedo. Virginia Boniello La mia costellazione

Pur nella loro differenza gli autori che sono stati presi fin qui in considerazione mostrano elementi che li accomunano: la brevità dei racconti in Tozzi e Parise; la ricerca di particolari minimi che diano spazio la quotidiano, alla vita degli uomini in Parise, Tozzi e Saba. Brevità e serialità sono presenti anche in Le città invisibili di Calvino. Quest’ultimo, come anche Parise, era arrivato alla conclusione che l’unico modo di fare un racconto era quello di trasformarlo in poesia, racchiudendo in un breve spazio improvvise illuminazioni. Ci troviamo a leggere, però, qualcosa di molto diverso. Parise era riuscito a mettere a fuoco il quotidiano attraverso alcuni particolari di apparente poco conto, aveva realizzato una costellazione «fatta di stelle pulsanti, dentro le quali circola il sangue». Calvino è una costellazione «fatta di stelle mentali e fredde»; è uno scrittore mossosi attraverso il Novecento cercando di fuggire alla paura della follia. La sua paura l’ha portato a voler esercitare il controllo sulle cose, su quello che scrive anche se in realtà gli riesce solo in parte. Ogni frammento che la sua mente produce deve essere incasellato in una cornice per evitare l’arbitrarietà, ma la bellezza le suo libro sta nell’arbitrarietà con cui lo si può leggere. Ognuno può costruirsi il suo libro de Le città invisibili. In Mondo scritto e mondo non scritto l’autore dà la misura della sua necessità di proteggersi da una realtà che non capisce più, di cui non riesce più a prevedere nulla, ma su cui aveva molto contato. La storia lo ha deluso, tradito, l’ha costretto a fare i conti con un cambiamento sentito come possibile, ma mai realmente avvenuto. La necessità di scrivere sulle cose che gli sfuggono lo ha portato a costruire un’ode alla città moderna. La realtà delle moderne città può non offrire spazio vitale agli uomini come Calvino che si ritrovano a proprio agio solo nel ‘mondo scritto’. E, allora, perché non stare in un giardino a raccontare di tante città impossibili, ma nelle quali è sempre riconoscibile un elemento, un particolare che appartiene ad ogni città possibile e che forse a guardare bene sommandoli tutti costituiscono una sola città(ad esempio la Venezia di Marco o la Napoli di Saviano)? Oltre alla

111 brevità dei racconti ad accomunare Calvino e Parise è il congedo: per il primo si tratta dell’ultimo poema d’amore nei confronti delle città (come egli stesso sostiene durante una conferenza tenuta a New York nel 1983); per il secondo è il congedo da mondi destinati a sparire. Pensando al congedo non si possono non riprendere i versi di Caproni tratti da Congedo del viaggiatore cerimonioso. Il congedo del poeta/viaggiatore che rimpiange la gioia del contatto e dello scambio avuto con gli altri; è un congedo dagli altri passeggeri e dai valori sociali che rappresentano. In un cero senso è il congedo da un certo Novecento. In ogni caso il congedo è ormai necessario, ceto di essere «giunto alla disperazione calma, senza sgomento» che pure c’è sulla natura delle cose e del mondo, che lui continua ad amare anche se vede che è sospeso nel vuoto come mancasse di valore e di spessore. Colpisce l’apparente spontaneità e immediatezza dei versi, la capacità di dire con estrema facilità e un velo di ironia anche le cose più inquietanti. Nella poesia il dato che dobbiamo sottolineare è la quantità di verbi ed espressioni che fanno riferimento al movimento. Lo ‘spostarsi’ in Caproni rimanda al tema del viaggio che rivela l’impossibilità di consistere in una realtà, la condanna a fuggire, a muoversi, a cercare nuove mete accettando la consunzione del passato felice. Evidentemente non è un caso che anche nelle altre liriche molto brevi, Senza titolo e La lanterna, il protagonista è in ‘movimento’. Sembra una condizione essenziale di Caproni in cui trova una precisa collocazione la stessa figura di Enea che ha il dovere di cambiare la propria condizione; quasi oracolare la prima strofa: «segni sicuri mi dicono…ch’io vi dovrò presto lasciare». Il filo che unisce i brani presi in considerazione è una strana inquietudine che tutti si portano dentro. Per ragioni diverse sono autori che hanno dovuto affrontare un momento di passaggio e quindi trasformazioni, cambiamenti che non sono mai indolori.

Riferimenti bibliografici

 Sul concetto di ‘costellazione del lettore’, G. Debenedetti, Saggi critici. Prima serie, Milano 1969, 1 e ss.; V. Nabokov, ‘Buoni lettori e buoni scrittori’, in Id. Lezioni di letteratura, Milano 1982, 31 e ss.; I. Virginia Boniello La mia costellazione

Calvino, ‘Mondo scritto e mondo non scritto’, in Id., Saggi, a cura di M. Barenghi, Milano 1995, 1865 e ss.; S. Perrella, ‘Letture negli anni. Come nasce una costellazione nella mente di un lettore’, in Costellazione italiane. 1945-1999 libri e autori del secondo Novecento, a cura di A. Donati, Firenze 1999, 93 e ss.

 Il racconto di G. Bufalino, Il ritorno di Euridica, si legge in G. Bufalino, L’uomo invaso, Milano 1986, 11 e ss.

 Il brano di F. Tozzi si ritrova in F. Tozzi, Bestie, a cura di M. Marchi, Firenze 2011, 16 e ss.

 Le liriche di U. Saba si riferiscono alla raccolta Trieste e una donna (1910-1912) presenti in U. Saba, Canzoniere, Torino 1957.

 I testi di G. Parise si leggono in G. Parise, Sillabari, Milano 2004.

 La citazione di N. Ginzburg è tratta da N. Ginzburg, Vita immaginaria, Milano 1974, 66 e ss.

 Il romanzo di I. Calvino, Le città invisibile è edito da Mondadori 200623.

 I versi di G. Caproni sono tratti dalla raccolta Tutte le poesie, Milano 1984.

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‘La preparazione ai certamina valevoli per le Olimpiadi Nazionali delle Lingue e Civiltà Classiche per gli alunni della Campania’. Un’esperienza didattica

S.P.B.

l giorno 17 ottobre 2018 presso la sede della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Napoli veniva ufficialmente presentato un ciclo di incontri promosso dalla suddetta Società in collaborazione con la Direzione Generale dell’U.S.R. per la Campania finalizzato alla preparazione degli studenti liceali della Campania ai certamina di cultura classica e alle gare delle Olimpiadi di Lingue e Civiltà classiche. Le pagine che seguono sono un resoconto di questa esperienza didattica redatto dai docenti che hanno ideato e condotto le lezioni.

1. Il progetto

L’iniziativa, che faceva seguito ad un protocollo d’intesa tra l’U.S.R. per la Campania e la Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Napoli al fine di «promuovere, monitorare e valutare interventi formativi per la migliore riuscita di programmi e politiche di istruzione» in merito alle discipline classiche1, si è concretizzata in dieci incontri, tenutisi a Napoli nella sede della Società Nazionale di via Mezzacannone 8 dal 14 novembre 2018 al 6 marzo 2019. Hanno aderito 19 scuole2 per un totale di 79 alunni iscritti. Se si aggiunge che parallelamente agli interventi dei docenti per gli alunni, si sono svolte lezioni di approfondimento per gli insegnanti, (accompagnatori e non per un totale di 94 iscritti), si ha meglio l’idea della complessità dell’operazione messa in campo. Sia le relazioni presentate ai discenti che quelle organizzate per gli insegnanti si sono avvalse della cura e della supervisione del Prof. Giovanni Polara (già docente dell’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ e Presidente della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Napoli) senza il cui contributo il progetto semplicemente non si sarebbe realizzato. L’iniziativa è nata da una duplice esigenza: da una parte, si è inteso offrire ai ragazzi uno spazio dedicato alla sperimentazione di una modalità di prova non sempre esperita nella normale prassi didattica; dall’altra si è voluto costruire un momento di riflessione didattica tra docenti di scuole diverse ‘al riparo’ dalla pervasiva ingerenza burocratica. In un primo momento si era pensato di suddividere i dieci incontri in una prima fase comune per tutti dedicata ad un approfondimento della specifica modalità

La S.P.B. è costituita dai seguenti docenti: Giulio Coppola (Liceo ‘Federico Quercia’, Marcianise – CE), Giuseppe D’Alessio (Liceo ‘Vittorio Emanuele II – Garibaldi, Napoli), Maria Antonietta Dattoli (Liceo ‘Comenio’, Napoli), Mariella De Simone (Liceo ‘Vittorio Emanuele II – Garibaldi, Napoli), Daniele Di Rienzo (Liceo ‘Jacopo Sannazaro’, Napoli), Dario Garribba (Liceo ‘Vittorio Emanuele II – Garibaldi, Napoli), Marco Vitelli (Liceo ‘Vittorio Emanuele II – Garibaldi, Napoli), Ferdinando Zaccaria (Liceo ‘Umberto I, Napoli). I suddetti si intendono anche autori del presente contributo. 1 Il documento è reperibile al seguente indirizzo (ultima consultazione aprile 2019): http://www.campania.istruzione.it/allegati/2018/PROTOCOLLO%20D'INTESA%20m_pi.AOODRCA.REGISTRO%20UFFICIALE (I).0022715.27-09-2018.pdf 2 Come è naturale che fosse se non altro per una questione di vicinanza alla sede degli incontri, maggiormente presenti sono i licei di Napoli e provincia con 12 iscrizioni (‘Alberti’ di Napoli, ‘Cartesio’ di Giugliano, ‘Durante’ di Frattamaggiore, ‘Gentileschi’ di Napoli, ‘Leonardo da Vinci’ di Poggiomarino, ‘Orazio Flacco’ di Portici, ‘Pansini’ di Napoli, ‘Sannazaro’ di Napoli, ‘Sbordone’ di Napoli, ‘Umberto’ di Napoli, ‘Vico’ di Napoli, ‘Vittorio Emanuele – Garibaldi’ di Napoli). Seguono le 4 scuole di Caserta e provincia (‘Amaldi – Nevio’ di Santa Maria Capua Vetere, ‘Bruno’ di Maddaloni, ‘Giannone’ di Caserta, ‘Manzoni’ di Caserta); le altre province partecipano ognuna con un liceo: ‘Virgilio Marone’ di Avellino, ‘IIS Telesi@’ di Telese Terme (BN), ‘Vico’ di Nocera Inferiore (SA).

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‘olimpica’ (due incontri per la traduzione dal greco, altrettanti per quella dal latino, altrettanti per la prova di ‘civiltà) e una seconda a carattere laboratoriale in cui i ragazzi avrebbero affrontato le diverse prove ognuno scegliendo quella preferita (e quindi in contemporanea sarebbe state presentate simulazioni di greco, latino e ‘civiltà’). Alla luce, però, dei cambiamenti voluti dal Ministero relativi alla seconda prova dell’Esame di Stato per la scuola secondaria di secondo grado, si è deciso di modificare il progetto iniziale prevedendo anche una lezione specifica per la nuova tipologia d’esame. Nella costruzione delle lezioni per i discenti si è pensato di prevedere l’azione congiunta di due docenti: in questo modo, oltre a riuscire ad alleggerire il carico di lavoro per i relatori, si è creata anche la possibilità di un confronto e di un arricchimento reciproco tra colleghi. Non va dimenticato, infatti, che il materiale elaborato e proposto ai ragazzi è in gran parte frutto del lavoro congiunto di insegnanti che, partendo da formazione e interessi diversi, si sono impegnati a trovare un terreno comune: chi conosce il mondo della scuola sa bene quanto difficile (ma estremamente appagante) sia raggiungere questo obiettivo. Nel tentativo di consentire agli allievi un approccio graduale alla tipologia di prova ‘olimpica’ di latino e greco, si è dapprima focalizzata l’attenzione sull’importanza di una lettura attenta e critica della parte denominata ANTE-TESTO e del cosiddetto POST-TESTO che incorniciano il TESTO, cioè il brano che deve essere tradotto (M1 e M2). La modalità di prova ‘olimpica’ si caratterizza proprio per la possibilità che viene offerta al candidato di contestualizzare il passo oggetto della prova attraverso la comprensione di quanto precede e di quanto segue. Se si pensa alla vecchia prova d’Esame del tutto decontestualizzata, con al massimo poche indicazioni fornite nel titolo e/o nell’introduzione, si capisce bene la distanza rispetto a quanto veniva richiesto ai nostri alunni fino a pochi mesi fa. A tal proposito, va detto che la nuova prova dell’Esame di Stato ha ripreso solo in parte le caratteristiche delle ‘Olimpiadi classiche’: le simulazioni presentate dal Ministero, infatti, recano sì la sezione di ANTE- 114

TESTO e di POST-TESTO, ma solo in traduzione senza il corrispettivo brano in lingua (latina o greca). Chi scrive si permette di notare come tale scelta risulti poco comprensibile e metodologicamente fuorviante. Poco comprensibile, perché non è stato affatto spiegato il motivo di tale soppressione che – a nostro avviso – non facilita l’operazione del discente, ma anzi finisce per limitare addirittura la possibilità di analisi3; fuorviante, perché lascia intendere che esista una sola traduzione possibile e che quindi sia del tutto inutile il confronto con la lingua antica4. La seconda sezione di lavoro, invece, ha visto l’attenzione concentrata sulle domande di comprensione e analisi poste in calce al brano in lingua. In generale, si tratta di quesiti che hanno lo scopo: 1) di attestare la comprensione del senso di quanto tradotto; 2) di consentire un’analisi stilistico-formale del brano in questione; 3) di promuovere un approfondimento e/o una contestualizzazione della tematica scelta5. A tal proposito, la nostra azione didattica si è mossa nel tentativo di evidenziare l’importanza delle domande ai fini della comprensione del testo in lingua. In termini operativi, ciò significa non rispondere alle domande SOLO DOPO aver tradotto, ma cercare di ricavare il massimo di informazioni possibili dai quesiti ancora PRIMA di aver messo mano al testo latino o greco. La seconda parte degli incontri è stata, poi, impostata in senso propriamente laboratoriale: i docenti hanno quindi elaborato delle simulazioni di prove ‘olimpiche’ invitando i ragazzi presenti a cimentarsi nella traduzione e nell’analisi. Al termine di ogni incontro, un adeguato spazio è stato riservato ad un feedback funzionale a verificare il grado di coinvolgimento dell’uditorio. All’indomani della scelta effettuata dal Ministero in merito alla seconda prova per l’Esame di Stato al liceo classico (traduzione latino-greco con quesiti) – scelta che ha lasciato molti perplessi non tanto e

3 È facile pensare, infatti, che nell’ANTE-TESTO come nel POST-TESTO siano presenti termini, sintagmi, espressioni che ricorrono poi anche nel brano da tradurre: mancando il testo in lingua, il traduttore non ha però la possibilità di individuare queste corrispondenze. 4 Paradossalmente, la seconda lezione del corso è stata tutta dedicata ad un’analisi della traduzione contrastiva, proprio nell’idea che – specie per il passo di poesia – scelte diverse di diversi traduttori possano aprire spazi di comprensione nuovi. 5 Nella seconda prova del nuovo Esame di Stato è prevista anche la risposta a tre quesiti: la differenza rispetto ai testi ‘olimpici’, com’è noto, sta nel fatto che ai maturandi saranno proposti un brano di latino e greco e quindi le domande dovranno verificare competenze nell’una e nell’altra lingua.

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non solo per la sua natura innovativa e inedita, ma soprattutto per la tempistica che ha lasciato pochissimo tempo per un’opportuna preparazione – il gruppo di lavoro ha ritenuto opportuno offrire una lezione esemplificativa della nuova modalità di prova scelta dal Ministero (non contemplata tra le attività relative alle Olimpiadi di Lingue e Civiltà Classiche): infra si darà conto di quanto elaborato.

2. I materiali

Ai fini di un confronto tra docenti, dialogo che si ritiene quanto mai necessario in un momento in cui cambiamenti (stravolgimenti?) si susseguono ad una velocità talvolta insostenibile, si presenta di seguito una selezione dei documenti preparati dalla S.P.B. per il corso.

CICLO DI INCONTRI promosso dalla Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in collaborazione con la Direzione Generale dell’U.S.R. per la Campania per l’anno scolastico 2018/19 e finalizzato alla preparazione degli studenti liceali della Campania alle

Olimpiadi Nazionali delle Lingue e Civiltà Classiche e ai certamina 115

Sezione di Lingua Greca 1ª LEZIONE METODOLOGICA (M1) 14/11/2018

Tipologia del testo-guida: poesia Opere: Nuvole; Ecclesiazuse Genere-guida: commedia Testo esemplificativo proposto: Nu. 961-1082 Autore-guida: Aristofane

FOCUS METODOLOGICO 1:  Affrontare la traduzione del TESTO con l’ausilio dell’ANTE-TESTO e del POST-TESTO: dall’ante-testo e dal post-testo al testo ricavare dall’A-T e dal P-T indicazioni utili alla contestualizzazione: contestualizzare prima di tradurre; ricavare dall’A-T e dal P-T indicazioni utili alla comprensione: comprendere prima di tradurre; ricavare dall’A-T e dal P-T elementi linguistici e stilistici utili alla traduzione: o analisi dei termini e delle relative scelte di resa nella traduzione d’autore o analisi dei costrutti sintattici ricorrenti e delle relative scelte di resa nella traduzione d’autore o analisi del livello retorico. FOCUS METODOLOGICO 2:  Tradurre la commedia

Il concorrente traduca il TESTO di Aristofane e risponda ai relativi quesiti, anche alla luce dell’ANTE-TESTO e del POST-TESTO.

Aristofane, Nuvole 961-1082 In cerca di una scappatoia per sfuggire ai creditori, Strepsiade convince il figlio Fidippide ad andare a scuola da Socrate, sperando che impari a far apparire giusto l’ingiusto. Entrano in scena Discorso Migliore e Discorso Peggiore, che rappresentano due modelli antitetici di educazione tra i quali il giovane dovrà scegliere dopo che entrambi avranno ‘pubblicizzato’ i propri punti di forza.

ANTE-TESTO (Aristofane, Nuvole 961-1006, trad. D. Del Corno) {Κρ.} λέξω τοίνυν τὴν ἀρχαίαν παιδείαν ὡς διέκειτο, (Discorso) Migliore: Dirò dunque com’era l’educazione al modo ὅτ' ἐγὼ τὰ δίκαια λέγων ἤνθουν καὶ σωφροσύνη 'νενόμιστο. antico. In quel tempo io fiorivo dicendo le cose secondo giustizia, e i sani pensieri erano norma. Anzitutto, non si doveva mai sentire la πρῶτον μὲν ἔδει παιδὸς φωνὴν γρύξαντος μηδέν' ἀκοῦσαι· voce di un ragazzo: neanche un sussurro. Poi quelli del quartiere εἶτα βαδίζειν ἐν ταῖσιν ὁδοῖς εὐτάκτως εἰς κιθαριστοῦ andavano dal maestro di musica marciando in fila per le strade, tutti τοὺς κωμήτας γυμνοὺς ἁθρόους, κεἰ κριμνώδη κατανείφοι. 965 insieme senza mantello, anche se la neve cadeva fitta come farina. E il maestro insegnava un canto - e guai se stringevano le cosce! -

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εἶτ' αὖ προμαθεῖν ᾆσμ' ἐδίδασκεν τὼ μηρὼ μὴ ξυνέχοντας, come “Pallade distruggitrice tremenda di città” oppure “grido che ἢ "Παλλάδα περσέπολιν δεινάν" ἢ "τηλέπορόν τι βόαμα", lungi procede”; e dovevano intonarlo secondo i modi tramandati dai padri. Ma se uno faceva il pagliaccio o si lanciava in qualche ἐντειναμένους τὴν ἁρμονίαν ἣν οἱ πατέρες παρέδωκαν. gorgheggio come usano adesso - lo strazio di questi vocalizzi alla εἰ δέ τις αὐτῶν βωμολοχεύσαιτ' ἢ κάμψειέν τινα καμπὴν maniera di Frinide! -, lo conciavano di botte, per tentato sfregio οἵας οἱ νῦν, τὰς κατὰ Φρῦνιν ταύτας τὰς δυσκολοκάμπτους, 970 delle Muse. ἐπετρίβετο τυπτόμενος πολλὰς ὡς τὰς Μούσας ἀφανίζων. […] […] Hai sentito, ragazzo? Coraggio, dunque: scegli me, che sono il πρὸς ταῦτ', ὦ μειράκιον, θαρρῶν ἐμὲ τὸν κρείττω λόγον αἱροῦ. 990 D iscorso Migliore . Imparerai a odiare la piazza e a tenerti lontano dai bagni, a vergognarti di ciò che è vergognoso e ad avvampare κἀπιστήσει μισεῖν ἀγορὰν καὶ βαλανείων ἀπέχεσθαι, d’ira se ti sfottono, ad alzarti e cedere il posto quando si avvicina un καὶ τοῖς αἰσχροῖς αἰσχύνεσθαι κἂν σκώπτῃ τίς σε φλέγεσθαι, vecchio, a non essere sgraziato verso i tuoi genitori, a non καὶ τῶν θάκων τοῖς πρεσβυτέροις ὑπανίστασθαι προσιοῦσιν, commettere nessun’altra infamia: insomma, da te la statua della καὶ μὴ περὶ τοὺς σαυτοῦ γονέας σκαιουργεῖν, ἄλλο τε μηδὲν Verecondia non patirà offesa! αἰσχρὸν ποιεῖν ὅτι τῆς Αἰδοῦς μέλλεις τἄγαλμ' †ἀναπλήσειν 995 […] Anzi, sarai uno splendore, il fiore delle palestre! Passerai lì il tuo […] tempo: altro che stare in piazza a riempirsi la bocca di fole seccanti ἀλλ' οὖν λιπαρός γε καὶ εὐανθὴς ἐν γυμνασίοις διατρίψεις, e strambe, come si usa oggi, o trascinarsi in faccende da nulla, οὐ στωμύλλων κατὰ τὴν ἀγορὰν τριβολεκτράπελ', οἷάπερ οἱ νῦν, invischiate fra discussioni logoranti. Via da questa vita! Correrai là οὐδ' ἑλκόμενος περὶ πραγματίου γλισχραντιλογεξεπιτρίπτου, fuori, all’Accademia, sotto gli olivi sacri, con una corona di candidi ἀλλ' εἰς Ἀκαδήμειαν κατιὼν ὑπὸ ταῖς μορίαις ἀποθρέξει 1005 giunchi, insieme a un compagno di saggi pensieri. στεφανωσάμενος καλάμῳ λευκῷ μετὰ σώφρονος ἡλικιώτου (trad. D. Del Corno)

TESTO 116 (Aristofane, Nuvole 1038-1062)

{Ητ.} ἐγὼ γὰρ ἥττων μὲν λόγος δι' αὐτὸ τοῦτ' ἐκλήθην ἐν τοῖσι φροντισταῖσιν, ὅτι πρώτιστος ἐπενόησα τοῖσιν νόμοις καὶ ταῖς δίκαις τἀναντί' ἀντιλέξαι. 1040 καὶ τοῦτο πλεῖν ἢ μυρίων ἔστ' ἄξιον στατήρων, αἱρούμενον τοὺς ἥττονας λόγους ἔπειτα νικᾶν. σκέψαι δὲ τὴν παίδευσιν ᾗ πέποιθεν, ὡς ἐλέγξω, ὅστις σε θερμῷ φησὶ λοῦσθαι πρῶτον οὐκ ἐάσειν. καίτοι τίνα γνώμην ἔχων ψέγεις τὰ θερμὰ λουτρά; 1045 {Κρ.} ὁτιὴ κάκιστόν ἐστι καὶ δειλὸν ποεῖ τὸν ἄνδρα. {Ητ.} ἐπίσχες· εὐθὺς γάρ σε μέσον ἔχω λαβὼν ἄφυκτον. καί μοι φράσον· τῶν τοῦ Διὸς παίδων τίν' ἄνδρ' ἄριστον ψυχὴν νομίζεις, εἰπέ, καὶ πλείστους πόνους πονῆσαι; {Κρ.} ἐγὼ μὲν οὐδέν' Ἡρακλέους βελτίον' ἄνδρα κρίνω. 1050 {Ητ.} ποῦ ψυχρὰ δῆτα πώποτ' εἶδες Ἡράκλεια λουτρά; καίτοι τίς ἀνδρειότερος ἦν; {Κρ.} ταῦτ' ἐστί, ταῦτ', ἐκεῖνα ἃ τῶν νεανίσκων ἀεὶ δι' ἡμέρας λαλούντων πλῆρες τὸ βαλανεῖον ποιεῖ κενὰς δὲ τὰς παλαίστρας. {Ητ.} εἶτ' ἐν ἀγορᾷ τὴν διατριβὴν ψέγεις, ἐγὼ δ' ἐπαινῶ. 1055 εἰ γὰρ πονηρὸν ἦν, Ὅμηρος οὐδέποτ' ἂν ἐποίει τὸν Νέστορ' ἀγορητὴν ἄν, οὐδὲ τοὺς σοφοὺς ἅπαντας. ἄνειμι δῆτ' ἐντεῦθεν εἰς τὴν γλῶτταν, ἣν ὁδὶ μὲν

S.P.B. ‘La preparazione ai certamina valevoli per le Olimpiadi Nazionali di Lingue e Civiltà Classiche per gli alunni della Campania’. Un’esperienza didattica

οὔ φησι χρῆναι τοὺς νέους ἀσκεῖν, ἐγὼ δέ φημι. καὶ σωφρονεῖν αὖ φησὶ χρῆναι, δύο κακὼ μεγίστω. 1060 ἐπεὶ σὺ διὰ τὸ σωφρονεῖν τῷ πώποτ' εἶδες ἤδη ἀγαθόν τι γενόμενον; φράσον, καί μ' ἐξέλεγξον εἰπών.

POST-TESTO (Aristofane, Nuvole 1062-1082)

{Κρ.} πολλοῖς. ὁ γοῦν Πηλεὺς ἔλαβε διὰ τοῦτο τὴν μάχαιραν. Migliore: Un bene per molti. Peleo ebbe la spada per questo merito. {Ητ.} μάχαιραν; ἀστεῖόν γε κέρδος ἔλαβεν ὁ κακοδαίμων Peggiore: Una spada? Un guadagno davvero carino, poveretto! […] […] {Κρ.} καὶ τὴν Θέτιν γ' ἔγημε διὰ τὸ σωφρονεῖν ὁ Πηλεύς. Migliore: Ma per la sua castità Peleo ebbe in moglie Teti. {Ητ.} κᾆτ' ἀπολιποῦσά γ' αὐτὸν ᾤχετ'· οὐ γὰρ ἦν ὑβριστὴς Peggiore: E lei lo ha piantato. Se n’è andata via, perché non era οὐδ' ἡδὺς ἐν τοῖς στρώμασιν τὴν νύκτα παννυχίζειν· abbastanza vizioso: che gusto c’era, con lui, a far festa tutta la notte γυνὴ δὲ σιναμωρουμένη χαίρει. σὺ δ' εἶ Κρόνιππος. 1070 sotto le coperte? Alla donna piace che la si prenda fino a sfiancarla - σκέψαι γάρ, ὦ μειράκιον, ἐν τῷ σωφρονεῖν ἅπαντα ma tu sei un vecchio ronzinante. E tu, giovanotto, valuta tutte le conseguenze di una vita secondo saggezza: di quanti piaceri dovrai ἅνεστιν, ἡδονῶν θ' ὅσων μέλλεις ἀποστερεῖσθαι· privarti! Bei ragazzini, donne, il gioco del cottabo, ghiottonerie, bevute, παίδων, γυναικῶν, κοττάβων, ὄψων, πότων, καχασμῶν. sghignazzate: se ti vengono a mancare, che senso ha per te vivere? E καίτοι τί σοι ζῆν ἄξιον, τούτων ἐὰν στερηθῇς; sia: veniamo ora alle esigenze della natura. Hai sbagliato: ti sei εἶἑν. πάρειμ' ἐντεῦθεν εἰς τὰς τῆς φύσεως ἀνάγκας. 1075 innamorato , ti sei goduto la moglie altrui, poi ti hanno colto sul fatto. ἥμαρτες, ἠράσθης, ἐμοίχευσάς τι, κᾆτ' ἐλήφθης. Per te è finita: non sei capace di difenderti con le parole. Ma se stai ἀπόλωλας· ἀδύνατος γὰρ εἶ λέγειν. ἐμοὶ δ' ὁμιλῶν dalla mia parte, segui pure la natura: salta, ridi, non avere scrupoli. E χρῶ τῇ φύσει, σκίρτα, γέλα, νόμιζε μηδὲν αἰσχρόν. se vieni sorpreso in adulterio, ribatterai al marito che non hai μοιχὸς γὰρ ἢν τύχῃς ἁλούς, τάδ' ἀντερεῖς πρὸς αὐτόν, commesso alcuna colpa: c’è il precedente di Zeus, anche lui fu vinto 117

ὡς οὐδὲν ἠδίκηκας· εἶτ' εἰς τὸν Δί' ἐπανενεγκεῖν, 1080 dall’amore e dalle donne. E tu, che sei un mortale, come potresti essere κἀκεῖνος ὡς ἥττων ἔρωτός ἐστι καὶ γυναικῶν· più forte di un dio? καίτοι σὺ θνητὸς ὢν θεοῦ πῶς μεῖζον ἂν δύναιο; (trad. D. Del Corno)

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Individuare nel testo i richiami lessicali e semantici, ‘per analogia’ e ‘per contrasto’, all’ante-testo e al post-testo: Leggenda

Coppie di opposti:

______: migliore (vincente) / peggiore (perdente)

______: saggio (rispettoso delle norme)/spregiudicato (colpevole)

______: pudico/dissoluto

______: silenzioso/ciarliero

______: palestra/piazza

______: freddo/caldo

______: vecchio (antico)/nuovo

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Aristofane, Nuvole 961-1082

ANTE-TESTO (Aristofane, Nuvole 961-1006, trad. D. Del Corno) {Κρ.} λέξω τοίνυν τὴν ἀρχαίαν παιδείαν ὡς διέκειτο, (Discorso) Migliore: Dirò dunque com’era l’educazione al modo ὅτ' ἐγὼ τὰ δίκαια λέγων ἤνθουν καὶ σωφροσύνη 'νενόμιστο. antico. In quel tempo io fiorivo dicendo le cose secondo giustizia, e i sani pensieri erano norma. Anzitutto, non si doveva mai sentire la πρῶτον μὲν ἔδει παιδὸς φωνὴν γρύξαντος μηδέν' ἀκοῦσαι· voce di un ragazzo: neanche un sussurro. Poi quelli del quartiere εἶτα βαδίζειν ἐν ταῖσιν ὁδοῖς εὐτάκτως εἰς κιθαριστοῦ andavano dal maestro di musica marciando in fila per le strade, tutti τοὺς κωμήτας γυμνοὺς ἁθρόους, κεἰ κριμνώδη κατανείφοι. 965 insieme senza mantello, anche se la neve cadeva fitta come farina. E εἶτ' αὖ προμαθεῖν ᾆσμ' ἐδίδασκεν τὼ μηρὼ μὴ ξυνέχοντας, il maestro insegnava un canto - e guai se stringevano le cosce! - ἢ "Παλλάδα περσέπολιν δεινάν" ἢ "τηλέπορόν τι βόαμα", come “Pallade di struggitrice tremenda di città” oppure “grido che ἐντειναμένους τὴν ἁρμονίαν ἣν οἱ πατέρες παρέδωκαν. lungi procede”; e dovevano intonarlo secondo i modi tramandati dai padri. Ma se uno faceva il pagliaccio o si lanciava in qualche εἰ δέ τις αὐτῶν βωμολοχεύσαιτ' ἢ κάμψειέν τινα καμπὴν gorgheggio come usano adesso - lo strazio di questi vocalizzi alla οἵας οἱ νῦν, τὰς κατὰ Φρῦνιν ταύτας τὰς δυσκολοκάμπτους, 970 maniera di Frinide! -, lo conciavano di botte, per tentato sfregio ἐπετρίβετο τυπτόμενος πολλὰς ὡς τὰς Μούσας ἀφανίζων. delle Muse. […] […] πρὸς ταῦτ', ὦ μειράκιον, θαρρῶν ἐμὲ τὸν κρείττω λόγον αἱροῦ. Hai sentito, ragazzo? Coraggio, dunque: scegli me, che sono il discorso forte. Imparerai a odiare la piazza e a tenerti lontano dai κἀπιστήσει μισεῖν ἀγορὰν καὶ βαλανείων ἀπέχεσθαι, bagni, a vergognarti di ciò che è vergognoso e ad avvampare d’ira καὶ τοῖς αἰσχροῖς αἰσχύνεσθαι κἂν σκώπτῃ τίς σε φλέγεσθαι, se ti sfottono, ad alzarti e cedere il posto quando si avvicina un καὶ τῶν θάκων τοῖς πρεσβυτέροις ὑπανίστασθαι προσιοῦσιν, vecchio, a non essere sgraziato verso i tuoi genitori, a non καὶ μὴ περὶ τοὺς σαυτοῦ γονέας σκαιουργεῖν, ἄλλο τε μηδὲν commettere nessun’altra infamia: insomma, da te la statua della αἰσχρὸν ποιεῖν ὅτι τῆς Αἰδοῦς μέλλεις τἄγαλμ' †ἀναπλήσειν 995 Verecondia non patirà offesa! […] […] Anzi, sarai uno splendore, il fiore delle palestre! Passerai lì il tuo ἀλλ' οὖν λιπαρός γε καὶ εὐανθὴς ἐν γυμνασίοις διατρίψεις, tempo: altro che stare in piazza a riempirsi la bocca di fole seccanti οὐ στωμύλλων κατὰ τὴν ἀγορὰν τριβολεκτράπελ', οἷάπερ οἱ νῦν, e strambe, come si usa oggi, o trascinarsi in faccende da nulla, οὐδ' ἑλκόμενος περὶ πραγματίου γλισχραντιλογεξεπιτρίπτου, invischiate fra discussioni logoranti. Via da questa vita! Correrai là ἀλλ' εἰς Ἀκαδήμειαν κατιὼν ὑπὸ ταῖς μορίαις ἀποθρέξει 1005 fuori, all’Accademia, sotto gli olivi sacri, con una corona di candidi στεφανωσάμενος καλάμῳ λευκῷ μετὰ σώφρονος ἡλικιώτου giunchi, insieme a un compagno di saggi pensieri. (trad. D. Del Corno)

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TESTO (Aristofane, Nuvole 1038-1062)

{Ητ.} ἐγὼ γὰρ ἥττων μὲν λόγος δι' αὐτὸ τοῦτ' ἐκλήθην ἐν τοῖσι φροντισταῖσιν, ὅτι πρώτιστος ἐπενόησα τοῖσιν νόμοις καὶ ταῖς δίκαις τἀναντί' ἀντιλέξαι. 1040 καὶ τοῦτο πλεῖν ἢ μυρίων ἔστ' ἄξιον στατήρων, αἱρούμενον τοὺς ἥττονας λόγους ἔπειτα νικᾶν. σκέψαι δὲ τὴν παίδευσιν ᾗ πέποιθεν, ὡς ἐλέγξω, ὅστις σε θερμῷ φησὶ λοῦσθαι πρῶτον οὐκ ἐάσειν. καίτοι τίνα γνώμην ἔχων ψέγεις τὰ θερμὰ λουτρά; 1045 {Κρ.} ὁτιὴ κάκιστόν ἐστι καὶ δειλὸν ποεῖ τὸν ἄνδρα. {Ητ.} ἐπίσχες· εὐθὺς γάρ σε μέσον ἔχω λαβὼν ἄφυκτον. καί μοι φράσον· τῶν τοῦ Διὸς παίδων τίν' ἄνδρ' ἄριστον ψυχὴν νομίζεις, εἰπέ, καὶ πλείστους πόνους πονῆσαι; {Κρ.} ἐγὼ μὲν οὐδέν' Ἡρακλέους βελτίον' ἄνδρα κρίνω. 1050 {Ητ.} ποῦ ψυχρὰ δῆτα πώποτ' εἶδες Ἡράκλεια λουτρά; καίτοι τίς ἀνδρειότερος ἦν; {Κρ.} ταῦτ' ἐστί, ταῦτ', ἐκεῖνα 119

ἃ τῶν νεανίσκων ἀεὶ δι' ἡμέρας λαλούντων πλῆρες τὸ βαλανεῖον ποιεῖ κενὰς δὲ τὰς παλαίστρας. {Ητ.} εἶτ' ἐν ἀγορᾷ τὴν διατριβὴν ψέγεις, ἐγὼ δ' ἐπαινῶ. 1055 εἰ γὰρ πονηρὸν ἦν, Ὅμηρος οὐδέποτ' ἂν ἐποίει τὸν Νέστορ' ἀγορητὴν ἄν, οὐδὲ τοὺς σοφοὺς ἅπαντας. ἄνειμι δῆτ' ἐντεῦθεν εἰς τὴν γλῶτταν, ἣν ὁδὶ μὲν οὔ φησι χρῆναι τοὺς νέους ἀσκεῖν, ἐγὼ δέ φημι. καὶ σωφρονεῖν αὖ φησὶ χρῆναι, δύο κακὼ μεγίστω. 1060 ἐπεὶ σὺ διὰ τὸ σωφρονεῖν τῷ πώποτ' εἶδες ἤδη ἀγαθόν τι γενόμενον; φράσον, καί μ' ἐξέλεγξον εἰπών.

POST-TESTO (Aristofane, Nuvole 1062-1082)

{Κρ.} πολλοῖς. ὁ γοῦν Πηλεὺς ἔλαβε διὰ τοῦτο τὴν μάχαιραν. Migliore: Un bene per molti. Peleo ebbe la spada per questo merito. {Ητ.} μάχαιραν; ἀστεῖόν γε κέρδος ἔλαβεν ὁ κακοδαίμων Peggiore: Una spada? Un guadagno davvero carino, poveretto! […] […] {Κρ.} καὶ τὴν Θέτιν γ' ἔγημε διὰ τὸ σωφρονεῖν ὁ Πηλεύς. Migliore: Ma per la sua castità Peleo ebbe in moglie Teti. {Ητ.} κᾆτ' ἀπολιποῦσά γ' αὐτὸν ᾤχετ'· οὐ γὰρ ἦν ὑβριστὴς Peggiore: E lei lo ha piantato. Se n’è andata via, perché non era οὐδ' ἡδὺς ἐν τοῖς στρώμασιν τὴν νύκτα παννυχίζειν· abbastanza vizioso: che gusto c’era, con lui, a far festa tutta la notte γυνὴ δὲ σιναμωρουμένη χαίρει. σὺ δ' εἶ Κρόνιππος. 1070 sotto le coperte? Alla donna piace che la si prenda fino a sfiancarla - σκέψαι γάρ, ὦ μειράκιον, ἐν τῷ σωφρονεῖν ἅπαντα ma tu sei un vecchio ronzinante. E tu, giovanotto, valuta tutte le conseguenze di una vita secondo saggezza: di quanti piaceri dovrai ἅνεστιν, ἡδονῶν θ' ὅσων μέλλεις ἀποστερεῖσθαι· privarti! Bei ragazzini, donne, il gioco del cottabo, ghiottonerie, bevute, παίδων, γυναικῶν, κοττάβων, ὄψων, πότων, καχασμῶν. sghignazzate: se ti vengono a mancare, che senso ha per te vivere? E καίτοι τί σοι ζῆν ἄξιον, τούτων ἐὰν στερηθῇς; sia: veniamo ora alle esigenze della natura. Hai sbagliato: ti sei εἶἑν. πάρειμ' ἐντεῦθεν εἰς τὰς τῆς φύσεως ἀνάγκας. 1075 innamorato ,ti sei goduto la moglie altrui, poi ti hanno colto sul fatto. ἥμαρτες, ἠράσθης, ἐμοίχευσάς τι, κᾆτ' ἐλήφθης.

S.P.B. ‘La preparazione ai certamina valevoli per le Olimpiadi Nazionali di Lingue e Civiltà Classiche per gli alunni della Campania’. Un’esperienza didattica

ἀπόλωλας· ἀδύνατος γὰρ εἶ λέγειν. ἐμοὶ δ' ὁμιλῶν Per te è finita: non sei capace di difenderti con le parole. Ma se stai χρῶ τῇ φύσει, σκίρτα, γέλα, νόμιζε μηδὲν αἰσχρόν. dalla mia parte, segui pure la natura: salta, ridi, non avere scrupoli. E μοιχὸς γὰρ ἢν τύχῃς ἁλούς, τάδ' ἀντερεῖς πρὸς αὐτόν, se vieni sorpreso in adulterio, ribatterai al marito che non hai ὡς οὐδὲν ἠδίκηκας· εἶτ' εἰς τὸν Δί' ἐπανενεγκεῖν, 1080 commesso alcuna colpa: c’è il precedente di Zeus, anche lui fu vinto κἀκεῖνος ὡς ἥττων ἔρωτός ἐστι καὶ γυναικῶν· dall’amore e dalle donne. (trad. D. Del Corno)

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S.P.B. ‘La preparazione ai certamina valevoli per le Olimpiadi Nazionali di Lingue e Civiltà Classiche per gli alunni della Campania’. Un’esperienza didattica

CICLO DI INCONTRI promosso dalla Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in collaborazione con la Direzione Generale dell’U.S.R. per la Campania per l’anno scolastico 2018/19 e finalizzato alla preparazione degli studenti liceali della Campania alle Olimpiadi Nazionali delle Lingue e Civiltà Classiche

e ai certamina Sezione di Lingua Greca 1ª LEZIONE METODOLOGICA (M1) 14/11/2018

Tipologia del testo-guida: poesia Genere-guida: commedia Autore-guida: Aristofane Opere: Nuvole; Ecclesiazuse Testo esemplificativo proposto: Nu. 961-1082 Altro testo: Eccl. 570-625

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FOCUS METODOLOGICO 1:  Affrontare la traduzione del TESTO con l’ausilio dell’ANTE-TESTO e del POST-TESTO: dall’ante-testo e dal post-testo al testo ricavare dall’A-T e dal P-T indicazioni utili alla contestualizzazione: contestualizzare prima di tradurre; ricavare dall’A-T e dal P-T indicazioni utili alla comprensione: comprendere prima di tradurre; ricavare dall’A-T e dal P-T elementi linguistici e stilistici utili alla traduzione: o analisi dei termini e delle relative scelte di resa nella traduzione d’autore o analisi dei costrutti sintattici ricorrenti e delle relative scelte di resa nella traduzione d’autore o analisi del livello retorico. FOCUS METODOLOGICO 2:  Tradurre la commedia

Il concorrente traduca il TESTO di Aristofane e risponda ai relativi quesiti, anche alla luce dell’ANTE-TESTO e del POST-TESTO.

Aristofane, Ecclesiazuse 570-625

ANTE-TESTO (Aristofane, Ecclesiazuse 570-589, trad. D. Del Corno) Χο. νῦν δὴ δεῖ σε πυκνὴν Coro (rivolto a Prassagora): Ora devi destare la tua mente φρένα καὶ φιλόσοφον ἐγείρειν acuta, il pensiero amante φροντίδ' ἐπισταμένην di sapienza, capace ταῖσι φίλαισιν ἀμύνειν. di difendere le amiche. κοινῇ γὰρ ἐπ' εὐτυχίαισιν Per la felicità comune ἔρχεται γλώττης ἐπίνοια πολίτην viene l’inventiva della tua lingua, a ornare δῆμον ἐπαγλαϊοῦσα 575 il popolo della città μυρίαισιν ὠφελίαισι βίου· con infiniti beni di vita. È l’occasione dimostrare il suo valore. δηλοῦν ‹δ'› ὅ τί περ δύναται καιρός. La nostra città ha bisogno δεῖται γάρ τοι σοφοῦ τινος ἐξευ- di qualche idea sapiente. ρήματος ἡ πόλις ἡμῶν. Una cosa soltanto devi evitare: ἀλλὰ πέραινε μόνον non ripetere cose già fatte μήτε δεδραμένα μήτ' εἰ- o dette in passato: ρημένα πω πρότερον. qui odiano vedere μισοῦσι γὰρ ἢν τὰ παλαιὰ troppe volte la roba vecchia. πολλάκις θεῶνται. 580

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Ko. ἀλλ' οὐ μέλλειν, ἀλλ' ἅπτεσθαι καὶ δὴ χρῆν ταῖς διανοίαις, Corifeo: Non perdere tempo, attacca con il tuo programma: ὡς τὸ ταχύνειν χαρίτων μετέχει πλεῖστον παρὰ τοῖσι θεαταῖς. al pubblico piace soprattutto che l’azione corra. Πρ. καὶ μὴν ὅτι μὲν χρηστὰ διδάξω πιστεύω· τοὺς δὲ θεατάς, Prassagora: I miei insegnamenti saranno utili, sono sicura. εἰ καινοτομεῖν ἐθελήσουσιν καὶ μὴ τοῖς ἠθάσι λίαν Ma gli spettatori vorranno prendere nuove strade e non fermarsi τοῖς τ' ἀρχαίοις ἐνδιατρίβειν, τοῦτ' ἔσθ' ὃ μάλιστα δέδοικα. 585 a quelle vecchie che conoscono anche troppo? Questo è il mio timore. Vicino: Prendere nuove strade! Non c’è dubbio: è la cosa che Γε. περὶ μὲν τοίνυν τοῦ καινοτομεῖν μὴ δείσῃς· τοῦτο γὰρ ἡμῖν preferiamo fare più di ogni altra, e lasciar perdere quelle δρᾶν ἀντ' ἄλλης ἀρχῆς ἐστιν, τῶν δ' ἀρχαίων ἀμελῆσαι. vecchie. Prassagora: D’accordo; e allora nessuno di voi mi contraddica Πρ. μή νυν πρότερον μηδεὶς ὑμῶν ἀντείπῃ μηδ' ὑποκρούσῃ, né mi interrompa, prima di sapere le mie idee e di avere πρὶν ἐπίστασθαι τὴν ἐπίνοιαν καὶ τοῦ φράζοντος ἀκοῦσαι. ascoltato le mie spiegazioni.

TESTO (Aristofane, Ecclesiazuse 590-610)

κοινωνεῖν γὰρ πάντας φήσω χρῆναι πάντων μετέχοντας 590 κἀκ ταὐτοῦ ζῆν, καὶ μὴ τὸν μὲν πλουτεῖν, τὸν δ' ἄθλιον εἶναι, μηδὲ γεωργεῖν τὸν μὲν πολλήν, τῷ δ' εἶναι μηδὲ ταφῆναι, μηδ' ἀνδραπόδοις τὸν μὲν χρῆσθαι πολλοῖς, τὸν δ' οὐδ' ἀκολούθῳ. ἀλλ' ἕνα ποιῶ κοινὸν πᾶσιν βίοτον, καὶ τοῦτον ὅμοιον. Βλ. πῶς οὖν ἔσται κοινὸς ἅπασιν; Πρ. κατέδει πέλεθον πρότερός μου. 595 Βλ. καὶ τῶν πελέθων κοινωνοῦμεν; Πρ. μὰ Δί' ἀλλ' ἔφθης μ' ὑποκρούσας. 122 τοῦτο γὰρ ἤμελλον ἐγὼ λέξειν· τὴν γῆν πρώτιστα ποιήσω κοινὴν πάντων καὶ τἀργύριον καὶ τἄλλ' ὁπόσ' ἐστὶν ἑκάστῳ. εἶτ' ἀπὸ τούτων κοινῶν ὄντων ἡμεῖς βοσκήσομεν ὑμᾶς ταμιευόμεναι καὶ φειδόμεναι καὶ τὴν γνώμην προσέχουσαι. 610 Βλ. πῶς οὖν ὅστις μὴ κέκτηται γῆν ἡμῶν, ἀργύριον δὲ καὶ Δαρεικούς, ἀφανῆ πλοῦτον; Πρ. τοῦτ' ἐς τὸ μέσον καταθήσει. καὶ μὴ καταθεὶς ψευδορκήσει. Βλ. κἀκτήσατο γὰρ διὰ τοῦτο. Πρ. ἀλλ' οὐδέν τοι χρήσιμον ἔσται πάντως αὐτῷ. Βλ. κατὰ δὴ τί; Πρ. οὐδεὶς οὐδὲν πενίᾳ δράσει· πάντα γὰρ ἕξουσιν ἅπαντες, 615 ἄρτους, τεμάχη, μάζας, χλαίνας, οἶνον, στεφάνους, ἐρεβίνθους. ὥστε τί κέρδος μὴ καταθεῖναι; σὺ γὰρ ἐξευρὼν ἀπόδειξον. Βλ. οὔκουν καὶ νῦν οὗτοι μᾶλλον κλέπτουσ' οἷς ταῦτα πάρεστιν; Πρ. πρότερόν γ', ὦταῖρ', ὅτε τοῖσι νόμοις διεχρώμεθα τοῖς προτέροισιν· νῦν δ' - ἔσται γὰρ βίος ἐκ κοινοῦ - τί τὸ κέρδος μὴ καταθεῖναι; 610

POST-TESTO (Aristofane, Ecclesiazuse 611-622, trad. D. Del Corno)

Βλ. ἢν μείρακ' ἰδὼν ἐπιθυμήσῃ καὶ βούληται σκαλαθῦραι, Blepiro: Metti che uno veda una ragazza, perda la testa e abbia ἕξει τούτων ἀφελὼν δοῦναι, τῶν ἐκ κοινοῦ δὲ μεθέξει voglia di divertirsi con lei: potrà farle un regalo prendendolo di ξυγκαταδαρθών. Πρ. ἀλλ' ἐξέσται προῖκ' αὐτῷ lì, e avrà la sua parte del bene di tutti portandola a letto. ξυγκαταδαρθεῖν. καὶ ταύτας γὰρ κοινὰς ποιῶ τοῖς ἀνδράσι συγκατακεῖσθαι Prassagora: Ma potrà andarci a letto senza pagare! Voglio che καὶ παιδοποιεῖν τῷ βουλομένῳ. Βλ. πῶς οὖν οὐ πάντες ἴασιν anche loro (indicando le donne del Coro) siano in comune per 615 gli uomini, in modo che chiunque lo desidera possa fare l’amore ἐπὶ τὴν ὡραιοτάτην αὐτῶν καὶ ζητήσουσιν ἐρείδειν; e avere figli. Blepiro: Si precipiteranno tutti sulla più bella, e Πρ. αἱ φαυλότεραι καὶ σιμότεραι παρὰ τὰς σεμνὰς cercheranno di mettersela sotto; e tu come farai ad impedirlo? καθεδοῦνται. Prassagora: Le più brutte, quelle col naso piatto, staranno di κᾆτ' ἢν ταύτης ἐπιθυμήσῃ, τὴν αἰσχρὰν πρῶθ' ὑποκρούσει. fianco alle belle; e se vuoi una di queste, dovrai prima passarti Βλ. καὶ πῶς ἡμᾶς τοὺς πρεσβύτας, ἢν ταῖς αἰσχραῖσι συνῶμεν,

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οὐκ ἐπιλείψει τὸ πέος πρότερον πρὶν ἐκεῖσ' οἷ φῂς ἀφικέσθαι; la brutta. 620 Blepiro: E cehe ne sarà di noi vecchi? Metti che andiamo con le Πρ. οὐχὶ μαχοῦνται περὶ σοῦ· θάρρει, μὴ δείσῃς· οὐχὶ brutte: c’è rischio che poi il coso ci pianti prima di arrivare dove μαχοῦνται. Βλ. περὶ τοῦ; Πρ. τοῦ μὴ ξυγκαταδαρθεῖν. καὶ σοὶ τοιοῦτον sai tu. ὑπάρχει. Prassagora: Non faranno battaglia per te, sta’ sicuro: non aver paura, non ci sarà battaglia.

Blepiro: Perché? Prassagora: Perché tu a letto non ci vai: così stanno le cose.

Individuare nel testo i richiami lessicali e semantici, ‘per analogia’ e ‘per contrasto’, all’ante-testo e al post-testo:

Leggenda

______Lessico ‘filosofico’

123 ______Dialettica ‘vecchio’ / ‘nuovo’

______Lessico del sesso

______Lessico della democrazia

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ANTE-TESTO

Χο. νῦν δὴ δεῖ σε πυκνὴν Coro (rivolto a Prassagora): Ora devi destare la tua mente φρένα καὶ φιλόσοφον ἐγείρειν acuta, il pensiero amante φροντίδ' ἐπισταμένην di sapienza, capace ταῖσι φίλαισιν ἀμύνειν. di difendere le amiche. κοινῇ γὰρ ἐπ' εὐτυχίαισιν Per la felicità comune ἔρχεται γλώττης ἐπίνοια πολίτην viene l’inventiva della tua lingua, a ornare δῆμον ἐπαγλαϊοῦσα 575 il popolo della città μυρίαισιν ὠφελίαισι βίου· con infiniti beni di vita. È l’occasione dimostrare il suo valore. δηλοῦν ‹δ'› ὅ τί περ δύναται καιρός. La nostra città ha bisogno δεῖται γάρ τοι σοφοῦ τινος ἐξευ- di qualche idea sapiente. ρήματος ἡ πόλις ἡμῶν. Una cosa soltanto devi evitare: ἀλλὰ πέραινε μόνον non ripetere cose già fatte μήτε δεδραμένα μήτ' εἰ- o dette in passato: ρημένα πω πρότερον. qui odiano vedere μισοῦσι γὰρ ἢν τὰ παλαιὰ troppe volte la roba vecchia. πολλάκις θεῶνται. 580 Ko. ἀλλ' οὐ μέλλειν, ἀλλ' ἅπτεσθαι καὶ δὴ χρῆν ταῖς διανοίαις, Corifeo: Non perdere tempo, attacca con il tuo programma: ὡς τὸ ταχύνειν χαρίτων μετέχει πλεῖστον παρὰ τοῖσι θεαταῖς. al pubblico piace soprattutto che l’azione corra. Πρ. καὶ μὴν ὅτι μὲν χρηστὰ διδάξω πιστεύω· τοὺς δὲ θεατάς, Prassagora: I miei insegnamenti saranno utili, sono sicura. εἰ καινοτομεῖν ἐθελήσουσιν καὶ μὴ τοῖς ἠθάσι λίαν Ma gli spettatori vorranno prendere nuove strade e non fermarsi τοῖς τ' ἀρχαίοις ἐνδιατρίβειν, τοῦτ' ἔσθ' ὃ μάλιστα δέδοικα. 585 a quelle vecchie che conoscono anche troppo? Questo è il mio timore. Γε. περὶ μὲν τοίνυν τοῦ καινοτομεῖν μὴ δείσῃς· τοῦτο γὰρ ἡμῖν Vicino: Prendere nuove strade! Non c’è dubbio: è la cosa che preferiamo fare più di ogni altra, e lasciar perdere quelle δρᾶν ἀντ' ἄλλης ἀρχῆς ἐστιν, τῶν δ' ἀρχαίων ἀμελῆσαι. vecchie.

Prassagora: D’accordo; e allora nessuno di voi mi contraddica 124 Πρ. μή νυν πρότερον μηδεὶς ὑμῶν ἀντείπῃ μηδ' ὑποκρούσῃ, né mi interrompa, prima di sapere le mie idee e di avere

πρὶν ἐπίστασθαι τὴν ἐπίνοιαν καὶ τοῦ φράζοντος ἀκοῦσαι. ascol tato le mie spiegazioni.

POST-TESTO

Βλ. ἢν μείρακ' ἰδὼν ἐπιθυμήσῃ καὶ βούληται σκαλαθῦραι, Blepiro: Metti che uno veda una ragazza, perda la testa e abbia ἕξει τούτων ἀφελὼν δοῦναι, τῶν ἐκ κοινοῦ δὲ μεθέξει voglia di divertirsi con lei: potrà farle un regalo prendendolo di ξυγκαταδαρθών. Πρ. ἀλλ' ἐξέσται προῖκ' αὐτῷ lì, e avrà la sua parte del bene di tutti portandola a letto. ξυγκαταδαρθεῖν. Prassagora: Ma potrà andarci a letto senza pagare! Voglio che καὶ ταύτας γὰρ κοινὰς ποιῶ τοῖς ἀνδράσι συγκατακεῖσθαι anche loro (indicando le donne del Coro) siano in comune per καὶ παιδοποιεῖν τῷ βουλομένῳ. Βλ. πῶς οὖν οὐ πάντες ἴασιν gli uomini, in modo che chiunque lo desidera possa fare l’amore 615 e avere figli. Blepiro: Si precipiteranno tutti sulla più bella, e ἐπὶ τὴν ὡραιοτάτην αὐτῶν καὶ ζητήσουσιν ἐρείδειν; cercheranno di mettersela sotto; e tu come farai ad impedirlo? Πρ. αἱ φαυλότεραι καὶ σιμότεραι παρὰ τὰς σεμνὰς Prassagora: Le più brutte, quelle col naso piatto, staranno di καθεδοῦνται. fianco alle belle; e se vuoi una di queste, dovrai prima passarti κᾆτ' ἢν ταύτης ἐπιθυμήσῃ, τὴν αἰσχρὰν πρῶθ' ὑποκρούσει. la brutta. Βλ. καὶ πῶς ἡμᾶς τοὺς πρεσβύτας, ἢν ταῖς αἰσχραῖσι συνῶμεν, Blepiro: E che ne sarà di noi vecchi? Metti che andiamo con le οὐκ ἐπιλείψει τὸ πέος πρότερον πρὶν ἐκεῖσ' οἷ φῂς ἀφικέσθαι; brutte: c’è rischio che poi il coso ci pianti prima di arrivare dove 620 sai tu. Πρ. οὐχὶ μαχοῦνται περὶ σοῦ· θάρρει, μὴ δείσῃς· οὐχὶ Prassagora: Non faranno battaglia per te, sta’ sicuro: non aver μαχοῦνται. paura, non ci sarà battaglia. Βλ. περὶ τοῦ; Πρ. τοῦ μὴ ξυγκαταδαρθεῖν. καὶ σοὶ τοιοῦτον Blepiro: Perché? Prassagora: Perché tu a letto non ci vai: così ὑπάρχει. stanno le cose.

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CICLO DI INCONTRI promosso dalla Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in collaborazione con la Direzione Generale dell’U.S.R. per la Campania per l’anno scolastico 2018/19 e finalizzato alla preparazione degli studenti liceali della Campania alle Olimpiadi Nazionali delle Lingue e Civiltà Classiche

e ai certamina Sezione di Lingua Greca 4ª LEZIONE METODOLOGICA (M4) 18/12/2018

Tipologia del testo-guida: prosa Genere-guida: filosofia Autore-guida: Platone Opere: Simposio

Testo esemplificativo proposto: 125 Altro testo: Symp. 215a – 216a

FOCUS METODOLOGICO 1: Affrontare la traduzione del TESTO con l’ausilio dell’ANTE-TESTO e del POST-TESTO e delle DOMANDE: ricavare dall’A-T e dal P-T indicazioni utili alla contestualizzazione: contestualizzare prima di tradurre; ricavare dall’A-T e dal P-T indicazioni utili alla comprensione: comprendere prima di tradurre; ricavare dall’A-T e dal P-T elementi linguistici e stilistici utili alla traduzione: FOCUS METODOLOGICO 2:  Tradurre la filosofia

Il concorrente traduca il TESTO di Platone e risponda ai relativi quesiti, anche alla luce dell’ANTE-TESTO e del POST-TESTO.

Platone, Simposio 215a-216°

ANTE-TESTO (Platone, Simposio 215a, trad. G. Giardini)

Σωκράτη δ' ἐγὼ ἐπαινεῖν, ὦ ἄνδρες, οὕτως Socrate, o amici, io penso di lodarlo così, per immagini. ἐπιχειρήσω, δι' εἰκόνων. οὗτος μὲν οὖν ἴσως Egli riterrà, probabilmente, per far ridere di più. Ma l’immagine sarà a fin di vero e non di scherno. Infatti dico οἰήσεται ἐπὶ τὰ γελοιότερα, ἔσται δ' ἡ εἰκὼν τοῦ che è molto simile a quei sileni [215b] che si trovano nei ἀληθοῦς ἕνεκα, οὐ τοῦ γελοίου. φημὶ γὰρ δὴ laboratori degli scultori che gli artefici creano con flauti o ὁμοιότατον αὐτὸν εἶναι τοῖς σιληνοῖς τούτοις τοῖς zampogne in mano, ma se vengono aperti in due, [b] ἐν τοῖς ἑρμογλυφείοις καθημένοις, οὕστινας mostrano all’interno l’immagine degli dèi. E dico che ἐργάζονται οἱ δημιουργοὶ σύριγγας ἢ αὐλοὺς assomiglia al satiro Marsia. Del resto, che almeno ἔχοντας, οἳ διχάδε διοιχθέντες φαίνονται ἔνδοθεν nell’aspetto, o Socrate, sia somigliante a questi due, non potresti metterlo in dubbio neppure tu. E, dopo questo, ἀγάλματα ἔχοντες θεῶν. καὶ φημὶ αὖ ἐοικέναι ascolta come gli somigli anche del resto. Tu sei insolente, αὐτὸν τῷ σατύρῳ τῷ Μαρσύᾳ. ὅτι μὲν οὖν τό γε o no? Se non lo confessi, ti porterò qui i testimoni. Non εἶδος ὅμοιος εἶ τούτοις, ὦ Σώκρατες, οὐδ' αὐτὸς ἄν sei flautista? Ma sei molto più meraviglioso di quello. που ἀμφισβητήσαις· ὡς δὲ καὶ τἆλλα ἔοικας, μετὰ [215c] Egli, con i suoi strumenti ammaliava gli uomini

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τοῦτο ἄκουε. ὑβριστὴς εἶ· ἢ οὔ; ἐὰν γὰρ μὴ per mezzo della potenza che gli proveniva dalla bocca, e ὁμολογῇς, μάρτυρας παρέξομαι. ἀλλ' οὐκ ancora adesso chi suona le sue composizioni, quelle che suonava Olimpo, erano proprie di Marsia, perché gliele αὐλητής; πολύ γε θαυμασιώτερος ἐκείνου. [c] ὁ aveva consegnate lui, quelle composizione, sia che le μέν γε δι' ὀργάνων ἐκήλει τοὺς ἀνθρώπους τῇ esegua un buon flautista sia un’auletride da poco, esse ἀπὸ τοῦ στόματος δυνάμει, καὶ ἔτι νυνὶ ὃς ἂν τὰ sole riescono a dominare e rivelano quelli che hanno ἐκείνου αὐλῇ - ἃ γὰρ Ὄλυμπος ηὔλει, Μαρσύου bisogno degli dèi e delle iniziazioni, per il loro essere λέγω, τούτου διδάξαντος - τὰ οὖν ἐκείνου ἐάντε divine.

ἀγαθὸς αὐλητὴς αὐλῇ ἐάντε φαύλη αὐλητρίς,

μόνα κατέχεσθαι ποιεῖ καὶ δηλοῖ τοὺς τῶν θεῶν τε καὶ τελετῶν δεομένους διὰ τὸ θεῖα εἶναι.

.

TESTO (Platone, Simposio 215 c-d)

σὺ δ' ἐκείνου τοσοῦτον μόνον διαφέρεις, ὅτι ἄνευ ὀργάνων ψιλοῖς λόγοις ταὐτὸν [d] τοῦτο ποιεῖς. ἡμεῖς γοῦν ὅταν μέν του ἄλλου ἀκούωμεν λέγοντος καὶ πάνυ ἀγαθοῦ ῥήτορος ἄλλους λόγους, οὐδὲν μέλει ὡς ἔπος εἰπεῖν οὐδενί· ἐπειδὰν δὲ σοῦ τις ἀκούῃ ἢ τῶν σῶν λόγων ἄλλου λέγοντος, κἂν πάνυ φαῦλος ᾖ ὁ λέγων, ἐάντε γυνὴ ἀκούῃ ἐάντε ἀνὴρ

126 ἐάντε μειράκιον, ἐκπεπληγμένοι ἐσμὲν καὶ κατεχόμεθα. ἐγὼ γοῦν, ὦ

ἄνδρες, εἰ μὴ ἔμελλον κομιδῇ δόξειν μεθύειν, εἶπον ὀμόσας ἂν ὑμῖν οἷα δὴ πέπονθα αὐτὸς ὑπὸ τῶν τούτου λόγων καὶ πάσχω ἔτι καὶ [e] νυνί. ὅταν γὰρ ἀκούω, πολύ μοι μᾶλλον ἢ τῶν κορυβαντιώντων ἥ τε καρδία πηδᾷ καὶ δάκρυα ἐκχεῖται ὑπὸ τῶν λόγων τῶν τούτου, ὁρῶ δὲ καὶ ἄλλους παμπόλλους τὰ αὐτὰ πάσχοντας.

POST-TESTO (Platone, Simposio 216, trad. G. Giardini)

Περικλέους δὲ ἀκούων καὶ ἄλλων ἀγαθῶν ῥητόρων Udendo Pericle e molti altri oratori capaci, pensavo che εὖ μὲν ἡγούμην λέγειν, τοιοῦτον δ' οὐδὲν ἔπασχον, parlassero bene, ma non provavo nulla di tutto questo, οὐδ' ἐτεθορύβητό μου ἡ ψυχὴ οὐδ' ἠγανάκτει ὡς l’anima non si sconvolgeva entro di me, non si ribellava al ἀνδραποδωδῶς διακειμένου, ἀλλ' ὑπὸ τουτουῒ τοῦ pensiero di trovarmi in schiavitù; ma da parte di questo Μαρσύου πολλάκις δὴ [216] [a]. οὕτω διετέθην ὥστε Marsia qui, [216a] molte volte mi sono trovato nella μοι δόξαι μὴ βιωτὸν εἶναι ἔχοντι ὡς ἔχω. καὶ ταῦτα, condizione che non mi sembrava possibile la vita in questo ὦ Σώκρατες, οὐκ ἐρεῖς ὡς οὐκ ἀληθῆ. καὶ ἔτι γε νῦν stato. E non dirai, Socrate, che questo non è vero. E so σύνοιδ' ἐμαυτῷ ὅτι εἰ ἐθέλοιμι παρέχειν τὰ ὦτα, οὐκ ancora dentro di me che se volessi dargli ascolto, non ἂν καρτερήσαιμι ἀλλὰ ταὐτὰ ἂν πάσχοιμι. riuscirei a stare saldo, ma proverei le stesse sensazioni.

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QUESITI

Con quali argomentazioni nel discorso di Alcibiade si sostiene l’identità Socrate- Marsia? Il candidato esamini l’utilizzo che nel testo viene fatto del periodo ipotetico in funzione delle argomentazioni proposte. Nel brano proposto si insiste sul valore ‘psicagogico’ della parola di Socrate: il candidato illustri come questa funzione venga trattata da Platone e da altri autori greci.

127

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CICLO DI INCONTRI promosso dalla Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in collaborazione con la Direzione Generale dell’U.S.R. per la Campania per l’anno scolastico 2018/19 e finalizzato alla preparazione degli studenti liceali della Campania alle Olimpiadi Nazionali delle Lingue e Civiltà Classiche e ai certamina

Sezione di Lingua Latina 2ª LEZIONE LABORATORIALE (L2) 13/2/2019 Tipologia del testo-guida: prosa Genere-guida: filosofia Autore-guida: Cicerone

L’uomo e gli animali

128

Cicerone, De Off. I 4, 11-13 e ss.

ANTE-TESTO (Cic. De Off. I 4, 11, trad. A. Resta Barrile)

Principio generi animantium omni est a natura Anzitutto a tutti gli esseri viventi la natura ha dato tributum, ut se, uitam corpusque tueatur, declinet l’istinto di conservare sè stessi, la vita ed il corpo, di ea, quae nocitura uideantur, omniaque, quae sint ad evitare tutto ciò che può nuocere, e di ricercare e uiuendum necessaria, anquirat et paret, ut pastum, procacciare le cose necessarie al sostentamento della ut latibula, ut alia generis eiusdem; commune autem vita, come il cibo, il ricovero ed altre cose dello stesso animantium omnium est coniunctionis appetitus genere. Ugualmente comune a tutti è l’istinto di procreandi causa et cura quaedam eorum, quae procreata sint. Sed inter hominem et beluam hoc procreare e la cura della prole. Ma fra l’uomo e la maxime interest, quod haec tantum, quantum sensu bestia v’è grandissima differenza. La bestia, solo in mouetur, ad id solum, quod adest quodque praesens quanto è stimolata dal senso, conforma le sue est, se accommodat, paulum admodum sentiens attitudini a ciò che è vicino e presente, poco affatto praeteritum aut futurum. curandosi del passato e del futuro.

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TESTO (Cicerone, De Officiis I 4, 11-13)

Homo autem, quod rationis est particeps, per quam consequentia cernit, causas rerum uidet earumque praegressus et quasi antecessiones non ignorat, similitudines comparat rebusque praesentibus adiungit atque adnectit futuras, facile totius uitae cursum uidet ad eamque degendam praeparat res necessarias. Eademque natura ui rationis hominem conciliat homini et ad orationis et ad uitae societatem ingeneratque inprimis praecipuum quendam amorem in eos, qui procreati sunt, impellitque ut hominum coetus et celebrationes et esse et a se obiri uelit ob easque causas studeat parare ea, quae suppeditent ad cultum et ad uictum, nec sibi soli, sed coniugi, liberis, ceterisque quos caros habeat tuerique debeat; quae cura exsuscitat etiam animos et maiores ad rem gerendam facit. In primisque hominis est propria ueri inquisitio atque inuestigatio. Itaque cum sumus necessariis negotiis curisque uacui, tum auemus aliquid uidere, audire, addiscere, cognitionemque rerum aut occultarum aut admirabilium ad beate uiuendum necessariam ducimus; ex quo intellegitur, quod uerum, simplex sincerumque sit, id esse naturae hominis aptissimum.

POST-TESTO (Cic. De Off. I 4, 13-14, trad. A. Resta Barrile) 129

Huic ueri uidendi cupiditati adiuncta est appetitio Una certa brama di preminenza è congiunta al quaedam principatus, ut nemini parere animus bene desiderio di conoscere il vero, in modo che un animo informatus a natura uelit nisi praecipienti aut ben nato a nessuno vuole essere soggetto, se non a docenti aut utilitatis causa iuste et legitime chi dà precetti di giusta e legittima autorità; dal che imperanti; ex quo magnitudo animi existit nasce la grandezza d’animo e il disprezzo delle cose humanarumque rerum contemptio. Nec uero illa umane. Né invero è piccolo privilegio della ragione parua uis naturae est rationisque, quod unum hoc animal sentit quid sit ordo, quid sit quod deceat, in umana che soltanto l’uomo possa conoscere cosa sia factis dictisque qui modus. Itaque eorum ipsorum, l’ordine, il decoro e la misura nei fatti e nelle parole. quae aspectu sentiuntur, nullum aliud animal pulchritudinem, uenustatem, conuenientiam partium sentit

QUESITI

Il candidato illustri quali differenze Cicerone stabilisce tra l’uomo e gli altri esseri viventi. Il candidato rifletta sulla costruzione del periodo ciceroniano: quali figure retoriche emergono maggiormente? Quale il senso di un’ipotassi così ricca specie nella parte del TESTO? La definizione dell’uomo in contrapposizione all’animale è un topos non solo della letteratura classica: il candidato rifletta su questo tema con opportuni riferimenti ad altri autori sia antichi che moderni.

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Sezione di Latino 3ª LEZIONE LABORATORIALE (L4) 26/02/2019 Lezione metodologica “a specchio” (esercitazione guidata) sulla tipologia di prova “mista” dell’EdS) Esempio prova EdS: latino-Greco:

Tipologia dei testi-guida: prosa Autori-guida: Tacito - Plutarco Generi-guida: storiografia (latino) / biografia (greco) Opere: Historiae / Vite Parallele (Galba)

PRIMA PARTE: traduzione di un testo in lingua latina

Il concorrente traduca il TESTO di Tacito e risponda ai relativi quesiti, anche alla luce dell’ANTE-TESTO e del POST-TESTO.

130 45 TAC., Hist. I 40-

ANTE-TESTO (Hist. I 40)

[40] (…) Nec illos Capitolii aspectus et imminentium 40. (…) Né la vista del Campidoglio, né la sacralità dei templi templorum religio et priores et futuri principes terruere sovrastanti, né il pensiero dei principi passati e futuri, poté quo minus facerent scelus cuius ultor est quisquis distogliere questi uomini da un delitto, il cui vendicatore è sempre successit. [41] Viso comminus armatorum agmine chi all'impero succede. 41. Vistasi addosso quella schiera di armati, vexillarius comitatae Galbam cohortis (Atilium l'alfiere della coorte che scortava Galba (dicono che fosse Atilio Vergilionem fuisse tradunt) dereptam Galbae imaginem Vergilione), strappò dall'insegna l'immagine di Galba e la gettò a solo adflixit: terra.

TESTO (Hist. I 41)

1 eo signo manifesta in Othonem omnium militum studia, desertum fuga populi 2 forum, destricta adversus dubitantis tela. Iuxta Curtii lacum trepidatione 3 ferentium Galba proiectus e sella ac provolutus est. Extremam eius vocem, ut 4 cuique odium aut admiratio fuit, varie prodidere. alii suppliciter interrogasse 5 quid mali meruisset, paucos dies exolvendo donativo deprecatum: plures 6 obtulisse ultro percussoribus iugulum: agerent ac ferirent, si ita [e] re publica

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7 videretur. Non interfuit occidentium quid diceret. de percussore non satis constat: 8 quidam Terentium evocatum, alii Laecanium; crebrior fama tradidit Camurium 9 quintae decimae legionis militem impresso gladio iugulum eius hausisse. ceteri 10 crura brachiaque (nam pectus tegebatur) foede laniavere; pleraque vulnera 11 feritate et saevitia trunco iam corpori adiecta.

POST- TESTO ( Hist. I 42-44)

[42] Titum inde Vinium invasere, de quo et ipso 42. Si scagliarono poi su Tito Vinio. Anche per lui si discute se, al ambigitur consumpseritne vocem eius instans metus, sentirsi la morte addosso, gli siano rimaste le parole in gola, o se an proclamaverit non esse ab Othone mandatum ut abbia gridato che non era possibile che Otone avesse dato ordine di occideretur. quod seu finxit formidine seu ucciderlo. Fu una menzogna dettata dalla paura o l'ammissione conscientiam coniurationis confessus est, huc potius della sua complicità nella congiura? La sua vita e la fama che aveva indurrebbero a credere che fu complice d'un delitto, di cui era la eius vita famaque inclinat, ut conscius sceleris fuerit causa. Cadde davanti al tempio del divo Giulio, abbattuto da un cuius causa erat. ante aedem divi Iulii iacuit primo ictu primo colpo al polpaccio e poi passato da parte a parte per mano del in poplitem, mox ab Iulio Caro legionario milite in legionario Giulio Caro. 43. La nostra epoca vide distinguersi quel utrumque latus transverberatus. [43] Insignem illa die giorno un uomo, Sempronio Denso. Centurione della coorte virum Sempronium Densum aetas nostra vidit. pretoria e assegnato a scorta di Pisone da Galba, affrontò, centurio is praetoriae cohortis, a Galba custodiae stringendo il pugnale, i soldati in armi. Rinfacciando loro il Pisonis additus, stricto pugione occurrens armatis et crimine commesso, attira su di sé gli assassini, col gesto e le parole scelus exprobrans ac modo manu modo voce vertendo e, nonostante le ferite, dà a Pisone il tempo di fuggire. 131 in se percussores quamquam vulnerato Pisoni Quest'ultimo riparò nel tempio di Vesta e, accolto dallo schiavo effugium dedit. Piso in aedem Vestae pervasit, pubblico, che lo nascose nel proprio alloggio, poté, non grazie alla exceptusque misericordia publici servi et contubernio santità di quel luogo di culto, ma per merito del nascondiglio, eius abditus non religione nec caerimoniis sed latebra differire la morte imminente; ma poi per ordine di Otone, che smaniava di sapere morto lui particolarmente, si presentarono inminens exitium differebat, cum advenere missu Sulpicio Floro, un soldato delle coorti britanniche, cui da poco Othonis nominatim in caedem eius ardentis Sulpicius Galba aveva concesso la cittadinanza, e la guardia del corpo Stazio Florus e Britannicis cohortibus, nuper a Galba civitate Murco. Trascinato fuori da costoro, Pisone fu ucciso sulla soglia donatus, et Statius Murcus speculator, a quibus del tempio. 44. La morte di nessuno - dicono - Otone accolse con protractus Piso in foribus templi trucidatur. [44] esultanza più grande, la testa di nessuno si abbandonò a guardare Nullam caedem Otho maiore laetitia excepisse, nullum con sguardo più insaziabile: forse, allora finalmente liberato da caput tam insatiabilibus oculis perlustrasse dicitur, seu ogni tensione, cominciava ad aprire il suo animo alla gioia; forse, il tum primum levata omni sollicitudine mens vacare ricordo della maestà imperiale di Galba e dell'amicizia per Tito gaudio coeperat, seu recordatio maiestatis in Galba, Vinio gli turbava l'animo, per quanto impietoso, con inquietanti amicitiae in Tito Vinio quamvis immitem animum visioni, mentre invece si credeva in diritto, davanti agli dèi e agli imagine tristi confuderat, Pisonis ut inimici et aemuli uomini, di gioire della morte del suo nemico e rivale. Le teste caede laetari ius fasque credebat. praefixa contis capita mozze, infisse su picche, venivano portate in giro, fra le insegne gestabantur inter signa cohortium iuxta aquilam delle coorti, a fianco dell'aquila della legione; a gara mostravano le mani lorde di sangue quanti avevano ucciso; chi era stato solo legionis, certatim ostentantibus cruentas manus qui presente al massacro si gloriava, mentendo o no, di quel crimine, occiderant, qui interfuerant, qui vere qui falso ut come d'un gesto bello e memorabile. pulchrum et memorabile facinus iactabant.

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SECONDA PARTE: confronto con un testo in lingua greca, con traduzione a fronte.

PLUTARCHUS - Γάλβας – Galba, 26, 4 - 27, 5

[26] [4] τῶν μὲν οὖν πολλῶν δρόμος ἦν, οὐ φυγῇ σκιδναμένων, ἀλλ' ἐπὶ τὰς στοὰς καὶ τὰ μετέωρα τῆς ἀγορᾶς, ὥσπερ θέαν καταλαμβανόντων. Ἀτιλλίου δὲ Βεργελίωνος εἰκόνα Γάλβα προσουδίσαντος, ἀρχὴν τοῦ πολέμου ποιησάμενοι περιηκόντισαν τὸ φορεῖον· ὡς δ' οὐκ ἔτυχον αὐτοῦ, προσῆγον ἐσπασμένοις τοῖς ξίφεσιν. ἤμυνε δὲ οὐδεὶς οὐδὲ ὑπέστη πλὴν ἑνὸς ἀνδρός, ὃν μόνον ἥλιος ἐπεῖδεν ἐν μυριάσι τοσαύταις ἄξιον τῆς Ῥωμαίων ἡγεμονίας· [5] Σεμπρώνιος ἦν Δῆνσος ἑκατοντάρχης, οὐδὲν ἰδίᾳ χρηστὸν ὑπὸ Γάλβα πεπονθώς, τῷ δὲ καλῷ καὶ τῷ νόμῳ βοηθῶν προέστη τοῦ φορείου. καὶ τὸ κλῆμα πρῶτον, ᾧ κολάζουσιν ἑκατοντάρχαι τοὺς πληγῶν δεομένους, ἐπαράμενος τοῖς ἐπιφερομένοις ἐβόα καὶ διεκελεύετο φείδεσθαι τοῦ αὐτοκράτορος. ἔπειτα συμπλεκομένων αὐτῷ σπασάμενος τὸ ξίφος ἠμύνατο πολὺν χρόνον, ἕως τυφθεὶς τὰς ἰγνύας ἔπεσε. [27] [1] Τὸν δὲ Γάλβαν, ἀποκλιθέντος τοῦ φορείου περὶ τὸν Κουρτίου καλούμενον λάκκον, ἐκκυλισθέντα τεθωρακισμένον ἔτυπτον ἐπιδραμόντες. ὁ δὲ τὴν σφαγὴν προτείνας, "Δρᾶτε," εἶπεν, "εἰ τοῦτο τῷ δήμῳ Ῥωμαίων ἄμεινόν ἐστι." [2] πολλὰς μὲν οὖν ἔλαβε πληγὰς εἴς τε τὰ σκέλη καὶ τοὺς βραχίονας, ἀπέσφαξε δὲ αὐτόν, ὡς οἱ πλεῖστοι λέγουσι, Καμούριός τις ἐκ τοῦ πεντεκαιδεκάτου τάγματος. ἔνιοι δὲ Τερέντιον, οἱ δὲ Λεκάνιον ἱστοροῦσιν, οἱ δὲ Φάβιον Φάβουλον, ὃν καί φασιν ἀποκόψαντα τὴν κεφαλὴν κομίζειν τῷ ἱματίῳ συλλαβόντα, διὰ τὴν ψιλότητα δυσπερίληπτον οὖσαν· [3] ἔπειτα τῶν σὺν αὐτῷ κρύπτειν οὐκ ἐώντων, ἀλλ' ἐκφανῆ πᾶσι ποιεῖν τὴν ἀνδραγαθίαν, περιπείραντα περὶ λόγχην καὶ ἀναπήλαντα πρεσβύτου πρόσωπον, ἄρχοντός τε κοσμίου καὶ ἀρχιερέως καὶ ὑπάτου, δρόμῳ χωρεῖν, ὥσπερ αἱ βάκχαι, πολλάκις μεταστρεφόμενον, καὶ κραδαίνοντα τὴν λόγχην αἵματι καταρρεομένην. Τὸν δ' Ὄθωνα, τῆς κεφαλῆς κομισθείσης, ἀνακραγεῖν λέγουσιν· "Οὐδέν ἐστι τοῦτο, ὦ συστρατιῶται, τὴν Πείσωνός μοι κεφαλὴν δείξατε." [4] μετ' ὀλίγον δὲ ἧκε κομιζομένη· τρωθεὶς γὰρ ἔφευγεν ὁ νεανίσκος, καὶ καταδιωχθεὶς ὑπὸ Μούρκου τινὸς ἀπεσφάγη πρὸς τῷ ἱερῷ τῆς Ἑστίας. ἀπεσφάττετο δὲ καὶ Οὐίνιος ὁμολογῶν κοινωνὸς γεγονέναι τῆς ἐπὶ τὸν Γάλβαν συνωμοσίας· ἐβόα γὰρ ἀποθνήσκειν παρὰ τὴν Ὄθωνος γνώμην. ἀλλὰ γὰρ καὶ τούτου τὴν κεφαλὴν ἀποτεμόντες καὶ Λάκωνος ἐκόμισαν πρὸς τὸν Ὄθωνα δωρεὰς αἰτοῦντες. [5] ὡς δέ φησιν Ἀρχίλοχος, ἑπτὰ γὰρ νεκρῶν πεσόντων, οὓς ἐμάρψαμεν ποσίν,

132 χίλιοι φονῆες ἐσμέν, οὕτως τότε πολλοὶ τοῦ φόνου μὴ συνεφαψάμενοι, χεῖρας δὲ καὶ ξίφη καθαιμάσσοντες ἐπεδείκνυντο καὶ δωρεὰς ᾔτουν βιβλία διδόντες τῷ Ὄθωνι. εἴκοσι γοῦν καὶ ἑκατὸν εὑρέθησαν ὕστερον ἐκ τῶν γραμματίων, οὓς ὁ Οὐϊτέλλιος ἀναζητήσας ἅπαντας ἀπέκτεινεν.

Traduzione. [26] [4] La folla dunque correva, senza disperdersi nella fuga ma occupando i portici e i punti più elevati del foro come per assistere ad uno spettacolo. Atilio Vergilione gettò a terra l'immagine di Galba e i soldati, dando inizio alla battaglia, scagliarono dardi da ogni lato contro la portantina, ma poiché non riuscirono a colpire l'imperatore, gli si lanciarono contro con le spade sguainate. Nessuno cercò di difenderlo o di opporre resistenza, tranne un sol uomo, l'unico che in tante decine di migliaia di uomini il sole vide degno dell'impero romano; [5] si trattava di Sempronio Denso, un centurione che non aveva ricevuto da Galba alcun beneficio particolare, ma a difesa del bene e della legge si pose davanti alla portantina. All'inizio alzando la verga, con cui i centurioni puniscono chi merita delle percosse, gridava e chiedeva ai soldati che davano l'assalto di risparmiare l’imperatore; poi, quando essi si avventarono su di lui, sguainò la spada e cercò di difendersi a lungo, finché non cadde colpito alle gambe. [27] [1] Nei pressi del lago detto Curzio la portantina si inclinò e Galba ne fu sbalzato fuori, coperto della sua corazza. I soldati corsero a colpirlo, ed egli, porgendo il collo, disse: «Fate pure, se questa è la cosa migliore per il popolo romano!» [2] Ricevette molti colpi sia alle gambe che alle braccia, ma lo sgozzò, come sostengono i più, un certo Camurio, un soldato della quindicesima legione (taluni raccontano che fu Terenzio, altri Lecanio, altri ancora Fabio Favullo). Dicono anche che l’uccisore gli tagliò la testa e la portò via avvolgendola nel mantello. Perché, essendo priva di capelli, era difficile da mantenere. [3] Poi, poiché i suoi compagni vollero che un tale gesto non rimanesse nascosto, ma fosse noto a tutti, la infilzò su una lancia e, scuotendo quella che era la testa di un vecchio, onesto principe, pontefice massimo e console, prese a correre alla stregua delle Baccanti, tornando spesso indietro e agitando la lancia che grondava sangue. Si dice che Otone, quando gli fu portatala testa, gridasse: “Questo non è nulla, commilitoni! Mostratemi il capo di Pisone”. [4] Poco dopo gli fu portata pure quella: infatti il giovane, ferito, aveva tentato la fuga ma, inseguito da un certo Murco, era stato trucidato presso il tempio di Vesta. Anche Vinio fu trucidato, benché confessasse di aver preso parte alla congiura contro Galba: gridava infatti che moriva contro il parere di Otone. Anche a lui e a Lacone mozzarono il capo e lo portarono ad Otone, chiedendo la ricompensa. [5] Come dice Archiloco: Sette sono caduti morti, li abbiamo raggiunti di corsa, mille siamo gli uccisori.., Così allora molti, pur non avendo concorso alla strage, lordarono le loro mani e le spade di sangue e le mostravano ad Otone, consegnandogli anche delle richieste scritte di ricompense. In seguito di costoro ne furono individuati centoventi in base a tali documenti: Vitellio li fece cercare ed uccidere tutti.

S.P.B. ‘La preparazione ai certamina valevoli per le Olimpiadi Nazionali di Lingue e Civiltà Classiche per gli alunni della Campania’. Un’esperienza didattica

TERZA PARTE: quesiti Il limite massimo di estensione per ogni quesito è di 10/12 righe di foglio protocollo. Il candidato può altresì rispondere con uno scritto unitario, autonomamente organizzato nella forma del commento al testo, purché siano contenute al suo interno le risposte ai quesiti richiesti, non superando le 30/36 righe di foglio protocollo.

Il concorrente risponda ai seguenti quesiti

1. Comprensione /interpretazione Al centro dei passi proposti di Tacito e di Plutarco vi è la trattazione dei medesimi movimentati e drammatici avvenimenti. Il candidato individui e spieghi le principali differenze che, pur nella sostanziale identità dell’argomento, emergono sia sul piano dell’organizzazione e dello svolgimento complessivi della narrazione sia su quello del peso attribuito da ciascuno dei due autori ad alcuni specifici dettagli ed aspetti relativi alle azioni e ai personaggi.

2. Analisi linguistica e/o stilistica ai fini dell’interpretazione Individua le risorse espressive (lessicali, sintattiche, retoriche) di cui Tacito si avvale per indagare le psicologie, le motivazioni, i moventi e i comportamenti dei personaggi, nell'intento di rappresentare un momento significativo del dramma, insieme morale e politico, che l'Impero Romano ha attraversato nel recente passato e che lo storico si sforza di comprendere e raccontare in tutta la sua tragicità. Confronta quindi tali risorse espressive con quelle impiegate da Plutarco per delineare i connotati morali e psicologici degli attori che prendono parte al tragico epilogo della vita di Galba, che l'autore racconta nell'ottica di una narrazione biografica. 133 3. Approfondimento e riflessioni personali La ricostruzione degli eventi così come sono presentati da entrambi gli autori stabilisce con il destinatario un rapporto di tipo emozionale proprio delle rappresentazioni teatrali; se l'obiettivo dei due autori è comune, diverse appaiono, tuttavia, le modalità messe in campo. Il candidato rifletta sulla logica che presiede a scelte così diverse, anche a partire dai riferimenti letterari presenti nel testo di Plutarco, ma assenti in quello di Tacito.

______Durata massima della prova: 2 ore. È consentito l’uso dei vocabolari di: italiano, greco e latino.

MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

‘Caratteristiche umane e apprendimento scolastico’ di Benjamin Samuel Bloom

LAURA CORCIONE

Introduzione

enjamin Samuel Bloom (Lansford, Pennsylvania, 1913 - Chicago 1999) è una delle personalità più eminenti che abbia fornito il proprio contributo nel dibattito in campo pedagogico avutosi nella seconda metà del Novecento. Si è formato presso la Pennsylvania State University dove si è laureato nel 1935. Nel 1942 ha conseguito il dottorato di ricerca in Scienze dell’educazione presso l’University of Chicago, dove è diventato docente. È stato anche consulente per l’educazione per diversi stati, nonché fondatore e quindi membro del comitato permanente della IEA (International Association for the Evaluation of Educational Achievement) dal 1968. La sua riflessione inizia con un’analisi del sistema educativo vigente, considerato pieno di errori e responsabile delle differenze individuali di profitto, del senso di inadeguatezza e del perpetuarsi dell’errore. Egli auspica un sistema d’istruzione privo di errori (error free) «quale si può trovare nell’interazione tra un tutor sensibile ed un unico allievo»1 o un “sistema ad errore minimo ” (“minimal error system ”) in cui vi sia “la sistematica individuazione e correzione degli errori nell’insegnamento collettivo e nell’apprendimento individuale”.2 Ed è proprio questo il punto di arrivo di Bloom, come illustrato in Caratteristiche umane e apprendimento scolastico. Caratteristiche umane e apprendimento scolastico

Il volume è stato pubblicato nel 1976 per presentare i risultati di un suo lungo lavoro di ricerca durato dieci anni in collaborazione con i suoi studenti dell’Università di Chicago. Egli parte da due assunti fondamentali, che indica nella Prefazione3: 1) Vi sono allievi bravi e allievi scadenti. 2) Vi sono allievi che apprendono più velocemente di altri.

1 R. Fornaca, Didattica e tecnologie educative. Storia e testi, Milano 1985, 459. 2 Ibid. 3 B.S. Bloom, Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, Roma 1979, 27 [trad. it. di Human Characteristics and School learning, New York 1976]. Laura Corcione ‘Caratteristiche umane e apprendimento scolastico’ di Benjamin Samuel Bloom

Attraverso la sua ricerca, condotta nei laboratori di ricerca educativa e nelle classi scolastiche, giunge a formulare un terzo assunto che mette in discussione quelli da cui era partito: 3) Quando si offrono condizioni di apprendimento favorevoli, la capacità di apprendere, il ritmo di acquisizione e la motivazione a proseguire diventano molto simili, per la maggior parte degli studenti. Ma andiamo per gradi. Bloom riconosce l’esistenza di differenze individuali nell’apprendimento scolastico, nella motivazione, nei ritmi, nel profitto come provato da diverse indagini, ma le considera solo un punto di partenza da spiegare e modificare per ottimizzare il profitto degli allievi. Scrive infatti:

«Questo libro tratta di una teoria dell’apprendimento scolastico, che tenta di spiegare le differenze individuali in esso riscontrabili e di determinare in che modo possano essere modificate nell’interesse dello studente, della scuola e, in ultima analisi, della società. La teoria cerca anche di provare che, se si affronta il problema con sensibilità e sistematicità, la maggior parte degli studenti si mostrerà in grado di apprendere ciò che la scuola deve insegnare»4.

La teoria dell’apprendimento scolastico La teoria dell’apprendimento scolastico esamina le caratteristiche dello studente, dell’istruzione e dei risultati dell’apprendimento. Due caratteristiche riguardano l’allievo e solo una l’insegnante. Le caratteristiche dello studente rappresentano la variabile indipendente; i risultati dell’apprendimento la variabile dipendente; la qualità dell’istruzione altera la relazione tra le due.

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4 Ibid., 31. Laura Corcione ‘Caratteristiche umane e apprendimento scolastico’ di Benjamin Samuel Bloom

Le caratteristiche dello studente Le caratteristiche dello studente sono definite da variabili raggruppabili in due insiemi: quello dei comportamenti cognitivi in ingresso e quello delle caratteristiche affettive di ingresso. I comportamenti cognitivi d’ingresso Bloom definisce i comportamenti cognitivi d’ingresso come «le acquisizioni prerequisite per uno specifico compito»5. Con essi indica i prerequisiti di conoscenze, abilità operative e competenze necessari affinché sia possibile apprendere un nuovo compito. Esiste una forte correlazione tra i comportamenti cognitivi d’ingresso e il profitto dello studente: ciò che l’allievo ha appreso prima del suo ingresso a scuola può influenzare il suo apprendimento. Ed è proprio dalle conoscenze pregresse possedute che potrebbero dipendere le differenze riscontrate nel rendimento in un particolare compito. Inoltre, attraverso la somministrazione di test di rendimento e/o attitudini prima di un compito si può prevedere il livello o il ritmo di apprendimento di un allievo. I comportamenti cognitivi d’ingresso sono propedeutici alla buona realizzazione del compito di apprendimento, soprattutto di tipo sequenziale. Il mancato possesso di comportamenti cognitivi specifici, ossia di quei prerequisiti indispensabili per il corretto svolgimento del primo compito e poi di quelli successivi, insieme ai comportamenti d’ingresso generali (abilità verbale, stili di apprendimento ecc.) inficia la riuscita dell’allievo. E’ compito della scuola aiutare, nei primi due o tre anni di scuola primaria, gli alunni ad acquisire i prerequisiti sia generali che specifici necessari per una buona riuscita nei compiti di apprendimento e in generale nel suo percorso d’istruzione.

Le caratteristiche affettive d’ingresso 136

Le caratteristiche affettive d’ingresso sono costituite dall’interesse specifico per il compito, dall’atteggiamento verso le discipline e la scuola; dalla stima di sé. Per imparare bene un compito, uno studente deve essere ben predisposto, deve volere apprenderlo e avere una tale fiducia in sé da permettergli di superare le eventuali difficoltà incontrate. Passiamo ora agli atteggiamenti verso le materie e la scuola. La disposizione affettiva verso la materia è decisa sia dagli obiettivi e dai propositi che l’allievo si è prefissato che dal successo ottenuto e dalla percezione di poter riuscire bene. Infatti, atteggiamenti favorevoli o sfavorevoli verso la scuola sono altresì determinati dal successo o dall’insuccesso. Il concetto di sé dello studente scaturisce da generalizzazioni nei confronti di sé formulate rispetto al profitto degli altri allievi; si basa sui voti ottenuti, sui giudizi degli insegnanti sul lavoro scolastico svolto, sulle opinioni dei compagni e dei genitori. Una percezione negativa di sé può incidere negativamente sul profitto anche nei compiti successivi e portare il ragazzo a disapprovare se stesso. Prove della sua adeguatezza per diversi anni, invece, possono produrre in lui una immunizzazione contro la malattia mentale e gli permettono di superare le situazioni critiche e i periodi di grande stress. La salute mentale di un individuo, pertanto, è influenzata dalle continue prove di successo o insuccesso scolastico. La qualità dell’istruzione Con qualità dell’istruzione si intende «quel grado di adeguatezza degli stimoli, dell’esercizio e del rinforzo dell’apprendimento ai bisogni dell’allievo»6. Essa determina la differenza tra le caratteristiche possedute dagli allievi prima dell’intervento educativo e dopo che gli stessi vi sono stati sottoposti.

5 Ibid., 63. 6 Ibid., 42. Laura Corcione ‘Caratteristiche umane e apprendimento scolastico’ di Benjamin Samuel Bloom

Nell’individuazione dei suoi elementi sostanziali, si ispira alle caratteristiche dell’insegnamento tutoriale adeguandole all’insegnamento collettivo. L’attività dell’insegnante è simile a quella del tutor che organizza l’insegnamento e adatta la proposta formativa alle esigenze degli studenti. La qualità dell’istruzione riguarda il rapporto instauratosi fra insegnante e allievi, il grado di adattamento dei materiali di apprendimento, l’organizzazione dei contenuti e degli obiettivi, la gestione dei tempi e delle risorse a disposizione. I suoi elementi essenziali riguardano: i suggerimenti forniti agli allievi per rendere più semplice la comprensione dei contenuti, la partecipazione all’apprendimento dimostrata dallo studente; il rinforzo dato all’alunno attraverso l’approvazione, il consenso sociale, la valutazione positiva ai comportamenti adeguati per aumentare la perseveranza; i feedback, ossia i test somministrati per ogni unità di apprendimento per rilevare il grado di apprendimento raggiunto e il possesso dei requisiti necessari per affrontare il compito successivo; i correttivi, ossia le proposte date all’alunno affinché riguardi il materiale didattico fornito in precedenza. La qualità dell’istruzione dipende da una programmazione e da un metodo di insegnamento adeguati, da interventi didattici individualizzati che permettono di portare, attraverso interventi mirati, chi ha minori attitudini in partenza al livello di quelli con maggiori attitudini. In un sistema error free tutti all’inizio di un percorso devono avere adeguati prerequisiti e motivazioni e tutto il tempo necessario per apprendere. Attraverso prove d’ingresso bisogna verificare la presenza totale, parziale o lacunosa dei prerequisiti e fornire interventi di recupero che colmino le eventuali carenze evidenziate.

I percorsi di apprendimento sono strutturati in unità didattiche, percorsi brevi, per i quali è prevista una 137

prova formativa di controllo per verificare il grado di apprendimento e non per registrare un voto. Le prove formative servono a controllare l’efficacia dell’azione didattica ed eventualmente correggerla se non sono stati raggiunti gli obiettivi prefissati. Hanno carattere strutturato e non si concludono con un voto ma con un giudizio che registri la presenza o l’assenza di determinate abilità. Oltre alle prove formative devono essere somministrate le prove sommative, ossia prove di valutazione che servono ad accertare e registrare il profitto dell’alunno. Dopo aver definito la qualità dell’istruzione, Bloom tenta di esporre in che modo le variabili analizzate possano apportare variazioni dell’apprendimento degli studenti e come le stesse possono essere alterate e quali effetti determinino una volta alterate. Bloom ha rilevato che i comportamenti cognitivi d’ingresso possono spiegare il 50% della variazione del profitto, mentre le caratteristiche affettive ne spiegano il 25%. Le caratteristiche degli insegnanti e della classe o della scuola spiegano rispettivamente il 5% della variazione. Ma come è possibile modificare questo stato di cose? Bloom, a tal fine, propone il mastery learning. Esso è frutto di decenni di ricerche hanno dimostrato che alunni che hanno vissuto insuccessi a scuola o hanno avuto scarso rendimento possono ugualmente apprendere se usufruiscono di attività che garantiscono condizioni di apprendimento differenziato, predisposte sulla base delle loro caratteristiche e delle loro capacità. Il mastery learning

La proposta di Bloom ha cercato di coniugare i caratteri positivi dell’educazione pubblica e di quella tutoriale per rispondere alle esigenze dei singoli allievi senza rinunciare al carattere collettivo dell’istruzione. In quest’ottica sono state elaborate strategie didattiche di individualizzazione rivolte al conseguimento degli stessi obiettivi per tutti ma rendendone più semplice la fruizione introducendo aggiustamenti che permettano a ciascuno di superare le difficoltà incontrate. Laura Corcione ‘Caratteristiche umane e apprendimento scolastico’ di Benjamin Samuel Bloom

Il mastery learning, apprendimento per la padronanza, si basa sull’assunto che la maggioranza degli allievi può raggiungere la padronanza degli apprendimenti, superandone i livelli mediocri, attraverso l’utilizzo di strategie didattiche individualizzate. Ciò permette di creare uguali opportunità di riuscita per tutti gli allievi, sebbene presentino disuguaglianze in ingresso. L’apprendimento per la padronanza prevede una fase di pianificazione del percorso ed una fase di realizzazione. Il docente deve, innanzitutto, definire gli obiettivi e determinare il livello standard della padronanza. Bisogna suddividere il corso di studi in segmenti/unità di insegnamento/apprendimento, all’interno dei quali siano esplicitati dei sotto obiettivi7. Segue la verifica degli obiettivi per ogni unità attraverso la somministrazione di prove, costruite per stabilire se è avvenuto l’apprendimento e si può proseguire alla successiva fase o se è necessario predisporre interventi di recupero. La verifica utilizzata è di tipo formativo e permette di stabilire se la padronanza è stata acquisita o meno per ogni item. I risultati conseguiti vengono comunicati mediante un foglio-risposta sul quale l’insegnante annota il proprio giudizio e fornisce, per ogni item errato, gli interventi correttivi con le diverse possibilità di apprendimento supplementare. La proposta di Bloom permette all’educazione scolastica di continuare ad interessare la collettività ma al tempo stesso di essere attenta alle esigenze di ciascuno. Tutti gli allievi possono migliorare il proprio rendimento attraverso l’azione dell’insegnamento su tre variabili: i comportamenti cognitivi d’ingresso, le caratteristiche affettive d’ingresso e la qualità dell’istruzione. L’applicazione del mastery learning determina una variazione del profitto degli allievi. Il modello di apprendimento da lui proposto ed il mastery learning forniscono una possibile risposta alla necessità di rinnovamento della scuola richieste dalla società. L’epoca nella quale viviamo, infatti, è stata completamente ridisegnata a causa della globalizzazione dell’economia, della rivoluzione tecnologico- informatica, della pervasività dell’informazione che hanno decretato l’ingresso dell’umanità nel terzo 138 millennio, epoca all’insegna della complessità e del cambiamento permanente. La società che ne deriva si pone come ‘società della conoscenza’, nella quale è indispensabile la padronanza di un elevato livello di conoscenze per chiunque. Nella scuola, questa situazione si è tramutata in una vera e propria sfida per soddisfare le esigenze di una società caratterizzata da sviluppo tecnologico, economia immateriale e complessità sociale e culturale. L’insegnamento del passato ha ceduto il passo alla scolarizzazione di tutti in cui ognuno è riconosciuto nella sua peculiarità, superando la visione dell’alunno medio. La scuola non deve limitarsi a fornire solo la prima alfabetizzazione (attraverso l’acquisizione degli strumenti culturali basilari), ma allenare l’intelligenza creativa in modo da rendere gli uomini in grado di sapersi orientare e far fronte alle continue trasformazioni della società complessa e del progresso tecnologico, che richiedono un continuo aggiornamento e una riconversione professionale. La scuola, quindi, deve garantire uguaglianza di opportunità formative per assicurare a tutti parità di padronanza delle competenze basilari: tutti devono raggiungere certi livelli di conoscenze e abilità. È necessario un ‘insegnamento su misura’ di claparediana memoria che si ‘adatti’ alle caratteristiche cognitiva, socio-affettive e relazionali del singolo allievo. Pertanto ogni docente predisporrà procedure differenziate rispondenti alle caratteristiche individuali degli allievi, affermando il riconoscimento delle differenze e l’adattabilità dell’insegnamento. Interventi individualizzati devono compensare le difficoltà dei singoli allievi che ostacolano il raggiungimento di risultati positivi. E Bloom sembra proprio aver raccolto la sfida lanciata alla scuola attraverso le indicazioni fornite nell’opera appena analizzata, che, come abbiamo visto, a distanza di trent’anni dalla sua pubblicazione, risulta ancora oggi molto attuale.

7 Bloom ha elaborato una tassonomia degli obiettivi di apprendimento relativi all’area cognitiva, affettiva e psicomotoria, utile per la scelta delle attività necessarie per raggiungere i risultati attesi e delle prove che ne verifichino il raggiungimento, nonché degli strumenti metodologici di cui servirsi. Laura Corcione ‘Caratteristiche umane e apprendimento scolastico’ di Benjamin Samuel Bloom

Riferimenti bibliografici R. Fornaca, Didattica e tecnologie educative. Storia e testi, Milano 1985. B. Vertecchi, Le parole della scuola, Milano 2002. B. Vertecchi, Manuale di valutazione. Analisi degli apprendimenti e dei contesti, Milano 2003.

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MOSAICO V 2018 ISSN 2384-9738

Sul metodo Ørberg: analisi, critiche, ipotesi e prospettive

MICHELA FRETTA

Premesse

li studi di didattica, in merito alle lingue classiche, sono diventati, da un ventennio a questa parte, incredibilmente innovativi, considerando la prospettiva europeista e globalizzante in cui, più in generale, è indirizzata la formazione nella sua complessità. Le metodologie di studi e di approcci alle lingue antiche sono adesso molteplici e tutte tese a superare, se non smantellare, quanto già stabilito dalla obsoleta grammatica di Port Royal (1862)1, ovvero uno studio che procedesse per regole ed eccezioni alle regole, incastrando, talvolta, il ragionamento in schemi troppo restrittivi e strazianti. Recenti metodologie, come la grammatica valenziale o la grammatica generativo- trasformazionale, prevedono addirittura il superamento della casistica e una organizzazione decifrativa del periodo che orbiti intorno alle valenze verbali2 e alla ‘reggibilità’ complementativa del verbo in sé. Insomma, andava ucciso un padre ed è stato fatto. È innegabile che il superamento di questa fase, che un noto psicanalista ha definito come ‘Scuola-Edipo’3, è stato possibile grazie, e soprattutto, all’influenza che, in ambito di materie classiche, è pervenuta dallo studio e dalle metodologie per l’apprendimento delle lingue moderne, a noi contemporanee. Significativo è dunque un fatto: per quanto il latino e il greco siano lingue innegabilmente morte, ciò che è ancora vivo e vivido intorno a tali studi è la percezione che di essi si ha nel corso del tempo, e come siano in grado di crescere, arricchiti da sempre nuove conoscenze, maturate in materia linguistica. Per la serie, uccidere il padre va bene, purché tale atto sia funzionale all’affermazione di una nuova identità, maggiormente rappresentativa del proprio tempo. Lo studio è immancabilmente una reciprocità. In campo vengono schierate, sempre, almeno due soggettività: una espressa dalla materia studiata, l’altra da chi la studia. Sarebbe abominevole pensare che una delle due parti si sottomesse, in tutto, all’altra, in quanto la vera difficoltà dello studio è proprio trovare il giusto equilibrio, capire quanto ciò che si studia abbia ancora qualcosa da dire al presente. Per quanto paradossale, la situazione che si viene a creare è quella in cui delle lingue, le cui morti sono state appurate e certificate, sono ancora funzionali, non solo a contenere dei ragionamenti linguistici, quanto addirittura a farsi contenitori e portatori di ulteriori ragionamenti4.

1 La grammatica di Port Royal traeva i propri fondamenti dall’ambiente culturale positivista tedesco e rispondeva all’esigenza di ricercare un ‘metodo scientifico’ per l’insegnamento delle lingue classiche. Lo studio di tali discipline venne così formalizzato nel Metodo Grammaticale-Traduttivo (MGT), il cui fine ultimo non era tanto quello di formare lo studente alla cultura classica in sé, quanto educare una parte elitaria del tessuto sociale alla perseveranza e alla logica. Sulla base di tale metodologia sono state improntate le Riforme scolastiche di inizi XIX secolo: la Legge Casati (1859) i cui influssi si sono riversati financo nella Riforma Gentile (1923) e oltre. Oggi, si ritiene tale metodo fallito, ma è improprio parlare di un fallimento. Il metodo MGT rispondeva alle esigenze di formazione di una società che, ormai, non esiste più, pertanto non è il metodo in sé ad aver fallito, è la componente umana che lo praticava ad essersi evoluta. 2 Per una programmazione in latino, in chiave valenziale, è possibile far riferimento a F. Sabatini, Lezione di italiano. Grammatica, storia, buon uso, Milano, 2016. 3 Lo psicanalista in questione è Massimo Recalcati che così definisce la ‘Scuola-Edipo’: «È una Scuola che si fonda sulla potenza della tradizione, sull’autorità del Padre, sulla fedeltà al passato. (…) Nella Scuola-Edipo il sapere che viene trasmesso esprime una fedeltà cieca nei confronti dell’autorità del passato: l’idealizzazione assume la forma della conservazione che ripete lo Stesso. (…) Nella Scuola-Edipo l’insegnante si trova nel posto dell’autorità, è un sostituto del Padre, di una Legge fuori discussione. L’allievo, in quanto figlio, dev’essere appunto istruito e educato come fosse una carta da plasmare» (M. Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Torino 2014, 20-22). 4 Così, a riguardo, scrive Luciano Canfora: «Il greco e il latino non debbono essere insegnati in tutte le scuole, ma è necessario che coloro che, per naturale tendenza o per fortuna, sono portati a coltivare le lettere, o predisporsi a gustarle, trovino scuole in cui si possa rendere perfettamente padroni della letteratura antica ed essere penetrati interamente dal suo Michela Fretta Sul metodo Ørberg: analisi critiche, ipotesi e prospettive

Ciò è possibile proprio perché lingue morte5, il cui decesso segna per noi un grado aggiunto di congetturazioni, formulazioni, supposizioni che necessitano di continue conferme. In altre parole, lo studio del latino e del greco è ancora uno strumento validissimo di conoscenza perché permette, più di qualsiasi altro studio, di accedere all’astrazione. È la capacità di astrarre e, poi, di tradurre nel pratico tale astrazione che rende lo studio delle grammatiche antiche, ancora oggi, un esercizio validissimo per la formazione. Cimentarsi in tali studi significa formare competenze e abilità che vadano ben oltre una loro immediata spendibilità nel mondo della pratica. Significa guardare in prospettiva, investire nell’astratto. Imparare una lingua è il superamento del dedalo di conoscenze grammaticali, formulate attraverso delle regole, è capire di quale logicità quella lingua è portatrice6. Il principio, in base al quale parliamo, è lo stesso per tutti i tempi7: si parla, e si producono scritti, perché si ha esigenza di comunicare qualcosa. Ciò che cambia è la logicità con cui comunichiamo, una logica che varia sia sul piano diacronico, da era a era, sia sul piano sincronico, da lingua a lingua. Lo studio delle grammatiche antiche è lo studio, nello specifico, del punto di congiunzione di questi due assi: sincronia e diacronia; logicità ma, soprattutto, astrazione.

Da dove cominciare?

Da dove cominciare ad insegnare la grammatica latina e greca? È facile. Si deve cominciare dalla propria lingua madre, l’italiano. È da considerarsi un errore gravissimo avere la pretesa di imparare una lingua, morta o viva che sia, e dimenticare, o sforzarsi di ignorare, la logicità della propria grammatica. Proprio perché lo studio è sempre un incontro, le conoscenze della propria lingua materna, o lingua di partenza, facilitano quella fase di metalinguaggio che è indispensabile per accedere alla conoscenza della lingua che si vuole imparare, o lingua di arrivo. Questo principio è valido anche per le lingue antiche. Quanto 141

ai dati aggiunti di cui il latino e il greco sono portatori, vale a dire l’astrazione, la diacronia e il non essere più parlati, queste sono qualità che non possono essere ignorate, e nemmeno cambiate. Tuttavia, adeguatamente presentati, usufruendo delle adeguate metodologie, essi possono rappresentare, addirittura, valori aggiunti. E qui si arriva alla domanda da un milione di dollari. Qual è la giusta metodologia da adoperare per insegnare il latino e il greco, senza correre il rischio di alienare gli studenti in uno studio costipante e fin troppo avvilente? La risposta è una. Nessuna. Se c’è una verità che gli studi umanistici hanno appreso dalla propria fase edipica è che la ricostruzione di un modello spirito. Poche università eccellenti varrebbero meglio per raggiungere lo scopo di una moltitudine di cattivi collegi o di studi superflui che si compiono malamente impedendo di fare bene gli studi necessari». (L. Canfora, Noi e gli antichi, perché lo studio dei Greci e dei romani giova all’intelligenza dei moderni, Milano 2017, 24). 5 Il metodo Ørberg, a tal proposito, nel voler insistere su un latino e un greco vivi, mette in evidenza una contraddizione eclatante, rinnegata dai fatti. «Non si imparano il latino e greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si imparano per conoscere direttamente la civiltà di due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere sé stessi e conoscere sé stessi consapevolmente. (…) Li si analizza come una cosa morta, è vero, ma ogni analisi da un fanciullo non può essere che su cose morte; d’altronde non bisogna dimenticare che dove questo studio non avviene in queste forme, la vita dei romani e dei greci è un mito che in una certa misura ha già interessato il fanciullo e lo interessa, sicché nel morto è sempre presente un più grande vivente. Eppoi: la lingua, tutta, è morta, è analizzata come una cosa inerte, come un cadavere sul tavolo anatomico, ma rivive continuamente negli esempi, nelle narrazioni» (A. Gramsci, Gli intellettuali, Roma, 1975, 142-143). 6 Nel caso delle lingue classiche, la logicità va ovviamente calata in contesti maggiormente astrattivi: «Il latino si presenta (come il greco) alla fantasia come un mito, anche per l’insegnante. Il latino non si studia per imparare il latino; il latino, da molto tempo, per una tradizione culturale-scolastica di cui si potrebbe ricercare l’origine e lo sviluppo, si studia come elemento di un ideale programma scolastico, elemento che riassume e soddisfa tutta una serie di esigenze pedagogiche e psicologiche; si studia per abituare i fanciulli a studiare in un determinato modo (…), per abituarli a ragionare, ad astrarre schematicamente pur essendo capaci dall’astrazione a ricalarsi nella vita reale immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di particolare, il concetto e l’individuo» (A. Gramsci, Gli intellettuali, op. cit., 143). 7 Questo concetto è approfondito, specificamente per le lingue indoeuropee, da F. Villar, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa. Le vie della civiltà, Bologna, 2004. Michela Fretta Sul metodo Ørberg: analisi critiche, ipotesi e prospettive

portante rappresenta solo la rigenerazione del padre, figura che abbiamo già ucciso, non senza difficoltà. Abbiamo imparato che guardare al passato degli studi classici e intendere quel passato come la mitica età dell’oro – per la serie si studiava di gran lunga meglio prima – rappresenta un errore, per giunta grossolano, se non fosse per il fatto che questa aurea età degli studi classici non è ascrivibile con precisione a nessuna epoca. Nei fatti non esiste. In merito ai rischi che gli studi umanistici correrebbero nel caso si venisse a rigenerare un padre, ebbene quelli sono già, tristemente, noti alla storia. Uno su tutti: l’intendere la conoscenza della classicità come elemento fortemente identitario, in senso nazionalistico, e costruire intorno ad essa valori, del tutto aleatori, che caratterizzano una determinata classe sociale8. Insomma, confondere il classismo con il classicismo. Tali errori sono stati già percorsi e non senza conseguenze: in particolare, lo studio del latino, dagli anni ’70 in poi9, poiché politicamente caricato di un valore classista, è stato bistrattato e ideologicamente denigrato. Gli sforzi per ripristinarne uno studio, storicamente calato in contesti che gli sono più propri, non sono stati pochi e non sempre hanno avuto una linearità. Le recenti riforme del mondo della scuola, miranti ad un adeguamento dei programmi ministeriali e della formazione in senso europeista, hanno indotto un ripensamento degli studi delle antichità, più massicciamente colpiti dalla crisi di saperi e conoscenze. Anche senza consultare i dati10, ad occhio, è risaputo che i licei classici, o gli istituti di grado secondario con insegnamento del latino, o le facoltà umanistiche, in generale, tendono a non essere più scelte dagli studenti e accuratamente scartate. La dialettica sottesa, che si cela dietro una tale scelta, è, in realtà, da ricercarsi nel nuovo linguaggio maturato intorno ai saperi: essi devono avere obiettivi specifici, far emergere determinate competenze, mirare ad una specifica formazione, essere spendibili nel mondo del lavoro. A cosa serve studiare grammatiche, per giunta molto pretenziose, se quelle lingue non sono neanche parlate? E a nulla vale rispondere alla solita - «servono a ragionare» - perché il ragionamento è insito in qualsivoglia disciplina e, ragionamento per ragionamento, tanto vale ragionare su di un 142

qualcosa il cui riscontro è più facilmente appurabile. Il dato innegabile è che gli studi classici non sono funzionali all’attuale richiesta di formazione del rinnovato contesto lavorativo. Da qui la crisi. Quale soluzione? L’atteggiamento immediato, di chi brancola nel buio, è quello di riguardarsi indietro, ma, sfatato il mito di un inesistente passato glorioso, ucciso definitivamente il padre, ciò che resta è lo sguardo in avanti, il tendere verso un’altra sponda. Il superamento di una crisi avviene, nei migliori dei modi, solo se si avanza sulla fase che si vive una riflessione che sia quanto mai sincera, aderente alla

8 La classicità, intesa come scelta di studi contrapposta agli Istituti professionali, era l’unica via per avere accesso all’Università e, quindi, unica garanzia per un’ascesa sociale. Pertanto, essa era appannaggio di una sola classe sociale, quella dirigenziale. A riguardo, così si esprimeva Antonio Gramsci: «L’aspetto più paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetrare le differenze sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi» (A. Gramsci, Gli intellettuali, op. cit., 145). 9 Nei fatti la Scuola che ereditiamo oggi non è quella degli inizi del XIX secolo, quanto quella figlia degli anni ’70. Insieme agli studi pedagogici condotti in quegli anni, il ripensamento di una istituzione scolastica venne accompagnato da principi ideologici molto validi: una democratizzazione dei saperi; l’apertura delle Università anche a chi non avesse un percorso classico; il principio che la scuola divenisse un luogo di formazione, piuttosto che di selezione. Questa trasformazione radicale è stato il frutto di una vera è propria lotta del vecchio contro il nuovo, uno scontro generazionale tra figli contro i padri. Sul tavolo degli imputati andò, chiaramente, lo studio del latino che venne estromesso dalle scuole medie a favore di un percorso di studi uniformato e che preparasse alle scuole secondarie a prescindere dalla scelta di indirizzo che si sarebbe fatta. È uso comune voler cercare, per forza, un memento in cui gli studi classici sono entrati in crisi e, di solito, si addita questo, ponendo come contraltare della democratizzazione dei saperi la rinuncia alla meritocrazia. È un falso storico. Semplicemente, la società era cambiata di nuovo e con essa cambiava l’Istituzione scolastica. I cambiamenti sono naturali, addirittura necessari. I problemi subentrano quando una Istituzione si ostina a non tenerne conto o, peggio, non riesce a interpretarli. Cfr. Il mago smagato. Come cambiare la condizione paradossale dello psicologo nella scuola, a cura di M. Selvini Palazzoli, Milano 1976. 10 Volendo assumere il Liceo Classico come punto di riferimento, gli iscritti oscillano dal 6,1% del 2016 al 6,6% del 2017. Si registra una timida crescita, per quanto le cifre restino ancora basse. Fonte Il Corriere della Sera, 18 gennaio 2018. Michela Fretta Sul metodo Ørberg: analisi critiche, ipotesi e prospettive

realtà dei fatti. Chiamerei questa fase di meta-didattica e lo sperimentalismo11 che ne deriva altro non è che una sua conseguenza. Nell’attuale fase, che il sempre noto psicanalista ha chiamato ‘Scuola- Telemaco’12, le metodologie adoperate sono state varie e variegate, ma esse restano allo stadio sperimentale e dato il decorso dalla loro introduzione, ad oggi, nessun metodo può definirsi scientificamente13 riuscito, o fallito. Per cui, chi protende per una metodologia piuttosto che un’altra non può dire di essere riuscito o di aver fallito, può solo affermare di aver sperimento. Lo sperimentalismo, così come il libero esercizio di un’arte14, qual è l’insegnamento, sono risorse inesauribili per una innovazione, continua, imperitura, assolutamente necessaria. In tal senso, piuttosto che formare docenti che riproducano una metodologia in modo meccanico e finiscano per incastrare sé stessi nella medesima costipazione che abbiamo deciso di superare, ciascun docente dovrebbe invece cercare lo ‘stile’ di insegnamento che gli è proprio, quel canale comunicativo con il quale riesce ad entrare maggiormente in contatto con i propri studenti. Pertanto, è necessario conoscere tutti i metodi d’insegnamento del latino e del greco non per giungere a sceglierne uno piuttosto che un altro, ma per contaminarli. Non un metodo, ma una mistura di metodi che facciano del docente, di ciascun docente, una figura unica, irripetibile, indimenticabile.

Sul metodo Ørberg

Veniamo al metodo in questione. In base al ragionamento fin qui condotto, una riflessione su tale metodo procederà seguendo pochi, semplici, criteri: la propria soggettività e la sensibilità che lo studio

11 Per sperimentalismo si voglia intendere non solo la ricerca di una nuova metodologia per l’insegnamento del latino e del

greco, quanto il trasformismo a cui è sottoposta la Scuola in generale. In questo senso, vanno ad essere intese in senso 143 sperimentale tutte le curvature o i diversi indirizzi che stanno assumendo e diversificando, talvolta notevolmente, i diversi percorsi di studi. Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che la riuscita di queste esperienze sperimentali non viene misurata in base ad una concreta formazione dello studente, quanto sul numero degli iscritti: se l’indirizzo o la curvatura ha portato iscrizioni all’Istituto, l’esperimento ha funzionato! «La scuola tradizionale è stata oligarchica perché destinata alla nuova generazione dei gruppi dirigenti, destinata a sua volta a diventare dirigente: non era oligarchica per il suo insegnamento. (…) Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria che conduca il giovane fino alla soglia di una propria scelta, formandolo nel frattempo come persona capace di pensare, di studiare, di dirigere, o di controllare chi dirige» (A. Gramsci, Gli intellettuali, op. cit., 145). 12 Sempre Massimo Recalcati, a proposito della ‘Scuola-Telemaco’, scrive: «La crisi che attraversa attualmente il rapporto tra le generazioni non risponde più alla logica conflittuale e ambivalente tipica del complesso edipico per la semplice ragione che sono venuti meno gli adulti come rappresentanti della Legge simbolica della castrazione. Di conseguenza non è più il conflitto che attraversa la differenza tra le generazioni ma un’inedita confusione generazionale che surroga ogni possibile conflitto e confonde figli e genitori in una sola melassa indistinta. (…) Il disagio dei nostri figli non è più incentrato sull’antagonismo tra le generazioni, ma sulla perdita della differenza e, dunque, sull’assenza di adulti in grado di esercitare funzioni educative e di costruire quell’alterità che rende possibile l’urto alla base di ogni processo di formazione. (…) Per questa ragione occorre che gli insegnanti - senza bisogno di trasformarsi in psicoterapeuti – provino a tradurre l’iperattività o il deficit di apprendimento, la noia o la frivolezza senza responsabilità, come se fossero interrogazioni inconsce rivolte al sapere, rivolte all’Altro incarnato dall’ insegnante.(…) Il figlio-Telemaco non vuole la pelle del padre, né si limita a contemplare la propria immagine, ma esige che ci si liberi delle pulsioni incestuose incarnate dai Proci in vista di un nuovo patto tra le generazioni» (M. Recalcati, L’ora, op. cit., 32-34). 13 L’attendibilità di un modello didattico è data dal proprio successo, ma dopo quanto tempo è possibile decretare la sua riuscita? Questa domanda non ha un facile risposta. Possiamo, tuttavia, avanzare congetture rivolgendo intorno lo sguardo. Nella seconda metà del secolo scorso, negli Stati Uniti d’America, si applicava all’istruzione il principio imprenditoriale imposto dal modello economico neoliberista. Questo modello, oggi, si può apertamente dichiarare fallito. Il tempo intercorso tra l’assunzione di quel modello e la presa di coscienza del suo fallimento è stata di poco più di mezzo secolo. Cfr. A. Angelucci, ‘La valutazione negli Stati Uniti d’America: storia di un fallimento’, intervento al Convegno Educare alla critica: quale valutazione?, Roma 2013. I lavori del Convegno sono reperibili on-line al link: https://www.roars.it/online/la- valutazione-negli-stati-uniti-damerica-storia-di-un-fallimento/ 14 Il riferimento è all’art. 33 della Costituzione: «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato». Michela Fretta Sul metodo Ørberg: analisi critiche, ipotesi e prospettive

di tali materie hanno maturato in me nel tempo. Il mio pensiero non vuole assurgersi ad oggettivo o ad un universale. Sono una docente giovane, ancora precaria, per giunta inesperta. Non posso cambiare la mia condizione, ma posso far sì che essa dia un adeguato contributo alla fase. Il metodo Ørberg è un innegabile esempio di quanto i moderni studi di apprendimento di lingue L2 abbiano piacevolmente influenzato gli studi classici, svecchiandoli e, soprattutto, arricchendoli. Alcune teorie, avanzate dallo studioso e linguista danese, sono davvero interessanti: i giochi di parole in lingua; una prima interpretazione, tutta visiva e congetturale, del testo antico; il non cimentarsi nell’immediato nella tanto odiata traduzione; il far procedere lo studio dei lessemi coadiuvandosi di immagini; l’atteggiamento euristico e partecipativo con cui far evolvere lo studio15. Sono tutti tratti che, sicuramente, vorrei venissero a delineare il mio profilo di docente. Non gli unici. Includerei anche concetti valenziali circa i verbi e mirerei al superamento di una analisi che sia troppo aderente all’analisi logica. Non mi sentirei di eliminare la casistica o lo studio delle declinazioni, né di ridurre il paradigma a delle voci essenziali. Lo studio mnemonico16 – che non equivale alla sterile memorizzazione di dati privi di significato – per quanto demonizzato, resta forse il più grande contributo che la tradizione di questi studi ci ha lasciato, ancora un esercizio validissimo. Non è necessario gettare l’acqua sporca con tutto il bambino e nessuno ci obbliga a farlo. Promuoverei, inoltre, uno studio dei classici che parta dai testi e manifesto, apertamente, profonde scetticità circa l’apprendimento tramite l’ascolto. Il listening comprehension, promosso dal danese Ørberg, manifesta dei limiti indiscutibili. La pronuncia dei testi antichi – anche se per il latino il metodo sceglie la recusata – varia da nazione a nazione, non risponde a esigenze europeiste come, d’altronde, tutte le altre pronunce, anche quelle delle metodologie più aderenti alla tradizione. La differenza è che le altre metodologie non si basano su una esclusività dell’ascolto, come il metodo Ørberg professa. Sperimentalismo per sperimentalismo, tanto vale non precludersi nulla. Inoltre, il dato oggettivo è che i testi antichi sono giunti fino a noi solo scritti. Abbiamo notizie circa il fatto che 144

fossero innegabilmente destinati all’ascolto e che il canale comunicativo privilegiato fosse quello orale, tuttavia ciò che ci resta di questa oralità è, esclusivamente, una trasposizione, letterariamente concepita, in forma scritta. Che studio sarebbe il rivolgere la propria attenzione ad un qualcosa considerandolo per ciò che esso non è? Il latino e il greco non sono lingue parlate, non sono lingue vive e non vanno studiate come se lo fossero. Esse trovano oralità solo nelle congetture che su queste lingue sono state fatte nel corso degli studi successivi, ma restano, essenzialmente, lingue pervenuteci per iscritto e che vanno studiate a partire dai testi scritti. Inoltre, uno studio in tal senso andrebbe a formare degli ottimi parlanti, in lingua latina e greca, che, però, non parlerebbero le lingue apprese in nessuna parte del mondo. Penso che ciò sia veramente una prospettiva frustrante da dare agli studenti. Nel mio, ripeto, personale profilo di insegnante, includerei tuttavia le attività euristiche – gli indovinelli in latino, il porsi domande in lingua…- ma a latere di una diversa didattica che lavori maggiormente sui testi e che adoperi sin da subito il vocabolario come necessario e autorevole strumento per la comprensione delle lingue antiche. Forse, l’uso del vocabolario, posticipato al secondo quadrimestre del secondo anno di studi, è ciò che maggiormente colpisce del metodo Ørberg. Una pugnalata dritta al cuore di una tradizione secolare, che concepiva lo studio dei classici come uno studio da doversi fare al chiuso, su di un piano, col testo sotto il naso e il vocabolario alla mano, senza possibilità di uscire, senza poter in alcun modo collaborare. Gli adolescenti italiani erano, e in gran parte restano, gli unici che studiano latino e greco dal liceo, ancora gli unici che lo abbiano fatto in modo così sistematico. Ho studiato

15 I contenuti del metodo Ørberg tenuti in considerazioni sono quelli di Metodo Ørberg: vademecum, a cura di S. Arizzi, CESP Campania, 2017, sotto gli auspici dell’Accademia Vivarium Novum. 16 Sull’importanza del ruolo della memoria, specie nell’apprendimento di una lingua, e sulla rilevanza della capacità di ricordare, cfr. M. Cadorna, Il ruolo nella memoria nell’apprendimento delle lingue. Una prospettiva glottodidattica, Torino 2010. Michela Fretta Sul metodo Ørberg: analisi critiche, ipotesi e prospettive

all’estero17 e posso affermare, per esperienza empirica, che le conoscenze testuali che si maturano tra i licei e i corsi di laurea universitari italiani potrebbero fare scuola in Europa, o nel mondo. Non è orgoglio nazionale, non è un voler rigenerare il padre. È un fatto, ed è da tale fatto che sono convinta che, oltre a interrogativi metodologici, noi docenti dovremmo porci anche un’altra domanda: di questa unicità, dell’eredità lasciataci dal padre, cosa ne vogliamo fare? A mio avviso, le critiche mosse al metodo Ørberg non sono corrette. Una su tutte: quella di banalizzare troppo lo studio del latino. È una critica ipocrita perché, data l’attuale riduzione delle ore settimanali destinate al latino18, anche seguendo metodologie tradizionali lo studio di tale disciplina è stato, di fatto, banalizzato, ridotto alla sola letteratura nei trienni di indirizzi non classici. Il metodo promuove l’utilizzo di una grammatica romanzata, lo storytelling, in grado di mediare l’apprendimento seguendo le vicende di un personaggio inventato. Tale innovazione è già stata sperimentata per l’insegnamento di lingue L2, dove l’apprendimento trova una ricaduta pratica e immediata in una comunicazione in lingua e lo studente è in grado, sin da subito, di tastare con mano i propri risultati o, viceversa, provvedere a correggersi, superando addirittura il livello iniziale di conoscenze. C’è, dunque, una differenza sostanziale: all’apprendimento di una lingua L2 segue un praticare quella lingua, il parlarla; all’apprendimento del latino e il greco consegue, immancabilmente, un incontro con i soli testi, una intensa attività filologica che, se non ben metabolizzata, comporta profondo scoraggiamento. Inoltre, il personaggio inventato sarebbe collocabile in una epoca precisa della classicità perché di certo non potrebbe vivere tutte le ere del mondo antico. Questo è un forte limite che viene inflitto allo studio delle antichità, verrebbe a decadere un valore essenziale, forse il più grande in assoluto: il senso della diacronia, la percezione che anche le lingue antiche sono cambiate nel corso della propria vita, la visione d’assieme di contesti ampi e che, proprio perché passati, si prestano ad analisi complessive. Ma le domande sono altre: perché questa corsa disperata nel cercare di alleggerire l’approccio alle conoscenze grammaticali? Come mai 145

questi interrogativi arrivano solo ora? I contesti istituzionali in cui i saperi sono calati influenzano le riflessioni? È indiscutibile, e non dobbiamo mettere la testa sotto la sabbia, che la crisi di domanda d’iscrizioni, per i licei classici o indirizzi che prevedano il latino, ha pesato enormemente, specie considerando il profilo manageriale19 che ha assunto l’istituzione scolastica. Così come è innegabile che, nella corsa ai ripari, si sia cercato di soddisfare, se non di compiacere, una certa domanda di formazione che escludesse lo studio del latino o lo rendesse più soft. In questa nuova fase, che è stata definita “Scuola-Narciso”20, si è più tesi a sopravvivere ad uno spietato meccanismo di domanda-offerta e, nello

17 Appartengo alla generazione nota come ‘generazione-Erasmus’ e, a cavallo delle annualità 2011-2012, ho avuto modo di studiare in Francia, a Toulouse, presso l’Université Le Mirail. Essendo la mia una esperienza generazionale, è chiaro che le riflessioni avanzate possono essere generalizzabili. 18 Nel 2010, la Riforma Gelmini ridusse considerevolmente le ore di studio del latino (ma anche della storia e della geografia), passandole da cinque ad appena tre per i Licei Scientifici, a due per i Licei Linguistici, a tre per i Licei Artistici. Rimasero cinque solo per i Licei Classici a scapito di una riduzione delle ore di italiano e storia. Cfr. La Repubblica, 5 febbraio 2010. 19 Dalla fine degli anni ’90, fino ad oggi, è stato innescato un processo riformista ai danni dell’Istituzione scolastica di cui La Buona Scuola (2015) costituisce solo l’ultimo tassello. La scia delle riforme, tutte condotte in modo centellinato nel tempo, in modo da far perdere le tracce della propria direttrice, mirano a calibrare la Scuola italiana non su di un profilo europeo, quanto piuttosto su una politica-economica di stampo neoliberale, avviando processi di privatizzazione e parlando un linguaggio articolato in debiti, crediti, esperienze di lavoro ecc.. Il dato assurdo è che, in questo modo, a distanza di poco meno di mezzo secolo, si viene a riproporre un modello simile a quello americano quando, anche in America, si sta cercando di tornare indietro, in quanto si è reso chiaro che esso non funziona. Cfr. A. Angelucci, ‘La valutazione’, art. cit.. 20 Ancora Recalcati sulla ‘Scuola-Narciso’: «Se la tragedia di Edipo è la tragedia del conflitto con la Legge, del conflitto con il Padre, del conflitto dei figli con i padri, del conflitto tra le generazioni, quella di Narciso è la tragedia tutta egoica del perdersi nella propria immagine, del mondo ridotto a immagine del proprio Io. (…) Questo passaggio dalla conflittualità alla specularità (…) coincide con il passaggio dalla connotazione solidamente gerarchica che caratterizza la Scuola-Edipo all’orizzontalità liquida della Scuola-Narciso, dove è sempre più difficile reperire la differenziazione simbolica dei ruoli. Sullo sfondo, lo sfaldamento del patto generazionale tra insegnanti e genitori. Questo patto si è rotto a causa della collusione tra il Michela Fretta Sul metodo Ørberg: analisi critiche, ipotesi e prospettive

sconforto delle incertezza, l’assunzione di un metodo appare la terra promessa. Tuttavia, è adesso che siamo in crisi, che viviamo la frattura profonda di una parte dall’altra, nella piega increspata che ha rotto una continuità, che dovremmo interrompere la corsa ai ripari e cercare di promuovere, non solo una riforma metodologica in sé, ma una riforma complessiva, coraggiosa, dell’intero sistema scolastico italiano. In che modo? Talvolta la soluzione è dietro il dito, esattamente quello che ci indica il cielo. Se smettiamo di guardare il dito, vale a dire al metodo Ørberg, e guardiamo il cielo, ovvero il sistema scolastico danese che ha formato il noto linguista, forse delle soluzioni ci vengono prospettate. Nel mio guardare al cielo ho voluto contattare e intervistare due studentesse italiane che attualmente vivono e studiano in Danimarca: Shera di Vetta, che sin dall’infanzia ha studiato a Copenaghen, e Sara D’Amico, trasferitasi in Danimarca dopo la laurea triennale conseguita in Italia.

Shera di Vetta, come è organizzato il sistema scolastico danese? La scuola dell’obbligo, in Danimarca, dura in tutto nove anni. A questi seguono tre anni, che corrisponderebbero alle scuole superiori italiane, che sono facoltativi e prevedono una scelta di indirizzo. Durante questo percorso di studi, c’è una continuità didattica o i docenti cambiano anno dopo anno? Sono sempre gli stessi insegnanti. Per esempio, il danese è una materia che si studia per tutti e tre gli anni e l’insegnante è sempre lo stesso. È previsto un indirizzo che abbia il latino e il greco come materie caratterizzanti? Sì, è possibile scegliere latino e greco al ‘livello A’. Il ventaglio di scelte va da un ‘livello A’ ad un ‘livello C’, se si sceglie il ramo linguistico, ed il ‘livello A’ è l’unico che prevede lo studio del greco.

Ed è scelto dagli studenti? 146

Sì, come anche gli altri livelli. Non c’è molto stress nel compiere la scelta di indirizzo. Perché? Non sono comunque studi che comportano spese per le famiglie? Assolutamente no. L’istruzione danese è completamente spesata dallo Stato. E come si diventa insegnanti in Danimarca? È necessario conseguire la laurea, chiaramente, e poi frequentare un corso di pedagogia che dura un anno. Tutto qui? Tutto qui. Sara D’Amico, a livello Universitario? Come funzionano le cose? Bene. La scelta della Facoltà Universitaria in Danimarca è vissuta con leggerezza, perché il Welfare scolastico è eccezionale. In che senso? I costi dell’Università sono sostenuti dal Governo, anche i libri di testo e il materiale didattico. Tutto è fornito gratuitamente durante i corsi. Sì, ma vivere in Danimarca avrà sicuramente un costo? Certo che ha un costo, ma gli studenti danesi, dai 18 anni in poi, ricevono uno stipendio mensile fino a che non finiscono gli studi. Cioè gli studenti sono stipendiati? E a quanto ammonta lo stipendio? Neanche io potevo crederci quando sono venuta a studiare qui. Lo stipendio si chiama SU (Statens Uddannelsesstøtte) ed ammonta a circa 800 nostri. Considera che, da studente, io vivevo in Italia con molto meno, quindi per me sono sufficienti, ma molti danesi si lamentano perché pochi. Ma, se stipendiati, durante gli anni universitari non si possono fare esperienze lavorative?

narcisismo dei figli e quello dei genitori. I genitori si alleano con i figli e lasciano gli insegnanti nella più totale solitudine» (M. Recalcati, L’ora, op. cit., 24-25). Michela Fretta Sul metodo Ørberg: analisi critiche, ipotesi e prospettive

Certo che si può. Da studente, puoi stipulare un qualsivoglia contratto lavorativo, fino a 12 ore di lavoro, senza perdere il sussidio. Sarebbero soldi che si vanno ad aggiungere al SU del quale si gode fin tanto che si studia, per un massimo di dieci anni. La Facoltà di studi a indirizzo classico è scelta in Danimarca? Sì, ma la scelta della Facoltà, in Danimarca, segue le propensioni degli studenti e non c’è paura di sbagliare, perché si è maggiormente tutelati a livello governativo. In che senso scusa? A prescindere dalla scelta compiuta, finiti gli studi puoi beneficiare di due anni di disoccupazione. Prima erano, addirittura, quattro. Ora stanno riducendo un po’ le cose. Ma, secondo te, questo sistema garantista funziona? Certo che funziona, e anche bene. Durante i dieci anni di SU puoi studiare quanto vuoi e prendere anche più lauree. Infatti, la media dei laureati danesi è la più alta in Europa. Grazie.

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MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

Impastiche

ALBERTO DI RONZA – DARIO FORMICOLA – ROBERTO MADONNA

PERSONAGGI La Pizia Un Messaggero Tre Inquisitori Una Prigioniera Il re Creso Un Detective Una Vedova Il Cardinale Tomás de Torquemada Tre Complottisti Federico Ruysch Tre autori (Alberto, Dario, Roberto) [Tela] [SCENA: un tavolo ingombro di utensili da cucina (tra cui una frusta, una scodella e un cartone di uova). In scena la grande sacerdotessa di Apollo, la Pizia. Indossa un grembiule da cucina sporco, delle vecchie pantofole e dei guanti gommati da cucina, parla con cadenza meridionale] La PIZIA è intenta a montare un uovo con una frusta dentro una ciotola. Entra in scena il MESSAGGERO. MESSAGGERO: Oh Pizia! Potente profetessa di Apollo! Detentrice dei misteri del futuro! Tu, che schiudi agli uomini le porte del fato! Tu, vaticinio del dio. Tu, che risiedi nel sacro recinto di Delfi! In nome del potente re Creso che mi manda, il più felice tra gli uomini della Terra, donami il presagio. Sono venuto dal lontano oriente per chiederti se sia saggio per Creso intraprendere una spedizione contro i Persiani. La Pizia infila entrambe le mani nella ciotola e dopo aver smosso il contenuto porta le mani al cielo. Poi scrolla le mani e si toglie i guanti. PIZIA [scocciata]: Se muoverà guerra contro i Persiani, cadrà un grande impero. MESSAGGERO: Questo è dunque il tuo albumeo responso. Porterò la tua risposta al grande re Creso, e tu ricorderai che egli è il più grande dei re, e tra tutti gli uomini il più ricco e il più potente, il più illustre e felice, il più nobile e bellissimo, altissimo, onnipotente signore, sibaritico, sardanapalesco, granoblastico, bustrofedico.

 Il presente testo teatrale ha ottenuto il premio nella sezione Spulciando come migliore proposta alla XXI° Edizione della Rassegna Nazionale PulciNellaMente, Sant’Arpino (Na), teatro Lendi, 4 maggio 2019 (ndr).

Alberto Di Ronza – Dario Formicola – Roberto Madonna Impastique

PIZIA: Sì, sì. [Gli fa segno di andarsene] Il MESSAGGERO esce. Si sentono le grida di una giovane donna. Entrano sul palco tre inquisitori che scortano una ragazza, loro prigioniera. Due degli inquisitori la conducono tenendola per le braccia. Il terzo procede affannosamente più indietro, portando con sé una sedia ed una scatola con degli ‘strumenti’ (che consistono in un cacciavite, una tenaglia, un coltello da cucina, una piuma, un pollo di gomma). Poggiata la sedia, gli inquisitori vi gettano la ragazza, facendo finta di legarla con un laccio. Durante tutti questi avvenimenti, la Pizia è in disparte e del tutto indifferente [IN SCENA: La PIZIA, i tre INQUISITORI, la PRIGIONIERA] INQUISITORE 1: In nome del Tribunale della Santa Inquisizione, per aver cospirato nel pensiero e nelle opere contro la Madre Chiesa di Roma, se ha qualcosa da confessare parli ora oppure in eterno bruci all’Inferno. [S’interrompe in attesa di una risposta]. Come si dichiara l’imputata? PRIGIONIERA: Pietà! Sono innocente! Innocente! I tre inquisitori si guardano e ridono INQUISITORE 2 [ridendo]: È divertente perché è vero! L’INQUISITORE 1 si fa serio e allunga un ceffone all’INQUISITORE 2 INQUISITORE 1: Menzognera! È una strega! INQUISITORE 2 e 3 e PIZIA: Una strega! Una strega!

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INQUISITORE 1: Inizi l’inquisizione! L’INQUISITORE 2 prende la scatola degli strumenti di tortura e li estrae uno ad uno agitandoli davanti alla PRIGIONIERA, che emette un grido di terrore per ogni attrezzo. INQUISITORE 2 [rivolgendosi all’INQUISITORE 1]: A lei l’onore. L’INQUISITORE 1 si avvicina con fare minaccioso alla PRIGIONIERA, che continua a strillare. INQUISITORE 1: Ti ho preso il nasino! PRIGIONIERA [in preda alla disperazione]: No! Ridammelo! Il mio naso! L’INQUISITORE 1 si allontana con il nasino della PRIGIONIERA, che si dimena per recuperarlo, muovendo le braccia senza alzarsi dalla sedia. PIZIA: Ma non l’avevano legata? Gli INQUISITORI e la PRIGIONIERA si voltano verso la PIZIA. INQUISITORE 1 [con tono perentorio]: Chi è lei e cosa ci fa qui? PIZIA: Beh, veramente qui ci lavoro. Entra in scena il MESSAGGERO MESSAGGERO: La Pizia! Potente profetessa di Apollo! Detentrice dei misteri del futuro! Tu, che schiudi agli uomini le porte del fato! Tu, vaticinio del dio. Tu, che risiedi nel sacro recinto di Delfi!... INQUISITORI: È una strega! Una strega!

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PIZIA: Ma che strega e strega. INQUISITORE 1: Negate di occuparvi di astrologia, divinazione, chiromanzia, oniromanzia, aruspicina, rabdomanzia, cartomanzia, caffeomanzia, ovomanzia, colonscopia e altre pratiche per prevedere il futuro? PIZIA: Certo che no, è il mio lavoro. INQUISITORE 1 [a INQUISITORI 2 e 3]: Strega. È una strega. Legatela. Gli INQUISITORI 2 e 3 si avvicinano alla PIZIA ma vengono interrotti dall’ingresso di CRESO, re dei Lidi. MESSAGGERO: Prosternatevi e ammirate! Re Creso, figlio di Aliatte II, quinto sovrano della dinastia dei Mermnadi, signore dei popoli stanziati al di qua del fiume Alis, unico re dei Lidi, dei Frigi, dei Misi, dei Mariandini, dei Paflagoni, degli Ioni e dei Traci, tanto Tini che Bitini. [Pausa breve, cambio brusco di tono che si fa da solenne a frivolo] Ma è nuovo questo vestitino? Ti dona un sacco. CRESO tace sdegnosamente e guarda con aristocratico disprezzo il MESSAGGERO. CRESO: Tu! [Pausa. Si volta contrariato verso il MESSAGGERO] [A voce bassa] Indica. Forza, indica. Il MESSAGGERO si avvicina a CRESO, gli prende un braccio e lo tiene puntato contro la Pizia. CRESO: Saresti tu dunque la Pizia? PIZIA: Pare di sì.

CRESO: I morti del mio regno sono sulle tue spalle, ed i pianti delle mogli vedove dei teneri amanti, ed 150

i pargoli orfani che dimenticheranno il volto dei loro padri. Questo è il bilancio di sciagura della guerra che tu hai generato. PIZIA: Senti, senti. E quando mai io avrei organizzato una guerra? CRESO: Quando io ti chiesi se fosse saggio organizzare una spedizione contro i Persiani, tu rispondesti che il loro impero sarebbe caduto. Fu grande l’entusiasmo nel consiglio di guerra quando riferimmo la notizia che avremmo vinto. La battaglia dell’Alis portò per noi solo seccature e morte, e l’inverno stava arrivando. Ritirammo allora il nostro esercito, ma fu troppo tardi. I Persiani ci inseguirono e sferrarono un altro attacco, metà dei miei soldati trucidati in battaglia, l’altra metà sterminata dal gelo. I Persiani proseguirono. Raggiunsero la mia capitale, la vinsero e la espugnarono. Tutto il vasto regno di Lidia reso prigioniero, per merito della grande sacerdotessa di Apollo, la Pizia. PIZIA: Eccone un altro. [La PIZIA prende un uovo dal cartone delle uova e lo mostra a CRESO, restando ferma alcuni istanti]. Lo sai che cos’è questo qua? CRESO: È un uovo, strega. Non prenderti gioco del mio dolore. PIZIA: Bravo, sì. È un uovo. Sai come ho predetto la tua vittoria? Così, guarda. [La PIZIA rompe l’uovo e lo versa nella ciotola]. E sai quali sono state le mie esatte parole, quando mandasti il tuo messaggero? La PIZIA si ferma, come per far intervenire CRESO, che tace umiliato PIZIA [Continuando, con finto tono solenne]: Se muoverà guerra contro i Persiani, cadrà un grande impero. Ebbene, pare che questo impero fosse il tuo. Lo sai come si predice il futuro? CRESO: La tua è l’arte di Apollo.

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PIZIA: Più che Apollo, della gallina. Lo sai che questo è solo un uovo? Io il futuro non l’ho mai letto, già è assai se leggo qualche settimanale ogni tanto. Si legge quello che c’è scritto nel cuore degli uomini, e in quello non si sbaglia mai. E lo sai perché? Tutti quanti cercano un alibi per fare quello che vogliono. Volevi distruggere l’impero di Persia, fare schiavi dei Persiani e dei loro figli, concubine delle loro mogli, e hai chiesto a me una scusa per ubriacarti di vittoria. Tu hai scelto, tu hai perso, e ora torni a piangere da me? CRESO: Che senso ha allora tutta questa sofferenza se non è volontà degli dei? PIZIA: [scocciata] E ritorna con la sofferenza! Guarda qua, guarda quella povera ragazza innocente che verrà gettata al rogo. Gli dei si sono dimenticati di noi. Io non ce la faccio più: tutti questi personaggi sovradeterminati che soffrono e parlano, parlano, parlano. Siete simili tu e questi signori qua [indicando gli INQUISITORI], che si fanno scudo con il volere degli dei per coprire la loro depravazione. Tutta gente che non ha il coraggio di guardare i fatti negli occhi. È sempre stata solo colpa vostra. Io non sono che la madre misericordiosa che vi chiude gli occhi. Entrano in scena il DETECTIVE ed la VEDOVA. Il DETECTIVE indossa un cappello da caccia, un giubbotto di pelle e degli occhiali da sole. Ha con sé una pipa. Parla con un forte accento francese. [IN SCENA: il DETECTIVE, la VEDOVA, CRESO, il MESSAGGERO, la PIZIA, i TRE INQUISITORI, la PRIGIONIERA] DETECTIVE: È qui che è successo? VEDOVA: Sì. Lui veniva spesso qui, quando aveva bisogno di stare da solo.

151 DETECTIVE: Ebbene, è qui che è stato avvistato per l’ultima volta il cadavere di suo marito.

Alla parola ‘cadavere’ i personaggi sussultano, basiti. La PRIGIONIERA grida, terrorizzata. DETECTIVE: Prego lor signori di mantenere la calma. VEDOVA: Crede che riuscirà a ritrovare il corpo di Leopold? DETECTIVE: Non si preoccupi, mademoiselle, una volta ho risolto un caso utilizzando solamente un pezzo di spago corto, il mio infallibile intuito e il mio pouce droit! [Ostende orgogliosamente il pollice destro]. Signori, posso avere la vostra attenzione, prego? [Tutti i personaggi si voltano verso il DETECTIVE] Ho ragioni di credere che il cadavere non abbia lasciato questa stanza. Di nuovo, tutti i personaggi sussultano. La PRIGIONIERA lancia un urlo prolungato. DETECTIVE [alterato, alla PRIGIONIERA]: Sacrebleu! Cordon bleu! Tour Eiffel! Louvre! Baguette! Un peau d’eau! Quale sarebbe la tua funzione qui eccetto gridare e strabuzzare gli occhi? PRIGIONIERA [offesa]: Sono le mie uniche battute! [Mette le braccia conserte] VEDOVA [al DETECTIVE]: Quando ha intenzione di iniziare le indagini? DETECTIVE: Proprio adesso. Ogni minuto che passa ci separa di più dal cadavere di suo marito. È persino possibile, mademoiselle, che il cadavere sia uno di noi! Tutti i personaggi sussultano e si voltano verso la PRIGIONIERA, come in attesa. La PRIGIONIERA si guarda intorno e nota di essere il centro dell’attenzione, si accorge di non aver ancora gridato e grida. DETECTIVE [alla VEDOVA]: Potrebbe descrivere suo marito ai presenti?

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La VEDOVA avanza tra gli astanti, guadagnando il centro del palco. Assume una posa drammatica mettendosi una mano sulla fronte. VEDOVA [con tono melenso]: Un bacio, un bacio ancora, un altro bacio. Quando mio marito era vivo, erano solo baci. Ma cos’è un bacio? Se un bacio avesse un altro nome, non avrebbe la stessa umidità? Baci al mattino al sapore di caffè e tartaro, quando mi portava la colazione. Baci per aperitivo, al posto dei salatini col paté, baci come uova sode, baci per frutta, baci come kiwi e mandarini, baci come dolce, baci tremolanti di budino, stucchevoli e dolci colanti di glassa. Vivevo del suo respiro, [il tono si volge in angosciato, muove la testa come percorsa da terribili ricordi] ma gli puzzava l’alito, ed io ero come soffocata. Ogni bacio amarognolo, con sapore di morte stagioni, e aromi antichi e fermentati, come di mosto divenuto aceto, e consistenza di carne molle sul mio palato, terribile… terribile… L’INQUISITORE 3 avanza dal retro del palco e scosta brutalmente la VEDOVA INQUISITORE 3 [gridando]: Arriva! Arriva il cardinale illustrissimo Tomás de Torquemada! Il Grande Inquisitore! Il confessore dei re, la rovina dei peccatori, l’ammaestratore di Giudei! Entra il CARDINALE, abbigliato con un mantello dal lunghissimo strascico e tenendo ben in mostra la mano su cui reca l’anello. Gli INQUISITORI 1-2-3 si avvicinano per baciare l’anello. GLI INQUISITORI 1-2 lo baciano, l’INQUISITORE 3, messosi in ginocchio e presa con due mani la mano del CARDINALE, dà un bacio lungo ed appassionato all’anulare del cardinale, il quale bacio terminerà solo quando il CARDINALE gli avrà assestato uno schiaffo.

INQUISITORE 1: Illustre Torquemada, gran maestro dell’inquisizione spagnola, ci dia un esempio 152

della sua leggendaria perizia e conoscenza. Esamini questa prigioniera, e trovi dentro di lei i segni dell’opera nefasta del Demonio. CARDINALE: Ebbene, volete che vi dica se costei è una strega. Si alzi, giovane. La PRIGIONIERA si alza. INQUISITORE 2: Incredibile! Ha spezzato le sue catene! Il CARDINALE si avvicina alla PRIGIONIERA, squadrandola con occhio clinico. CARDINALE [continuando ad osservare la PRIGIONIERA]: Dì ‘Ahh’ La PRIGIONIERA apre la bocca ed il CARDINALE le esamina la dentatura. CARDINALE: Le avete fatto l’analisi delle urine? INQUISITORE 1 [all’INQUISITORE 3]: Collega, favorisca al Cardinale l’analisi delle urine. L’INQUISITORE 3 estrae dal suo vestito un contenitore per analisi delle urine e lo porge, inchinandosi, al CARDINALE. Il CARDINALE apre il contenitore, ne mescola il contenuto immergendovi un dito, che poi annusa. CARDINALE: È una strega. Preparate la pira. PRIGIONIERA: Pietà, cardinale, pietà! Farei qualsiasi cosa per dimostrare la mia innocenza. CARDINALE: Cosa intende per ‘qualsiasi’? Si sente il suono solenne e cadenzato di un tamburo. Entrano in scena lentamente tre COMPLOTTISTI incappucciati.

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DETECTIVE [al MESSAGGERO]: Lei è un po’ Ione, n’est-ce pas? MESSAGGERO: Solo da parte di papà. Si nota? I COMPLOTTISTI si dispongono al centro del palco. COMPLOTTISTA 1: Confratelli della Loggia del Nervo Sciatico di Anubi, raduniamoci per celebrare il mistero. COMPLOTTISTA 2: Rivelò il sacro testo che chi dorme vive solo metà della propria vita. COMPLOTTISTA 3: Stabilì Anubi Sciancato di non dormire per raggiungere la Vera Verità. COMPLOTTISTA 1: Così certi anziani sono poco più che ragazzi. COMPLOTTISTA 2: Così noi viviamo il mistero profondo. COMPLOTTISTA 3: Attendiamo il giorno del grande risveglio, quando la lettera sarà aperta. Il COMPLOTTISTA 3 estrae una lettera imbustata e la eleva verso il cielo, i COMPLOTTISTI 1-2 abbassano il capo. COMPLOTTISTA 1: Pronunciamo ora il nostro motto sacro. COMPLOTTISTI 1-2-3 [in coro]: Lo prendi zuccherato il caffè? Lo prendi zuccherato il caffè? COMPLOTTISTA 1: Confratelli, sono ormai dieci notti che non dormo. Ho smesso di mangiare i sofficini, ho scoperto che Loro li imbottiscono di narcotici per impedirci di raggiungere la Vera Verità.

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COMPLOTTISTA 2: Giustissimo, confratello. Sono quattordici notti che non dormo. Loro non vogliono permetterci di superare il Vero Mistero e contemplare la Vera Verità. Le Loro zampe di rettile tengono sotto controllo le masse. COMPLOTTISTA 3: Confratelli miei, sono ventisette notti che non dormo. Ho visto la consistenza del Vero Mistero. Ora queste vostre frasi mi paiono così finte, come scritte da altre mani. Questo suolo non mi sembra nostro. La mia vita mi sembra altrui, i miei ricordi sono fibrosi come carta. Ora vedo ogni cosa come la Loro macchinazione, il modo per portare avanti questa pantomima. Accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale. COMPLOTTISTA 2: Confratello, spero proprio che nessuno ci chieda cosa ci sia nella nostra segretissima sacra lettera. DETECTIVE: Perché, cosa c’è scritto? COMPLOTTISTI 1-2-3 [in coro]: Niente! Entra sul palco RUYSCH, di colorito cereo, vestito di una camicia da notte. Si tasta il corpo sgranando gli occhi, gli si affaccia in viso un’espressione di orrore, parla rivolgendosi direttamente al pubblico. [IN SCENA: PIZIA, CRESO, MESSAGGERO, TRE INQUISITORI, PRIGIONIERA, CARDINALE, DETECTIVE, VEDOVA, TRE COMPLOTTISTI, FEDERICO RUYSCH] RUYSCH: S-sono qui, eppure credevo di aver tirato le cuoia definitivamente. Ed invece eccomi, ancora preso in giro dalle burle crudeli di quei quattro teppistelli morti. Se ne stanno lì, nell’abbraccio dei loro sarcofagi aurei, [preso improvvisamente da una breve risata insana] a ridere di me con quelle mandibole sbilenche. Io intanto muoio le morti più atroci e di nuovo rivivo per morirne di altre ed altre ancora.

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[Arrestandosi all’improvviso, col sentore di aver dimenticato qualcosa] Oh! ma quale zoticaggine! Presentarmi a voi in queste vesti, perdonatemi. Vedete, la prima morte mi colse nel sonno. Comunque sia, il mio nome è Federico Ruysch. Da giovane studiai botanica, costretto brutalmente a mettere da parte la mia vera vocazione [si ferma un attimo, malinconico], l’arredatore d’interni. Le scienze d’altronde mi resero un uomo illustre: mi onorò lo Zar di , divenni ricco e esaudii col danaro molti miei capricci e così presto il mio studiolo fu pieno di tanti graziosissimi feti imbottigliati. Quei fanciullini defunti divennero rapidamente la mia delizia, la mia unica passione. Successe, però, alla mezzanotte di un giorno che si fu compiuto un anno grande e matematico, che quattro bei fanciullini in decomposizione che avevo comperato come reggilume, si procurassero dal nulla il dono della favella. Non vi nascondo che ne fui turbato, tuttavia ne approfittai per chiedere a queste mummie di fugare i miei dubbi su ciò che provarono nel misterioso momento della loro morte. Siano maledette quella notte e la mia ingenuità! Avreste dovuto sentirli: ‘La morte? Ma quelle sono tutte vuote menzogne tramandate tra voi vivi, che ancora confondete gli spiriti vitali con le esalazioni dei vostri deretani. Effimere bubbole, insomma, disutili quisquilie, insussistenti chimeruole! Quanto al dolore, poi, non c’è assolutamente da averne paura’ dicevano. ‘È una cosa insignificante che, a volerla quantificare, non si prenderebbe tanto così delle nostre falangi avvizzite.’ [Si porta il pollice sul mignolo]. Volle il caso che, dopo questo avvenimento prodigioso, mi trovassi a sperimentare la creazione di delle candele per illuminare il mio studiolo, e con il gusto dell’uomo fattosi da sé e l’intraprendente ingegno dell’uomo di scienza, volli io stesso produrre la cera per codeste candele. Cavandomela dalle orecchie. Mi ficcai allora fin su nei timpani due infiorescenze di lavanda per dare fragranza alla candela e aspettai che il giallume necessario vi si sedimentasse. Raccolsi cera per giorni, togliendo i ramoscelli in fiore solo durante la notte. Un giorno qualsiasi mi addormentai con questi ancora negli orecchi e uno dei due, spinto dal cuscino, arrivò così tanto in fondo da toccarmi le cervella. Sentii quel tocco come uno schianto, avvertii il 154 mondo dileguarsi lentamente ed il sangue solcarmi il viso. Corsi in strada a supplicare aiuto ma nessuno provava compassione per me, essi ridevano, ridevano! Quasi ci trovassero qualcosa di divertente nel vedere un uomo in sottana dare in schiamazzi per un ramoscello di lavanda ficcato negli orecchi. Morii ancora supplicando, sopraffatto dal dolore. O almeno così credetti. Dopo un po’raccolsi le forze e ripensai alle parole delle mummie. Intendevano dirmi questo? Mi rialzai. Un attimo dopo sentii maciullarmi le ossa dalle ruote di un carro, e vissi la mia seconda vita senza che potessi neanche accorgermene. Allora capii: la morte non era indolore! Quelle carcasse bastarde si facevano beffe di me. Inaspettatamente, mi rialzai di nuovo, e fui colto in testa da un vaso di gerani, di nuovo morii e fui vivo, ma mi aggredì un robusto contadinotto col forcone ed ancora mi sbranò uno stormo di avvoltoi, poi fui affettato da una trebbiatrice e fui mangime per cavalli, poi morii dissanguato per un pedicure finito male, poi la scabbia, poi uno psicopatico vestito da clown, poi i micetti e gli amuleti ed ancora mille altre volte burlato dai morti in ogni morte; ed ora sono qui. Loro mi hanno costretto in questa orribile e posticcia messinscena, e credono che io non l’abbia capito che questo è tutto finto, è tutto finto! Irrompono sul palco i TRE AUTORI che afferrano violentemente RUYSCH e lo allontanano, mentre questi continua a dimenarsi e schiamazzare. [IN SCENA: PIZIA, CRESO, MESSAGGERO, TRE INQUISITORI, PRIGIONIERA, CARDINALE, DETECTIVE, VEDOVA, TRE COMPLOTTISTI, TRE AUTORI] ROBERTO: Io ve l'avevo detto di toglierlo di mezzo. A che serviva questo? ALBERTO: No, veramente non avevi detto proprio nulla, è inutile ora lamentarsi. ROBERTO: Sì, ma ora che ci facciamo con questo? Ha rovinato tutto?

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DARIO: Portiamolo via, non c'è nient'altro da fare. Ma ora hanno scoperto tutto questi? [Guarda tutti i personaggi in scena] Voi ci state capendo qualcosa? ALBERTO: Ma perché, credi che loro stiano capendo qualcosa [accenna al pubblico]? ROBERTO: Ma ora dovremmo davvero spiegare tutto? DARIO: Per forza. Cos'altro potremmo fare qui? Ormai siamo coinvolti. ALBERTO: Allora, al tre. Uno, due, tre. AUTORI [ai personaggi]: Buonasera. ROBERTO: Ed il pubblico? DARIO: Che ce ne importa del pubblico? Lasciali guardare. Se capiscono è bene. ALBERTO: Sapete come mai vi trovate tutti qui insieme? ROBERTO: Ve lo siete almeno mai chiesto? [Una pausa. I personaggi non rispondono, continuano a guardarsi perplessi] ROBERTO: Saltando i convenevoli, siete tutti dei personaggi. DARIO: E tu lo dici così, brutalmente? ROBERTO: Ma sono stati così stupidi da non chiedersi nulla finora!

155 ALBERTO: Sì, bravo, insultali adesso! Un terzo di questi sono figli miei!

DARIO: Così non capiscono niente: sono già confusi. Siete tutti stati scritti da noi. ROBERTO: Esistete perché noi vi abbiamo scritto. Questo è un teatro. C'è del pubblico, vedete? [Tutti i personaggi si voltano verso il pubblico, restando poi paralizzati, come notandolo per la prima volta] ALBERTO: Tutte le vostre parole sono state scritte da noi. COMPLOTTISTA 3: È questa la Vera Verità, confratelli? Non c'è davvero nient'altro che questo? Sono ventisette notti che non dormo, ma ora non so se ne vale la pena. ROBERTO: Anche quello che hai detto tu, prima, Complottista numero tre. ‘Accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale’, è una citazione di Borges, da L'immortale. ALBERTO: Ma ce la fai a stare cinque minuti senza tirartela? Sempre con la letteratura, la filosofia, le cose. DARIO: Ad ogni modo, tutto quello che vi è accaduto, o avete creduto che vi accadesse, avveniva solo per l'intrattenimento degli spettatori. COMPLOTTISTA 2: Confratello, sono troppe notti che non dormo. È il momento di consegnare la lettera. [Il COMPLOTTISTA 3 si avvicina agli autori e consegna loro la lettera. I tre autori la leggono insieme e ne restano terrorizzati] ALBERTO [leggendo]: O Pizia, potente sacerdotessa di Apollo... DARIO: È il copione. Vai avanti.

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ROBERTO [leggendo]: Questo è un teatro, vedete... DARIO [leggendo]: Siete stati scritti… ALBERTO: È quello che abbiamo appena detto! Su questa lettera c'è scritto quello che abbiamo appena detto! DARIO: Ma quindi questo significa che... ROBERTO: Sì. Significa solo una cosa. COMPLOTTISTA 3: Accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale. [Le prossime sezioni di testo saranno pronunciate dai personaggi contemporaneamente mentre gli autori escono dal palco e, lentamente, la tela si chiude]  PIZIA: Sei ancora qua? Cos’altro hai da frignare? CRESO: Ora l’intera Lidia piange la sua prigionia. MESSAGGERO: Lascia stare, maestà, andiamo a fare compere.  INQUISITORE 1: Ma quindi è una strega o no? STREGA: Mi pare che avessimo deciso di no. CARDINALE: Lasciatela stare, non è una strega. INQUISITORE 2: Ma come?  DETECTIVE [all’INQUISITORE 3]: Lei ha mai avuto qualche hobby particolare, come, che so, DECOMPORSI?

 COMPLOTTISTA 1: Confratelli, che dite, andiamo a dormire? 156

COMPLOTTISTA 2: Un ultimo caffè? COMPLOTTISTA 3: Io senza zucchero, grazie.

MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

Sophrosyne: guida dell’anima e della città

CARLA IULIANO

a sophrosyne costituisce un concetto molto importante nell’antica cultura greca, presente già nei testi omerici. Col tempo, il significato è andato ampliandosi e ha assunto varie accezioni in base al periodo storico e al contesto socio-politico di riferimento. Il termine è composto dall’aggettivo σῶς che significa ‘sano’ e dal sostantivo φρήν che indica il ‘diaframma’, organo che, nel linguaggio omerico, è connesso alle funzioni di tipo intellettivo. Non si tratta ovviamente di un caso: infatti, nonostante le varie oscillazioni semantiche il termine ha sempre individuato uno stato mentale positivo, caratterizzato dal controllo e dall’equilibrio, che determina dunque azioni positive nel vivere quotidiano. Nei poemi omerici la sophrosyne è un dono divino, che porta ad accettare il proprio ruolo, i propri limiti e avere temperanza. Questa qualità tuttavia era subordinata ad altri valori tradizionali, di tipo prestazionale e competitivo, connessi all’andreia e all’arete, importanti per il raggiungimento della gloria e dell’affermazione bellica. La sophrosyne assume maggiore importanza a partire dal VII secolo, quando essa rientrò tra le massime dei Sette Sapienti, figure mitiche considerate dai Greci simbolo di saggezza e origine della propria cultura. Essi sono ritenuti gli autori delle massime quali «niente di troppo», «la misura è la cosa migliore», «conosci te stesso», che sarebbero state scolpite sulla facciata del tempio di Delfi dedicato ad Apollo, considerato la divinità depositaria della sophrosyne. È significativo il maggiore consolidamento della struttura cittadina di questo periodo, alla luce del quale il termine assume un ruolo più importante, poiché invita a una buona condotta di vita non solo il singolo in quanto tale, ma come parte di una collettività inevitabilmente influenzata dai comportamenti individuali. Non è un caso che per il drammaturgo Eschilo, la sophrosyne non significa solo rispetto nei confronti dei limiti, ma anche nei confronti di quelli posti dalla legge. Se la sophrosyne si identifica inizialmente con il rispetto dei propri limiti e con la temperanza, importante per un’ulteriore elaborazione di questo concetto è sicuramente la visione di Pitagora del piacere e del controllo delle spinte appetitive. Questo tipo di precettistica fu elaborata nel VI secolo nella scuola pitagorica, e invita a guardarsi dall’edonè, il piacere, in quanto elemento che distoglie l’uomo dal compiere il bello e il buono. L’edonè, assieme al thymos, l’impulso, va controllato dal noos, la mente. Per fare ciò, è necessario conoscere la parte dell’uomo che deve essere controllata. Di conseguenza è evidente la piena consapevolezza dei pitagorici della compresenza, nell’uomo, della mente e della corporeità, del fatto che i piaceri non possono venire eliminati, ma al massimo controllati e dunque, della grande complessità dell’apparato psichico umano. A mostrare la conflittualità, caratteristica dell’interiorità umana, fu Euripide, drammaturgo del V secolo a.C. In particolare, nella Medea e nell’Ippolito, è evidente la lotta dei personaggi contro gli impulsi, le

 Il presente lavoro è il frutto delle attività messe in atto nell’ambito dei Percorsi per le competenze traversali e orientamento (ex Alternanza Scuola-Lavoro). Carla Iuliano Sophrosyne: guida dell’anima e della città

passioni, i piaceri. D’altra parte anche il valore politico-sociale della sophrosyne aumenta nel corso del tempo, e il teorizzatore di ciò è Platone, che nel Callicle, nel Gorgia, nella Repubblica, nelle Leggi, elabora il concetto di sophrosyne in una visione molto più ampia, senza tralasciare la sua portata psichica. Nel IV libro della Repubblica la sophrosyne consente, assieme all’andreia e alla sophia, il raggiungimento della giustizia, nell’anima e nella città. Ma cosa si intende, a questo punto, per giustizia? Per comprendere cosa vuol dire Platone, è necessario capire la scissione che egli individua tanto nell’anima quanto nella città, e l’inevitabile conflitto che essa determina. Nella psiche umana, infatti, sono presenti due elementi di qualità differente, uno peggiore e uno migliore. Il primo è costituito dalle passioni, gli impulsi, i desideri sempre inappagati, i piaceri. Se l’uomo si abbandonasse completamente a questo elemento irrazionale, compierebbe azioni vili ed egoiste, non sarebbe mai pago dei piaceri e di conseguenza soffrirebbe, non solo per la loro mancanza ma anche per la percezione della propria bassezza e dei propri sbagli, dovuti all’assecondare in modo irrazionale i propri impulsi. Questa consapevolezza e il dolore che ne segue, è dovuta proprio alla presenza, nella psiche, di un’altra parte, quella razionale, senza la quale non si soffrirebbe e si vivrebbe come degli animali. È proprio questo che genera una ‘lotta’ interna, proprio perché questi due elementi sono in contrasto e vogliono due cose diverse. La battaglia interiore di cui Platone parla, è la stessa di quella inscenata da Euripide nelle sue tragedie, che non a caso utilizza un lessico bellico per parlare di passioni da dominare. Considerata questa situazione di conflitto, nella Repubblica emerge la nozione di sophrosyne come enkrateia, controllo sulle spinte appetitive che si realizza a prezzo di uno sforzo, di una battaglia. In base all’esito della battaglia si possono avere diversi comportamenti. È proprio in riferimento a ciò che Platone recupera espressioni come quelle di «più forte di te stesso» e «più debole di te stesso». La prima segnala una situazione positiva, dove a vincere è la sophrosyne, e dunque c’è controllo sulla parte irrazionale. Nella seconda, invece, la parte razionale non è riuscita ad avere il controllo ed è dunque più debole. Platone individua nella paideia, l’educazione, il mezzo mediante il quale già da fanciulli si può imparare a conoscere sé 158 stessi e ad imparare a discernere in noi ciò che è bene assecondare e ciò che è meglio evitare. In questo modo si da più forza alla parte che generalmente è più debole, quella razionale, per affrontare il nemico irrazionale e perturbatore. Come nell’anima, anche nella città c’è una scissione: la maggior parte dei cittadini rappresenta la parte irrazionale, mentre una minoranza di ‘migliori’ rappresenta la parte razionale. Se nella psiche si raggiunge la giustizia attraverso il controllo della razionalità, ciò avviene anche nella città, quando sono i migliori ad avere il potere. Di ciò Platone parla anche nelle Leggi, dove, come nella Repubblica, appare evidente il passaggio della sophrosyne ad una dimensione più ampia, quella della collettività. Tuttavia questa qualità non viene riconosciuta solo ai migliori, infatti già all’inizio delle Leggi essa è definita come accordo, armonia, che può essere raggiunta da tutti nella propria interiorità. È equilibrio, scelta consapevole di ciò che è giusto o sbagliato per la propria vita ed la propria stabilità psichica. Non ha nulla a che vedere con l’estrazione sociale, né tantomeno con la conoscenza o le capacità del singolo, in base alle quali Platone stabilisce la gerarchia al comando della città. Se ciò differenzia i cittadini, poiché determina i ruoli che essi svolgono nella città, è invece la sophrosyne che deve accomunarli. Infatti, solo se tutti i cittadini raggiungono equilibrio interiore e consapevolezza, riconoscono che alcuni sono più adatti a comandare, altri ad essere comandati. Così l’assetto gerarchico non è assoggettamento dei più, ma accordo tra tutti i cittadini che instaurano homonoia, cioè la concordia, unità di intenti. In questo modo la sophrosyne si estende all’intera città che diventa equilibrata. Tuttavia Platone è consapevole dell’eccezionalità di questa situazione e sa bene che il conflitto caratterizza ogni polis. Nella storia della Grecia antica potremmo individuare la situazione che più si avvicina al modello utopico di Platone di homonoia nell’esaltazione che Pericle fa, in un’orazione funebre, del regime democratico. Di fatti, nel V secolo, ad Atene si costituì un modello politico che incentivava la partecipazione politica di gran parte dei cittadini. L’orazione funebre fu tenuta da Pericle per onorare i caduti del primo anno della guerra del Peloponneso e potrebbe essere considerata un manifesto di questo modello politico e dello spirito comunitario che lo caratterizza. Infatti il governo viene definito Carla Iuliano Sophrosyne: guida dell’anima e della città

democratico in quanto favorisce i molti invece dei pochi, poiché «quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato», e «la povertà non costituisce un impedimento». In questo modo, la dimensione pubblica e quella privata vanno di pari passo: la prima non annulla l’altra, né la seconda influenza la prima, poiché tutti agiscono nell’interesse della comunità. In quest’ottica, è molto importante interessarsi alla politica e chi non lo fa viene considerato inutile. Di conseguenza la discussione è fondamentale poiché tutti sono in grado di giudicare la politica, nonostante «pochi siano in grado di dare vita ad una politica». Da quest’ultimo passaggio risulta evidente che democrazia non significa appiattimento e accesso indiscriminato al potere. Infatti la maggior parte dei detrattori di questo sistema, tra cui lo stesso Platone, individuano in ciò l’elemento negativo. Tuttavia gerarchia che Platone individuava in base alle capacità, non è negata, almeno in via teorica, poiché è garantita dalla meritocrazia. Inoltre il sistema di elezione basato sul sorteggio, criticato da molti antidemocratici, non vale per le cariche pubbliche che richiedono particolari competenze. Data la grande partecipazione politica, si forma un tessuto cittadino coeso che si identifica nella propria forma di governo e nella comunità più che nel luogo in cui sorge la polis. Ciò è conforme al pensiero di Aristotele per cui la città non è condivisione di un luogo ma condivisione del vivere bene, in cui si formano relazioni compatte. Ciò era possibile nell’Atene periclea per il numero non eccessivo della popolazione, che consentiva anche l’attuazione della democrazia diretta. Significativa è la definizione di Paul Veyne dell’autocoscienza del cittadino ateniese del V secolo come ‘militante’. Ciò si manifesta nella piena partecipazione politica che, soprattutto in ambito bellico, determinava una grande compattezza. Infatti il modo di combattere delle milizie cittadine del tempo era la falange oplitica in cui l’omogeneità è fondamentale: non ci si può allontanare, fuggendo per viltà o spingendosi avanti con slancio eroico, poiché ciò determinerebbe disordine ed inefficienza. Determinante risulta quindi essere la sophrosyne, intesa in questo ambito come autocontrollo, freno delle pulsioni individuali nella collettività. Dunque è la sophrosyne il principio per il quale i cittadini ateniesi del V secolo possono dirsi ‘militanti’, proprio 159 perché, tramite essa, prevale l’interesse comune e non le pulsioni individuali. Di conseguenza, non c’è comunità senza sophrosyne nell’animo dei singoli.

Riferimenti bibliografici essenziali Per il concetto di sophrosyne in età omerica e suo sviluppo in età successive, M. Vegetti, L’etica degli antichi, Roma- Bari 1990 (specie i capp. II, III e IV); S. Gastaldi, ‘Sophrosyne’, in Platone. La Repubblica, vol. III, libro IV, a cura di M. Vegetti, Napoli 1998, 205 e ss. Per l’importanza del pensiero pitagorico nell’elaborazione della sophrosyne, G. Casertano, Il piacere, l’amore e la morte nelle dottrine dei presocratici, Napoli 1983, 11 e ss. Per un commento al discorso di Pericle in Tucidide, D. Musti, Demokratìa. Origine di un’idea, Roma-Bari 1997 (specie cap. I); G. Carrillo, Katechein, Uno studio sulla democrazia antica, Napoli 2003, 49 e ss.; L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari 2004, 31 e ss. Per le teorie di P. Veyne, Ch. Meier – P. Veyne, L’identità del cittadino e la democrazia in Grecia, Bologna 1999, 73 e ss. [tr. it. di Kannten die Grieschen die Demokratie, 1988]. MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

Uno strumento

DARIO FORMICOLA – ROBERTO MADONNA

n uomo entra sul palco con una valigetta. Posta questa sopra di un leggio, ne estrae un libro. Con grandissima serietà e carisma scenografico, s’impegna a voltarne le pagine una alla volta, con movimento del polso squisitamente regolare. In disparte, uno spettatore ammira mesmerizzato. Dopo che il numero sarà stato ripetuto alcune volte, questi applaudirà e si avvicinerà all’artista] SPETTATORE: Come fa ad avere un movimento così fluido del polso? L’ARTISTA: Tanti pomeriggi passati in solitudine con lo strumento. SPETTATORE: Posso vederlo codesto suo strumento? [L’Artista gli porge il libro, lo Spettatore lo esamina] L’ARTISTA [fregandosi le dita di una mano]: Non ne prova giovamento al contatto? SPETTATORE: [passandosi il libro di mano in mano] Sì. L’ARTISTA: Vede, questo è un libro. Sente il fremito di milioni realtà sotto la punta delle dita? Ora provi ad aprirlo. SPETTATORE: Ed ora? L’ARTISTA: Ed ora lo legga. [Lo Spettatore esamina il libro]. Oggigiorno non se ne vedono più molti. SPETTATORE: È un vero peccato. L’ARTISTA: Era così facile una volta sognare. Un tempo, vede, ognuno aveva la sua giusta razione d’infinito. E tutto questo compatto, in questa lieta forma di mattone, pagine color crema e nero d’inchiostro. Ma sono svaghi d’altri tempi, ormai. SPETTATORE: Com’è che facevano? L’ARTISTA: Facile come bere un bicchier d’acqua. Tenga gli occhi aperti e prenda una parola alla volta. Ne soppesi il suono. Può pronunciarla, se preferisce. Cosa c’è scritto? SPETTATORE: Madeleine. C’è scritto madeleine. L’ARTISTA: Sono bei ricordi. Lei ora mi vede così, costretto a prostituire quest’arte per vivere. Una volta era diverso. SPETTATORE: E com’era? L’ARTISTA: Una volta sono stato un guerriero ed un navigatore. Sono stato donna, prete di campagna. Un mercenario, un padre di famiglia, e luoghi ora sconosciuti mi erano familiari. SPETTATORE: Possibile che sia finito tutto? L’ARTISTA: Si usano poco oggigiorno. Ma, se vuole, può ancora tornare in queste stanze. Questi sogni di cellulosa, dopotutto, furono fatti per noi. SPETTATORE: E se ne vedono, di posti nuovi?

 Il presente contributo, scritto dai due autori, è stato da loro rappresentato nell’ambito delle attività #Ioleggoperchè organizzato dal Liceo ‘F. Quercia’ di Marcianise (CE) presso la laFeltrinelli di Caserta il 27 ottobre 2018 e ripresentato presso la Biblioteca di Marcianise il 2 dicembre 2018 (ndr). Dario Formicola – Roberto Madonna Uno strumento

L’ARTISTA: Ho visto la biblioteca di Babilonia, ho visto la peste di Milano. Ho visto l’eternità dell’Universo filtrata da una siepe, ho visto le carceri del Castello d’If e le baleniere dell’Atlantico. Ho visto le generazioni degli uomini che si disperdevano come foglie sulla Terra, ho visto il Mar Rosso aprirsi, ho visto i tramonti infiniti di San Pietroburgo in estate. SPETTATORE: E come? L’ARTISTA: Legga e vada avanti. Il resto del viaggio verrà da sé.

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La libertà è partecipazione?

MARIANGELA LIONIELLO

he cos’è la democrazia? Quando è stata istituita? Cosa pensavano gli storici o i filosofi a riguardo nell’antica Grecia? Innanzitutto bisogna precisare che la democrazia è una forma di governo, la cui etimologia (δῆμος, ‘popolo’ e κράτος, ‘potere’) significa ‘governo del popolo’, che è esercitato e sancito dalla politeia, termine assai complesso che oltre ad indicare la ‘cittadinanza’ (l’insieme di tutti i cittadini), a seconda dei contesti può significare anche ‘costituzione’ (insieme di leggi di una polis), ma anche ‘diritto di cittadinanza’ (l’essere cittadino avente diritti e doveri)1. Le origini della democrazia risalgono tra la fine del VI secolo e i primi tre quarti del V secolo a.C. in Grecia, ma sarebbe meglio dire ad Atene. Qui Clistene introdusse alcune riforme che saranno fondamentali per l’affermarsi della sistema democratico, suddividendo la popolazione in dieci tribù, composte a loro volta ognuna di essa da tre trittie (una dell’entroterra, una della costa e una dell’area urbana). Queste dieci tribù eleggevano la Bulè, il Consiglio costituito da 500 consiglieri scelti tramite sorteggio (50 per ogni tribù). Compito della Bulè era prepare le proposte di legge (probulemata) che potevano essere accettate o meno dall’Ecclesia (costituita da tutti i cittadini maschi adulti di origine ateniese, da Pericle in poi con entrambi i genitori ateniesi) che quindi aveva un potere decisivo sulle attività legislative. Affianco a tali organi politici, vi erano poi i tribunali e le magistrature, che regolavano le attività pubbliche. La democrazia ateniese era dunque diretta (poiché i cittadini senza alcun mediatore al potere prendevano liberamente decisioni) ed ‘esclusiva’ (in quanto escludeva schiavi, donne e stranieri). Le opinioni tra autori e filosofi del tempo sono state a lungo discordanti, c’era infatti chi esprimeva un giudizio positivo, chi un giudizio negativo. Tra i primi annoveriamo certamente lo storico Tucidide che riporta il discorso di Pericle nel secondo libro della sua Storia della guerra del Peloponneso: Pericle esordisce in pubblico con tale orazione funebre dedicata ai caduti alla fine del primo anno della guerra del Peloponneso e acclamando le vittime allo stesso tempo fa alcune considerazioni positive sulla democrazia vigente ad Atene 2. I propositi fondamentali per un regime democratico erano in primo luogo l’uguaglianza di tutti i cittadini e l’equivalente partecipazione di tutti alla vita politica, perciò significativo in questo caso era il concetto di merito. Difatti ognuno, in base al proprio valore e qualità per aver compiuto opere degne di considerazione, contribuiva in diversa misura alla formazione e al benessere dello stato. Tuttavia non erano esenti le persone che sfavorite da una condizione sociale più umile, dal momento che potevano comunque compiere opere buone per la società, anche con il semplice intervento in un discorso pubblico per esprimere la propria opinione. In secondo luogo è opportuno citare, a questo punto, il concetto proprio di partecipazione e l’importanza data alla parola: ogni cittadino, come detto, aveva il diritto/dovere di partecipare alla vita politica per collaborare alla costruzione e conservazione dello stato in maniera del tutto serena, nel pieno rispetto delle leggi. Alla luce di tale considerazione, si può

 Il presente lavoro è il frutto delle attività messe in atto nell’ambito dei Percorsi per le competenze traversali e orientamento (ex Alternanza Scuola-Lavoro). 1 Basti per tutti il riferimento a C. Ampolo, La politica in Grecia, Roma-Bari 19972, 28 e ss. 2 Tuc. 2, 27-41. Mariangela Lioniello La libertà è partecipazione?

dire che ognuno quindi rappresentava un tassello dell’intero puzzle che raffigura lo stato: questo esempio è funzionale a comprendere l’importanza data dagli ateniesi a questo aspetto qualificante della democrazia. Sic stantibus rebus emerge il ruolo della parola nel mondo ateniese dato che era necessario discutere e avere le idee chiare prima di compiere qualsiasi azione per il bene della comunità e in tale occasione anche chi non aveva possibilità di operare concretamente, poteva comunque farlo esprimendo le proprie idee al riguardo. Infine fondamentale era l’ossequio delle leggi per garantire una solida e pacifica vita comunitaria: gli Ateniesi, come precisa Tucidide-Pericle, osservano con maggior accuratezza le leggi che mirano alla difesa di chi subisce ingiustizie, si batteno perciò continuamente per la giustizia, non recando fastidio a nessuno dei cittadini e senza infrangere le leggi morali, cioè quelle non scritte che, se trasgredite, comportano il disonore. Allo stesso modo il cosiddetto Vecchio Oligarca, autore di una Costituzione degli Ateniesi pervenutaci nel corpus delle opere di Senofonte3: secondo lui (fiero oppositore del sistema democratico) la democrazia ha funzionato fino ad allora, è perché si è fondata sulla potenza delle flotte navali, tramite cui Atene ha vinto e ha costituito il suo impero; tali navi sono però manovrate dai teti, cittadini cioè di bassa estrazione sociale che contribuiscono dunque alla conservazione della città. Se dunque – ragiona l’anonimo trattatista ateniese – l’arma principale della democrazia è la flotta ed essa ha la sua anima nei ceti bassi, è inevitabile che la democrazia sia ‘radicale’, lasci cioè molto spazio d’azione alle classi svantaggiate economicamente e riduca la possibilità d’azione degli aristocratici abituati da generazioni e generazioni a comandare. Tra di essi vi era sicuramente Platone4 il quale fa sua l’antica accusa di incompetenza ai nuovi detentori del potere democratico: se lo Stato può essere paragonato ad una nave – argomentano gli aristocratici – il timone di essa non viene certo assegnato tramite sorteggio (come avviene nell’Atene del V sec. a.C.)a come si acquistano tali capacità e competenze? È qui che entra in gioco , secondo Platone, la scuola, o sarebbe meglio dire, la formazione educativa (non a caso egli fonda l’Accademia) dalla marcata funzione politica, ossia funzionale a formare le figure emergenti della classe dirigente. In secondo luogo inoltre 163

Platone non crede davvero nel diritto di uguaglianza: per lui quindi non tutti sono in grado di controllare impulsi e passioni e per questo motivo sono incapaci di governare. Com’è noto, per il filosofo, l’anima umana è divisa in una parte razionale, una impulsiva e infine una desiderativa e colui che non è grado di tenere a bada le parti irrazionali deve sottomettersi necessariamente a colui che ha interiorizzato il comando della ragione come afferma nella Repubblica. Infine nel Gorgia, Platone sostiene che il politico democratico è in realtà un demagogo, che ha come unica capacità quella di persuadere le anime irrazionali guidandole a scelte utili al suo scopo personale, indipendentemente da quel che sia l’interesse del popolo. Ancor più grave per Platone è la mancanza di regole e di un principio gerarchico che regoli la vita cittadina, che sfocia perciò in anarchia ed è proprio da questa che nasce poi una forma di dittatura, in quanto il cittadino, divenuto consapevole del disagio a cui porta l’anarchia, si affida ad un demagogo che lo plasma a suo piacimento. In conclusione, Platone nega la libertà dell’uomo comune perché essa porta la comunità all’autodistruzione (se tutti fanno quel che vogliono badando esclusivamente al proprio tornaconto il risultato non potrà essere se non il collasso della città). Per quanto riguarda il punto di vista di Aristotele, invece, c’è da premettere che anch’egli in linea generale si oppone alla democrazia e si trova in accordo con Platone per alcuni aspetti, ma d’altra parte si muove in contraddizione con il maestro. Egli, infatti, è dell’idea che tutti potrebbero in realtà partecipare alla vita politica in quanto ognuno, tramite la libertà di parola, esprimendo la propria opinione in un intervento pubblico, pur non essendo dotato di alcuna competenza specifica, è comunque dotato di un metro di giudizio in grado di condurre a decisioni sagge; insomma ognuno nel suo piccolo può, allo stesso modo di tutti gli altri, fare qualcosa di giusto. A tale proposito in effetti Aristotele ritiene che escludere totalmente il demos dalla vita politica sarebbe pericoloso dal momento in cui i cittadini spogliati dei

3 Come riferimento bibliografico, basti per tutti la recente edizione del piccolo trattato nell’edizione della Lorenzo Valla, Milano 2018 a cura di G. Serra con un saggio di L. Canfora. 4 Per una sintetica, ma efficace trattazione della visione platonica, basti il riferimento al saggio di F. Ferrari, ‘Platone e la democrazia’, in Contro la Democrazia. Platone, a cura di F. Ferrari, Milano 2008, 7 e ss. Mariangela Lioniello La libertà è partecipazione?

propri diritti risulterebbero dei ‘nemici’ per i ‘migliori’. In conclusione il sistema migliore per lui è proprio una commistione tra oligarchia, con a capo persone sagge e competenti e democrazia, che coinvolga tutti o quanto meno il numero più alto possibile di cittadini. A mio parere, volendo attualizzare tali opinioni prese in considerazione, ci accorgeremmo molti problemi sorti nell’Atene di Pericle risultano attuali anche oggi: basti pensare al problema della competenza dei governanti e dell’educazione (in senso generale) delle masse governate. Si potrebbe al limite arrivare ad affermare che la democrazia esiste solo formalmente e non autenticamente: in primis, effettivamente l’uguaglianza non esiste e non è sempre riconosciuta come diritto, anzi molti per sesso, razza, orientamento politico e sessuale o disabilità fisico/psichiche rimangono ai margini della società e ogni tentativo di affermare i propri diritti viene di fatto ignorata. In secondo luogo pur possedendo tutti i cittadini il diritto/dovere di partecipare alla vita politica, solo una minima parte di questi partecipa, interessandosi e informandosi sulle prossime manovre governative, ciò perché con l’istituzione della democrazia indiretta, ognuno affida al proprio rappresentate politico compiti che il cittadino ignora totalmente; secondo me questo è uno dei limiti della democrazia attuale anche perché spesso si tende a favorire chi, fingendo di avere a disposizione un’immane quantità di denaro, promette di compiere opere buone per la comunità, alimentando false speranze e arricchendosi sempre di più, servendosi di quello stesso denaro, all’oscuro da tutti. Ciò dimostra, come abbiamo visto anche in Platone e in Aristotele, che la democrazia stessa si trasforma di fatto in una tirannide, in cui il senso del benessere comunitario viene sostituito sempre di più dall’interesse egoistico e personale.

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Il Comitato degli odori liberali

ROBERTO MADONNA

Fumo di fumi, tutto non è che fumo Ecclesiaste 1, 2 (nella traduzione di Guido Ceronetti)

l potere è come un neonato che scopra di avere un corpo, dotato di orecchie per sentire (interrogatori di polizia, indiscrezioni di chiacchiere di paese, psicologi), occhi per vedere (strade, videosorveglianza, occhi indiscreti, meravigliose pagine di social network grondanti d’immagini e brandelli di vita privata), mani per toccare (carceri, chirurghi, eserciti, forze di polizia), lingua per parlare (parlamenti e ministri, telecomunicazioni e reti mediatiche, dotti televisivi e ogni genere di presentatore). Conducendo un discorso d’ordine generale, il potere preferisce manifestarsi attraverso immagini, simboli, teletrasmissioni, mediandosi attraverso lo spettacolo, poiché l’immagine è più facilmente manipolabile, l’occhio può più facilmente essere addomesticato. La lingua può anche essere controllata attraverso l’uso di brevi slogan, discorsi esaltanti e qualsiasi cosa che dia in pasto alle masse senso di comunità. Il naso latita: il naso annusa ciò che vi è, ed il potere non ha odore. Al potere era finora mancato un naso. Un tentativo di introdurre questo nel corpo immateriale dello Stato fu la fondazione del Comitato degli odori liberali, un corpo di ordinamento paramilitare con il compito di correggere gli odori ritenuti sgradevoli, offensivi o pericolosi nei riguardi del popolo italiano. La sua fondazione ebbe soprattutto l’obbiettivo di eliminare una sottile forma di propaganda etnica avversa allo Stato, che si attuava appunto per via olfattiva: si immagini un immigrato giunto oramai sul suolo italico, lo si privi di voce per esprimere idee sovversive, e dopo ancora lo si privi di forze, conoscenze e volontà per essere altro che un membro silenzioso e, a suo modo, produttivo dello Stato. Non lo si potrà tuttavia privare del suo odore. Il suo puzzo di persona costretta a lavarsi di rado, olezzante d’aglio, lavoro nero e spezie esotiche, un odore che sa d’estraneo, di perturbante, di umiliazione e lontananza. Stiamo parlando di un pericoloso segno di deviazione dalla norma che istigherebbe forse qualche molesto progressista ad interrogarsi sul senso di estraneità. Ciò, s’intuisce, non può assolutamente accadere. Si riconobbe infatti negli odori delle persone povere una subdola propaganda volta a diffondere presso il popolo italiano sentimenti di buonismo e pericolosa apertura alla multiculturalità, affatto deleteri in un momento storico di grave crisi e in una condizione talmente precaria per la politica estera. Non serve inoltre ricordare quanto l’apertura a culture diverse e la deviazione dai salubri pilastri di tradizione e non possano che portare infine all’annientamento della già pericolante cultura italiana, già pronta ad essere schiacciata sotto lo stivale sinistroide della globalizzazione se non vi fosse una previdente forza politica a prenderne le fragili spoglie d’uccello caduto dal nido e riportarlo in auge, difendendo i buoni valori d’una volta per permettere che quell’implume uccellino si trasformi finalmente nell’aquila gloriosa d’un tempo. Il pericolo non proveniva solamente dall’Africa negra, s’intenda: erano da ritenersi sovversivi anche, nominando alcuni esempi, l’odore dei ristoranti cinesi e delle persone che ivi lavorano, il fetore di chi coglieva pomodori sotto il duro occhio di bragia dei caporali nelle assolate pianure della Puglia, di chi s’era dato a vendere fazzoletti agli incroci di strade ovvero a spacciare maria nel canto d’una piazza notturna. Il fiero fetore Roberto Madonna Il comitato degli odori liberali

di povertà e fuga, che, spesso, era tutto ciò che rimaneva della patria. Quand’anche si privasse i pericolosi sovversivi della loro viva voce, della loro possibilità di avere un’identità politica attiva, essi avranno sempre un odore che ricorderà inesorabilmente all’inerme italiano della loro storia, irrimediabilmente ‘altra’, una voce senza voce che costringe gli occhi su d’una realtà scomoda, a risvegliare inopportuni sentimenti di ‘umanità’ (per usare un termine tanto caro al movimento mondiale del buonismo). Tutto ciò fino al glorioso giorno della fondazione del Comitato per gli odori liberali. La proposta di legge che condusse infine all’istituzione del Comitato mirava appunto a ciò: selezionare una serie di odori caratteristici ed autentici d’Italia e valorizzare quelli, sopprimendo tutti gli altri odori ‘etnici’ attraverso un capillare lavoro di ‘ri-odorazione’ ad opera di gruppi paramilitari di pattuglia. Un simile tentativo fu attuato anche durante il Ventennio, e pare ne esistessero testimonianze in alcuni documentari dell’Istituto LVCE oggi segretati. Parliamo col professor Vincenzo Carnevale, ordinario di Storia Contemporanea presso la facoltà di Padova, che afferma di aver visionato tali preziosi documenti. «Si trattava allora d’un ramo sperimentale delle Camicie Nere, che aggregava volontari d’ogni rango e organizzava pattuglie bardate di serbatoi di ‘fragranza-X’, un siero sperimentale cui pare avessero lavorato congiuntamente le forze di tutto l’Asse sotto il patrocinio intellettuale di Giovanni Gentile. Il siero era diffuso con certi nebulizzatori simili per forma a delle moderne doccette. Gli aromi che trasportavano erano di pistacchi di Bronte, limoni di Sorrento, essenza di pini del Trentino, mare di Ostia e spaghetti all’amatriciana». Questi furono solo alcuni campioni sperimentali per un progetto destinato alla produzione di aromi italiani in larga scala, ci dice il prof. Carnevale. Sappiamo che con questi aromi vennero ‘corretti’ prigionieri politici avversi al regime e, in un secondo momento, puteolenti partigiani. Pare che una partita di aromi fosse fatta trasportare anche nelle colonie dell’Abissinia allo scopo di italianizzare l’odore dell’Africa negra. Secondo gli storici, i contenitori di

questa partita sarebbero ancora seppelliti assieme ad altri resti bellici nei pressi di Mogadiscio. Mussolini 166

non fu in grado di portare avanti il progetto anche nella neonata Repubblica di Salò, e fino appunto all’ultimo Governo l’idea del Comitato per gli odori liberali restò uno dei molti progetti bellici dimenticati. ‘Prima gli odori italiani’, questo lo slogan delle brigate di pattuglia, che con grande zelo si diedero a infaticabili ronde notturne nelle quali i dissidenti della fragranza venivano stanati e prontamente ri- odorati. Mai più gli automobilisti di fretta sarebbero stati costretti ad interrogarsi davanti alla trista realtà della povertà ascoltando l’odore delle ascelle di un nigeriano. La protesta delle ONG comuniste fu presto sedata: è nota da sempre la scarsa igiene personale che caratterizza i Rossi. Ogni rivoluzionario da salotto, radical-chic o sbarbatello fresco di centro sociale poteva sì protestare e sbraitare, ma i cortei erano ormai irrimediabilmente profumati di pane casereccio e prosecco brut di Valdobbiadene. Un arresto nel Progetto per il Perfezionamento dell’Olfatto Italiano si verificò con uno squallido caso di cronaca, fortemente amplificato dai media dell’opposizione: il capitano del Comitato, Augusto Lo Turco (Fiano Romano, 1967), fu scoperto a mangiare couscous alla senegalese, per poi essere successivamente congedato con disonore. Il corteo di protesta ‘Chi controlla i controllori?’, che s’impossessò delle strade di Roma, fu fortunatamente interrotto dalla processione del Corpus Domini e successivamente riprofumato d’incenso per opera diretta dello Spirito Santo. Per rafforzare il progetto furono stipulati diversi accordi con multinazionali occidentali (tra le prime ad offrirsi ricordiamo McDonald’s Corporation e The Coca-Cola Company) allo scopo di sostituire con odori più familiari le fragranze di cibo esotico, cucina etnica e fusion. Ma non finisce qui: dopo lo sfortunato incidente di Lo Turco, fu nominato capitano del Comitato Ignazio Evola, successivamente soprannominato ‘Lope de Aguirre’ per il suo implacabile zelo. Grazie ad Aguirre, l’operato del comitato assunse una portata ancora maggiore, ancor più nobile, se possibile: sostituire con fragranze familiari, rassicuranti e gradevoli ogni odore che potesse turbare il popolo italiano. Furono sostituiti gli odori delle fabbriche, e delle immondizie, e dei cadaveri. L’intero territorio tra la Campania e Roma Sud fu bonificato per profumare la locale emergenza- rifiuti con cornetti e fiori di Sanremo. Mai più il naso poteva essere toccato da odori molesti: in ogni angolo dell’Italia non v’era che profumo! La modernità

Roberto Madonna Il comitato degli odori liberali

era a portata di mano, tramite il mezzo della standardizzazione: proiettare l’esperienza sensoriale nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Così lo Stato e le grandi e benevole multinazionali, quasi assumendo corpo, facendosi uomini per camminare in mezzo a noi ed insegnarci il loro lieto annuncio, ci proteggono da ogni cosa che sia sgradevole, permettendoci di non essere infastiditi, da non dover considerare tutte quelle gravi questioni troppo complesse per i nostri spossati ingegni, già turbati dalla durezza della vita quotidiana senza che sia necessaria l’irruzione di problematiche distanti da noi, diffuse solo dall’opposizione per screditare il Governo. La ricerca sugli effluvi odoriferi portò l’Italia al primo posto nelle avanguardie tecnologiche, facendone un faro per il settore chimico mondiale. Forte dell’alleanza con le forze politiche italiane nella comune lotta alle élite dei migranti e dei buonisti, la ricerca chimica italiana sembrava pronta a tagliare traguardi mai raggiunti prima. E difatti così accadde: proprio da uno dei gruppi di ricerca impegnati sulla sintesi degli effluvi nacque forse il più importante sviluppo che la scienza abbia mai apportato al progresso etico dell’umanità: il siero per narcotizzare l’opposizione politica. L’Italia, precedentemente tenuta in stallo su diverse importanti decisioni dal fardello di una fastidiosa minoranza politica (circa il 20% parlamentare) poteva ora lanciarsi verso un radioso futuro d’innovazione e progresso, priva del gravoso impaccio che rappresentava l’avere più di una sola fazione politica. Possiamo concludere proclamando orgogliosamente che ci avviciniamo al sereno avvenire in cui non dovremo più udire, né vedere, né gustare, né toccare, né annusare, né parlare: non ve ne sarà alcun bisogno: sarà lo Stato a farlo per noi, e noi non dovremo che annuire, accettare la realtà per fede nel potere e per diritto di cittadinanza. Del resto è noto già dall’Evangelo come la necessità di una prova diretta sia segno di empietà e mancanza di fede. Corpi controllati per sola virtù divina del Primo Ministro.

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Il concetto di progresso nel mondo antico: alcune considerazioni

ANITA ALLEGRETTA

on il termine progresso attualmente si intende uno sviluppo del tenore di vita dell’uomo, al fine di determinare un generale miglioramento delle sue condizioni rispetto al passato permettendogli di vivere il più lontano possibile da qualsiasi tipo di disagio. Tenendo conto di questa definizione si presuppone che alla base dell’idea di progresso vi sia la considerazione di una prospettiva lineare del tempo dal momento che c’è progresso soltanto se, rispetto ad un determinato passato, è possibile rinvenire un miglioramento. Questa concezione di progresso si è però sviluppata definitivamente soprattutto a partire dal XIX secolo, con l’affermarsi in Europa della filosofia positivista, soprattutto grazie al filosofo Auguste Comte, il quale tentò di definire le leggi del progresso sociale, ovvero i modi in cui le società si evolvono e i motivi di tale evoluzione. Dal momento che quest’idea di progresso è di recente affermazione, sorge spontaneo quale concezione ne avesse in merito il mondo antico. A questa domanda non è possibile dare una risposta certa, anzi si pensa che questo concetto fosse quasi totalmente oscuro dal momento che non vi è un termine specifico nel vocabolario greco che corrisponda esattamente al termine progresso. Nonostante ciò si possono trovare vocaboli che rimandano a quel determinato campo semantico. Tra questi: ἐπίδοσις, che indica una ‘crescita’ sia in positivo che in negativo; e προκοπὴ, termine di epoca ellenistica che deriva dal più antico verbo προκόπτειν che significa propriamente ‘aprir la strada davanti a sé’ o più semplicemente lo si potrebbe tradurre con l’espressione colloquiale ‘guardare oltre/in avanti’1. Cicerone tradusse la medesima parola con il termine progressus. Non è un caso che il termine prokope sia stato sviluppato in epoca ellenistica, in quanto nel suo significato si evince una mutata concezione di tempo; il termine, infatti, vuole sottolineare l’atteggiamento proprio di chi non è più radicato nella difesa/contemplazione del passato ma cerca di guardare al futuro. Questa attitudine, secondo alcuni, è assente nel pensiero greco arcaico che definiva il concetto di tempo facendo riferimento a due miti della tradizione: il mito dell’età dell’oro e quello dell’eterno ritorno2. Il mito dell’età dell’oro (che oltre ad essere proprio della tradizione greca, era stato esposto sin da Esiodo ne Opere e i giorni) può essere così riassunto: vi era un tempo una stirpe di uomini, sotto il regno del titano Crono (prima dell’avvento di Zeus) che viveva insieme agli dei immortali, senza dolori, senza fatiche e senza pene, senza dover lavorare. La natura produceva spontaneamente tutto ciò che era necessario per soddisfare i bisogni dell’uomo, ogni bene della terra era a loro disposizione senza che

 Il presente lavoro è il frutto delle attività messe in atto nell’ambito dei Percorsi per le competenze traversali e orientamento (ex Alternanza Scuola-Lavoro). 1 Cfr. C. Bearzot, ‘L’idea di progresso nel mondo antico’, Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, 4, 2007, 1-2. 2 E.R. Doods, ‘The Ancient Concept of Progress’, in Id., The Ancient Concept of Progress and other Essays on Greek Literature and Belief, Oxford 1973, 3.

Anita Allegretta Il concetto di progresso nel mondo antico: alcune considerazioni

questi ultimi dovessero lavorare o affaticarsi per procurarseli. Questa condizione è però propria soltanto di una fase dell’umanità, destinata a concludersi per lasciar spazio all’età dell’argento, del bronzo e del ferro. Il susseguirsi delle diverse ‘generazioni’ è caratterizzato da una degradazione della condizione umana. Se infatti prima gli uomini potevano vivere in pace in quanto tutto era per loro presente, conducendo una vita fatta d’ozio, gli uomini delle future generazioni hanno conosciuto la fatica, il lavoro, la sofferenza e l’ingiustizia che ha reso la loro esistenza più complicata. Il mito dell’eterno ritorno, invece, è basato sul concetto di ciclicità del tempo. Da questo traspare un pessimismo di fondo in quanto ogni cosa è destinata a finirsi, per poi ripetersi eternamente con l’alternarsi ciclico del tempo, facendo sì che ogni evento possa ripresentarsi. Da questi miti si può evincere il motivo per cui molti ritengono che il concetto di progresso nel pensiero greco arcaico sia assente. Da un lato infatti si riteneva che non c’era nulla di migliore da aspettarsi in futuro, poiché l’umanità aveva già vissuto in un’epoca perfetta, non più imitabile e che anzi il trascorrere del tempo comportasse inevitabilmente decadenza morale e esistenziale per l’uomo; dall’altro, invece, si riteneva che il ripetersi dello stesso dramma o delle stesse problematiche, data la concezione ciclica del tempo, non desse possibilità di sviluppo di qualcosa di nuovo e fosse così preclusa la possibilità di migliorare le condizioni generali dell’umanità. Nonostante questa generale visione anti-progressista, non tutta la tradizione mitologica greca assume questa prospettiva. Se si considera infatti il mito di Ercole o quello di Prometeo vi è la dimostrazione del fatto che l’avvento della civilizzazione ha permesso di ordinare il Kaos originario presente nel mondo: infatti, Ercole con le sue fatiche ha completato la missione civilizzatrice che gli spettava, mentre Prometeo invece ha reso possibile la sopravvivenza del genere umano rubando il fuoco agli dei.

Se inoltre si considerano i Poemi Omerici un episodio in cui vi è un elogio alle potenzialità evolutive 169 dell’uomo è sicuramente quello di Ulisse che si contrappone al Ciclope Polifemo nell’Odissea. L’eroe greco infatti, portatore di civiltà, tramite l’utilizzo dell’ingegno, caratteristica propria solo degli uomini, riesce a fermare e sconfiggere un essere ancora allo stato ferino e incivile. Dunque in questi ultimi casi è proprio l’avvento della civiltà (che può essere definito come progresso sociale) che ha permesso agli uomini la sopravvivenza e la facoltà di continuare ad agire. Tralasciando però i riferimenti letterari e mitologici arcaici che appaiono abbastanza ambigui riguardo a tale tematica, è opportuno analizzare alcune tragedie del V sec a.C. in cui sembra delinearsi un primo abbozzo dell’idea di progresso in senso moderno. Innanzitutto è necessario osservare l’importanza della Tragedia di Eschilo Prometeo incatenato, dal momento che essa potrebbe considerarsi un manifesto della fiducia nel progresso umano. La vicenda si concentra sulla punizione inflitta al titano ribelle, colpevole di aver rubato il fuoco agli dei per darlo agli uomini, cosa che era stata negata da Zeus. Questo gesto di Prometeo permise però all’umanità di sopravvivere e progredire. Eschilo in questa tragedia vorrebbe presentare Prometeo come un modello positivo, che nonostante gli impedimenti di Zeus, si fa difensore del genere umano concedendogli la via del progresso. Inoltre Prometeo risulta essere un modello positivo anche perché a lui vengono fatte discendere tutte le capacità tecniche ed intellettive che hanno permesso all’uomo di resistere ed evolversi, correggendo gli errori di Epimeteo. Viene abbandonata dunque l’idea secondo cui l’uomo nell’età dell’oro fosse già completo e perfetto, dal momento che solo grazie al titano ribelle egli ha potuto migliorarsi, acquisendo ciò che gli è proprio, ossia la ragione. Un’altra opera da tener presente è l’Antigone di Sofocle. Il coro degli anziani nella tragedia (vv. 332 e ss.) celebra la δεινότης, ossia l’intelligenza e le capacità dell’uomo che ha acquisito tutte le risorse necessarie per evolversi in ambito tecnico. L’acquisizione di capacità tecniche da parte dell’uomo però non determina un suo miglioramento morale ma soltanto materiale, dal momento che lo stesso termine

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deinos (da cui deriva deinotes) significa sia meraviglioso ma anche terribile. Ciò dunque lascia spazio alla considerazione pessimistica secondo cui non necessariamente il progresso tecnico possa effettivamente influire positivamente sulla sfera etico-morale dell’uomo3. Nonostante ciò, da come si evince in entrambe le tragedie, durante il V sec., soprattutto nell’Atene periclea, vi è una maggior fiducia nelle facoltà umane rispetto al passato. Questo mutamento di prospettiva probabilmente è stato influenzato sia dalla logica Sofistica che si è concentrata sull’analisi delle capacità umane, ma soprattutto dallo stesso Pericle e dal suo modo di concepire la realtà. Nel suo celeberrimo discorso infatti si coglie un’idea ottimistica di progresso in quanto egli fa considerazioni sulla sua città tralasciando qualsiasi tipo di elogio al passato, ma focalizzandosi solo sul presente e sul futuro, sulle azioni dell’intera comunità che possono migliorare ancora di più una società in ascesa. Dunque, vi è nel pensiero pericleo un tentativo di scardinare quel pessimismo proprio della tradizione greca che nel futuro e nel presente non vede alcun miglioramento rispetto alla dimensione aurea del passato4. Nell’ambito del progresso è fondamentale anche la testimonianza dello storico Tucidide. Necessario, innanzitutto è sottolineare il fatto che nella storiografia greca il tempo è considerato in maniera lineare, differentemente dalla tradizione. Nell’Archeologia, momento in cui lo scrittore, nell’opera “Guerra del Peloponneso” tratteggia i momenti salienti della storia della Grecia mettendo in luce come il popolo greco sia passato dall’essere in uno stato di quasi barbarie a diventare poi la principale civiltà del mediterraneo, grazie allo sviluppo materiale, sociale ed economico che era derivato inizialmente dal bisogno (come aveva messo in luce anche Democrito). Inoltre se si considera in particolare la situazione degli ateniesi, l’avanzamento della loro polis rispetto alle altre è stato sicuramente frutto della loro capacità di saper fare della politica una technè, che ha reso loro abili e pronti a saper sfruttare ogni 170 opportunità o novità che si presentavano per la città, in modo tale da migliorarsi da sé costantemente. Inoltre, per comprendere la posizione di Tucidide, è necessario sottolineare che egli abbia deciso di trattare della Guerra del Peloponneso perché fu il più grande avvenimento storico realizzato. Si evince dunque che egli ritiene che il presente, con i suoi personaggi, sia di gran lunga superiore rispetto al passato. Questa prospettiva è presente anche nell’epitaphios logos di Pericle, scritto dallo stesso Tucidide. Il grande stratega infatti evidenzia che la civiltà ateniese la più grande e la migliore che sia mai esistita, ponendo quindi un divario tra passato e presente. Infine, la posizione periclea e quella tucididea risultano analoghe dal momento che è lo stesso Tucidide che riproduce il discorso di Pericle, trascrivendolo non in maniera fedele alla realtà ma modificandolo in base al suo punto di vista. Se nel V sec., come si è visto, vi erano tendenze culturali ‘favorevoli’ ad un’idea di progresso in senso moderno, nel IV sec., invece, si assiste ad un ritorno di ideologie ‘conservatrici’ dovute probabilmente all’aggravarsi della situazione politica. Un esempio è riscontrabile in Isocrate che, nonostante il fatto che riconosca rispetto ai primi uomini un’evoluzione materiale necessaria per permettere alla civiltà di evolversi, dal punto di vista politico egli guarda al passato come un modello politico migliore, i cui valori dovrebbero continuare ad ispirare le generazioni a lui contemporanee e i posteri essendo superiori5. Per quanto riguarda invece la filosofia, i due massimi esponenti del tempo, Platone e Aristotele, assumono anche questi talvolta un atteggiamento ambivalente. Platone in particolare riprende l’atteggiamento antiprogressista proprio della tradizione greca, cosa che si evince ad esempio già a partire dalla teoria delle idee: essa infatti dice che la realtà non è perfetta né lo è mai stata dal momento

3 C. Bearzot, ‘L’idea’, art. cit., 4. 4 D. Musti, Demokratìa. Origine di un’idea, Roma-Bari 1997, 6-7. 5 C. Bearzot, ‘L’idea’, art. cit., 8.

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che ogni cosa è solo una copia imperfetta di archetipi, da sempre esistenti, presenti nel mondo delle idee. Ogni tentativo di progresso o di introduzione di novità è per Platone utopia, dal momento che non vi può essere nulla di nuovo, poiché tutto è imitazione di un modello eterno e preesistente. Invece, anche se nelle Leggi Platone trattando delle origini delle costituzioni afferma che vi fu un’evoluzione lenta e graduale a partire da una condizione estremamente primitiva, nella stessa opera e nella Repubblica, sostiene invece che il progresso materiale comporta l’apprendimento di nozioni che sono nocive per gli uomini (quali ad esempio quelle della guerra o della lotta) che spingono gli uomini a cercare di trovare e inventarsi nuovi mezzi per compiere ingiustizie. A causa di ciò anche nello stesso Platone si nota un vagheggiamento a quella realtà semplice e frugale in cui i primi uomini vivevano concentrandosi solo sui loro bisogni. Pur essendo dunque questi ignari delle virtù proprie della vita civile, essi vivevano in una condizione di felicità che era data dalla semplicità dei loro modi di vivere. Per Aristotele invece, pur ammettendo che vi sia stato un progresso rispetto al passato, egli ritiene che questo era frutto di uno sviluppo già determinato in partenza. Infatti, definendo l’uomo un animale sociale, egli ritiene che il progresso fosse inevitabile per far sì che egli potesse raggiungere il proprio spazio di azione nella vita civile, cosa che era stata predeterminata dallo stato naturale dell’uomo6. Con l’avvento della sottomissione della Grecia all’impero Macedone, il cambiamento che i Greci dovettero affrontare diede adito all’emergere di una nuova forma di anti-progressismo. Infatti, I poeti e gli uomini del tempo erano nostalgici di una realtà semplice, rurale e non contaminata dallo sviluppo della civiltà che ha portato alla creazione di regni complessi, dalla grande organizzazione burocratica. La crisi della cultura greca in questo periodo, oltre che per questo atteggiamento nostalgico, si caratterizza anche per le sue tendenze individualiste. Rispetto al passato in cui si era abituati a decidere in comunità, ora il suddito che è sottomesso al regno, può decidere solo limitatamente per sé stesso. Questo lo si 171 può notare soprattutto nello sviluppo della filosofia Epicurea, la cui dottrina si concentra sul raggiungimento dell’edonè personale ed è ostile alla partecipazione del singolo alla vita politica e civile in quanto causa di turbamento. Per questa ragione il sapiente epicureo non mette a disposizione il proprio sapere per migliorare la realtà circostanze, ma si focalizza sul raggiungimento dell’apateia e dell’atarassia per sé stesso7. Infine, anche se si compie un considerevole salto temporale, è opportuno soffermarsi sul pensiero di Seneca. Per Seneca vi è una netta distinzione tra la vera scienza, che è la filosofia, e la tecnica, proprio per questo più che focalizzarsi sul progresso tecnico, egli si concentra su questioni di tipo morale. Nelle Naturales Questiones però vi sono alcune considerazioni specifiche a riguardo: essendo uno stoico Seneca ritiene che anche la natura sia governata dal logos universale, proprio come anche gli uomini; compito della filosofia è perciò anche quello di comprendere la logica intrinseca alla natura e fare in modo che gli uomini la rispettino. Proprio per questo l’innovazione tecnica è vista negativamente dal momento che essa parte dal desiderio di sfruttare e modificare la natura a puro vantaggio dell’uomo che invece dovrebbe vivere in accordo con essa. Seneca però non vuole ostacolare il progresso scientifico, anche se percepisce questo come la comprensione dei meccanismi strutturali dei fenomeni naturali. L’uomo quindi può e deve conoscere la natura ma non modificarla o sconvolgerla. Inoltre vivere in accordo con la natura significa anche vivere in conformità con il logos universale, ciò fa in modo che le passioni e i vizi dell’uomo possano essere placati8.

6 E.R. Doods, ‘The Ancient Concept’, art. cit., 14-16. 7 Ibid., 17. 8 Cfr. I. Lana, ‘Scienza e tecnica a Roma da Augusto a Nerone’, in Id., Studi sul pensiero storico classico, Napoli 1973, 385 e ss.

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La cura

ROBERTO MADONNA

Sono una terapia, sono una terapia Verranno al contrattacco con elmi ed armi nuove Verranno al contrattacco ma intanto adesso Curami curami curami CCCP - Fedeli alla linea, Curami

el film di Ingmar Bergman Il posto delle fragole, il dottor Isak Borg, per ricevere un importante riconoscimento professionale, compie un viaggio che lo porta a visitare i luoghi della sua giovinezza e a riflettere sul suo passato, tra nostalgia e rimpianto. Una celebre sequenza onirica vede il professore che sogna di trovarsi ad un esame, gli viene chiesto quale sia il primo dovere di un medico ed egli non riesce a rispondere. «Il primo dovere di un medico», gli svela lo spirito che l’ha guidato nel sogno, «è chiedere perdono». La prima malata di cancro di cui sia stato riportato il nome è la regina Atossa di Persia, moglie di Dario I il Grande e madre di Serse. Erodoto parla della sua malattia nel libro III delle Storie:

Hdt. 3, 133: Ἀτόσσῃ τῇ Κύρου μὲν θυγατρί, Δαρείου δὲ γυναικὶ ἐπὶ τοῦ μαστοῦ ἔφυ φῦμα, μετὰ δὲ ἐκραγὲν ἐνέμετο πρόσω. Ὅσον μὲν δὴ χρόνον ἦν ἔλασσον, ἡ δὲ κρύπτουσα καὶ αἰσχυνομένη ἔφραζε οὐδενί, ἐπείτε δὲ ἐν κακῷ ἦν, μετεπέμψατο τὸν Δημοκήδεα καί οἱ ἐπέδεξε.

Atossa, figlia di Ciro e moglie di Dario, sentì radicarsi un tumore al seno, che poi, essendosi rotto, si andava diffondendo. Finché fu di modeste proporzioni essa lo teneva nascosto e, per pudore, non ne parlava ad alcuno; ma quando si trovò in stato grave, fece venire Democede [il medico di corte greco di Dario] e glielo mostrò. Trad. di L. Annibaletto

La prima reazione di Atossa, una delle donne più potenti ed influenti del mondo antico, fu di coprire il proprio corpo e provare imbarazzo per la malattia. Vi sono differenti versioni dei fatti, che narrano di come la regina avesse abbandonato la corte per vivere in solitudine a causa dell’imbarazzo, o si fosse fatta praticare una rudimentale mastectomia da uno schiavo pur di estirpare il male; ma entrambe tali versioni non sono documentate nelle Storie. Ad ogni modo, la vicenda di Atossa, appena accennata nell’opera di Erodoto, ci permette di focalizzare la prima problematica che la malattia pone al malato: la vergogna. Anche nella società contemporanea, una società dei servizi che offre al cittadino una pletora di istituzioni volte a soddisfare i suoi bisogni primari e secondari e che ha reso la ‘terapia’ un concetto pervasivo, permane la tendenza radicata a porre il ‘deviante’, una minoranza con debole potere contrattuale e sociale, in stato d’isolamento, e delegare la sua gestione ad apparati ed istituzioni che muovono soggezione, e d’altra parte mostrano sovente delle intrinseche debolezze ed incapacità. Roberto Madonna La cura

Una delle più eclatanti manifestazioni di questi fenomeni di isolamento del ‘deviante’ avviene nel campo della psichiatria, quando essa mostra il secondo volto repressivo del manicomio. La pratica psichiatrica, pur mossa da nobili propositi (fenomenologia, esistenzialismo, psicanalisi), ha mostrato e mostra tutt’ora un fine repressivo. Lo ha mostrato nell’esperienza di Franco Basaglia, la cui indignazione ed il cui calarsi nella contraddizione del reale ha poi portato ad una riflessione sul ruolo professionale dello psichiatra ed infine ad un’efficace modifica dei rapporti di forza con la Legge Basaglia. Non bisogna tuttavia dimenticare come ad oggi permangano violazioni dei diritti umani negli ospedali psichiatrici giudiziari, con contenzioni fisiche, abusi farmacologici, pazienti legati e privati di cure. La microfisica del potere disciplinare, campo d’indagine praticato dall’epistemologia del filosofo Michel Foucault, ci mostra come anche le istituzioni, e tra queste le istituzioni mediche, abbiano un potere altrettanto totalizzante ed autoritario che i grandi sistemi di potere macrofisici, e per di più questo sia anonimo e ripartito: un reticolo di rapporti di forza evidente solo nella docile sottomissione di coloro su cui questo potere si esercita. Appare dunque evidente la necessità di una rigorosa autocritica della pratica medica, volta a ristabilire il contatto col paziente sulla professionalità infeconda e spersonalizzante, cui è per di più fornito lo strumento di un potere tecnologico sempre più pervasivo: una pratica medica che si trova a disporre di un’enorme potenzialità tecnica, ma di scarsa capacità critica su come applicarla. Se pure la professionalità e l’autorità della figura del medico sono necessarie ad arginare i pericoli di una società in cui il facile accesso ad ogni tipo d’informazione facilmente conduce ad autodiagnosi azzardate e pericolose, il professionista tende a dare rilievo alla propria specificità tecnica a scapito dell’autocritica. Il curante finisce per trovare riparo nel recupero acritico di una professionalità che sostiene involontariamente istanze di controllo e forme di disagio sociale. L’attenzione del curante s’è progressivamente spostata dal malato alla malattia. L’oggetto della cura è un organo malato, una malattia vista come fatto anomalo negativo rispetto ad una salute intesa come 173 norma assoluta positiva. Conseguentemente, la professione medica s’indirizza verso l’annientare la malattia, verso la capacità d’analisi della diagnosi, riducendo così la terapia ad una prestazione tecnica o, peggio, ad una transazione. Il paziente diviene cliente, e la prestazione medica si focalizza sulla quantità di pazienti, di posti letto occupati, sulla spesa. Non è da sottovalutare anche come l’organizzazione degli spazi terapeutici sia spesso improntata al controllo del comportamento che, se anche fosse necessario al sano progresso della terapia, mantiene un forte impatto sull’emotività e la sfera personale del paziente. La formazione medica è dunque concentrata su: standardizzazione delle procedure e formalizzazione del processo terapeutico; e sebbene protocolli e procedure rappresentino un progresso, la loro enfasi induce ad un pensiero riduttivo che comporta un grave danno per il paziente. Ciò che perde valore in questo nuovo indirizzo della pratica medica sono l’impegno di assistenza, partecipazione e solidarietà verso il malato con la sua totalità esistenziale. Qualsiasi terapia non può porsi esclusivamente come prestazione al paziente, ma necessita che si recuperi l’originario significato di ‘servizio’. Non può esservi terapia senza un rapporto personale tra paziente e curante; e la spersonalizzazione della malattia, dimenticare che essa sia sempre malattia di una persona e non un astratto insieme di dati da riportare a valori standard, comporta un profondo danno per il paziente. La pratica medica degli albori, nella Grecia del periodo classico, poneva a suo fondamento proprio il rapporto col paziente. Il termine ϑεραπεία ha un valore estremamente più ampio dell’italiano ‘terapia’, e a tale restringimento semantico corrisponde parimenti un restringimento del campo d’azione, dell’etica, della deontologia della cura medica. Therapeia indica il servizio divino dei Greci, la dedizione rivolta al dio (cfr. Platone, Eutifrone, 13d; Repubblica 427b; Fedro 255a). Si noti in particolare come nell’ultimo luogo il termine indichi anche la sfera dell’amore: esso si riferisce all’adorazione dell’amante verso l’amato, che è pari a quella che è dovuta agli dei.

Plat. Phaedr. 255a-b: ἅτε οὖν πᾶσαν θεραπείαν ὡς ἰσόθεος θεραπευόμενος οὐχ ὑπὸ σχηματιζομένου τοῦ ἐρῶντος ἀλλ' ἀληθῶς τοῦτο πεπονθότος, καὶ αὐτὸς ὢν Roberto Madonna La cura

φύσει φίλος τῷ θεραπεύοντι, ἐὰν ἄρα καὶ ἐν τῷ πρόσθεν ὑπὸ συμφοιτητῶν ἤ τινων ἄλλων διαβεβλημένος ᾖ, λεγόντων ὡς αἰσχρὸν ἐρῶντι πλησιάζειν, καὶ διὰ τοῦτο ἀπωθῇ τὸν ἐρῶντα, προϊόντος δὲ ἤδη τοῦ χρόνου ἥ τε ἡλικία καὶ τὸ χρεὼν ἤγαγεν εἰς [b] τὸ προσέσθαι αὐτὸν εἰς ὁμιλίαν·

Così l’amato, divenendo oggetto di culto come un dio non già da parte di uno che simula, ma da parte di uno che prova davvero tale devozione, anche egli di sua natura si dispone amichevolmente verso il suo devoto; e se prima era stato fuorviato da compagni e da altri che trovavano vergognoso egli avesse commercio con un amante, e se per questa ragione egli lo aveva respinto, tuttavia col passare [b] del tempo l’età stessa e la forza delle cose lo spingono ad accoglierlo nella sua intimità. Trad. di P. Pucci

L’accettazione dell’amore da parte dell’amato si fonda su due elementi: il tempo e la forza delle cose, ovvero la necessità. Tale passo del Fedro può dunque fungere da efficace metafora del dovere del medico: ovvero del servire, e del modo in cui esso articola il suo rapporto col paziente: attraverso tempo e necessità. Queste due componenti del rapporto col paziente sono entrambe imprescindibili: non deve esservi una terapia superflua che consuma tempo, né può esservi terapia necessaria che non sfrutti il tempo per coltivare un rapporto col paziente che non sia solo professionale né inscrivibile in una mera transazione, la qual cosa sarebbe invece fortemente degradante nei confronti del paziente. Un rapporto, appunto, di devozione e servitù. Il termine di paragone che la grecità pone per la ‘terapia’ è la devozione che si deve agli dei: il curare un essere umano è costruito sul paradigma dell’agire che esprime devozione verso il dio. Il rapporto col paziente, se si fa therapeia, è dunque inteso come adorazione della vita del prossimo avendo come paradigma l’attenzione che si dedica ad un dio. Ma è importante che quest’adorazione 174 non diventi adorazione per la vita come concetto oggettivo in sé e per sé, ma sempre adorazione per la vita nell’essere umano e secondo quel determinato essere umano. In altre parole, il medico non deve curare ed occuparsi della vita nell’altro, ma della vita dell’altro e per l’altro. Il sentimento della vita dell’altro può generare un conflitto con quello del curante. Il paziente potrebbe non tollerare alcune decurtazioni (la possibilità di non poter parlare o deambulare) adducendo che quello che per il curante è vita, per lui non sarebbe più vita. Colui che esercita la therapeia dovrebbe essere capace di intendere profondamente il modo di sentire dell’altro e così direzionare il proprio agire verso la vita dell’altro, e non il proprio concetto di vita proiettato sull’altro. Fare therapeia significa agire riconoscendo il profondo dipendere dell’essere umano dalla vita e da ciò che ad essa consente di non esaurirsi nel tempo. La therapeia esprime verso la vita tensione, dunque adorazione ed amore, che è desiderio d’immortalità, un’energia cosmica già formalizzata da Platone nel concetto di Eros nel Simposio, e tale adorazione in perpetua tensione verso uno stato di ‘eterna salute’ non può che manifestarsi in un desiderio appassionato di vita, di conoscenza, di esistenza dell’altro: un concetto del tutto affine all’amore nella filosofia di Heidegger: volo ut sis, ‘voglio che tu sia’; amare l’esser-ci di un altro essere umano. La medicina contemporanea dovrebbe tentare di ricollegarsi alle proprie radici ed attingere a questo campo di conoscenze, ed è ciò che fa notare anche l’oncologo Premio Pulitzer Shiddarta Mukherjee:

La medicina non è una scienza esatta ma umanistica, perché ha il compito di curare gli esseri umani, che sono ognuno diverso dall'altro. Di fronte al paziente, il medico avrebbe sempre il dovere di ammettere l'incertezza. Perché l'incertezza è la vera base della medicina1.

1 P. Beltramin, I medici devono chiedere perdono, Corriere della Sera (web), 13/7/2012, https://www.corriere.it/cultura/12_luglio_13/beltramin-medici-devono-chiedere-perdono_46736c46-ccd4-11e1-a3bf- e53ef061f69e.shtml Roberto Madonna La cura

Questo concetto è ancora una volta presente nella originale valenza della pratica medica presso la grecità classica: «non può conoscere la medicina chi non sa che cos’è l’uomo, e che questo è ciò che deve imparare a fondo colui che intende curare correttamente gli uomini» (Ippocrate, Antica medicina 20). Si tratta di una pratica medica che, lungi dal porsi sullo stesso piano delle scienze esatte, si fondi come un’ ‘arte della cura’, che ha il suo fondamento nella disposizione all’ascolto. Queste parole paiono immaginare un superamento della dialettica tra umanesimo e scienze nell’ottica della fondazione di una nuova etica professionale umanistica che non sia esclusivamente un’astratta casistica o deontologia, ma si fondi su un genuino rapporto particolare e personale col paziente.

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Sylvia Plath: una sensibilità lacerata

LUDOVICA SORRENTINO

ra la sera dell’11 febbraio 1963 quando la poetessa Sylvia Plath, emblema di una generazione, infilò la testa nel forno e si uccise. Aveva messo a letto i bambini, sigillato la loro stanza e preparato loro la colazione per il giorno dopo. Il marito, Ted Hughes, anch’egli poeta, era tra le braccia di un’amante, non molto lontano dalla sua stessa abitazione. Il testamento di Sylvia era racchiuso in pochi versi scritti di getto poco prima, sotto il lapidario titolo di Limite. La sua morte brutale gettò una luce inquietante sull’intera vicenda, tanto che gran parte degli stessi diari che la poetessa teneva sin da giovanissima furono distrutti dal marito, come lui stesso afferma nella prefazione alla parte restante, pubblicata nel 1982. Ma chi era davvero Sylvia? Studentessa, insegnante, poetessa, scrittrice, madre: una donna dalle mille sfumature e di una sensibilità acutissima. Nasce nel 1932 in una periferia di Boston, in America, che sentirà sempre troppo stretta e soffocante. Fin da piccola, Sylvia viene consumata dalla malattia e morte del padre, Otto, il quale non nascondeva nemmeno di aver preferito un maschio al suo posto. A lui è dedicata la poesia Papà, dove palesa la sua avversione nei confronti dell’uomo con versi scioccanti: «Papà, papà, bastardo, è finita». Sylvia dimostra subito una spiccata intelligenza: scrive numerosi racconti e annota sul suo diario anche eventi apparentemente insignificanti, dimostrando una precoce e forte percettibilità del suo vivere: un pregio che, molto presto, diventerà letale, portandola ad una prima crisi depressiva. In quel periodo, sul diario, lasciava chiari segni di un forte esaurimento nervoso, il quale culmina in un primo tentativo di suicidio, che però fallisce. La ripresa dal terribile avvenimento si basa su cicli e terapie di elettroshock, che influenzano e turbano la sua spiccata sensibilità tanto da essere ormai tormentata dalle ‘onde azzurrine’. Non è un caso che, all’interno del romanzo autobiografico La campana di vetro, ricorrano quasi con ossessione gli aggettivi blu elettrico e azzurro. Lasciandosi alle spalle l’avvenimento con un inaspettato ottimismo, la Plath si getta a capofitto nei suoi studi e conclude a pieni voti lo Smith College presentando una tesi sul tema del doppio in Dostoevskij. Si trasferisce in Inghilterra, a Cambridge, dove è fatale l’incontro con Ted Hughes, di cui si innamorerà perdutamente. Il loro matrimonio avviene in segreto, il 16 giugno 1956, giorno in cui James Joyce ambienta il suo Ulisse, dimostrando fin da subito la loro forte affinità e l’atmosfera letteraria che li circonda. L’amore per Ted sembra fortissimo, come Sylvia testimonia anche nel suo diario: «La vita senza di lui è inconcepibile». Ben presto i suoi sentimenti sfociano in una logorante ossessione che faranno del marito il suo ‘dio’. Le tragedie per la donna, però, non sono finite: solo qualche anno dopo subisce un aborto spontaneo, che secondo alcuni è dovuto a delle percosse subite dallo stesso marito. A questo punto è lecito porsi il fatidico interrogativo, chiedendosi se effettivamente fosse stato Ted Hughes, suo marito e compagno di vita, la causa di tutte le sue sofferenze che sono poi culminate nel suicidio. Secondo alcuni, la donna doveva costantemente confrontarsi con Ted, scrittore molto più Autore Sylvia Plath: una sensibilità lacerata

famoso di lei, portandola ad essere costantemente insoddisfatta del suo lavoro; altri, invece, incarnano nell’uomo il male vero e proprio, accusandolo di non essersi curato della salute mentale della moglie ma, anzi, di aver infierito. La motivazione autentica, in realtà, è che tutto sia legato indissolubilmente alla fortissima sensibilità di Sylvia. I pensieri della poetessa non si rivolgevano soltanto al quotidiano o a elementi materialmente semplici: la sua mente spaziava ben oltre, raggiungeva l’apice della riflessione filosofica per poi ritrovarsi a discutere della fragilità umana. Costruiva dibattiti interiori, discuteva col suo stesso Io e spesse volte lamentava una debolezza che, secondo lei, era dovuta al suo essere donna. Il desiderio di voler essere del sesso opposto ricorreva spesso, non soltanto per il ‘trauma’ provocatole dal padre, ma anche per il voler fuggire da una realtà in cui l’uomo era socialmente privilegiato. La tecnica letteraria utilizzata dalla poetessa era di una particolarità straordinaria: partiva da un elemento soggettivo (un ricordo, un trauma, un luogo) per poi conferirgli una valenza universale. Così affrontava tematiche generali senza banalizzarle, attribuendo ad ogni aspetto trattato l’importanza di un’esperienza ‘vissuta’, nel vero senso della parola. Per questo e per molti altri motivi la Plath ha conquistato il cuore di moltissimi lettori, soprattutto giovani, diventando portavoce di una sofferenza generazionale. In una pagina del suo diario, recitava: «Chi è quella bionda? Fanne il simbolo di una generazione. Che poi sei tu». Lei stessa paragonava la sua figura a Virginia Woolf, anch’essa morta suicida: per Sylvia era infatti fondamentale precisare come le sofferenze e il travaglio interiore di un individuo dovessero essere separati necessariamente dal successo letterario o dalla fama. La poetessa, dopotutto, lasciava due bambini ed una carriera letteraria che si era faticosamente costruita. Il desiderio di amare la vita era costantemente lacerato dalle sofferenze quotidiane e dal suo sentirsi 177 inevitabilmente e costantemente sotto un’asfissiante ‘campana di vetro’. La domanda fondamentale a cui nessuno più potrà dare una risposta, è: ma volevi davvero morire, Sylvia?

Note bibliografiche

Di PLATH, Sylvia:

Diari, Adelphi, Milano 19982. La campana di vetro e sei poesie da Ariel, Mondadori, Milano 2005. Tutte le poesie, Mondadori, Milano 2013. MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

La Democrazia: antichi VS moderni

ANTONIA COLELLA

partire da uno studio riguardo la democrazia fin dalle sue origini, in questo lavoro ho analizzato gli aspetti più rilevanti del sistema democratico ateniese e, dopo averlo confrontato con ciò che si può definire ‘democrazia moderna’, ho esposto quella che fu l’opinione a riguardo di uno dei maggiori filosofi dell’Atene del V- IV secolo a.C., Platone, esponendo di conseguenza la sua concezione di Stato ideale.

Le origini della democrazia antica Tradizionalmente, la nostra cultura occidentale fa risalire la nascita della democrazia alla Grecia classica e, in modo più specifico, alla città che è sempre stata considerata la vera culla del sistema democratico, cioè Atene. Non a caso lo stesso termine democrazia, infatti, deriva dal greco antico δῆμος, ‘popolo’ e κράτος, ‘potere’, ed etimologicamente significa ‘governo del popolo’, ovvero sistema di governo in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dal popolo. Nonostante ciò, è importante ricordare che le istituzioni della democrazia moderna non hanno nulla a che vedere con ciò che si designava con questo termine nella Grecia classica; pur utilizzando ancora una parola che la Grecia ci ha consegnato in eredità infatti, il concetto di democrazia non può essere cristallizzato in una sola versione o in un’unica concreta traduzione, ma può trovare la sua espressione storica in diverse applicazioni, tutte caratterizzate dalla ricerca della modalità capace di dare al popolo la potestà effettiva di governare. Per comprendere se vi è qualcosa che accomuna la ‘democrazia degli antichi’ e la ‘democrazia dei moderni’, dunque, è necessario tracciare in maniera più precisa i contorni propri della democrazia classica: genesi, strutture e modalità di funzionamento.

Come nasce?

Quanto alla genesi, la democrazia antica affonda le sue radici in quei grandi processi di trasformazione storica che sconvolsero gli assetti del mondo greco tra l’VIII e il V secolo a.C., configurandosi come il frutto di una trasformazione totale della vita civile e culturale, addirittura definita ‘miracolo greco’, che ha dato origine alla nostra stessa cultura occidentale. E’ in tale periodo, infatti, che l’antica civiltà micenea cessa radicalmente di esistere e lascia spazio ad un concetto del potere molto meno sacralizzato, ad una religione ampiamente illuminata e demitizzata, ad un forte senso dell’individuo, tutti aspetti riscontrabili a partire dai grandi poemi omerici, da molti considerati come il vero e proprio atto di nascita dell’Occidente. La nascita di una cultura più mobile e dinamica, più disincantata ed individualistica, che darà lentamente vita a pratiche razionali come la filosofia o l’argomentazione pubblica in tribunali o assemblee, fu determinata, però, anche dall’origine di nuove realtà che si andavano sviluppando in sostituzione della civiltà precedente. Se quest’ultima, infatti, era caratterizzata dalla presenza di un Re che incarnava in sé funzione religiosa, militare, politica ed economica, nella nuova realtà ateniese forti ondate migratorie, la mescolanza di etnie, lo sviluppo della navigazione e del

 Il presente lavoro è il frutto delle attività messe in atto nell’ambito dei Percorsi per le competenze traversali e orientamento (ex Alternanza Scuola-Lavoro). Antonia Colella La Democrazia: antichi VS moderni

commercio, la fondazione di nuove comunità, che si distaccano da quella di origine come ‘colonie’, ne minarono profondamente le basi.

Dove?

La nascita della democrazia antica sarebbe stata impossibile se non si fosse al tempo stesso sviluppata la cornice all’interno della quale essa poté dispiegarsi; è in questo periodo, infatti, che in Grecia si sviluppa un nuovo tipo di insediamento residenziale, la polis. Sostituendo quel centro che nella civiltà micenea era stato il palazzo regale con un nuovo punto di riferimento, cioè il tempio, ed uno spazio comune in cui trattare in pubblico controversie giuridiche o questioni politiche, l’agorà, la città assunse grande importanza nella creazione di una comunità di stirpe e di culto, ma anche nella nascita di nuove forme economiche come il commercio, l’artigianato e la manifattura. Rilevanti nella formazione di una città, però, risultarono senza dubbio le caratteristiche geografiche del territorio, poiché fu grazie al clima, alla configurazione di quella parte del Mediterraneo, alla frammentazione in molte isole e ad un territorio frastagliato e difficilmente percorribile, che si svilupparono navigazione e civiltà e fu possibile l’aggregazione in comunità ben distinte.

Sistema istituzionale ateniese

A partire dalle riforme di Clistene, le principali istituzioni politiche che vennero a caratterizzare la democrazia ateniese furono le seguenti:  ᾿Εκκλησία: era l’organo con i poteri più ampi, al quale spettava deliberare sulle alleanze, ricevere ambasciatori dall’estero, stabilire l’ammontare del tributo richiesto agli alleati, eleggere strateghi ed altri magistrati(vi potevano partecipare tutti i cittadini maschi residenti sul territorio, 178 di età superiore ai vent’anni e discendenti da cittadini ateniesi);  Βουλὴ: era un organo più ristretto, detto ‘consiglio dei cinquecento’, il cui compito principale era di predisporre l’ordine del giorno dell’ecclesia (vi prendevano parte cinquecento cittadini di età superiore ai trent’anni, cinquanta per ognuna delle dieci tribù del popolo ateniese);  ᾿Ηλιαία: era il massimo tribunale popolare dell’antica Atene, a cui vennero affidati con al riforma di Efialte i processi che non erano di competenza dei tribunali del sangue (era accessibile a tutti i cittadini a partire dai trent’anni,che venivano scelti per sorteggio in numero di 600 per tribù,in quanto non richiedeva competenza specifica);  Incarichi pubblici: alle cariche pubbliche si accedeva in due modi, mediante sorteggio casuale, per gli incarichi privi di specializzazione, e tramite elezione, usata solo per i cento incarichi pubblici più rilevanti e prestigiosi. Questo sistema, con la notevole eccezione della strategia, faceva sì che ogni carica pubblica tendenzialmente fosse ricoperta una volta sola dalla stessa persona, favorendo un facile ricambio politico.

Come già anticipato in precedenza, il sistema democratico ateniese non risulta del tutto speculare a quello in cui attualmente noi italiani siamo immersi, ma vi sono evidenti differenze che vanno sottolineate (tabella1).

Antonia Colella La Democrazia: antichi VS moderni

Democrazia antica Democrazia moderna

Diretta Indiretta

Concentrazione dei poteri Divisione dei poteri

Sorteggio Elezioni

Dimensioni ridotte Dimensioni notevoli

Esclusiva Inclusiva

Democrazia antica: il pensiero di Platone

Se liberalismo e democrazia sembrano rappresentare i principi di riferimento della filosofia contemporanea, non si può davvero affermare che essi conobbero nell’ambito della filosofia politica antica un successo analogo. Fu con il filosofo Platone, anti-democratico e anti-liberale, che, più di duemila anni fa, ebbe inizio un formidabile attacco al sistema democratico, alle sue pretese di universalità e alla stessa antropologia sulla quale esso si fondava (e ancora oggi si fonda). In particolare, la sua critica era rivolta non solo al tipico meccanismo istituzionale in vigore nella città 179 democratica, ma soprattutto ai principi antropologici e ai valori ai quali esso si ispira come modalità di relazione tra gli esseri umani. Risulta utile, dunque, comprendere il senso della polemica mossa da Platone contro la democrazia, e soprattutto analizzare in che misura essa presenti ancora oggi, a più di duemila anni di distanza, qualche elemento di interesse ai nostri occhi.

Tra uguaglianza e incompetenza

Non mancando prese di posizione a favore della democrazia, sebbene rare, nel dibattito culturale di Atene; per comprendere al meglio quello che fu il pensiero platonico a riguardo, risulta di grande utilità un confronto con uno dei più noti pronunciamenti democratici, contenuto nel mito attribuito da Platone a Protagora nel dialogo che porta il nome del grande sofista (Protagora 320 e ss.). Considerato una sorta di giustificazione ideologica della pratica democratica, tale testo sembra fornire a quest’ultima un fondamento filosofico, rappresentato dalla tesi che conferisce a tutti il possesso della capacità politica. Secondo il mito di Protagora, infatti, questo tipo di capacità non risulta concentrata solo in alcuni individui ma, almeno potenzialmente, sarebbe stata distribuita a tutti i cittadini che, entrando in possesso di un patrimonio anche minimo di conoscenze politiche, risulterebbero in grado di fornire un contributo attivo alla vita della comunità e di partecipare al momento decisionale. L’assunto alla base del mito di Protagora, che stabilisce che tutti i membri di una società siano liberi e consapevoli dei propri interessi e di quelli della comunità, e perciò in grado di negoziare con legittimità le norme che regolano la vita associata, si scontra violentemente con il pensiero di Platone, su molti punti discordante. In primo luogo, è necessario mettere in luce che, agli occhi del filosofo, la stragrande maggioranza degli individui non possiede né il grado di competenza, né il livello di preparazione etico- morale e psicologica per contribuire al governo della città. Platone, infatti, è convinto dell’importanza e della necessità in politica, come in una qualsiasi altra tecnica, di possedere una competenza disciplinare specifica. Per tale motivo, la pratica politica risulta impossibile da affidare all’arbitrio della maggioranza, Antonia Colella La Democrazia: antichi VS moderni

dotata di competenza minimale e più di ordine morale che di natura tecnica, a differenza di quanto asseriva la tesi democratico-pitagorea.

Attacco all’antropologia democratica

La critica mossa da Platone alla democrazia non concerne unicamente le sue componenti istituzionali, ma si fonda su un vero e proprio attacco alla sua natura psico-antropologica. In particolare, infatti, il filosofo riconosce che solo un numero esiguo di individui sia in grado di esercitare un pieno controllo della ragione sulle istanze irrazionali della propria anima, mentre la maggior parte degli uomini risulta influenzabile da passioni, ambizioni e da desideri, che non permettono una soggettività trasparente e razionale. Com’è noto e spiegato nel mito della biga alata (Fedro 246 e ss.), Platone attribuisce all’animo umano tre diversi centro motivazionali. La prima parte è quella RAZIONALE o intellettiva, che presiede alla conoscenza (rappresentata dall’auriga che guida la biga), seguita poi dalla parte SENTIMENTALE e spirituale, che per ambizione e competitività si dirige verso il mondo delle Idee(rappresentata dal cavallo bianco), e dalla parte CONCUPISCIBILE o desiderativa, che attiene alla sfera dei desideri corporei,che si dirige verso il mondo sensibile(rappresentata dal cavallo nero). Data la distinzione platonica dell’animo umano, bisogna sottolineare l’importanza che questa riveste nella lotta alla democrazia, poiché, nella concezione del filosofo, tale tripartizione dell’animo assume una forte accezione politica. E’ proprio per questo, infatti, che Platone si spinge a considerare che non in tutti, ma solo in un numero ristrettissimo di individui, la parte razionale riesca a detenere il comando e ad esercitare controllo sulle altre istanze psichiche; la maggior parte degli uomini presenta per lo più un’anima dominata dalle parti irrazionali, non più libera ma in preda al comando delle istanze peggiori. Dal momento che gli uomini in possesso di tale apparato psichico, secondo Platone, non risultano più 180 in grado di essere guidati dalla ragione, egli ritiene addirittura folle affidare anche a loro, come avviene in un sistema democratico, il compito di governare la città. Risultato di tale tesi, dunque, che si colloca agli antipodi della sensibilità democratico-liberale, è che l’unica forma legittima di libertà concessa a coloro nei quali sono dominanti le istanze irrazionali risiede nell’accettazione del comando di coloro in cui predomina la ragione. Per tal motivo, come il filosofo afferma, appare migliore essere governati dalla ragione di un altro, piuttosto che dai propri istinti irrazionali

Il destino della democrazia

Secondo Platone, l’esito demagogico della prassi democratica segna, in qualche misura, un elemento non accessorio di quest’ultima, bensì una sua tappa fondamentale e suo esito inevitabile. Ai suoi occhi, infatti, l’opera di convincimento e persuasione dei demagoghi, favorita dalla maggior parte degli uomini in preda alle istanze irrazionali riuniti nella città democratica e nelle assemblee, assume rilevanza eccezionale e quasi nefasta. Nel Gorgia, in particolare, Platone arriva a sostenere che il politico democratico, cioè il ‘demagogo’, si comporta alla stregua di un cuoco che si limita a compiacere il suo interlocutore, adulandolo e distraendolo (con prelibatezze), ma procurandogli infine un danno irreparabile. Allo stesso modo, dunque, i leader democratici sembrano non possedere un sapere specialistico riguardo il bene della città e dei suoi individui, ma hanno l’unica capacità di saper persuadere le anime irrazionali dei membri dell’Assemblea, indirizzandoli verso decisioni che risultano in realtà utili solo a loro. La demagogia, dunque, segna per Platone un passo fondamentale per la realizzazione di quello che egli considera il vero esito finale della democrazia: la tirannide, la più terrificante delle forme di governo. Avendo già in sé il germe della propria dissoluzione, la prassi democratica, con il suo eccesso di libertà priva di regole, secondo il ragionamento del filosofo, sfocerebbe inizialmente in una forma di anarchia; Antonia Colella La Democrazia: antichi VS moderni

sarebbe poi la conseguente paura da parte del popolo a spingere i cittadini ad affidarsi ad un difensore proveniente dalla cerchia dei demagoghi. Quest’ultimo, raggiunto il potere, inizierebbe a circondarsi di un piccolo esercito personale e, aumentando enormemente il proprio potere, finirebbe con l’agire non più nell’interesse del popolo, da cui era stato eletto, bensì nel proprio interesse personale dando vita ad una vera e propria tirannide.

La città ricomposta

Tutta la filosofia di Platone può essere ricondotta ad un evento traumatico della sua vita: la morte del maestro Socrate (399 a.C.), durante il regime democratico di Trasibulo. Nella Lettera VII, egli afferma che avrebbe voluto intraprendere da giovane la carriera politica, ma che, dopo la delusione subita con l'ingiusta condanna del maestro da parte di una democrazia corrotta e malsana, avrebbe cambiato idea. E' però evidente come lo scopo della sua filosofia sia fortemente politico e incentrato sul tema fondamentale della giustizia, già da lui affrontato in un dialogo aporetico che ora confluisce, come primo dei dieci libri, nella πολιτεία (tradizionalmente indicata come Repubblica, dal latino res publica, propriamente ‘costituzione’, ‘assetto statale’). In quest’opera, Platone riporta una lunga discussione tenutasi in casa di Cefalo, padre dell’oratore Lisia, circa la teorizzazione di uno Stato ideale fondato proprio sulla giustizia, garantita da un gruppo di governanti filosofi a capo di una società collettivistica, strutturata a immagine dell’anima. Per comprendere tale ipotesi è necessario, però, fare un passo indietro ed analizzare due principi fondamentali alla base dell’ideologia politica di Platone: l’identificazione tra anima umana e città, ed il concetto di οἰκειοπραγία.

Animo umano = città 181

Data la tripartizione dell’anima già affrontata precedentemente, Platone fa corrispondere ad ognuna delle tre parti in cui suddivide la popolazione della città ad una funzione dell’anima che in esse predomina (tabella 2). Le due classi superiori, in particolare, sono rappresentate dai ‘governanti’ (o reggitori) e i ‘guardiani’ (o difensori), che vivono in un regime comunitario basato sulla condivisione dei beni, delle donne (le quali possono partecipare alla vita pubblica) e dei figli. La caratteristica fondamentale che distingue queste due classi dalla terza, quella dei ‘lavoratori’ (cioè i produttori), è che sia governanti che guardiani sono oggetto di un accurato percorso educativo che culmina, per la prima classe, nella dialettica, scienza somma che conduce alla conoscenza del Bene. E’ questo, infatti, il passaggio fondamentale per comprendere il vero sistema di Stato immaginato dal filosofo Platone, fondamentalmente basato sull’esercizio del potere proprio da parte della prima classe dei ‘filosofi’, in quanto gli unici in grado di garantire un governo a immagine della Giustizia. L’educazione, da cui viene aristocraticamente esclusa la classe ‘inferiore’, grazie ad un progressivo innalzamento verso la conoscenza rappresenta per Platone il vero discriminante per il governo della città. Infatti, scardinando uno dei due principi fondamentali su cui si basa la democrazia, come spiega nelle Leggi, Platone ritiene che esistano due tipologie diverse di uguaglianza, non più come dato acquisito o punto di partenza, ma obiettivo comune di una società autenticamente giusta. In particolare, il filosofo distingue uguaglianza autentica e democratica; la prima, rappresenta la vera uguaglianza, quella che distribuisce le cariche in base alla virtù e alla competenza, mentre la seconda stabilisce uguale distribuzione di onori e cariche. Ai suoi occhi, dunque, la vera uguaglianza può essere garantita solo da una distribuzione disuguale delle cariche e degli onori, cioè da una distribuzione fondata sul sapere e sulla competenza, unico discrimine per l’accesso al potere ed autentico criterio della sua legittimazione. Antonia Colella La Democrazia: antichi VS moderni

Tabella 2: suddivisione della popolazione secondo lo schema platonico

Οἰκειοπραγία: principio naturale e morale 182

Ancora radicato nello spirito prettamente comunitario dell’esperienza del V secolo, Platone, legandosi all’idea di preminenza della polis sul cittadino, non poteva pensare ad un soggetto individuale ed autonomo rispetto all’integrazione politico-sociale nella comunità. Avvertendo la necessità di una vera e propria ricostruzione della città, egli sentiva fortemente il peso della sua frammentazione privatistica e la conseguente perdita del suo senso originario e della sua vocazione di unità ed integrazione collettiva. Rintracciando la fenomenologia della polis nel libro secondo della Repubblica, egli tentò di risolvere tale problema mediante la riproposizione del tradizionale concetto di οἰκειοπραγία. Come il filosofo spiega, originariamente la società nasce come una comunità di produttori di beni primari, indotti ad associarsi dalla spinta del bisogno; piuttosto che provvedere ciascuno singolarmente a tutte le proprie necessità, essi trovano vantaggiosa una divisione ‘naturale’ del lavoro, secondo la quale ognuno produce il bene nel quale è specializzato in quantità eccedente il proprio fabbisogno, e scambia la propria eccedenza con quella altrui. È in questo contesto che nasce il concetto platonico di οἰκειοπραγία, principio insieme morale e naturale, secondo il quale ognuno è tenuto a svolgere il ruolo per il quale è naturalmente ed intellettualmente meglio dotato. Tale principio, dunque, è ciò che porta i filosofi a guidare lo Stato giusto e ciò che insegna a ciascuno a rispettare il proprio posto in un mondo gerarchicamente ordinato, a non volere più di quanto spetta ad ognuno e ad accettare la propria sorte, in uno sforzo comune verso il bene della collettività.

MOSAICO VI 2019 ISSN 2384-9738

Gli autori di questo numero

CATERINA NEGRO – Ha conseguito il diploma di maturità scientifica presso il Liceo ‘F. Quercia’ nell’a.s. 2012/2013. Avendo sempre nutrito una forte passione per le materie umanistiche, nel 2013 si è iscritta alla Facoltà di Lettere Moderne presso l'Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’. Ha conseguito la laurea triennale nel 2017, con una tesi in letteratura latina dal titolo Protinus Vive: la Filosofia di Seneca nel De Brevitate Vitae. Attualmente frequenta il corso di Laurea Specialistica in Filologia Moderna presso l'Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ e segue su ‘Accademia Domani’ i corsi di Giornalismo ed Editoria e di Scrittura Creativa.

ELISA DI BONA – Nata a Caserta nel 1997, si è diplomata al Liceo classico ‘Istituto Salesiano Sacro Cuore di Maria’ di Caserta nel 2015. Ha poi conseguito la laurea triennale presso l’Università degli Studi ‘Federico I’ di Napoli in Lettere Moderne nel 2018. Ha partecipato ad alcuni concorsi letterari, ottenendo una pubblicazione nella raccolta Il Sogno. Raccolta delle opere premiate e segnalate al VII Premio Rocca Flea, edizione 2014.

MARTINA LICIBERTO – ex studentessa del liceo classico ‘Federico Quercia’ e attuale studentessa di lettere classiche all’Università Federico II di Napoli. Ama l’arte in tutte le sue manifestazioni e la lettura. Il suo motto è: ‘Volere è potere’.

GIULIO COPPOLA – Docente di materie letterarie nella scuola superiore (Liceo ‘Federico Quercia’, Marcianise - CE), coordinatore editoriale della Rivista ‘Mosaico’, ha conseguito il dottorato di ricerca in ‘Storia Antica’ presso l’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ e si occupa di questioni di storia greca arcaica e di didattica delle lingue classiche.

MAURIZIO COPPOLA – Ha studiato Sociologia e Antropologia culturale all’Università degli Studi di Napoli ‘Federico II’ dove si è laureato. Attualmente è dottorando in ‘Antropologia’ presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi.

LOREDANA FERRIGNO – Docente di materie letterarie al Liceo ‘Federico Quercia’ di Marcianise (CE), coltiva l’arte e la scrittura. Ha ottenuto diversi premi per le sue composizioni poetiche.

SALVATORE DELLI PAOLI – Già docente di materie letterarie e dirigente scolastico in pensione, è stato corrispondente di diverse testate giornalistiche quali Il Mattino e il Corriere del Mezzogiorno. Direttore della collana Fonti e studi per la storia di Marcianise e Terra di Lavoro, ha al suo attivo diverse pubblicazioni di storia locale.

 Tutti i dati qui presenti si riferiscono all’a.s. 2018-2019.

VIRGINIA BONIELLO – Docente di Lettere presso S.M.S. ‘Massimo Stanzione’ di Orta di Atella (CE), nella sua ‘vita precedente’ – come ama dire – ha partecipato a diverse campagne di scavi archeologici e si è interessata di didattica museale. Sogna di abbandonare la scuola e aprire un agriturismo.

S.P.B.

 GIULIO COPPOLA – Vd. supra  GIUSEPPE D’ALESSIO – Vive e lavora a Napoli; insegna latino e greco al Liceo ‘Vittorio Emanuele II - Garibaldi di Napoli’; è stato titolare dell'insegnamento di Didattica della Lingua e Cultura Latina nell’ambito dei corsi T.F.A. e P.A.S. presso l'Università degli Studi di Napoli ‘L'Orientale’; è membro del Comitato Tecnico Operativo Nazionale e della Commissione di Valutazione Regionale delle Olimpiadi Nazionali di Lingue e Civiltà Classiche promosse e organizzate dal MIUR.  MARIA ANTONIETTA DATTOLI – Nata a San Severino Lucano in provincia di Potenza. Si è trasferita a Napoli per gli studi universitari dove si è laureata in Lettere Classiche con una tesi sull'Eleusinion di Atene, in Antichità greche e romane. Si è dedicata con interesse agli studi classici coniugandoli con la sua attività di docente. Nel corso della sua carriera ha ricoperto a lungo il ruolo di vicepreside e ha curato attività formative volte a diffondere tra i giovani la critica consapevolezza della permanente attualità dei temi che il mondo antico ha lasciato in retaggio all'Occidente. Insegna presso il Liceo ‘Comenio’ di Napoli.  MARIELLA DE SIMONE – Docente di ruolo presso il Liceo classico ‘Vittorio Emanuele II – Garibaldi’ di Napoli. Ha conseguito nel 2017 l’Abilitazione Scientifica Nazionale a Professore Universitario di II fascia nel settore 10/D2 - Lingua e Letteratura greca. Ha all’attivo due dottorati di ricerca, il primo in ‘Filologia classica’ (Università degli studi di Salerno), il secondo in ‘Geopolitica e culture del Mediterraneo’ (Istituto italiano di Scienze umane - Napoli). Ha pubblicato monografie e articoli sulla musica greca antica, la commedia greca antica, i rapporti tra la Grecia e le civiltà vicino- orientali.  DANIELE DI RIENZO – Dottore di ricerca, insegna latino e greco presso il Liceo ‘J. Sannazzaro’ di Napoli. Ha dedicato i suoi studi prevalentemente alla letteratura latina di età tardo- antica e alto-medievale.

 DARIO GARRIBBA – Docente di lettere classiche presso Liceo ‘Vittorio Emanuele II – Garibaldi’ di Napoli; dottore di ricerca in ‘Storia Antica’, docente invitato in Greco Biblico presso la Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia meridionale - sezione San Luigi.  MARCO VITELLI – Docente di materie letterarie nelle classi del Liceo ‘Vittorio Emanuele II – Garibaldi’ di Napoli, ha conseguito il dottorato di ricerca in ‘Storia Antica’ presso l'Università di Napoli ‘Federico II’ ed è membro consigliere dell'Istituto di Storia del Cristianesimo ‘Cataldo Naro’ presso la Pontificia Facoltà Teologica dell'Italia Meridionale - sezione San Luigi. Le sue pubblicazioni vertono prevalentemente su tematiche inerenti al cristianesimo delle origini e al giudaismo coevo.

 FERDINANDO ZACCARIA – Docente del Liceo ‘Umberto’ di Napoli, laureatosi in Lettere Classiche con una tesi sul barbarismo. Ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in ‘Filologia greca’ con un lavoro sulla disfonia.

LAURA CORCIONE – Docente della Scuola Secondaria di primo grado, ha conseguito il dottorato di ricerca in ‘Innovazione e valutazione dei sistemi d’istruzione’ presso l’Università degli Studi ‘Roma Tre’. Si occupa di didattica museale e pedagogia sperimentale.

MICHELA FRETTA – Nata a Caserta, classe 1983. La sua attenzione è stata sempre rivolta a tematiche di attualità e d’inchiesta. Attualmente docente precaria in ambito letterario. Sua l’inchiesta del 2011 sulla crisi operaia in provincia di Caserta. Accanita lettrice, scrittrice per vocazione.

ALBERTO DI RONZA – Alunno del quarto anno del Liceo scientifico ‘F. Quercia’.

DARIO FORMICOLA – Studente del quarto anno del Liceo scientifico, affetto da disorganizzazione cronica sin da tenera età. Una delle sue più grandi doti è perdere gli oggetti ancor prima di possederli; la cosa dovrebbe turbarlo, ma non lo turba affatto. Difatti non c’è qualcosa che riesca a turbarlo veramente se non il fatto che nulla ci riesca. Spende la metà del suo tempo alla ricerca di un’attività che non lo annoi, ma spesso trova una soluzione nella noia stessa, attività che meno di tutte pare annoiarlo; la seconda metà la perde a struggersi per il tempo perso annoiandosi. Spesso durante la prima metà si ricorda di avere degli interessi tra cui quello per i motori endotermici, per la costruzione di modellini di automobili in scala, per il fumetto, il cinema e talvolta la letteratura. Non ha programmi per il futuro se non quello di vivere sufficientemente a lungo da poterne avere.

ROBERTO MADONNA – Frequenta il quarto anno del Liceo classico ‘Federico Quercia’ di Marcianise. Pratica l'ippica a livello agonistico da diversi anni. E' orgogliosamente vegano.

CARLA IULIANO – Frequenta il quinto anno del Liceo classico. Tra i suoi passatempi, il disegno, la scrittura e il nuoto. Ama le poesie, gli animali e viaggiare col suo camper per il mondo.

MARIANGELA LIONIELLO – Alunna all’ultimo anno del Liceo classico. Appassionata di musica e cinema, trascorre infatti il suo tempo libero (quello non riservato alla sana pennichella pomeridiana) guardando film, in particolare quelli d’autore. Si definisce curiosa e sempre desiderosa di imparare cose nuove.

ANITA ALLEGRETTA – Frequenta il quinto anno del Liceo classico. Appassionata d’arte e letteratura. Nel tempo libero le piace leggere, guardare film ma soprattutto scattare foto. Ciò che desidera è poter

viaggiare e visitare quanti più posti possibile dato il suo interesse verso la cultura e le tradizioni popolari straniere.

LUDOVICA SORRENTINO – Diciotto anni, quinto anno di Liceo scientifico. Ama la danza, la musica e il cinema. In futuro sogna di diventare ingegnere aerospaziale, senza però ignorare la sua più grande passione: la lettura.

ANTONIA COLELLA – Frequenta il quinto anno del Liceo classico ‘Federico Quercia’ di Marcianise provenendo dal Liceo classico ‘Visconti’ di Roma, dove ha vissuto alcuni anni. Ama lo sport e, in particolare, pratica nuoto e a volte frequenta la palestra. Tra i suoi interessi c’è anche la conoscenza delle lingue straniere, come l’inglese e il francese, che approfondisce con corsi extra scolastici e viaggi studio estivi.