Centro Militare di Studi Strategici Ricerca 2010

La Cooperazione tra ONU e organizzazioni regionali nella prevenzione e risoluzione dei conflitti

Direttore della Ricerca

Dott. Valerio BOSCO

La Cooperazione tra ONU e organizzazioni regionali nella prevenzione e risoluzione dei conflitti Sistemi di gestione delle crisi e case-studies

Indice

I. Mediazione e prevenzione dei conflitti nel sistema delle Nazioni Unite

Introduzione: concetti e definizioni. ………………………………………………5-8

1.1. Mediazione e prevenzione dei conflitti nella Carta ONU e nei primi decenni di vita dell’Organizzazione (1945-1980……………………….……………….9- 18 1.2. Da Perez de Cuellar a Kofi Annan, teoria e prassi della conflict prevention: Special Representatives, Special Envoys, uffici regionali dell’ONU… .19-30 1.3. Il ruolo del Consiglio di Sicurezza: conflict prevention, peacebuilding e dispiegamenti preventivi……… ………………………………………….31-41 1.4. Mediazione e prevenzione dei conflitti nell’era Ban Ki-Moon………… ..42- 54 1.5. Conclusioni…………………………………………………………………….55-56

II. La prevenzione dei conflitti nelle organizzazioni regionali Introduzione………………………………………………………… ………57-62 2.1 Mediazione e prevenzione dei conflitti in Africa: L’UA e le Comunità Economiche Regionali…………………………………………………… ….63-76 2.2 Diplomazia e conflict prevention nell’ASEAN……………………………….77-88 2.3 L’OAS tra prevenzione dei conflitti e difesa della democrazia………….89-100 2.4 La prevenzione del conflitti nell’Unione Europea……………………...... 101-114 2.5 Conclusioni………………………………………………………………….115-116

2 III. Case-studies: esperienze della cooperazione tra ONU e organizzazioni regionali nella prevenzione e risoluzione dei conflitti

Introduzione……………………………………………………………….....117-119

3.1 2008-2010: la nuova ondata di colpi di Stato in Africa i. Mauritania…………………………………………………… ………120-122 ii. Guinea……………………………………………………………….123-124 iii. Madagascar………………………………………………… ………125-129 iv. Niger…………………………………………………………………..130-131 v. La tolleranza zero dell’Unione Africana e lo storico pronunciamento del CdS….………………………………………………………………… vi. Conclusioni……………………………………………………………132-138

3.2 Myanmar: non interferenza e responsabilità di proteggere tra ASEAN e ONU i. L’azione degli Stati membri dell’ASEAN……………………. :……139-143 ii. L’ASEAN e il ridimensionamento della non-interferenza… …...144-145 iii. I partners dell’ASEAN, il ruolo delle Nazioni Unite e gli ultimi sviluppi della situazione a Myanmar……………………………………………………146- 154 iv. Conclusioni…………………………………………………… ……...155-158

3.3 Honduras: OAS e ONU nella difesa della democrazia costituzionale i. Le origini della crisi e la rimozione di Zelaya……………………….158-161 ii. La reazione dell’OAS, delle potenze regionali e delle Nazioni Unite……………………….161-165 iii. Il fallimento della mediazione di Arias Costa………………………166- 169 iv. Conclusioni……………………………………………………………..170-171

3

3.4 Kosovo: ONU e UE tra indipendenza, secessione e integrazione i. Lo status del Kosovo e la risoluzione 1244 …………… …::…….171…176 ii. al piano Anthisaari alle mediazione della Troika… … ……………176-180 iii. La dichiarazione unilaterale di indipendenza e il dispiegamento di EULEX………………………………………………… ……...... 180-184 iv. Il parere della CIG e la risoluzione dell’Assemblea Generale…….185-188 v. Conclusioni……………………………………………………………...189-195

BIBLIOGRAFIA…………………196-214

4 CAPITOLO I

MEDIAZIONE E PREVENZIONE DEI CONFLITTI NEL SISTEMA ONU

INTRODUZIONE

Una ricostruzione sintetica delle principali interpretazioni e definizione dei concetti di mediazione, diplomazia preventiva, prevenzione dei conflitti appare necessaria per inquadrare l’oggetto del presente studio e descrivere giuridicamente e storicamente l’azione delle Nazioni Unite e delle organizzazioni regionali in materia. Tale ricostruzione farà inevitabilmente ricorso alle categorie concettuali ideate dagli studi sui conflitti e dagli analisti di relazioni internazionali e consentirà di inquadrare in una prospettiva più chiara il mandato e le funzioni esercitate dalle diverse istituzioni del sistema ONU in materia di mediazione, diplomazia preventiva e prevenzione dei conflitti. Con il concetto di mediazione si fa generalmente riferimento al processo di dialogo e negoziato nel quale una parte terza assiste due o più parti, con il consenso delle stesse, a prevenire, gestire ed eventualmente risolvere un conflitto senza il ricorso alla forza. L’obiettivo della mediazione è la definizione di un accordo che soddisfi entrambi le parti e che le stesse siano altresì disposte a garantirne l’applicazione. I mediatori hanno generalmente un interesse generale alla soluzione della disputa o del conflitto, ma sono teoricamente chiamati ad operare con neutralità ed obiettività. In situazioni particolarmente gravi, la mediazione costituisce un mezzo per facilitare la comunicazione tra le parti, i cosiddetti “buoni uffici”, tendenzialmente incapaci di formulare autonomamente soluzioni soddisfacenti per entrambi. Il o i mediatori lavorano e dialogano con le parti attraverso quella che è conosciuta come shuttle diplomacy o ricorrendo al sistema del caucusing, ovvero mediante la convocazione di riunioni separate suscettibili di ottenere risultati che consultazioni congiunte non sarebbero altrimenti in grado di raggiungere1. Con il concetto di diplomazia preventiva si fa invece riferimento in maniera più generale a tutte quelle azioni – politiche, economiche, diplomatiche - condotte alfine di evitare una

1 Cfr. A Glossary of Terms and Concepts in Peace and Conflict Studies: Mediation, University for Peace, Africa Program, 2005.

5 radicalizzazione di controversie e di impedirne la degenerazione in conflitti o eventualmente limitarne le dimensioni politiche, sociali e geografiche2. Il concetto di conflict prevention indica invece quell’insieme di azioni volte a scongiurare l’escalation di forme di conflitto già violente o ad impedire il nuovo manifestarsi di episodi di violenza. Per certi versi assimilabile alla diplomazia preventiva o alla prevenzione delle crisi, le inziative di conflict prevention possono fare riferimento al tentativo di mantenere uno status quo rispetto a potenziali minacce associate allo scoppio di una crisi. Nondimeno, strettamente associata alla prevenzione dei conflitti è il principio del superamento dello status quo tramite ad esempio la creazione di nuove strutture e di nuovi processi decisionali condivisi, la riorganizzazione delle regole di accesso al potere politico alfine di neutralizzare i rischi di una degenerazione di una crisi in forme sempre più violente. La prevenzione dei conflitti si basa evidentemente sulla accurata capacità di analisi di dispute latenti o a bassa intensità nella speranza di identificare apposite strategie di risoluzione o prevenzione. Quest’esercizio, tradizionalmente definito come sistema di early warning, può includere missioni di accertamento (fact-finding mission), consultazioni, operazioni di monitoraggio di situazioni delicate e suscettibili di degenerare in conflitti violenti. La Carnagie Commission sulla prevenzione dei conflitti violenti ha descritto due diverse tipoligie di conflict prevention, distinguendo la nozione di prevenzione operativa (operational prevention) da quella di prevenzione strutturale3. Mentre la prevenzione operativa farebbe riferimento a quelle misure immediatamente applicabili in seguito allo scoppio di una crisi, la prevenzione strutturale riguarda quelle azioni volte ad evitare la nascita di un conflitto o il precipitare in una nuova situazione di violenza dopo una fase di stabilizzazione. Tra le misure tipiche della prevenzione operativa la più tipica è il ricorso a sanzioni politiche e economiche adottate da organizzazioni internazionali contro i protagonisti di una crisi o di un conflitto alfine di incoraggiarne un atteggiamento più cooperativo. In relazione alla prevenzione strutturale, gli studi sui conflitti fanno piuttosto riferimento a misure adottabili a livello nazionale e suscettibili di produrre norme, istituzioni, procedure capaci creare un clima favorevole al mantenimento della pace e della concordia sociale. Il rafforzamento della democrazia, delle credibilità dei processi elettorali, la good governance, la coesione sociale, il rispetto e la promozione dei diritti umani e

2 United Nations, Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Peace: Preventive Diplomacy, Peacemaking and Peace- keeping Document A/47/277 - S/241111, 17 June 1992. 3 Carnagie Commission, Final Report: Prevention of Deadly Conflict, December 1997, consultabile sul sito: http://www.wilsoncenter.org/subsites/ccpdc/pubs/rept97/finfr.htm , ultimo accesso 13 ottobre 2010.

6 dello stato di diritto, del pluralismo e delle diversità culturali sono oggi considerati come tipici esempi di misure capaci di prevenire le cause strutturali dei conflitti. Gli studi sui conflitti hanno infine prodotto una terza categoria di conflict prevention, identificabile nella systemic prevention, o prevenzione sistemica. Misure di prevenzione sistemica sono quelle destinate ad affrontare e risolvere minacce alla pace che trascendono le dimensioni nazionali e che hanno piuttosto un profilo regionale o addirittura globale. Iniziative per la riduzione del commercio delle armi di piccolo calibro e per contrastare il commercio illegale di armi nucleari e batteriologiche, azioni contro il traffico di droga e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali (diamanti,oro, etc.) , misure per il rafforzamento della cooperazione transfrontaliera tra gli Stati, programmi per contrastare i cambiamenti climatici. L’insieme di queste misure può richiedere il ricorso a trattati internazionali o regionali e, al contempo, la creazione di adeguate capacità nazionali nell’applicazione di tali accordi4. Diversi studi apparsi recentemente confermano l’importanza delle mediazioni diplomatiche e delle iniziative di conflict come strumento di risoluzione della controversie e delle crisi politiche. Dal 2000 almeno 17 conflitti sono stati risolti attraverso negoziati: solo 4 si sono invece conclusi con il successo militare di una delle parti in causa5. Altro concetto cui si farà riferimento nel corso della presente ricerca è quello di peacemaking, che si riferisce al più generale processo di diplomazia, mediazione e negoziazione, o di qualsiasi altro mezzo pacifico di risoluzione di una controversia, destinato a promuovere un’intesa suscettibile di porre fine ad una disputa o neutralizzare le ragioni che hanno causato lo scontro – politico, bellico o diplomatic - tra le parti6. Nel corso degli ultimi anni, la crescita quasi inarrestabile del bilancio delle operazioni di pace delle Nazioni Unite ha assecondato un nuovo trend di riflessione internazionale sull’efficacia delle mediazioni e delle inziative di conflict prevention. Ormai da qualche anno, le 15 operazioni di pace dell’ONU impegnano un bilancio che ha superato i 7 miliardi di dollari annui, una cifra che, in ragione del rigore finanziario suggerito dalla recente crisi economica, ha suggerito una profonda revisione dell’assoluta centralità sin qui assegnata ai caschi blu come lo strumento principale – se non l’unico - per la gestione e soluzione delle crisi. È così emerso un

4 United Nations, Report of the Secretary General, “Progress report on the prevention of armed conflict”, A/60/891, 18 July 2006. 5 United Nations, Report of the Secretary-General on “Enhancing Mediation and its Support Activities”, S/2009/169, 31 March 2009, pag. 5-6. 6 Su questo cfr. Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Peace: Preventive Diplomacy, Peacemaking and Peace- keeping Document, cit.; cfr. anche la definizione di peacemaking consultabile sul sito: http://dictionary.babylon.com/peacemaking , ultimo accesso 14 ottobre 2010

7 approccio favorevole ad una promozione dell’investimento politico e finanziario nell’ambito dei diversi strumenti e istituzioni della mediazione e prevenzione dei conflitti, capaci di assicurare, in molti casi, il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale con un numero assai minore di risorse e senza le delicate implicazioni economiche e politiche legate alla disponibilità degli Stati membri a partecipare direttamente al dispiegamento dei caschi blu in contesti operativi magari non sempre agevoli.

8

1.1. Mediazione, diplomazia preventiva, prevenzione dei conflitti nella Carta ONU e nei primi decenni di vita dell’Organizzazione

Mediazione, diplomazia preventiva, prevenzione dei conflitti sono concetti cui fa riferimento, in maniera esplicita ed implicita, la Carta delle Nazioni Unite, sia nel capitolo I relativo agli obiettivi ed ai fini dell’Organizzazione (Purposes and Principles), che il capitolo VI dedicato alla risoluzione pacifica delle controversie7. L’art 1 par. 1 include tra in fini dell’ONU quello di conseguire con mezzi pacifici, e in conformità ai principi di giustizia e del diritto internazionale, la composizione o soluzione delle controversie e delle crisi internazionali suscettibili di degenerare in conflitti e mettere perciò a rischio la pace e la sicurezza. A tale funzione, in virtù dell’articolo 3 par.1, corrisponde l’obbligo per gli Stati membri di risolvere le loro dispute internazionali in maniera pacifica in modo da non minacciare la pace, la giustizia e la sicurezza internazionale. Più in particolare, l’articolo 33 par. 1 chiede agli Stati membri che sono parte di una controversia il cui proseguimento rischi di mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale di perseguire una soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato e regolamento giudiziale. Il capitolo VI pone tuttavia il Consiglio di Sicurezza in una posizione centrale nel processo di risoluzione pacifica delle controversie. L’art. 33 par. 2 afferma che il CdS può, quando lo ritiene necessario, richiedere alle parti di risolvere pacificamente la controversia mediante uno degli strumenti indicati nel par.1. Mentre l’articolo 36 afferma che il Consiglio, ad ogni stadio della disputa, può raccomandare appropriate procedure o termini di regolamento tenendo comunque in considerazione le eventuali misure già adottate dalle parti nel tentativo di risolvere la controversia, l’articolo 37 impone invece un preciso obbligo alle parti stesse, le quali, nel caso non riescano a trovare una soluzione di reciproca soddisfazione, sono chiamate a investire della questione il CdS8. Nel caso in cui concordi cioè sulla pericolosità della controversia il Consiglio ha la possibilità di intraprendere un’azione mediatrice valendosi di organi sussidiari e del Segretario Generale e di scegliere, ai sensi del par.2 dell’articolo 37, tra due alternative, i termini di

7 Sulla nozione di controversia, cfr. Morelli, Nozioni di diritto internazionale, Padova, 1967, pag. 368 ss. 8 Tomuschat, Chapter VI. Pacific Settlment of Disputes, in the Charter of the United Nations: a Commentary, New York, 1994, pag. 505-565

9 regolamento – ovvero l’indicazione di una soluzione di merito ritenuta adeguata – ovvero procedure e metodi di regolamento tenendo tuttavia conto dei mezzi e delle soluzioni già sperimentati dalle parti e, eventualmente, della possibilità che della controversia sia investita la Corte Internazionale di Giustizia. Nella prassi del Consiglio i termini di regolamento indicati nelle risoluzioni da esso adattato hanno spesso riflettuto soluzioni precedentemente concordate dalle parti ma non applicate, oppure elaborate nel corso di conferenze di pace o da altri organi onusiani9. A titolo di esempio, si possono citare la storica risoluzione 42 del 1946 relativa all’applicazione del piano di spartizione della Palestina predisposto dall’Assemblea Generale con la risoluzione 181 (III) del 29 novembre 1947, nonché le due risoluzioni 648 (1990) del 12 marzo 1990 e 774 (1992) del 26 agosto 1992 relative a Cipro, in cui il Consiglio ha richiesto alle parti di risolvere la controversia mediante la costituzione di quella federazione bi-comunale e bi- zonale tra le comunità greche e turche dell’isola già indicata negli accordi siglati tra le parti nel 1977 e nel 197910. Nondimeno, raccomandazioni del Consiglio sul merito di una controversia possono includere tutte quelle misure ritenute appropriate per favorire ed avviare la soluzione pacifica della controversia, come ad esempio il ritiro di truppe da un territorio, lo scambio di prigionieri, etc. Di grande rilevanza per l’attività di prevenzione dei conflitti è il potere d’inchiesta attributo al Consiglio, il quale può fare indagini su qualsiasi controversia o su qualsiasi situazione ritenuta suscettibile di creare un attrito internazionale alfine di i stabilire se la sua stessa continuazione possa mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. La dottrina ha discusso a lungo sulla natura giuridica del potere investigativo del Consiglio, interrogandosi se esso sia autorizzato a investigare solo nel quadro delle procedure di soluzione pacifica delle controversie previste dal capitolo VI o se sia piuttosto titolare di un più ampio potere d’inchiesta pensato per consentire al CdS di acquisire tutti gli elementi di informazione su una situazione internazionale giunta ad uno stadio critico per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale11. Le modalità di svolgimento dell’inchiesta sono varie ed hanno subito un’evoluzione progressiva nella prassi del Consiglio. Mentre originariamente il CdS disponeva la creazione di commissioni composte da rappresentanti degli Stati presenti in Consiglio, più recentemente si è avvalso di

9 Stein-Richter, Article 37, in The Charter of the United Nations, cit., pag. 559. 10 Sergio Marchisio, L’ONU, il Mulino, Bologna, pag. 205. 11 Kerley, The power of investigation of the UN Security Council, in American Journal of International Law, 1961, pag. 892 ss.

10 commissioni di esperti create dal Segretario Generale sulla base dell’articolo 98 e incaricate di indagare su fatti specifici, acquisendo ed esaminando informazioni sul luogo delle crisi12. La carta delle Nazioni Unite riconosce anche all’Assemblea Generale un ruolo rilevante in materia di prevenzione dei conflitti. Sulla base degli articoli 10 e 11, l’AG può formulare raccomandazioni in materia, richiamare l’attenzione del CdS su situazioni suscettibili di mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Sulla base dell’articolo 14 l’Assemblea può anche raccomandare misure per la pacifica soluzione di ogni situazione, “regardless of origin”, che essa ritenga suscettibile di danneggiare gli interessi generale (“general welfare”) o le relazioni amichevoli tra gli Stati. È sulla base di questi articoli che l’Assemblea, nel corso delle sue sessioni ordinarie, formula raccomandazioni agli Stati sugli aspetti dei rapporti internazionali hanno implicazione per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Tradizionalmente, l’Assemblea si occupa infatti di pace e sicurezza con riferimento a situazioni generali: in questo senso vanno infatti lette le risoluzioni 51/55 del 9 gennaio 1997 e 53/71 del 4 dicembre 1998 sul mantenimento della sicurezza e la prevenzione della disgregazione violenta degli Stati. Tali documenti presero atto che lo smembramento degli Stati può spesso minacciare il mantenimento della pace e raccomandano agli Stati, alle organizzazioni internazionali e agli organi dell’ONU di adottare misure volte a prevenire la disgregazione non pacifica. Nondimeno, l’Assemblea Generale si è ritagliata nella prassi anche un ruolo di prevenzione in relazione a specifiche situazioni suscettibili di minacciare la pace e la sicurezza internazionale, un processo avviato sin dai primi anni 60 con l’approvazione della risoluzione 1761 (XVII) del 6 dicembre 1962 sull’interruzione delle relazioni economiche con il Sud Africa13. Altra istituzione cui la Carta assegna un ruolo importante nel sistema di prevenzione dei conflitti e di soluzione pacifica delle controversie è la Corte Internazionale di Giustizia cui il capitolo VI sin qui esaminato e, in particolare, l’articolo 36 fa specifico riferimento. Nel formulare raccomandazioni relative a procedimenti e metodi di sistemazione adeguati, il Consiglio deve infatti tenere presente che le controversie di carattere giuridico dovrebbero, come regola generale,essere deferite dalle parti alla Corte Internazionale di Giustizia, in conformità alle disposizioni del suo statuto. Nondimeno, è sulla base dell’articolo 96 che la Corte contribuisce

12 Esempio classico in questo senso è la risoluzione 384 del 1975 con la quale il Consiglio chiese al Segretario Generale di inviare un suo rappresentante a Timor Est per effettuare una valutazione della situazione esistente sul field e avviare consultazioni con le parti. 13 Conforti, Le Nazioni Unite, Padova, 1996; Morelli, Soluzione pacifica delle conotrversie internazionali, Napoli 1991

11 alla prevenzione dei conflitti armati facilitando il processo di diplomazia preventiva attraverso gli advisory opinions su questioni di natura giuridica14. L’articolo suddetto afferma che il Consiglio di Sicurezza o l’Assemblea Generala possono richiedere alla Corte di fornire un parere giuridico “on any legal question”; altri organi delle Nazioni Unite e agenzie specializzate, autorizzate dall’Assemblea Generale possono altresi richiedere un pronunciamento della Corte su questioni giuridiche strettamente legate all’applicazione dei rispettivi mandati. Attraverso i suoi prounciamenti e pareri legali la Corte ha giocato un ruolo assai importante nello sviluppo del diritto internazionale e nella promozione di una pacificazione definizione e risoluzione delle controversie tra gli Stati15. Il recente pronunciamento della Corte sulla non illegalità, dal punto di vista internazionale, della proclamazione unilaterale di indipendenza emessa dalle autorità del Kosovo è stato formulata sulla base di una precisa richiesta di parere formulata dall’Assemblea Generale ed ha rappresentato un contributo rilevante al tentativo di promuovere una soluzione pacifica della controversia tra Pristina e Belgrado16. È però indubbiamente il Segretario Generale dell’ONU a giocare un ruolo centrale nel sistema di diplomazia preventiva dell’Organizzazione. Gli articoli 98 e 99 della Carta affidano rispettivamente al SG funzioni politiche delegate e funzioni politiche autonome17. L’articolo 98 assegna al SG la possibilità di svolgere, su delega degli organi politici collegiali delle Nazioni Unite – Assemblea Generale, Consiglio di Sicurezza, Consiglio economico e sociale - funzioni politico-diplomatiche quali buoni uffici, mediazione, inchiesta ma anche di organizzare e dirigere le operazioni di peacekeeping. Formule vaghe e piuttosto generiche sono state generalmente impiegate per delegare tali poteri al SG, il quale, nel periodo della guerra fredda, aveva la possibilità di ritagliarsi un qualche ruolo diplomatico in contesto di forte rivalità politica e ideologica tra le grandi potenze. Il Segretario Generale ha ricevuto deleghe talora piuttosto ampie in relazione alla possibile soluzione di controversie internazionali: casi di questo tipo sono quelli legati alla cattura dei piloti americani in Cina (1954), all’invasione delle truppe sovietiche in Ungheria (1956), alla crisi di Cipro e alla questione degli ostaggi americani a Theran (1979). Non sono tuttavia mancati casi in cui il SG ha ricevuto un mandato assai più preciso: è il caso della risoluzione 505 del Consiglio di Sicurezza (1982), la quale, in occasione della guerra

14 Elsen, Litisdpendence between the International Court of Justice and the Security Council, Den Haag, 1986 15 Condorelli, La Corte Internazionale di Giustizia e gli organi politici delle Nazioni Unite, in Rivista di diritto internazionale, 1994, pag. 897 ss. 16 Cfr. Valerio Bosco, ONU-Organizzazioni Internazionali, in Osservatorio Strategico, febbraio-settembre 2010, sezione eventi. 17 Cfr. Sergio Marchisio, L’ONU. Il diritto delle Nazioni Unite, cit. , pag. 306-309.

12 delle Falkland-Malvinas, gli chiese esplicitamente di entrare in contatto con le parti, Argentina e Gran Bretagna, alfine di negoziare il cessate-il-fuoco18. Tra le funzioni delegate del SG hanno assunto un notevole rilievo quelle attribuite in relazione alle operazioni di peacekeeping. Nonostante la decisione sull’invio di una forza di pace spetti al Consiglio, il SG ha tradizionalmente un ruolo determinante nella condotta delle operazioni. Sebbene nel corso degli ultimi anni il Consiglio abbia cercato di migliorare ed accrescere la sua capacità di controllo e verifica del dispiegamento e della performance dei caschi blu, il SG ha ancora oggi un compito centrale nella determinazione della composizione della forza, nel negoziare con gli Host Countries e gli altri membri delle Nazioni Unite le condizioni di dispiegamento delle missioni, nel raccogliere le risorse finanziarie necessarie all’operazione di pace19. Nondimeno, è sempre il Consiglio a definire i compiti delle missioni di pace, le condizioni per il rinnovo del mandato, nonché ad indicare al SG i termini per la presentazione di rapporti sull’evoluzione della situazione sul field. L’articolo 99 della Carta assegna invece al SG competenze politiche e diplomatiche autonome: tale norma consente al Segretario Generale di richiamare l’attenzione del Consiglio su qualunque questione che, a suo parere, possa minacciare il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. L’ampiezza della formula indicata dall’articolo 99 consente in altre parole al Segretario Generale di esercitare massima discrezione nell’identificare una situazione suscettibile di costituire una minaccia per l’ordine internazionale. Sebbene tale articolo sia stato solo raramente invocato come base giuridica dell’azione politico-diplomatica del SG, esso ha in realtà ha favorito lo sviluppo del concetto di diplomazia preventiva in seno al sistema delle Nazioni Unite. Più in generale si può affermare che proprio all’articolo 99 sono da ricondurre tutti i poteri impliciti e le funzioni politiche esercitate dal Segretario Generale, oltre che nell’ambito della diplomazia preventiva, anche in materia di coordinamento e informazione, di buoni uffici e mediazione, alfine di promuovere la soluzione pacifica di controversie suscettibili di minacciare la pace e la sicurezza internazionale20. Appare del resto opportuno ricordare che quando l’articolo 99 fu discusso in seno ai lavori della Conferenza di San Francisco la maggioranza dei partecipanti concordò sul fatto che le prerogative attribuite al SG da quelle norme richiedessero una particolare sensibilità politica,

18 Franck-Nolte, The Good Offices Functions of rhe UN Secretary General, in United Nations, in Divided World. The UN roles in International Relations, a cura di Rivlin- Gordernker,, Oxford, 1992, pag. 161 ss. 19 Cfr. Valerio Bosco , 2009: UN Pecekeeping Under Review, Quarterly-CeMiSS, Summer 2009.

20 C.Smouts, The inherent powers of the Secretary-General in the Political Sphere: A Legal Analysis, in Netherlands International Law Journal, 1990, pag. 641

13 onestà intellettuale e autonomia di giudizio. Nondimeno, la prassi ha indicato che solo un articolato sistema di raccolta-aggiornamento dati, analisi e risk-assessments può consentire al Segretario Generale l’efficace espletamento delle funzioni attribuitegli dall’articolo 99. In questo senso, il Dipartimento di Affari politici del Segretariato ONU e le quattro divisioni regionali (Africa I e II, Asia/Medio-Oriente/Oceania, Europa/American Latina), costituiscono l’indispensabile sostegno alla missione di diplomazia preventiva affidata al Segretario Generale sulla base dell’articolo 99. Come si descriverà in seguito, il Dipartimento di Affari Politici, creato nel 1992, è divenuto il focal point dell’Organizzazione per le funzioni di conflict prevention e mediazione21. Nel corso della storia dell’ONU, un uso pioneristico dell’articolo 99 fu indubbiamente quello operato dal primo Segretario generale delle Nazioni Unite Trygve Lie, il quale si impegnò nella raccolta di informazione sulle situazioni di crisi, nella definizione di formali contatti diplomatici con le parti coinvolte nella controversie scoppiate nel corso del suo mandato (1946- 1952), nella nomina e nell’invio di suoi emissari e rappresentanti22. Pur senza invocare direttamente l’articolo 99, in occasione degli incidenti scoppiati lungo la frontiera settentrionale greca, Lie informò il CdS che in caso di un mancato accordo sull’autorizzazione all’invio di una commissione di inchiesta, il Segretario Generale “si sarebbe riservato il diritto di condurre investigazioni alfine di determinare se la situazione dovesse essere portata all’attenzione del Consiglio di Sicurezza23”. Inizialmente in linea di continuità rispetto all’azione di Lie, il secondo Segretario Generale, lo svedese Dag Hammarskjold, interpretò progressivamente il proprio mandato come fase costituente del sistema di diplomazia preventiva centrato sulla figura del Segretario generale. Nel novembre 1959 nel corso di una riunione del Consiglio di Sicurezza sulla situazione in Laos, Hammarskjöld annunciò l’intenzione di accettare un invito visitare il Paese alfine di raccogliere informazioni che gli consentissero si svolgere con efficacia le funzione assegnate dalla Carta al Segretario Generale. Due anni dopo, nel 1961, in occasione della crisi tra Francia e sulla questione di Biserta, il SG annunciò l’intenzione di accettare un invito dalle autorità di Tunisi per uno scambio di opinioni. In quella circostanza, Hammarskjöld presentò la sua decisione in linea con i diritti del SG sanciti dalla Carta sulla base dell’art.99 “il quale lo autorizza – notava il diplomatico svedese – a portare all’attenzione del Consiglio ogni

21 Cfr. su questo il sito del Dipartimento Affari Politici delle Nazioni Unite, www.un.org/wcm/content/site/undpa ultimo accesso, 30 ottobre 2010. 22 Cfr. Stephen Schwebel, The Secretary-General of the United Nations: His Political Powers and Practice, Cambridge University Press, 1952 23 United Nations Security Council Official records,1st Year, 70th Meeting, 20 September 1946.

14 situazione che egli ritenga suscettibile di rappresentare una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale”24. In particolare, secondo Hammarskjöld, era naturale che gli obblighi derivanti da quell’articolo potessero essere onorati solo se il SG fosse nella condizione di crearsi una opinione personale sui fatti suscettibili di mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Fu nel quadro di un’applicazione costante dell’articolo 99 che Hammarskjöld cercò di elaborare per le Nazioni Unite un ruolo di autonomia e indipendenza rispetto alla paralizzante logica dei blocchi e della guerra fredda25. Un ruolo che doveva concentrarsi in un impegno quotidiano al controllo e alla moderazione dei conflitti attraverso un sistema di mediazione e conciliazione – ovvero di diplomazia preventiva - fondato sulla natura neutrale e indipendente dell’ONU:

“…Ciò che chiamo diplomazia preventiva può essere condotta dalle Nazioni Unite attraverso il Segretario Generale o in altre forme…in molte situazioni in cui nessun governo né alcuna alleanza di governi o organizzazioni regionali sarebbe in grado di fare…tali interventi sono possibili perché l’organizzazione ha cominciato a guadagnare una certa indipendenza e quest tendenza ha favorito l’accettazione di una attività politica indipendentente da parte del Segretario Generale, percepito come rappresentante neutrale dell’Organizzazione…”26.

Fu sulla base di queste premesse che Hammarskjöld sviluppo i concetti di peacekeeping, e missioni di osservazione, parlando di operazioni “preventive e correttive”, formulò le regole essenziale per le missioni di inchieste (fact-finding missions) e di buoni uffici, ideò il concetto di “UN presence” come strumento di monitoraggio ed early warning, consolidando la pratica di designare suoi rappresentanti speciali da dispiegare nelle aeree di crisi27. Fu seguendo tale impostazione che il successore di Dag Hammarskjold, U-Thant, giocò un ruolo diplomatico di grande rilevanza in occasione della crisi di Cuba del 1963, agendo all’interno e all’esterno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU alfine di di mantenere aperta l’opzione del dialogo tra

24 Brian Urquarth, Hammarskjöld, New York, Alfred A. Knopf, 1972, pag. 48 25 Statement by Secretary-General on Principles Regarding Political Fact Finding or Good Offices Missions, UN Press Release SG/849, 27 August 1959. 26 Kai Falkman, To Speak for the World: Speech and Statements by Dag Hammarskjöld, Stockholm, Atlantis,2005, pag. 137-138. 27 Brian Urquarth, Hammarskjöld, cit. , pag. 294-295.

15 Washington e Mosca e neutralizzare il rischio allora imminente di uno scontro nucleare tra le due superpotenze28. Mentre i successivi Segretari generali hanno contributo a consolidare i poteri lui assegnati sulla base dell’articolo 99, l’Assemblea Generale, tramite atti e dichiarazioni, ha avuto un ruolo storicamente importante nell’incoraggiare il rafforzamento delle funzioni politiche e diplomatiche autonome del SG. La dichiarazione sulla prevenzione e l’eliminazione delle controversie che possono minacciare la pace e la sicurezza e il ruolo delle Nazioni Unite (43/51 del 5 dicembre 1988), la Dichiarazione sul fact-finding contenuta nella risoluzione 46/59 del 9 dicembre 1991 hanno confermato l’autonomia del SG nella creazione di missioni di inchiesta, ricordando che, in virtù dell’assistenza tecnica che può essere offerta dalle strutture del Segretariato, il SG è il soggetto più idoneo a raccogliere informazione ai fini della prevenzione dei conflitti. La competenza autonoma del Segretario Generale a svolgere missioni di inchiesta senza l’autorizzazione degli organi collegiali è ormai prassi consolidata e di estrema rilevanza nell’ambito delle sue funzioni di diplomazia preventiva29. Il Più recente episodio a riguardo è la lettera con cui il Segretario General Ban Ki-Moon ha annunciato al Consiglio di Sicurezza la sua decisione di creare una commissione di inchiesta sulle violenze commesse in Guinea30. La panoramica sugli attori internazionali nel campo della mediazione e della prevenzione dei conflitti non può ritenersi esaustivo senza operare un primo cenno al ruolo riconosciuto dalla Carta alle organizzazioni regionali. Il sistema di sicurezza collettiva identificato dalla Carta e accentrato nel Consiglio di Sicurezza assegna infatti, sulla base del capitolo VIII, un ruolo preciso alle organizzazioni regionale – definite regional arrangments or agencies – nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. È infatti il par 1 dell’articolo 52 ad affermare che la Carta non preclude l’esistenza di organizzazioni regionali impegnate in questioni relative al mantenimento della pace internazionale, prescrivendone tuttavia l’allineamento ai principi e i fini delle Nazioni Unite. Tale requisito di conformità è stato del resto recepito da gran parte delle carte istitutive delle diverse organizzazioni regionali quali l’Organizzazione degli Stati Americani (OAS), la

28 Un racconto dettagliato del ruolo giocato da U-Thant nel corso della crisi di Cuba si può trovare nel saggio Preventive Diplomacy during the Cuban Missile Crisis, in Preventive Diplomacy at the UN, a cura di Leon Ramcharan, United Nations Intellecutal History Project Series, New York, 2008.

29 Smouts, Secretary-General in the United Nations: Law, Policies and Practice, a cura di Wolfrum, Dordrecht- London Boston, 1995, vol. II, pag.1145. 30 United Nations, Security Council, Letter dated 18 December 2009 addressed to the President of the Security Council by the Secretary-General, S/2009/693

16 NATO, l’Unione Africana, L’associazione della nazioni del sud-est asiatico, l’OSCE, l’Unione Europea31. Gli articoli 52 e 53 della Carta definiscono il rapporto tra Consiglio di Sicurezza e gli accordi e le organizzazioni regionali nelle due differente sfere del mantenimento della sicurezza internazionale, ovvero in materia di soluzione pacifica delle controversie e in quella relativa alle azioni coercitive a tutela della pace. Il par.2 dell’art. 52 incoraggia gli Stati membri dell’ONU che sono anche parti di tali accordi a compiere ogni sforzo possibile per promuovere la soluzione pacifica delle controversie mediante gli strumenti istituzionali a disposizione a livello regionale prima di ricorrere al Consiglio di Sicurezza. La dichiarazione di Manila sulla soluzione pacifica delle controversie internazionali ha successivamente precisato che “tutti gli Stati membiri che sono parte di accordi o organizzazioni regionali devono compiere tutti gli sforzi possibili per regolare in modo pacifico, mediante tali strumenti, le loro controversie di ordine locale prima di sottoporle all’attenzione del Consiglio”: tale disposizione non pregiudica la possibilità di attirare l’attenzione del Consiglio o dell’Assemblea generale su una precisa controversia, in conformità alla Carta dell’ONU32. Nondimeno, è del resto il par. 3 dell’articolo 52 a precisare che lo stesso CdS incoraggia la soluzione pacifica delle controversie di carattere locale mediante gli accordi o le organizzazioni regionali sia su iniziativa degli Stati interessati, sia deferendo esso stesso tali controversie in sede regionale. Sebbene tale circostanza non impedisca al Consiglio di Sicurezza di svolgere un’inchiesta su una controversia di ordine locale anche nell’ipotesi in cui l’organismo regionale ne sia già investito – si possono ricordare i casi delle Falkland-Malvinas (1982), la situazione in Nicaragua (1982-1983), l’invasione di Panama (1989) in cui il CdS esercitò la propria competenza indipendentemente dalle azioni assunte dall’Organizzazione degli Stati americani - si può asserire che la Carta dell’ONU abbia indicato una sorta di priorità dei meccanismi regionali nella ricerca di soluzioni locali rispetto all’ipotesi di una diretta e formale investitura del Consiglio di Sicurezza. È evidentemente al capitolo VIII della Carta, assieme ai testi e ai documenti fondamentali delle diverse organizzazioni regionali che la presente ricerca farà riferimento per inquadrare dal punto di visto teorico la problematica delle relazione tra queste e

31 Con formule diverse, tali organizzazioni riconoscono i diritti e gli obblighi derivanti dalla Carta alle parti che sono membri delle Nazioni Unite e confermano il principio della responsabilità primaria del Consiglio di Sicurezza nel mantenimento delle pace e della sicurezza internazionale. Cfr. Il capitolo X, Organismi regionali e mantenimento della pace, in S. Marchisio, L’ONU, cit. , pag. 284-285. 32 Cfr. parte I, par. 6. Risoluzione dell’Assemblea Generale 37/10 del 15 novembre 1982, Yearbook of the United Nations, 1982, 1372-1374

17 le Nazioni Unite nella prevenzione dei conflitti ed esaminare la performance di tale cooperazione rispetto a concreti case-studies.

1.2 Da Perez de Cuellar a Kofi Annan, teoria e prassi della diplomazia preventiva: il ruolo degli special representatives del SG e gli uffici regionali dell’ONU

Sebbene i concetti e la pratica della prevenzione dei conflitti e della diplomazia preventiva fossero già stati enunciati e sperimentati dai primi segretari generali dell’ONU – si è fatto precedentemente riferimento al contributo offerto in tal senso, in modo particolare, da Trygve Lie e Dag Hammarskjöld – è indubbiamente con il peruviano Javier Pérez De Cuellar che si assiste ad una intensificazione dell’azione dell’ONU in materia33. Convinto della necessità di accrescere le capacità del Segretariato ONU nella raccolta di informazioni e analisi rispetto a potenziali situazioni di crisi, De Cuellar riteneva che il SG potesse spesso rappresentare l’unico canale di comunicazione possibili tra le parti in conflitto e che tale funziona richiedesse l’esercizio di una buona dose di moderazione e improvvisazione nel quadro delle sue attività di buoni uffici. Secondo De Cuellar, l’invocazione dell’articolo 99 doveva essere considerata dal SG con particolare prudenza: l’attenzione alle dinamiche interne al Consiglio di Sicurezza, la considerazione delle posizioni esistenti tra i membri permanenti e non permanente dovevano costituire gli elementi necessari per una corretta valutazione dell’opportunità dell’esercizio della funzione politica di early warning e prevenzione assegnata al Segretario Generale34. La decisione di sottoporre all’attenzione del Consiglio una questione a suo avviso suscettibile di minacciare e la pace e la sicurezza internazionale, nel caso in cui non fosse seguita da un concreto intervento del massimo organo del palazzo di vetro, rischiava di infatti di aggravare le dimensioni e l’intensità della crisi. Nel marzo 1987 De Cuellar promosse un coraggioso tentativo di sviluppo e consolidamento delle capacità del Segretariato ONU in materia di early warning e diplomazia preventiva, disponendo la creazione dello Office for Research and Collection of Information (ORCI). L’obiettivo era quello di far confluire all’interno di un’unica entità del Segretariato la

33Leon Gordernker, The UN Secretay-General and the Secretariat, London, Routledge, 2005, 34 Javier Pérez de Cuéllar, The role of the UN Secretary-General, Cyril Foster Lecture, Oxford University, 1986. Pubblicato come UN Press Release SG/SM/3870, 13 May 1986.

18 raccolta e l’analisi delle informazioni politiche relative a potenziali situazioni di crisi. L’ORCI univa cioè ricerca, analisi e l’ “information-gathering” con funzioni di sostegno alle attività politiche del Segretario Generale e con un ampio mandato di monitoraggio dei trend globali in materia early warning – movimenti di sfollati e rifugiati, massicce violazioni dei diritti umani - e diplomazia preventiva35. L’iniziativa del 1987 fu seguita dalla presentazione di un documento storico destinato a segnare l’evoluzione del ruolo delle Nazioni Unite in materia di diplomazia preventiva e prevenzione dei conflitti. Pensato per indicare i fini e gli obiettivi dell’Organizzazione per il nuovo decennio, “Perspectives for the 1990s”, delineò l’idea di una prevenzione strutturale dei conflitti fondata sulla promozione della sicurezza internazionale e della riduzione degli armamenti, sulla crescita della cooperazione economica internazionale, sul progresso sociale, sulla promozione e rispetto dei diritti umani. Secondo De Cuellar, le Nazioni Unite del nuovo decennio avrebbero dovuto concentrare le proprie attività sul monitoraggio delle potenziali cause dei conflitti e sulla comunicazione di tali sviluppi alle istituzioni competenti, in primis il Consiglio di Sicurezza e lo stesso Segretario Generale36. Tale monitoraggio doveva tuttavia includere l’analisi dei fattori economici e sociali suscettibili di innescare fenomeni di violenza politica e minacciare la pace internazionale. Le disuguaglianze sociali ed economiche figlie del sottosviluppo, la disoccupazione di massa, le tensioni etniche e religiose ereditate dal sistema coloniale, le gravi violazioni dei diritti umani, l’emergenza del terrorismo erano indicate dal Perspectives for the 1990s come le principali minacce all’ordine internazionale. De Cuellar colse lucidamente, con anticipo, i trends destinati a minacciare in misura crescente la pace e la sicurezza internazionale. A tal fine, il SG avanzò l’idea di una “comprehensive prevention strategy” fondata sulla crescita del ruolo dell’ONU nella promozione dell’aiuto allo sviluppo e delle politiche di riduzione della povertà, sul controllo della crescita demografica suscettibile di creare tensione tra popolazione e risorse, sulla promozione dei diritti umani, sul contrasto al disarmo e alla proliferazione nucleare. In altre parole l’intenzione del SG era quella di fare delle Nazioni Unite l’istituzione fulcro nella prevenzione strutturale dei conflitti della e nella promozione di un approccio integrato ai temi dello sviluppo. In qualità di global watch, l’ONU doveva pertanto proporsi come “reliable source of timely information across the range of human activities” capace di coalizzare l’azione multilaterale degli Stati nella prevenzione e contrasto alle minacce alla pace e alla sicurezza internazionale.

35 United Nations, The Office of Research and Collection of Information, ST/SGB/SB/233, 1 March 1987 36 United Nations, Programme Planning. Preparation of the next medium term plan. Note by the Secretary-General. Enclosure. Some perspectives on the work of the United Nations in the 1990s, A/42/512, 2 September 1987.

19 È tuttavia con il successore di De Cuellar, l’egiziano Boutros Boutros Ghali che si assiste ad un passaggio rivoluzionario nella storia intellettuale della diplomazia preventiva delle Nazioni Unite. Ghali enunciò le sue idee in materia in un saggio pubblicato nel 1996, intitolato “Challanges of Preventive: the Role of the United Nations and Its Secretary-General”, suggerendo cinque condizioni essenziali suscettibili di assicurare l’efficacia dell’azione di conflict prevention del Segretario Generale. Tali condizioni venivano indicate nell’esistenza di capacità di raccolta e analisi di informazioni, nell’esercizio di lucidità e creatività nella prescrizione di trattamenti corretti per le situazioni di crisi, nell’accettazione dalle parti di una controversia del ruolo di mediazione del SG, nella presenza di uno sostegno politico dei membri del Consiglio di Sicurezza e, infine, di un preciso interesse da parte degli Stati membri a garantire risorse finanziare per sostenere l’iniziativa di prevenzione dei conflitti.37 Nondimeno, è il rapporto An Agenda for Peace: Preventive Diplomacy, Peacemaking and Peacekeeping, pubblicato nel 1992 su richiesta del Consiglio di Sicurezza ad aver influenzato per lungo tempo e a guidare ancora oggi l’azione delle Nazioni Unite in materia di prevenzione dei conflitti e diplomazia preventiva38. È stata infatti l’Agenda for Peace a definire la diplomazia preventiva come l’insieme di azioni “volte a prevenire una degenerazione delle controversie tra le parti, ad impedire l’escalation di crisi nonché a limitarne l’estensione e l’allargamento una volta che le stesse si sono trasformate in conflitti”39. In relazione a ciò l’obiettivo delle Nazioni era, secondo Ghali, quello di identificare con tempestività – “at the earliest stage possible” – situazioni suscettibili di trasformarsi in conflitto e di “promuovere il dialogo e la diplomazia per rimuovere le fonti del pericolo prima dello scoppio della violenza”. La diplomazia preventiva dell’ONU doveva concentrarsi nella promozione di un approccio che mirasse ad affrontare “the root causes of conflicts” identificate nella sperequazione economica, nell’ingiustizia sociale e nell’oppressione politica. Secondo il rapporto, il Segretario-Generale, il senior staff del Segretariato e delle agenzie dell’ONU, il Consiglio di Sicurezza, l’Assemblea Generale, in cooperazione con le organizzazioni regionali, erano chiamate all’esercizio di una prevenzione fondata sulla raccolta-analisi di informazioni, nonché sull’invio ed eventuale istituzionalizzazione di missioni diplomatiche nelle aeree di crisi volte a creare e mantenere un contatto continuo tra

37 Preventive Diplomacy: Stopping Wars before They start, ed. Kevin M. Cahill. New York, Basic Books, 1996, pag. 16-34. 38 United Nations, Note by the President of the Security Council, Security Council Document, S/23500, 31 January 1992, consultabile su: http://unbisnet.un.org , ultimo accesso 13 ottobre 2010. 39 United Nations, Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Peace: Preventive Diplomacy, Peacemaking and Peacekeeping, New York, United Nations,, 1992, pag. 7-8

20 le parti, promuovere confidence building measures. Tali funzioni poteveno inoltre essere abbinate a misure come il dispiegamento preventivi di truppe – preventive deployment – o la creazione di zone smilitarizzate40. L’Agenda for Peace dedicò indubbiamente particolare attenzione al principio della creazione di confidenza tra le parti e della promozione della condivisione di interesse comune tra gli Stati come strumento di prevenzione dei conflitti, indicando i sistematici scambi di missioni militari, la formazione di :risk reduction center” a livello regionale e sub-regionale, come tra le più efficaci “confidence building measures”41. Intenzione del SG era quella di accrescere il ruolo delle organizzazioni regionali nella definizione di misure capaci di risolvere “potential, current or past disputes” e di consentire al sistema ONU di beneficiare l’esperienza locale nella gestione delle situazioni di crisi. Secondo il rapporto, un maggiore ricorso alle fact finding missions avrebbe consentito al Segretario Generale di esercitare con particolare efficacia le funzioni attribuitegli sulla base dell’articolo 99 della Carta. Nondimeno, il contatto periodico del SG con gli stati membri coinvolti o interessati alla soluzione di una controversia o di una crisi doveva essere accompagnato dal dispiegamento di missioni diplomatiche “in capitals and other locations” o dalla nomina di inviati speciali, definite su richiesta del CdS o dell’AG o sulla base di un’autonoma iniziativa del Segretario Generale. Boutros-Ghali invitò inoltre il Consiglio di Sicurezza ad organizzare con maggiore regolarità riunioni sul field, lontano dall’Headquarter dell’ONU, alfine di raccogliere direttamente informazioni e di portare direttamente nelle aeree di crisi l’autorità e la legittimità dell’Organizzazione42. In funzione di follow-up alle osservazioni e raccomandazioni indicate dall’Agenda for Peace, Boutros-Ghali dispose la creazione dei sei divisioni regionali del Department of Political Affairs del Segretariato ONU (Europa, Asia e Medio Oriente, Africa I e II, America Latina, Asia-Pacifico, alcune di queste sarebbero stati poi accorpate) che, proprio nel 1992, aveva sostituito l’ORCI, divenendo il focal point dell’Organizzazione nella raccolta di analisi e informazioni utili alla prevenzione dei conflitti e all’esercizio della diplomazia preventiva da parte del Segretario Generale. Compito dei diversi desk-officers del DPA era quello di formulare un rischio-analisi dei diversi paesi e di portare all’attenzione dei senior officers situazioni critiche con l’obiettivo di tenere costantemente informato il Segretario Generale. Boutros-Ghali affidò infine ad un Under-Secretary General, il russo Vladimir Petrovsky, il

40 Ibidem, pag. 13. 41 Ibidem, pag. 17. 42 An Agenda for Peace, cit. , pag. 18.

21 compito di mantenere il dialogo con il Consiglio di Sicurezza informandone periodicamente i membri sull’evoluzione delle varie situazioni di crisi43. Nel periodo tra il marzo e il novembre 1992 il DPA, sulla base delle indicazioni del SG e dell’USG per agli affari politici, condusse ben 31 missioni diplomatiche in aree di crisi inviando propri funzionari in Nagorno-Karabakh (ottovolte), ex Jugoslavia (quattro), Guatemala, Moldavia, Haiti Georgia, Tajikistan. Sulla scia delle iniziative lanciate da Boutros Ghali, il DPA, attraverso le sue divisioni regionali, è diventato progressivamente il centro della produzioni di informazioni ed early warning sulle vicende politiche nelle aeree di crisi; i rapporti analitici e le note informative del dipartimento accompagnano la diplomazia del Segretario Generale nei suoi contati con gli Stati membri e le varie organizzazioni regionali e sub-regionali . Allo stesso modo è con Boutros Ghali che i funzionari senior del DPA cominciano a svolgere una funzione preziosa nell’aggiornare il Consiglio di Sicurezza sull’evoluzione delle situazioni di crisi e sull’azione delle missioni politiche del Segretariato44. Sotto la direzione di Boutros-Ghali l’ONU condusse dunque un’intensa attività di diplomazia preventiva: un team di osservatori onusiani svolse un ruolo chiave di facilitazione del dialogo politico in Sud Africa nell’ambito del processo di abolizione dell’apartheid e di transizione alla democrazia (1992); in occasione della crisi tra Eritrea e Yemen e della contesa scoppiata sulla sovranità delle isole Hanish (1995-1996), il Segretario Generale intraprese una mediazione continua dietro le quinte, sostenendo l’iniziativa diplomatica francese e invitando le parti della controversia a definire una risoluzione pacifica del conflitto; infine, sempre nel 1995, UNPREDEP-Macedonia (UN Preventive Deployment Force) rappresentò il primo dispiegamento preventivo nella storia del peacekeeping onusiano. Proprio nel 1995, a due anni di distanza dall’Agenda for Peace, il supplemento allo storico documento del 1992, indicò tuttavia le prime difficoltà registrate nell’implementare le misure proposte dal Secretario Generale. Boutros-Ghali notò come il grave ostacolo allo sviluppo e al successo delle iniziative di conflict prevention delle Nazioni Unite non fosse tanto rappresentato dall’assenza di capacità di analisi da parte del Segretariato, quanto piuttosto dalla riluttanza delle parti ad accettare l’aiuto dell’ONU sia in relazione a crisi tradizionali, inter-statali, che a nuovi conflitti e tensioni scoppiati all’interno degli Stati membri. Nonostante gli Stati

43 Chinmaya R. Gharekhan – Boutros Boutros Ghali, The Horseshoe Table: An Inside View of the UN Security Council, Dehli, Longman, 2006. 44 Cfr su questo il sito del Department of Political Affairs, http://www.un.org/wcm/content/site/undpa/main, ultimo accesso 29 ottobre 2010.

22 membri continuassero a incoraggiare in linea generale l’azione del SG in materia di conflict prevention, in circostanze nelle quali essi erano direttamente coinvolti, manifestavano profonda ostilità rispetto all’ipotesi di un intervento di mediazione delle Nazioni Unite, ponendo di fatto l’organizzazione in una condizione di completa impotenza, non potendo evidentemente imporre i suoi servizi di peacemaking contro la volontà delle parti. Il supplemento notò inoltre l’estrema difficoltà registrata nell’identificare senior officials dall’elevata esperienza diplomatica interessati a servire come inviati speciali e rappresentanti speciali del Segretario Generale. Secondo Boutros-Ghali, l’ottimizzazione delle capacità del DPA di agire come focal point della prevenzione dei conflitti in seno al sistema ONU si basava inoltre sulla possibilità di contare su piccole “field mission for preventive diplomacy” pensate in funzione di supporto e complemento indispensabile alle visite periodiche condotte dagli inviati speciali del Segretario Generale. Questi uffici di sostegno potevano essere creati solo mediante l’allocazione di risorse allora non disponibili e ricavabili mediante l’eventuale allocazione di una quota dal bilancio ordinario dell’Organizzazione, oppure tramite un finanziamento ad hoc, extra-bilancio, delle attività di diplomazia preventiva45. La visione di Boutros-Ghali sul ruolo ONU nella prevenzione dei conflitti fu infine arricchita dalla presentazione di altri due documenti di grande rilevanza, “An Agenda for Development” e “An Agenda for democratization”, pubblicati rispettivamente nel 1994 e nel 1996. Mentre il primo indicava nello sviluppo economico-sociale “un diritto umano fondamentale e la base più sicura per la concordia sociale e la pace”, il secondo incoraggiava il consolidamento delle istituzioni della democrazia rappresentativa come opzione migliore per incanalare su sentieri pacifici la pressione popolare per la riforma dello status quo e la rimozione delle ineguaglianze economiche e sociali.46 Seguendo l’impostazione teorica dei suoi predecessori, Kofi Annan dedicò gran parte del suo mandato nel rafforzamento della cultura della prevenzione all’interno del sistema delle Nazioni Unite. Il rapporto Prevention of Armed Conflict, presentato all’Assemblea Generale nel giugno 2001, introdusse la distinzione, precedentemente esaminata, tra “operational prevention”, intesa come azioni a breve termine per il contrasto a crisi già in corso e “structural prevention”, ovvero l’insieme di iniziative di lungo periodo per impedire la nascita e lo sviluppo di

45 United Nations, Report of the Secretary-General on the work of the Organization, Supplement to an Agenda for Peace, Position paper of the Secretary-General on the occasion of the 50th Anniversary of the United Nations, A/50/60 - S/1995/234, 13 January 1995 46 United Nations - General Assembly, An Agenda for Development: Report of the Secretary-General, 6 May 1994, A/48/935. Pubblicato in seguito come Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Development, New York, United Nations, 1995; Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Democratization, New York, United Nations, 1996.

23 crisi o situazioni conflitto nel quadro di una strategia articolata. Fu sulla base del rapporto del 2001 che il Consiglio di Sicurezza adottò la storica risoluzione 1366 del 31 agosto 2001 con la quale gli Stati membri e le organizzazioni regionali e sub-regionali furono incoraggiati a promuovere l’adozione di strategie regionali e continentali per la prevenzione dei conflitti47. Grazie all’impulso di Kofi Annan il comitato di coordinamento dei Dipartimenti del Segretariato ONU – Interdepartmental Framework for Coordination - concentrò il suo lavoro nella definizione di iniziative di prevenzione strutturale dei conflitti, intesa come costruzione e rafforzamento delle capacità degli Stati membri nella prevenzione delle crisi48. Nel 2003 la principale agenzia di sostegno allo sviluppo delle Nazioni Unite, lo United Nations Development Program (UNDP) e il Dipartimento Affari Politici lanciarono il Joint Program on Building National Capacities for Conflict Prevention alfine di appoggiare gli sforzi dei diversi Uffici-Paese dell’UNDP (UNDP-Country Offices) nella definizione di programmi volti a rafforzare le capacità dei diversi attori nazionali nella soluzione delle controversie suscettibili di degenerare in fenomeni di crisi e violenza politica. Tra il 2003 e il 2004 l’iniziativa congiunta UNDP-DPA svolse un ruolo fondamentale nel promuovere l’intesa tra i diversi attori del sistema politico e della società civile in Niger sullo sviluppo di un forum nazionale per la prevenzione dei conflitti, incaricato di definire procedure e meccanismi “locali” per la risoluzione di controversie politiche. In quel periodo i programmi di assistenza allo sviluppo messi a punto in Africa dall’UNDP e dal Dipartimento Affari Economici e Sociali dell’ONU hanno cominciato a dedicare attenzione crescente al tema della creazione di efficaci capacità nazionali per la prevenzione dei conflitti. Nel caso dello Zimbabwe il programma “Building Skills for Constructive Dialogue, Negotiation and Conflict Transformation” coinvolse le istituzioni governative, i parlamentari, gli insegnanti, i membri della società civile nel tentativo di formare le capacità dei principali attori nazionali nella risoluzione pacifica delle tensioni e delle controversie politiche interne. Il programma non mirava cioè ad affidare all’ONU un ruolo nella mediazione diretta delle controversie ma piuttosto a fornire ai protagonisti della vita politica e civile nazionale conoscenze, spazi di discussione, expertise, capaci di guidare gli sforzi autonomi della realtà locale nella creazione di consenso, nella prevenzione delle tensioni politiche e nella soluzione di “critical challanges” alla stabilità del Paese.

47 Cfr. United Nations, Report of the Secretary General: Prevention of Armed Conflict, S/2001/574, 7 June 2001. 48 The Evolution of the Doctrine and Practice of Early Warning and Conflict Prevention in the UN system, in Conflict Prevention in Practice: Essays in Honour of Jim Sutterlin, ed Bertrand G. Ramcharan, Leiden, Netherlands, 2005, pag. 45-60.

24 Un programma analogo è stato quello messo a punto dal binomio DPA-UNDP in Ghana e nella Guyana; una medesima filosofia preventiva ha infine ispirato il sostegno offerto da UNDP ai cosiddetti dialoghi democratici condotti in diversi Paesi dell’America Latina e della regione caraibica. Altri Paesi come le Maldive, il Gambia, la Nigeria, la Guinea-Bissau, la Sierra Leone, il , il Lesotho, lo Yemen, le isole Fijii hanno beneficiato dello joint program e dell’expertise offerta dai “peace and development advisers” dell’ONU impegnati nella definizione di programmi e iniziative per la riduzione delle tensioni politiche, sociali, etniche e la promozione del dialogo e della coesione sociale49. Nel suo rapporto finale sulla prevenzione dei conflitti, presentato pochi mesi prima la scadenza del suo secondo mandato, Kofi Annan introdusse inoltre una terza categoria di prevenzione, systemic prevention, riferita alle misure tese ad affrontare e risolvere i rischi globali di conflitto, come ad esempio la definizione di trattati internazionali per il controllo del commercio di armi o di diamanti50. Pur identificando la prevenzione dei conflitti come global- shared responsibility, il rapporto del 2006 pose tuttavia particolare enfasi sul principio della responsabilità nazionale in materia e formulò osservazioni assai interessanti sulle implicazione del concetto di structural prevention, già elaborato del 2001. Secondo Annan, gran parte dei conflitti armati che, all’indomani della guerra fredda, avevano assunto una dimensione sempre intra-statale, erano spesso legati a drammatici fallimenti nella governance, nella pubblica amministrazione, nell’assetto e nella povera performance delle istituzioni. Le sperequazioni sociali ed economiche di tali fallimenti erano spesso all’origine di mutamenti politici violenti e suggerivano di proseguire e intensificare il programma congiunto DPA-UNDP nella promozione delle capacità nazionali per la prevenzione dei conflitti. A tale impostazione Annan associò la sua insistenza sulla governance democratica come sistema migliore per prevenire tensioni e creare consenso mediante meccanismi di pesi e contrappesi e il rispetto dello stato di diritto. Nonostante tale enfasi sulla dimensione nazionale della prevenzione, Annan non mancò di riconoscere come le “operational measures” adottate dall’Organizzazione, i buoni uffici del SG, la mediazione e facilitazione del dialogo svolta dai suoi inviati e rappresentanti speciali continuassero a rappresentassero comunque una risorsa preziosa per la soluzioni di conflitti

49 Cfr. su questo Politically Speaking, Bulletin of the United Nations Department for Political Affairs: Conflict Prevention in Partnership with UNDP, Spring 2009, pag. 16-17. 50 United Nations, Progress Report of the Secretary-General on the prevention of armed conflict, A/60/891, 18 July 2006.

25 inter e intra-statali, dispute di confine, controversie costituzionali ed elettorali, questioni legati all’autonomia o indipendenza di territori,etc. La stessa insistenza di Annan sul ruolo crescente che iniziative regionali emergenti potevano giocare nel campo della prevenzione dei conflitti e nel contrasto ai mutamenti violenti e incostituzionali delle forme di governo non era motivato dalla volontà di ridimensionare il ruolo di global watch delle Nazioni Unite sulle possibili minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, quanto piuttosto dall’idea di favorire e assecondare quel sistema di sicurezza collettiva “globale-regionale” preconizzato dal capitolo VIII della Carta ONU e materializzatosi progressivamente nella fase successiva alla fine della guerra fredda51. Nondimeno, una delle raccomandazione più importanti del rapporto del 2006 fu proprio l’invito agli Stati membri alla creazione degli “elementi di una infrastruttura nazionale per la pace” e alla promozione di un approccio strategico al consolidamento della democrazia, al rafforzamento della credibilità dei processi elettorali. Oltre ad incoraggiare il proseguimento del dibattito internazionale sul tema della conflict prevention, Kofi Annan non mancò di riconoscere la necessità di affidare allo Human Rights Council ed alla Peacebuilding Commission - le due istituzioni sorte in seguito al rilancio del processo di riforma dell’ONU culminato nel World Summit del 2005 – un ruolo chiave nell’identificazione di misure capaci di prevenire la nascita dei conflitti nonché di impedire fenomeni di ricaduta in situazione di caos e violenza politica. La riflessione dei diversi Segretari Generali dell’ONU sulle politiche di prevenzione dei conflitti è stata accompagnata, negli ultimi decenni, da una crescente istituzionalizzazione della figura degli Special Representatives/Special Envoy/Personal Envoy incaricati di condurre i buoni uffici e la mediazione in specifiche situazioni di crisi. Sulla scia dell’esperienza di Folke Bernadotte e Ralph Bunche nominati da Trygve Lie come mediatori nel conflitto mediorientale, fu in particolare Dag Hammarskjold che presentò l’idea innovativa nei nominare una serie di Special Representatives in aree di crisi, Guinea (1958-1959), Giordania (1959), Laos (1959-1960) e Somalia (1961). Il mandato ad essi affidato era quello di tenere informato il SG sull’evoluzione della situazione alfine di consentirgli un esercizio delle funzioni politiche lui attribuite dalla Carta delle Nazioni Unite52. La nomina di Special Representatives, inviati speciali, spesso al livello di Under-Secretary General,

51 United Nations, General Assembly-Security Council, A regional-global security partnership: challenges and opportunities, A/61/204-S/2006/590, 28 July 2006. 52 Connie Peck, Special Representatives of the Secretary-General, in The UN Security Council, ed. David Malone, Boulder, Colo, Lynne Rienner, 2004, pag. 322-339.

26 rappresenta oggi uno degli aspetti centrali dell’azione delle Nazioni Unite in materia di prevenzione dei conflitti e mediazione. Ad oggi il Segretario Generale può contare su un fitta rete di mediatori che si estende dall’Africa (Somalia, Burundi, Repubblica centroafricana-, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, regione dei Grandi Laghi, Guinea-Bissau, Liberia, Sierra Leone, Sudan, Sudan/Darfur, West Africa, Sahara occidentale) all’Asia (Afganistan, Asia Central, Nepal, Pakistan, Timor Est); dal Medio Oriente (conflitto israelo- palestinese, Iraq, Libano) all’Europa (Cipro, Kosovo) e all’America Latina (Guyana-Venezuela, Haiti). D’intesa e in cooperazione con i colleghi di organizzazioni regionali e stati membri, gli Special Representatives/Special Envoys svolgono spesso un ruolo centrale nella facilitazione del dialogo politico, nel contenimento delle crisi, nella promozione della conciliazione nazionale53. Nel corso degli ultimi anni, la nascita di uffici regionali e sub-regionali dell’ONU impegnati in materia di conflict prevention ha ulteriormente arricchito la struttura di prevenzione direttamente legata al Segretariato del palazzo di vetro. Prima esperienza di questo tipo è quella rappresentata dall’United Nations Office in West Africa, creato dal Consiglio di Sicurezza, diretto da un rappresentante speciale del Segretario Generale inquadrato nella struttura del Dipartimento Affari Politici. Creato nel 1992, UNOWA, che ha sede in Dakar, Senegal, ha il compito di contribuire al consolidamento della pace e della sicurezza in Africa occidentale attraverso una strategia che include la promozione della buona governance, il sostegno ai programmi di riforma dei settori di sicurezza, la definizione di un approccio regionale ai problemi della corruzione, del traffico di droga, del crimine organizzato e della disoccupazione giovanile, quest’ultima, una delle più potenti cause di instabilità dell’area. UNOWA è stata inoltre incaricata di coordinare il lavoro delle agenzie ONU e delle operazioni di pace/peacebuilding dell’Organizzazione presenti nella regione (Costa d’Avorio, Sierra Leone, Liberia, Guinea-Bissau) e di sostenere attivamente gli sforzi della Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Economic Community of West African States ECOWAS) and dell’Unione del fiume Manu. UNOWA ha infine compito di monitorare con attenzione gli sviluppi politici e sociali interni ai diversi Paesi della sub-regione e di favorire,

53 Una testimonianza interessante del lavoro svolto dai rappresentanti del Segretario Generale dell’ONU è quella fornita da Ahmedou Ould-Abdallah, inviato speciale dell’ONU nella crisi in Burundi , nel volume “Burundi on the Brink, 1993-1995: a UN Special Envoy Reflects on Preventive Diplomacy”, Washington DC, United States Institute for Peace, 2000.

27 assieme alle organizzazioni sub-regionali e ai leaders politici dell’area, un contenimento dei fenomeni di instabilità e violenza che spesso affliggono le elezioni o le transizioni politiche54. Oltre a svolgere un ruolo importante nella popolarizzazione dei problemi che affliggono la sub-regione, aspetto saliente dell’azione di UNOWA e del suo Special Representative negli ultimi anni è stata quella di stabilire un ponte di comunicazione efficace tra l’ECOWAS, organizzazione che si è di fatto ritagliato un ruolo centrale nella gestione e prevenzione delle crisi nell’area, e i vari leaders nazionali. Il contributo di UNOWA agli sforzi dell’ECOWAS e dell’UA nel contrasto al fenomeno dei colpi di stato e nelle iniziative sub-regionali di ripristino dell’ordine costituzionale in Guinea, Mauritania, Niger mediante l’organizzazione di credibili processi elettorali – tale tema sarà esaminato nel dettaglio nel capitolo relativo ai case-study - si è rivelato indubbiamente fondamentale ed è stato sin qui riconosciuto come uno dei successi più importanti dell’azione dell’ONU in materia di conflict prevention e diplomazia preventiva55. Il successo riscontrato da UNOWA ha ispirato in questi anni una riflessione sull’opportunità di riprodurre forme di presenza sub-regionali dell’ONU con finalità di coordinamento degli sforzi dell’organizzazione in materia di prevenzione dei conflitti, promozione della pace e della sicurezza regionale.

54 United Nations, Letter Dated 26 November 2001 for the Secretary-General addressed to the President of the Security Council, S/2001/1128, 29 November 2001; United Nations, Letter Dated 11 December 2001 for the Secretary-General addressed to the President of the Security Council, S/2005/16 , 11 January 2005. 55 United Nations, Report of the Secretary-General on the United Nations Office for West Africa, S/2010/324, 21 June 2010.

28

1.3 Il Consiglio di Sicurezza: prevenzione dei conflitti, peacebuilding e dispiegamenti preventivi

Una rapida ricostruzione delle modalità con cui il Consiglio di Sicurezza, negli ultimi due decenni, ha svolto funzioni di diplomazia preventiva e conflict prevention nell’ambito della sua responsabilità nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale appare necessario alfine di inquadrare in maniera più efficacia l’evoluzione complessiva dell’azione del sistema ONU in materia. Nei primi anni ’90, ovvero all’indomani della fine della guerra fredda, il Consiglio di Sicurezza sembrò beneficiare enormemente dall’archiviazione di quella competizione bipolare che ne avevano spesso paralizzato i lavori marginalizzandone il ruolo della difesa e promozione del sistema di sicurezza collettivo identificato dalla Carta ONU. Il CdS cominciò infatti a dedicare un’attenzione crescente ai conflitti violenti che agitavano in particolare in continente africano. Solo nel 1996, 13 dei 54 Paesi del continente africano afflitti dalla guerra avevano prodotto più della metà delle vittime della totalità dei conflitti mondiali. I traumatici conflitti della prima parte degli anni ’90 – Angola, Mozambico, Somalia, Ruanda, Burundi, Repubblica Democratica del Congo – avevano spinto il palazzo di vetro a riconoscere la necessità di promuovere più efficaci strategie nella soluzione dei problemi politici, sociali e umanitari che tormentavano, in particolare, il continente africano. Nel settembre 1997 il Consiglio condusse la sua prima riunione a livello ministeriale per affrontare la questione della prevenzione dei conflitti, dedicando una particolare attenzione all’Africa. È in quell’anno che il continente africano confermava la sua posizione di questione centrale nell’agenda del Consiglio di Sicurezza, rappresentando, nei suoi vari dossiers di crisi sopraindicati, il teatro geo-politico principale nel quale il massimo organo delle Nazioni Unite ridefiniva la sua azione in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale56. La dichiarazione presidenziale adottata a conclusione della riunione ministeriale indicava pertanto la necessità di creare una cultura della prevenzione dei conflitti armati migliorando la cooperazione e le sinergie tra i vari organi e le istituzioni ONU in materia puntando alla promozione di un integrato approccio alla soluzione dei conflitti nel continente africano. Fu sulla base di tale invito che il Segretario Generale produsse lo storico rapporto

56 United Nations Security Council, S/PV.3819, 25 September 1997.

29 “The causes of conflict and the promotion of sustainable development in Africa” suggerendo il peacekeeping, l’assistenza umanitaria, il peacebuilding come strumenti indipensabili nella gestione delle crisi e enfatizzando altresì la buona governance, il rispetto dei diritti umani, lo sviluppo sostenibile come condizioni necessarie alla promozione di una pace duratura nel progresso economico57. Il 28 maggio 1998 il CdS dispose pertnato la creazione di un Working group on Conflict Prevention and Resolution in Africa, il cui compito era quello di esaminare nel dettaglio le raccomandazioni del SG. Sulla base dell’esame dei lavori del WG, il CdS adotto la risoluzione 1196 sul rafforzamento delle misure di embargo e contrasto al commercio di armi in aeree di crisi e la risoluzione 1197 mirante a rafforzare la cooperazione tra l’ONU e le organizzazioni regionali e sub-regionali nella prevenzione e gestione dei conflitti58. Tra il 1998 e il 2000 il CdS adottò inoltre una serie di ulteriori risoluzioni e dichiarazioni presidenziali desinata a sfociare nella presentazione del rapporto di Kofi Annan sulla prevenzione dei conflitti59. La creazione di un organo ausiliario del Consiglio con focus specifico sulla prevenzione, l’inclusione di componenti di peacebuilding nelle operazioni di pace dell’ONU, l’integrazione dei programmi di disarmo-demobilizzazione-reintegrazione nei mandati dei caschi blu, il ricorso da parte del Consiglio alle analisi e informazioni raccolte dalle UN human rights institutions come risorsa di early warning, l’attenzione agli aspetti di genere nelle attività di prevenzione e ricostruzione post-conflittuale: queste raccomandazioni, presentate dal rapporto di Kofi Annan, informarono progressivamente il lavoro del Consiglio fino all’adozione della storica risoluzione 1366 la quale riconobbe la prevenzione dei conflitti come “an integral part of its primary responsibility for the maintenance of International peace and security”. La risoluzione, pur confermando la validità delle osservazioni del SG sulla centralità della responsabilità dei governi nazionali nella prevenzione dei conflitti sottolineò il

57 United Nations, Report of the Secretary-General: The Causes of Conflict and the Promotion of Sustainable Development in Africa, 13 April 1998, A/52/871-S/1998/318. 58 United Nations, Security Council Resolution 1196, 16 September 1998; United Nations, Security Council Resolution 1197, 16 September 1998, S/RES/1997. 59 Cfr. su questo, United Nations, Security Council Resolution 1209, 19 November 1998; United Nations, Security Council Resolution 1318, 7 (September 2000). Mentre la risoluzione 1209 (1998) riconosceva la minaccia arrecata dal traffic di armi alla stabilità del continente africano, la risoluzione 1318 (2000), adottata nel corso del Millennium Summit, indicava la necessità di rafforzare il ruolo del CdS nel mantenimento della pace e della sicurezza in Africa. La dichiarazione presidenziale S/PRST/ 1999/34 del 30 Novembre 1999 riconobbe invece l’importanza della creazione di una cultura di conflict prevention; la S/PRST/200/25 del 20 luglio 2000 invitò l’allora SG Kofi Annan a presentare un rapporto sulla prevenzione dei conflitti armati.

30 ruolo che le Nazioni Unite e la comunità internazionale potevano giocare in sostegno alle delle capacità nazionali in materia. Il Consiglio espresse altresì la sua volontà di prestare massima e considerazione agli “early warning or prevention cases” portati alla sua attenzione dal SG, il cui ricorso alle funzioni politiche attribuitegli dall’articolo 99 veniva esplicitamente indicato come complemento e sostegno fondamentale al mandato dello stesso CdS in materia di conflict prevention. L’intenzione del CdS era tuttavia quello di monitorare con costanza situazioni potenzialmente conflittuali come parte di una conflict prevention strategy basata sul suo accesso alle informazioni fornite, oltreché dal Segretario Generale, dagli Stati Membri, dall’Assemblea Generale e dall’ECOSOC.60 Nel gennaio 2002, il Consiglio di Sicurezza ridefinì i compiti assegnati al gruppo ad hoc sulla prevenzione dei conflitti in Africa, il cui mandato avrebbe dovuto concentrarsi sulla presentazione di specifiche raccomandazioni sul di rafforzamento della cooperazione tra CdS, Consiglio Economico Sociale dell’ONU ed altre istituzioni e agenzie onusiane nella prevenzione dei conflitti in Africa e sull’intensificazione della collaborazione tra il Consiglio e le organizzazioni regionali e sub regionali impegnate in materia di conflict prevention61. Sotto la guida della delegazione delle Mauritius, il gruppo si concentrò nell’esame delle situazioni di crisi in Africa dedicando particolare attenzione al miglioramento delle relazioni con l’Organizzazione per l’Unità Africana/Unione Africana ricorrendo al sostegno dei “Group of Friends” – coalizioni informali di Paesi membri, non presenti nel Consiglio di Sicurezza, con interessi particolari nella soluzione di una crisi o conflitto62 - per affrontare specifiche situazioni-Paese63. Nel corso del 2002 il working group propose di accrescere la coordinazione tra ONU e AU nella prevenzione e gestione delle crisi mediante il dispiegamento di missioni congiunte, la nomina di joint special envoys. Il gruppo aveva altresì dedicato un focus particolare alla situazione in Guinea-Bissau suggerendo una migliore integrazione e coordinamento delle agenzie ONU nel processo di ricostruzione post-conflittuale da affidare al Consiglio Economico e Sociale. La partecipazione di membri del working group alla missione condotta dall’Ad hoc advisory group sulla Guinea Bissau nel

60 United Natons Department of Public Information, Security Council Expresses Commitment to Pursue Conflict Prevention by all Appropriate Mean Unanimously Adopts Resolution 1366, Press Release 7131, 4360th Meeting, 30 August 2001. 61 United Nations Security Council, Presidential Statement, 31 January 2002, S/PRST/2007/2 62 Jean E. Krasno, The Groups of Friends of the Secretary-General. A Useful Diplomatic Tool, Carnagie Publication, New York, 2000 63 Cfr. United Nations, Terms of reference of the Ad Hoc Working Group on Conflict Prevention in Africa, S/2007/207

31 Paese testimoniò la volontà di alcuni membri del Consiglio di Sicurezza di accrescere l’interazione con l’ECOSOC nella gestione della crisi. In seguito a tale missione, il Consiglio di Sicurezza espresse particolare preoccupazione per la situazione nel Paese e invitò il governo ad assumere i passi necessari per facilitare il dialogo con la comunità internazionale e consolidare il sistema di partnership ideato dall’advisory group dell’ECOSOC alfine di accelerare la stabilizzazione del Paese64. Il focus sulla situazione in Guinea Bissau fu confermato e rilanciato nel biennio 2003- 2004 durante la presidenza angolana del working group: una missione congiunta Consiglio di Sicurezza/ECOSOC si recò nuovamente nel Paese per incoraggiare lo svolgimento di libere e trasparenti elezioni ed inaugurare formalmente il processo di registrazione degli elettori. La cooperazione tra CdS, ECOSOC e il gruppo di amici della Guinea Bissau creò le condizioni per un approccio integrato alla stabilizzazione del Paese fondata sulla prevenzione e la ricostruzione, finanziata mediante la creazione di un “fondo di gestione dell’emergenza economica”. Una medesima forma di interazione fu promossa dal working group del CdS in relazione al processo di pace e riconciliazione in corso in Burundi. In linea con il suo terms of reference, il Working Group si propose come foro per la crescita del coordinamento tra ONU e l’Organizzazione per l’Unità Africana/Unione Africana grazie alla partecipazione della Missione di Osservazione Permanente dell’UA. Grazie alle iniziative condotte nel 2004, l’istituto delle missioni diplomatiche del Consiglio di Sicurezza in aree di crisi, specialmente in Africa, è divenuto progressivamente un tratto caratteristico dell’azione del massimo organo dell’ONU nell’esercizio delle sue funzioni di conflict prevention. Missioni del CdS nel continente africano si registrano ormai dal 2003 su base annuale e, recentemente, hanno assunto una cadenza anche semestrale65. Nel corso del marzo 2005 il Benin, presidente di turno del working group, organizzò un dibattito sul tema “Enhancing the UN's Capacity for Conflict Prevention: The Role of the Security Council”. Il dibattito sottolinò l’urgenza di accrescere la capacità del CdS di addottare un approccio più dinamico (“proactive”) nella prevenzione dei conflitti piuttosto che limitarsi a reagire a crisi già in corso. In tal senso fu ribadita la necessità di rafforzare le

64 United Nations, Report of the Security Council 1 August 2002-31 July 2003, 23 September 2003, pag. 2. 65 Cfr. Valerio Bosco, La missione del Consiglio di Sicurezza in Africa, in Osservatorio Strategico, maggio 2009. Cfr. anche UN News Centre, Security Council Mission Recommends Dozen of Peacebuilding Actions for Central Africa, 23 November 2005, ultimo accesso 25 ottobre 2010; United Nations, Security Council, Report of the Security Council Mission to Central Africa, 21 to 25 November 2004, S/2004/934, 30 November 2004.

32 capacità di analisi e raccolta dati da parte del Segretariato ONU, proseguire l’opera di consolidamento della cooperazione tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali e infine, combinare iniziative per il mantenimento della pace e della sicurezza nel breve termine con strategie di promozione della crescita e della stabilizzazione economica. Il dibattito del marzo 2005 confermò il ruolo dell’Africa come teatro necessario del rilancio degli sforzi internazionali nella prevenzione dei conflitti66 ed ebbe altresì il merito di preparare il terreno per l’adozione della storica risoluzione 1625 sul tema “Strenghtening the effectiveness of the Security Council’s role in conflict prevention, particularly in Africa”, adottata dai capi di Stato e di governo il 14 settembre 2005, ai margini del World Summit dedicato alla riforma delle Nazioni Unite67. Con la risoluzione 1625, il Consiglio di Sicurezza confermò la necessità di adottare una “comprehensive strategy” nella prevenzione dei conflitti – capace cioè di affrontare le cause profonde delle crisi sociali e politiche e fondata cioè sulla promozione dello sviluppo sostenibile, dello stato di diritto, della buona governance, dello sradicamento della povertà e del rispetto dei diritti umani – e sottolineò la propria determinazione a rafforzare le capacità dell’ONU in material di conflict prevention. In particolare, il CdS espresse infatti la volontà di promuovere il follow-up degli sforzi di diplomazia preventive del SG, sostenere le iniziative di mediazione delle organizzazioni regionali, lavorare al rafforzamento delle capacità regionali e sub-regionali in material di early warning alfine di istituire meccanismi di reazione rapida a situazioni suscettibili di minacciare la pace nell’area. Il Consiglio richiese inoltre al SG di essere aggiornato periodicamente sulle potenziali situazioni di crisi in Africa, di assistere Paesi rischio nella creazione di capacità per la risoluzione delle dispute interne, di accrescere ulteriormente la coordinazione con i diversi meccansimi africani di prevenzione e gestione dei conflitti68. Pur ispirando l’adozione della risoluzione 1625, proprio nel 2005, il lavoro del working group cominciò a registrare una certa stanchezza e appannamento a causa dei concomitanti negoziati per la preparazione del World Summit sulla riforma delle Nazioni Unite. Nonostante ciò, appare importante sottolineare come i documenti che fornirono la base di discussione sulla riforma dell’ONU – il rapporto del panel di alto livello “ Threats, Challanges and Change” e il rapporto di Kofi Annan “In Larger Freedom: Towards

66 United Nations, Report of the Security Council, 1 August 2004-31 July 2005, 1 September 2010. 67 United Nations, General Assembly, World Summit Outcome Document, A/60/L.1, 16 September 2005. 68 United Nations Security Council, 60th Year, 5262nd meeting, 19 September 2010, S/PV.5262

33 Development, Security and Human Rights for All69 - rilanciarono quel principio del link pace-sicurezza-sviluppo-difesa dei diritti umani che il working group sulla prevenzione dei conflitti in Africa era riuscito ad integrare con successo nei meccanismi decisionali del Consiglio di Sicurezza. L’azione del working group su Guinea-Bissau e Burundi, condotta in cooperazione con l’ECOSOC, avrebbe altresì spianato la strada alla nascita della Peacebuilding Commission (PBC), istituzione sorta in seguito al processo di riforma del 2005 e pensata come foro per il coordinamento dell’assistenza internazionale alla stabilizzazione post- conflittuale e per la prevenzione dei fenomeni di ricaduta in situazioni di caos e violenza politica70. Nata come organo consultativo del CdS e dell’Assemblea Generale la Commissione per il consolidamento della pace ha infatti svolto la sua prima riunione nel giugno 2006 dedicandosi, su richiesta del Consiglio di Sicurezza, all’esame delle situazioni post-conflittuali in Burundi e Sierra Leone. L’esistenza di una forte componente di prevenzione in seno all’azione di peacebuilding è apparsa chiaramente sin dall’estate del 2006 in occasione del dibattito organizzato dal CdS, con il contributo della PBC, sul consolidamento della pace in Africa occidentale71. Nel corso degli ultimi, il Consiglio di Sicurezza, sulla scia del rapporto di Kofi Annan pubblicato nel 2006 e anche grazie ad una parziale rivitalizzione del working group on conflict prevention, ha continuato a dedicare particolare attenzione al tema della prevenzione dei conflitti e della diplomazia preventiva che, come si vedrà in seguito, è stato rilanciato con particolare vigore dall’attuale Segretario generale Ban Ki-Moon. La ricostruzione del tentativo ormai decennale del CdS di consolidare la propria azione in materia di conflict prevention non potrebbe dirsi esaustiva senza il riferimento ad un prodotto specifico delle deliberazioni del palazzo di vetro, ovvero i cosidetti dispiegamenti preventivi simboleggiati dall’United Nations Protection Force nell’ex Jugoslavia (UNPROFOR), dall’United Nations Preventive Deployement in Macedonia (UNPREDEP),

69 Report of the High-Level Panel on Threats, Challenges and Change, A more Secure World: Our Shared Responsibility: Report of the Secretary-General’s High Level Panel on Threats, Challenges and Change, United Nations, 2004; Kofi Annan, In A Larger Freedom: Towards Development, Security and Human Rights for All, New York, United Nations, 2005 70 Cfr: United Nations General Assembly Resolution 60/180 e United Nations Security Council Resolution 1645 (2005) del 20 dicembre 2005; Sulle attività della PBC, cfr. http://www.un.org/peace/peacebuilding/index.shtml ; 71 Cfr. United Nations, Letter dated 3 August 2006 from the Permanent Representative of Ghana to the United Nations Addressed to the Secretary-General, S/2006/610, 3 August 2006.

34 dall’United Nations Observer Mission in South Africa (UNOMSA), forieri di una concezione “più dinamica” della prevenzione72. UNPROFOR fu stabilita dal Consiglio di Sicurezza nel febbraio del 1992 con il mandato di assicurare la smilitarizzazione di tre aeree della Croazia, designate United Nations Protected Areas, le cui popolazioni avrebbero appunto dovuto essere protette dalla paura ed eventualità di un attacco armato. Il concetto operativo di UNPROFOR era quello di un interim arrangement chiamato a creare le condizioni di pace e sicurezza necessarie al proseguimento dei negoziati per una soluzione complessiva alla crisi nella ex-Jugoslavia73. Nel corso del 1992, il mandato di UNPROFOR sarebbe stato allargato sino ad includere zone addizionali della Croazia - “ pink zones” - includendovi altresì il potere di controllare e proteggere l’ingresso di civili nelle UNPAs, di esercitare funzioni doganali e di frontiera. Attraverso successivi pronunciamenti del CdS, il mandato della forza sarebbe stato ulteriormente esteso ai territori della ex-repubblica Jugoslava di Macedonia con finalità di monitoraggio preventivo delle zone di confine74. Il concetto e l’istituzione delle UNPAs consentì per alcuni mesi di assicurare la protezione della popolazione serba della Croazia fornendo una forza cuscinetto e di separazione tra questa e l’esercito croato. Nonostante ciò, com’è noto, la situazione dei serbi in Croazia fu strettamente legata allo scontro tra serbi, croati e bosniaci scoppiato anche in Bosnia Herzegovina. Nella stessa Bosnia, l’ONU dispose la creazione di ben sei aree protette per le quali era stata indicate la necessità di un dispiegamento di 33 mila truppe. Il mancato dispiegamento di tale contingente fu in parte all’origine dei crimini compiuti dai serbi di Bosnia a Srebrenica; al contempo, in Croazia, si registrò un’espulsione massiccia della popolazione serba75. Sebbene il concetto delle UNPAs dovette confrontarsi con la realtà di un fallimento doloroso, il carattere estremamente innovativo di quella idea avrebbe guidato il dibattito internazionale destinato a sfociare nell’affermazione di del principio della responsabilità di

72 Henryk Sokalsky, An Ounce of Prevention: Macedonia and UN Experience in Preventive Diplomacy, Washington, D.C. , Unites States Institute for Peace, 2003; 73 United Nations, Security Council Resolution, S/RES/743, 21 February 1992. 74 United Nations, Security Council, Report of the Secretary-General on the Former Yugoslav Republic of Macedonia, S/24923, 9 December 1992. 75 Cfr. General Philippe Morillon, Paroles de soldat, Balland, Paris, 1996; una ricostruzione ampia delle vincende di UNPROFOR può essere consultata sul sito del Department of Peacekeeping Operations: www.un.org/en/peacekeeping/missions/past/unprof_b.htm , ultimo accesso 25 ottobre 2010.

35 proteggere – Responsibility to Protect - approvato all’unanimità dall’Assemblea Generale dell’ONU nel sessantensimo anniversario dell’Organizzazione76. Altrettanto innovativa fu la decisione del Consiglio di Sicurezza di autorizzare, nel marzo 1995, il dispiegamento della United Nations Preventive Deployment Force (UNPREDEP) nella ex repubblica jugoslava di Macedonia, la prima missione di peacekeeping dell’ ONU ad avere un mandato di natura preventiva. Compito dell’UNDPREDEP era quello di rimpiazzare il contingente della UNPROFOR precedentemente dispiegato nelle medesime aeree aggiungendo però alla presenza militare e l’ assistenza umanitaria – i due pilastri sui quali si era basata la missione creata nel 1982 – le funzioni aggiuntive dei buoni uffici e del sostegno al dialogo politico ai due pilastri77. La missione ricorse infatti a dispiegamenti e re-dispiegamenti rapidi, mediazione, facilitazione del negoziato, conciliazione per prevenire la degenerazione di situazioni tensione in Macedonia e nelle sue zone di confine, proponendosi come istituzione capace di rafforzare il dialogo tra i partiti politici, monitorare il rispetto dei diritti umani e favorire il mantenimento di relazioni pacifiche tra I diversi gruppi etnici. Costruendo il proprio successo sulla base della perfomance positiva di UNPROFOR nel mantenimento della calma alle zone di confine e nelle relazioni inter-etniche, UNPREDEP giocò un ruolo fondamentale nell’impedire un ulteriore allargamento del conflitto che stava sconvolgendo l’ex Jugoslavia. Il modo in cui che le forze ONU monitorarono aree segnate dalla presenza di forti tensioni inter-etniche, registrarono le lamentele della popolazione civile, trasmettendole alle autorità locali, agendo come intermediatori e “confidence-builder”, indicò indubbiamente un esperienza di successo nella gestione di situazioni dominate dal rischio di violenze contro minoranze etniche e religiose suscettibili di degenerare in massicce violazioni dei diritti umani78. Fu anche alla luce delle esperienze di UNPROFOR e UNPREDEP che il Segretariato dell’ONU rilanciò il dibattito sulla possibile creazione di una forza di reazione rapida delle Nazioni Unite con funzione di prevenzione e contenimento delle crisi mediante la creazione dell’United Nations Stand-by Arrangments System, meccanismo pensato per espandere

76 Cfr. su questo, United Nations, General Assembly, Draft resolution referred to the High-level Plenary Meeting of the General Assembly by the General Assembly at its fifty-ninth session, A/60/L.1, 15 September 2005 77 United Nations Security Council Resolution , S/RES/31 March 1995. 78 Cfr. UN Secretary-General, International Workshop “An Agenda for Preventive Diplomacy:”, Skopje, 16-19 October 1996, consultabile su www.un.org/en/peacekeeping/missions/past/unpred_b.htm , ultimo accesso 25 ottobre 2010; Abiodun Williams, Preventing War: the UN and Macedonia, Rowman and Littlefield, 2000.

36 qualità e quantità delle forze messe a disposizione degli Stati membri79. Tale iniziativa fu sostenuta dalla creazione, nel 1995, del Multinational Stand-by- High Readiness Brigade e nello stesso anno rilanciata dai governi di Canada e Olanda, mediante la proposta di dar vita ad una “forza d’avanguardia” stand-by, disponibile su chiamata, composta da 5000 peacekeepers, militari e civili e pronta ad essere dispiegata rapidamente in teatri di crisi con funzioni preventive e sotto l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza80. L’azione svolta dall’UN Observer Mission to South Africa costituisce infine un’altra pagina importante della storia di successi della diplomazia preventiva onusiana. Dopo l’invio in Sud Africa di una missione diplomatic ad hoc, chiamata a facilitare il dialogo tra l’African National Congress e il governo De Clerk e a contenere la tensione era l’ANC e il Freedom Party di Buthelezi, le Nazioni Unite inviarono nel Paese una missione di osservazione, UNOMSA, inizialmente composta da 100 osservatori. La missione fu dispiegata nelle aeree del Paese a maggior rischio di violenza, Vaal, Johannesburg e KwaZuky-Natal, roccaforte del Freedom Party. Pur non riuscendo a porre fine agli episodi di violenza politic ache continuavano a scolvolgere il Paese, UNOMSA contribuì indubbiamente a creare le condizioni per una transizione rapida verso la democrazia81. Nel ricordare il ruolo svolto da UNOMSA, l’allora capo della missione Angela King, ne ha sottolineato l’azione fondamentale nel ritagliarsi un ruolo di credibile facilitatore del dialogo politico tra le parti degli accordi di pace; il monitoraggio di manifestazioni e dimostrazioni politiche, la presenza ai funerali di leader politici come Chris Hanni, leader storico dell’ANC, furono spesso organizzate in cooperazione con l’OAU, il Commowealth e l’Unione Europea e consentirono di impedire la trasformazioni di tali eventi in occasioni per lo scoppio di nuovi episodi di violenza. La stessa King ebbe il merito di creare un canale di comunicazione constante con i leaders dei maggiori partiti politici, le forze sociali, i leader tribali e religosi, organizzazioni non governative, la leadership delle forze militari e di polizia. UNOMSA fu così in grado di accompagnare in modo efficace la creazione delle istituzioni

79 Christian Mazzei: Peacekeeping: UN Stand-by Arrangements and Rapid Deployment. A Critical Assessment, consultabile su: www.peaceopstraining.org/theses/mazzei.html, ultimo accesso 27 ottobre 2010. 80 Government of the Netherlands, A UN Rapid Deployment Brigade: A Preliminary Study, revised version, April 1995; Howard Peter Langille, Conclict Prevention: Options for Rapid Deployment and UN Standing Forces, in Peacekeeping and Conflict Resolution, ed Tom Woodhouse, and Oliver Ramsbotham, pag. 219-253, London, Frank Cass, 2000; Government of Canada, Towards a Rapid Reaction Capability for the United Nations, Ottawa, Department of Foreign Affairs and International Trade – Department of National Defence, 1995. 81 Angela King, Internal Conflict Prevention: the UN Observer Mission to South Africa, in Conflict Prevention in Practice, ed Betrand G. Ramcharan, Leiden, Netherlands, Martinus Njihoff, 2005, pag. 151-156.

37 della transizione democratica, assicurando la tenuta degli accordi politici, ammorbidendo la tensione inter-etnica e l’ostilità sempre latente tra le forze di sicurezza e la popolazione civile82. UNOMSA sembrò indicare una storia di successo capace di aprire il viatico per quella presenza leggera delle Nazioni Unite nei processi di riconciliazione nazionale – “light footprint” – chiamata a garantire la tenuta di accordi di pace e la transizione democratica non mediante l’azione di mediatori o di peacekeepers, ma con una discreta azione di sostegno al dialogo politico. Un dialogo che, nella ricostruzione della King, fu promosso con successo anche grazie alla straordinaria partecipazione di donne in funzioni dirigenti all’interno di UNOMSA e al protagonismo delle donne sudafricane nella definizione di approcci innovativi per la soluzione di dispute e controversie politiche83.

82 She who brings mercy: Angela King heads UNOMSA, tribute to Angela King, Head of UNOMSA, consultabile su, www.un.org/womenwatch/feature/angelaking/pdf/UNOMSA_tribute.pdf , ultimo accesso 26 ottobre 2010. 83 Angela King, Internal Conflict Prevention: the UN Observer Mission to South Africa, cit. , pag.153-154

38

1.4 Mediazione e conflict prevention nell’era Ban Ki-Moon (2007-2010)

Una breve ricostruzione delle più recenti innovazioni emerse in seno alla struttura ONU incaricata di lavorare alla prevenzione dei conflitti appare necessario per completare l’analisi del sistema di conflict prevention delle Nazioni Unite. Sin dai primi giorni del suo mandato, infatti, l’attuale Segretario Generale Ban Ki-Moon ha assegnato al rafforzamento della struttura di conflict prevention dell’ONU e del Dipartimento Affari Politici – focal point dell’Organizzazione in materia – un ruolo fondamentale nella sua agenda di riforma del palazzo di vetro84. Dopo aver presentato le sue proposte per una ristrutturazione del Dipartimento di operazione della pace fondate sullo sdoppiamento di tale struttura e sulla creazione di un nuovo dipartimento di field support, l’idea di Ban Ki Moon era quella di rilanciare l’altro pilastro dell’azione ONU nel mantenimento della pace e della sicurezza, quello rappresentato dal Dipartimento di Affari politici, il quale, nonostante le raccomandazioni presentate già nel 2000 dal Brahimi report – noto come Report of the Panel on UN peace operations – e dal rapporto del High Level Panel nel 2005 continuava a scontrarsi con una crescita della domanda di servizi in materia di conflict prevention, mediazione, consulenza politica da parte degli Stati membri e delle organizzazioni regionali, senza tuttavia poter contare sulla disponibilità di risorse e mezzi adeguati rispetto all’ampiezza del mandato e alle aspettative crescenti della membership85. La proposta di Ban Ki Moon, che riprendeva diversi degli spunti presenti nel rapporto di Kofi Annan sulla prevenzione dei conflitti armati, trovò un significativo sostegno all’interno del palazzo di vetro: tra la primavera e l’estate 2007, sia l’Assemblea Generale che il Consiglio di Sicurezza invitarono il nuovo Segretario Generale a intensificare gli sforzi per il rafforzamento delle capacità dell’ONU in materia di early warning, mediazione in Africa e negli altri continenti86.

Intervenendo in Consiglio per presentare il suo rapporto sull’applicazione della risoluzione 1625 relativa al ruolo del CdS in materia di conflict prevention, Ban Ki Moon aveva

84Cfr.: General Assembly-Security Council, Report of the Panel on UN Peace Operations, A/55/305-S/2000/809, 21 Agosto 2000; Ban Ki-Moon, “Acceptance Speech”, New York, 3 October 2006, www.un.org/News.dh.infocus.sg_elect/ban_speech.htm. 85 United Nations, Report of the Internal Oversight Service on the Department of Political Affairs, E/AC.51/2006/4 E/AC.51/2007/2. 86 United Nations, Security Council Presidential Statement, S/PRST/2007/31, 28 August 2007; United Nations General Assembly A/RES/57/337, 14 April 2007

39 sottolineato come maggiori investimenti nella prevenzione dei conflitti avrebbero potuto risparmiare sofferenze umane e costi finanziari in Paesi come il Darfur, la Somalia, la Repubblica Democratica del Congo87. Nell’ottobre del 2007, un piano articolato per il rafforzamento del Dipartimento di Affari Politici fu presentato all’Assemblea Generale: tale proposta poneva particolare attenzione proprio al rapporto tra costi e potenziali benefici che potevano essere prodotti da una rinnovata capacità e iniziativa onusiana in materia di prevenzione dei conflitti. Secondo Ban Ki Moon, l’investimento nella prevenzione poteva creare le condizioni per assicurare che miliardi di dollari spesi in assistenza allo sviluppo da Stati Membri, istituzioni finanziarie e dalle agenzie ONU non venissero polverizzati dallo scoppio – evitabile – di guerre e conflitti armati. La riforma del DPA veniva del resto presentata come occasione per correggere finalmente lo squilibrio tra le crescenti domande di servizi e sostegno in materia di mediazione da parte di Stati membri e organizzazioni regionali e le reali capacità a disposizioni del Dipartimento che, rafforzato con risorse finanziarie e umane, avrebbe potuto assumere una postura assai più attiva e efficace nell’esercizio della diplomazia preventiva. La proposta di rafforzamento del DPA ruotava più concretamente attorno a quattro punti:

a)il rafforzamento delle capacità di analisi ed early warning delle divisioni regionali, con particolare attenzione alla crescita dello staff a disposizione delle divisioni Africa I (Africa sud- orientale e regione dei Grandi Laghi) e Africa II (Africa settentrionale, occidentale e centrale); b) la creazione di una Policy Partnership e Mediation Support Division destinato a coordinare la cooperazione con Stati membri e organizzazioni regionali nell’ambito della mediazione; c) l’assegnazione di nuove risorse alla divisione assistenza elettorale, i cui servizi erano ormai da anni richiesti in misura crescente da parte di Stati membri alle prese con processi di stabilizzazione politica; d) l’aumento dell’expertise a disposizione dei comitati sanzione, organi ausiliari del Consiglio di Sicurezza incaricati di vigilare il rispetto delle sanzioni economiche da quest’ultimo adottate in relazione a diverse situazioni di crisi.

87 United Nations Department of Public Information, Security Council Reiterates Commitment to Conflict Prevention in Africa, Secretary-General Says Greater Investment in Prevention Could Save United Nations Considerable Pain and Expense, in Darfur, Somalia, Elsewhere, Security Council 5735th Meeting, SC/9105, 28 August 2007

40

Nondimeno, proposta cruciale era quella di creare un piccolo network di uffici regionali la cui apertura sarebbe stata definita in consultazione con gli Stati membri e le organizzazioni regionali interessate. Nelle intenzioni del SG, tali uffici dovevano avere il compito di offrire una più agile piattaforma di sostegno alla diplomazia preventiva condotta dagli SRSG o dagli Special Envoy, consolidare la cooperazione con le organizzazioni regionali in materia di pace e sicurezza, sostenere le capacità e le iniziative regionale nella prevenzione dei conflitti. Ciascun ufficio avrebbe dovuto lavorare in stretta collaborazione con la pluralità della presenza ONU nell’area – forze di caschi blu, UNDP, agenzie e programmi delle Nazioni Unite – offrendo così “a localized hub for conflict prevention activities by the United Nations system and other regional partners” 88. Dopo aver ricevuto l’endorsement del CdS all’apertura di un centro regionale per la diplomazia preventiva in Asia centrale89 – il cui compito sarebbe stato quello di coordinare gli sforzi di Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan and Uzbekistan nel contrasto al terrorismo, al traffico di droga, al crimine organizzato, sostenendo le iniziative e capacità regionali nella prevenzione delle crisi90 - intenzione del SG era quella di creare uffici regionali in Africa centrale/regione dei Grandi Laghi, nel Corno d’Africa, in America Latina/regione caraibica, nei Balcani e, infine, nel sud-est asiatico. Convinzione di Ban Ki Moon era che questi uffici potessero assistere e sostenere in maniera efficacia, meglio di quanto potesse fare il quartier generale a New York, tutte le iniziative regionali e sub-regionali nella prevenzione dei conflitti, nella gestione delle crisi e in materia di diplomazia preventiva. Tale progetto appare oggi in una fase ancora piuttosto embrionale: progressi si sono registrati infatti unicamente nel continente africano. Una piccola unità di collegamento del DPA è stata istituita a Gabrone, Botswana, con compiti di coordinamento con la Southern African Development Community (SADC); al momento, la questione della creazione di un ufficio regionale in Africa centrale è ancora in fase di pianificazione. Tale ufficio dovrebbe essere

88 United Nations, Report of the Secretary-General, Revised estimates relating to the proposed programme budget for the biennium 2008-2009 under section 1, Overall policymaking, direction and coordination, section 3, Political affairs, section 28D, Office of Central Support Services, and section 35, Staff assessment, related to the strengthening of the Department of Political Affairs, A/62/521, 2 November 2007. 89 Cfr. United Nations, letter from the Secretary-General informing the Council about his intention to establish the UNRCCA and outlining its functions, S/2007/279, 7 May 2007 90 Central Asia: Promoting Regional Solutions, in Politically Speaking, Bulletin of Department of Political Affairs, Spring 2009, pag. 12-13.

41 stabilito Libreville, in Gabon, con il compito di promuovere un “approccio integrato al tema della pace e della sicurezza nella regione” e sostenere altresì gli sforzi della International Conference on the Great Lakes Region nel tentativo di trasformare l’area “into a space of sustainable peace and security for States and peoples, political and social stability, shared growth and development”91. Dopo oltre un’ anno di dibattito in seno alla quinta commissione dell’Assemblea generale, la proposta di rafforzamento del DPA è stata tuttavia approvata all’unanimità dagli Stati membri nel dicembre 200892. La risoluzione 63/261 ha infatti autorizzato incrementi significativi nelle risorse umane e professionali a disposizione del DPA, soprattutto nelle divisioni Africa I e II, nella divisione per l’assistenza elettorale e nella Mediation Support Unit 93. Proprio la creazione di tale unità nella primavera del 2008 ha rappresentato una prima concreta implementazione del progetto di rafforzamento del DPA promosso da Ban Ki-Moon e dall’Under-Secretary General for Political Affairs, l’americano Lynn Pascoe. La Mediation Support Unit è stato incaricata di fornire consulenza politica nonché sostegno finanziario e logistico ai processi di pace. Pensata altresì come service provider per l’intero sistema ONU, la MSU sostiene da ormai due anni gli sforzi di mediazione condotti dai diversi dipartimenti del Segretariato, dagli Special Representatives e Special Envoy del Segretario Generale. Lo staff del MSU collabora con le diverse divisione regionali del Dipartimento nel pianificare, sostenere e coordinare le iniziative di mediazione, nell’organizzazioni di training per le organizzazioni regionali in partnership con le Nazioni Unite, nello sviluppo di “policy guidance, lessons learned and mediation best practices” destinate ad ispirare future attività di prevenzione dei conflitti94. Tra il 2008 e il primo quadrimestre del 2009, l’ MSU del DPA ha offerto sostegno a 18 processi di pace - nuovi o già in corso - ed ha altresì lanciato programmi di cooperazione e capacity building in mediazione con la SADC, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, l’Unione Africana e l’Unione Europea. Le più intense attività di sopporto alla mediazione organizzate dal DPA nel corso degli ultimi mesi hanno riguardato Cipro, la

91 United Nations, Report of the Secretary-General, Revised estimates relating to the proposed programme budget for the biennium 2008-2009 under section 1, Overall policymaking, direction and coordination, section 3, Political affairs, section 28D, Office of Central Support Services, and section 35, Staff assessment, related to the strengthening of the Department of Political Affairs, cit. , pag. 76-77. 92 Cfr. United Nations General Assembly, A/RES/63/261, 24 December 2008. 93 Boost in Resources for Conflict Prevention, in Politically Speaking, Bulletin of Department of Political Affairs, Spring 2009, pag. 1-6. 94 Cfr Valerio Bosco, Le Nazioni Unite verso il secondo anno dell’era Ban Ki-Moon, in Osservatorio Strategico, dicembre 2007.

42 Repubblica centroafricana, il Kosovo, il Darfur, il Kenya, la Repubblica Democratica del Congo e la Somalia95. Di particolare importanza è stata inoltre la creazione di uno stand-by team di esperti, dispiegabile in 72 ore, chiamati ad assistere i mediatori e le parti nei processi negoziali legati ai temi dell’assetto costituzionale, del power/wealth sharing, della gestione delle risorse naturali, della transitional justice, della riconciliazione e della sicurezza. Durante il suo prima anno di vita lo stand-by team, composto da sei esperti, ha assistito i processi di mediazione in Kenia, Repubblica centroafricana, Cipro, isole Comoros, Iraq, Madagascar, Nepal, Somalia, facilitando altresì il dialogo tra Pristina e Belgrado. Con i contributi volontari degli Stati Membri, l’MSU ha di recente stabilito dei “mediation start-up funds”, ovvero dei meccanismi flessibili che consentono il finanziamento e il sostegno rapido a missioni diplomatiche condotte da funzionari del DPA e da esperti per pianificare e condurre negoziati tra e con le parti in conflitto96. Nell’autunno del 2008, il Consiglio di Sicurezza ha inoltre nuovamente rilanciato il tema della mediazione e della prevenzione dei conflitti nel sistema ONU organizzando un High-Level Debate che ha la partecipazione di diversi ministri degli esteri dei Paesi membri del CdS. Con una dichiarazione presidenziale il Consiglio ha ribadito l’urgenza di consolidare le capacità del Segretariato ONU nella mediazione, intensificare la cooperazione in materia con le organizzazioni regionali e sub-regionali, riaffermando altresì l’importanza della dimensione nazionale di ownership nei processi di soluzione delle controversie. Ban Ki-Moon è stato inoltre altresì invitato a presentare un rapporto dettagliato sulla mediazione e sulle opzioni per un rafforzamento delle iniziative di conflict prevention nazionali, regionali e onusiane97. Pubblicato nell’aprile 2009 il rapporto di Ban Ki-Moon “Enhancing Mediation and Its Support Activities” ha indicato coraggiosamente la necessità di promuovere una piena professionalizzazione delle attività di mediazione e supporto ai processi di pace98. Il rapporto suggerisce l’opportunità di disporre “di mediatori e team di sostegno con grande esperienza e conoscenze, di mobilizzare risorse adeguate per offrire assistenza

95 Cfr su quest oil sito del DPA: http://www.un.org/wcm/content/site/undpa/mediation_support , ultimo accesso 25 ottobre 2010. 96 Mediation Stand-by Team completes pilot p.hase, in Politically Speaking, Bulletin of Department of Political Affairs pag. 18 97 United Nations Security Council, Presidential Statement, S/PRST/2008/36, 23 September 2008. 98 United Nations Security Council: Report of the Secretary-General on enhancing mediation and its support activities, S/2009/189, 8 April 2009; Valerio Bosco: L’apertura dei lavori della 63esima Assemblea Generale e la presidenza burkinabé del CdS, in Osservatorio Strategico, settembre 2008.

43 tempestiva alle parti in conflitto e promuovere soluzioni capaci di neutralizzare la cause profonde dei conflitti”. Oltre a sottolineare l’importanza di costruire nazionali e regionali nelle mediazione, il rapporto formula una riflessione approfondita sui principi della mediazione, sulle condizioni per il suo successo, sulla responsabilità primaria degli Stati membri nella prevenzione dei conflitti e, infine, sulle potenzialità insite nella cooperazione tra l’ONU, gli Stati membri e le organizzazioni regionali in materia. In altri termini, il documento di Ban Ki Moon rappresenta un passaggio fondamentale del processo di riflessione sul sistema di prevenzione dei conflitti avviato nel corso degli anni ’80 da Perez de Cuellar e proseguito con Boutros-Ghali e Kofi Annan99. Muovendo dal riconoscimento che le Nazioni Uniti non hanno il monopolio dell’esercizio dell’opera di mediazione – nonostante gli oltre sessant’anni di esperienza di materia e l’inclusione della mediazione tra le core functions delle missioni dei caschi blu - il rapporto esamina una serie di principi capaci di inquadrare a livello teorico le coordinate di un’iniziativa di risoluzione pacifica delle controversie capace di rivelarsi “efficace”. L’early engagement nell’opera di mediazione - “when issues are less complicated, parties fewer, positions less hardened, emotions more contained” - è indicato dal SG come aspetto centrale di ogni iniziativa diplomatica di mediazione e risoluzione di una crisi. Il prolungamento “indisturbato” di una crisi coinciderebbe spesso con l’emergere della violenza, con la crescita degli attori in conflitto e dell’emotività degli scontri e delle tensioni politiche. Secondo il SG, il fenomeno dello “spill over” di una crisi è spesso legato al suo perpetuarsi e la definizione di una dimensione regionale del conflitto spesso complica le possibilità per lo sviluppo di un’azione diplomatica efficace. Principio chiave indicato dal SG è l’individuazione di un “lead actor”: secondo il rapporto, l’esistenza di una pluralità di attori spesso in competizione per l’assunzione di un ruolo di mediatore ufficiale crea spesso l’opportunità di un “forum shopping where intermediaries are played off against one other’. Una riposta internazionale frammentata alle crisi è spesso all’origine di un’ulteriore complicazione del conflitto e degli stessi tentativi di risoluzione. In definitiva, a prescindere dall’identificazione del lead actor, il coordinamento degli attori della mediazione sembrerebbe necessario per garantire la coerenza, l’unità e l’efficacia dell’opera di mediazione. Passaggio importante del rapporto è quello dedicato ai conflitti che sono stati segnati da massicce violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Sebbene la

99 Conflict Mediation by the United Nations: Examining the Past, Charting the Future, in Politically Speaking, Bulletin of United Nations Department of Political Affairs, pag. 18.

44 conciliazione tra gli obiettivi di pace e giustizia crei spesso complicazioni e difficoltà nel processo negoziale che coinvolge la Comunità Internazionale, i mediatori ufficiali, le parti in conflitto e i rappresentanti della società civile, il SG ha ricordato l’importanza di un parametro imprescindibile che dovrebbero ispirare e regolare la condotta dei mediatori designati dalle Nazioni Unite. Ban Ki-Moon ha così sottolineato come accordi di pace e soluzioni di controversie sponsorizzati dall’organizzazione non possano promettere amnistie per casi di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità o massicce violazioni dei diritti umani100. Su questa temo che, in relazione al caso Al-Bashir, rappresenta una questione delicata nei rapporti tra Unione Africana e Nazioni Unite101, il SG ha invitato tutti i mediatori a rispettare il ruolo della Corte Penale Internazionale nelle situazioni di conflitto in cui essa è incaricata, come organo giudiziario indipendente e secondo le norme dello statuto di Roma, di perseguire gli autori dei suddetti crimini102. Con grande determinazione, il rapporto del SG ha inoltre riaperto la questione del ruolo del CdS nelle situazioni di crisi, cercando di creare le condizioni per un superamento della risoluzione 1625 e rilanciando l’ipotesi di di promuovere una crescita del ruolo del CdS in “all stages of conflict cycle”. Ban Ki-Moon ha infatti ricordato situazioni in cui un “active Council engagement” – come ad esempio l’endorsement di un mediator – abbia favorito un chiarimento della situazione diplomatica, contribuendo altresì a rafforzare il profilo del mediatore magari precedentemente legato ad un mandato puramente regionale o sub-regionale. Secondo il SG, il sostegno offerto dal Consiglio ai mediatori attraverso field missions e contatti diretti con gli attori e i protagonisti della crisi potrebbe accelerarne la risoluzione e rafforzare altresì l’opera di mediazione assunta a livello regionale e sub regionale103. Il rapporto non ha mancato di sottolineare come il recente passaggio del CdS dall’approvazione di sanzioni economiche generali contro un Paese, suscettibile di colpirne indiscriminatamente la popolazione, all’uso delle targeted sanctions contro le autorità politiche - blocco dei visti, congelamento delle proprietà finanziarie e immobiliari – abbia rappresentato un

100 United Nations, Report of the Secretary-General on enhancing mediation and its support activities, cit. , pag. 13. 101 Max du Plessis, Independent Judges at the ICC Confirm that Al-Bashir Should be Arrested for Genocide, Institute for Security Study, 12 July 2009, consultabile sul sito http://www.iss.co.za/iss_today.php?ID=984 , ultimo accesso 23 ottobre 2010

102 Cfr su questo Valerio Bosco, Il lavoro del palazzo di vetro tra disarmo, crisi africane e peacekeeping, in Osservatorio Strategico, ottobre 2008. 103 Security Council Report, Mediation and Settlment of Disputes, Update Report, 13 April 2009, consultabile sul www.securitycouncilreport.org , ultimo accesso 1 novembre 2010.

45 arricchimento significativo della gamma di strumenti a disposizione dell’ONU nella gestione delle crisi. Le targeted sanctions, secondo il SG, costituiscono un potente disincentivo contro l’azione degli spoilers e di tutti quegli attori interessati alla prosecuzione delle crisi: grazie al ruolo degli esperti nominati dai Comitati sanzione, il Consiglio di Sicurezza ha la possibilità di identificare soggetti e entità coinvolte nell’economia di guerra, inserirli una lista “nera” e invocare contro di essi l’applicazione di misure come l’assets freezing e il travel ban. L’approntamento e l’aggiornamento di liste di targeted individuals, l’applicazione puntuale delle sanzioni decise dal CdS da parte degli Stati Membri offrono chiaramente uno strumento importante per scoraggiare l’azione degli “internal and external spoilers”. L’attenzione dedicata dal SG al ruolo del CdS nell’opera di mediazione sembra comunque riconoscere, implicitamente, l’assenza di un forte impegno del Consiglio nell’implementazione del mandato assegnatogli dalla Carta nell’ambito del capitolo VI, quello cioè relativo alla soluzione pacifica delle controversie. Com’è noto, infatti, il sistema indicato identificato dalla Carta ONU per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale è basato su uno schema dualistico, del quale i capitoli VI (“Pacific Settlement of Disputes”) e VII (“Action with respect to Threats to the Peace, Breaches of the Peace and Acts of Aggressions”) costituiscono i pilastri. Il principale tratto distintivo dei due capitoli consiste chiaramente nella diversa natura dei poteri attribuiti al Consiglio: mentre il primo conferisce poteri di natura esclusivamente conciliativa (mediazioni, buoni uffici, inchieste, indicazioni di termini e procedure di regolamento di controversie), il secondo prevede poteri coercitivi molti incisivi e attribuisce al CdS la possibilità di ricorrere all’adozione di misure implicanti l’uso della forza104. La più recente prassi del Consiglio indica effettivamente uno squilibrio nel ricorso ai due capitoli della Carta. In particolare ciò che è emerso nel corso degli ultimi venti anni è una consolidata tendenza del massimo organo dell’ONU a deliberare in materia di gestione e soluzione delle crisi attraverso un massiccio o quasi esclusivo ricorso al capitolo VII della Carta, la base giuridica delle risoluzioni adottate dal CdS per l’autorizzazione al dispiegamento di missioni di peacekeeping. Tale tendenza ha indubbiamente guidato la continua crescita del peacekeeping onusiano - in termini di numero delle operazioni di pace, dispiegamento di uomini e risorse finanziarie - e la mancanza di attenzione per la necessità di promuovere un adeguamento delle capacità dell’Organizzazione in materia di prevenzione di conflitti e mediazione.

104 Cfr. su questo: S. Marchisio: L’ONU, il diritto delle Nazioni Unite, cit. , pag. 128.

46 Al termine di una riflessione destinata a costituire il quadro teorico di riferimento del tema della mediazione e della diplomazia preventiva, Il SG ha invocato la necessità di professionalizzare il supporto operativo in favore dei mediatori accrescendo sensibilmente la disponibilità di esperti tematici in materia di security arrangements, constitution making, power- sharing, wealth-sharing, elezioni, diritti umani, transitional justice. Lo sviluppo di una nuova generazione di mediatori ONU attraverso un’intensificazione dei programmi di training in diplomazia preventiva e peacemaking è stata indicata come una priorità imprescindibile. Oltre a suggerire l’integrazione del mediation support all’interno dei field offices delle Nazioni Unite, il SG ha invitato gli Stati Membri a contribuire all’ulteriore rafforzamento del Mediation Support Unit del DPA sia attraverso il bilancio ordinario dell’Organizzazione che mediante contributi volontari extra-budget105. Presentato al Consiglio il 21 aprile 2009, il rapporto è stato accolto molto favorevolmente dai membri del CdS che ne hanno approvato le principali raccomandazioni invitando il Segretario Generale ha proseguire nell’opera di rafforzamento del DPA 106. Il tentativo di Ban Ki Moon di fare il punto sulle sfide, le difficoltà e l’opportunità dell’opera di diplomazia preventiva è coinciso con straordinario uno sforzo di trasformazione e aggiornamento del Dipartimento Affari Politici, desinato ad assorbire una più forte cultura d’azione che ne segni il passaggio da traditionally desk-bound and analytical organization in un’ istituzione che si fondi “velocità, prevenzione e risultati”. La mobilizzazione di risorse flessibili per la risposta rapida – è allo studio l’ipotesi di un fondo di risposta rapida per permettere al DPA di rispondere con rapidità alle richieste di assistenza – il rafforzamento ulteriore della partnership con UNDP nella prevenzione a livello-Paese, il consolidamento delle partnership con le organizzazioni regionali e sub-regionali nella prevenzione dei conflitti, la promozione del ruolo di coordinamento svolto dalle nuove missioni di peacebuilding guidate dal DPA costituiscono, secondo quanto indicato dall’USG Lynn Pascoe, i punti principali del progetto di trasformazione del Dipartimento107.

105 United Nations Security Council, S/PV.6108, 6108th meeting, Tuesday, 21 April 2009; United Nations Department of Public Information, Security Council in a Presidential Statement Express Willigness to Explore Ways to Further Promote Mediation in Peaceful Settlement of Disputes, 21 April 2009, 6108th meeting, SC/9640. 106 United Nations Security Council, Presidential Statement, S/PRST/2008/36. 107 Cfr Lynn Pascoe, Letter from the Under-Secretary General, Ten Keys to Transforming DPA, in Politically Speaking, Bulletin of the United Nations Department of Political Affairs Transforming DPA, pag. 2-3; cfr. anche Transforming DPA, consultabile sul sito http://www.un.org/wcm/content/site/undpa/transforming_dpa , ultimo accesso 29 ottobre 2010.

47 Sulla base di tali principi il Segretario Generale ha assunto diverse iniziative che, oltre a recuperare spunti e proposte elaborate dai suoi predecessori, si configurano come nuovi modelli d’azione nel campo della prevenzione delle crisi e della stabilizzazione post-conflittuale. La proposta del SG di dispiegare una forza di caschi blu in Chad e Repubblica centroafricana per evitare fenomeni di spill over della crisi in Darfur, costituì indubbiamente un importante tentativo di rilanciare il modello di dispiegamento preventivo dei caschi blu sperimentato nel corso degli anni 90 nell’ex Jugoslavia. Sulla base della risoluzione 1778 del 2008, la United Nations Mission in Chad and Central African Republic, nota come MINURCAT, fu incaricata di contribuire alla protezione dei civili, promuovere il rispetto dei diritti umani e la pace nella regione attraverso il sostegno al dialogo tra i governi dell’area. Più in particolare, compito di MINURCAT era quello di creare condizioni di sicurezza al ritorno volontario di rifugiati e sfollati nelle rispettive zone di origine, facilitando l’assistenza umanitaria nell’est del Chad e nella zone nord-orientale della repubblica centro-africana e contribuendo altresì allo sviluppo di condizioni favorevoli alla ricostruzione economica e sociali delle aeree al confine con la regione sudanese del Darfur108. È inoltre nei primi due anni di Ban Ki Moon alla guida delle Nazioni Unite che il DPA ha consolidato la sua funzione guida nell’organizzazione di uffici integrati per la ricostruzione post- conflittuale. Riproponendo il modello sperimentato in Guinea Bissau nel corso dell’era Annan e l’esperienza dello United Nations Integrated Office in Burundi autorizzato dal Consiglio di Sicurezza Council a poche settimane dall’assunzione del suo incarico109 , Ban Ki Moon ha avuto un ruolo fondamentale nel rilanciare il dibattito sull’utilità della creazione di field offices guidati dal DPA e impegnati nel coordinamento all’assistenza post-conflittuale in Paesi che hanno beneficiato della presenza e assistenza di missioni di peacekeepers. Nell’agosto del 2008, sulla base di una proposta del SG, il Consiglio ha infatti autorizzato la creazione dello United Nations Integrated peacebuilding Office in Sierra Leone (UNIPSIL) che combina compiti di assistenza e coordinamento alla stabilizzazione post-conflittuale con funzioni

108 United Nations Security Council Resolution, S/RES/1778, 25 September 2007. Con la risoluzione 1861, adottata il 14marzo 2009, il Consiglio autorizzò il dispiegamento di una componente militare di MINURCAT nell’area precedentemente occupata dalla forza EUFOR, creata nell’autunno del 2007 con in compito di aiutare la missione ONU nell’esecuzione del proprio mandato, cfr. United Nations Security Council Resolution, S/RES/1861, 14 March 2009. 109 Sullo United Nations Ingretated Peacebuilding Office in Guinea-Bissau, UNIOGBISS, cfr. Letter dated 3 March 1999 from the President of the Security Council addressed to the Secretary General, S/1999/233, 3 April 1999; Sullo United Nations Peacebuilding Integrated Office in Burundi, cfr. United Nations Security Council Resolution, S/RES/1719, 25 October 2006.

48 più squisitamente politiche e di prevenzione della possibile ricaduta del Paese in una situazione di crisi110. Oltre a promuovere la buona governance, il contrasto alla corruzione e al traffico di droga, il coordinamento del lavoro delle agenzie ONU nell’implementazione della strategia di peacebuilding per la Sierra Leone – approvata dal governo di Freetown e della Peacebuilding Commission111 - UNIPSIL è infatti impegnata a sostenere gli sforzi nazionali nella identificazione e soluzione delle possibili minacce alla pace e alla stabilità del paese. Secondo quanto emerso negli ultimi mesi, l’idea di Ban Ki-Moon sarebbe quella di istituzionalizzare progressivamente la funzione degli uffici integrati di peacebuilding come exit strategies alle operazioni di pace dell’organizzazione, le quali, in molti casi, dopo aver onorato i rispettivi mandati, rischiano, in caso di una presenza troppo prolungata, di congelare approcci innovativi al sostegno ONU ai processi di stabilizzazione post-conflittuale che possono essere promossi da una presenza più leggera dell’Organizzazione, concentrata sugli aspetti civili, politici ed economici della ricostruzione112. Ultimo aspetto che merita qui di essere ricordato è infine lo sforzo posto da Ban Ki Moon nel tentativo di promuovere la piena operalizzazione del principio della responsabilità di proteggere le popolazioni civili da violenze, crimini di guerra, genocidio, massicce violazioni dei diritti umani, soprattutto in riferimento al contributo onusiano al primo pilastro della R2P, ovvero quello “responsabilità di prevenire” 113. Nel corso del 2007 Ban Ki-Moon ha nominato Francis Deng come Special Advisor for the Prevention of Genocide and Mass Atrocities (SAPG), promuovendo un significativo upgrading rispetto alla posizione precedentemente occupata da un semplice Advisor sulla prevenzione del genocidio, ricoperta su basi part-time dall’argentino Juan Mendez 114.

110 United Nations Security Council Resolution, S/RES/1829, 4 August 2008. 111 Cfr. United Nations, Peacebuilding Commission, Sierra Leone Peacebuilding Cooperation Framework, 3 December 2007, PBC/2/SLE/1. 112 Cfr su questo, Valerio Bosco, UN Peacekeeping in 2010: Reform and Consolidation, in CeMiSS-Quarterly, Autumn 2010. 113 Com’è noto il principio della R2P adottato all’unanmità dall’AG in occasione del World Summit 2005, si fonda sui pilastri della responsabilità di prevenire, responsabilità di reagire e responsabilità di ricostruire. Per una ricostruzione esaustiva del dibattito sulla R2P e sulle difficoltà relative ad una sua piena operalizzazione, cfr. Valerio Bosco, Peacebuilding e R2P tra Consiglio di Sicurezza e Assemblea Generale, in Osservatorio Strategico, luglio 2009; United Nations, Report of the Secretary-General, Implementing the Responsibility to Protect, A/63/677, 12 January 2009. 114 Cfr: Ban Appoints Special Adviser for the Prevention of Genocide and Mass Atrocities, consultabile sul sito: http://www.unelections.org/?q=node/129, May 30 - Issue 16, ultimo accesso 1 novembre.

49 Ban Ki-Moon ha poi deciso di nominare il professore Edward Luck, al rango di Assistant Secretary General, come Special Adviser for the Responsibility to Protect. Più recentemente, nel febbraio 2009, Ban Ki-Moon ha presentato un primo articolato rapporto sulle sfide e le difficoltà nell’implementazione della R2P, proponendo nuove iniziative e recuperando alcune delle proposte formulate dai suoi predecessori: in tale documento, il SG ha infatti suggerito il rilancio di iniziative nazionali e internazionali per la promozione del rispetto dei diritti umani come strategia preventiva di base, sottolineato l’importanza nella definizione di region-to region learning process in materia di early warning e conflict prevention, il rafforzamento delle sinergie tra i buoni uffici e le mediazioni dei meccanismi regionali, sub- regionali e quelli delle Nazioni Unite, la creazione di una “stand by rapid response civilian and police capacity” chiamata ad affrontare situazioni di emergenza. In relazione alle relazione alle strutture del Segretariato chiamate ad applicare il principale della responsabilità di proteggere (R2P), il SG ha recentemente proposto di rafforzare la collaborazione tra due figure sin qui distinte, quella dello Special Advisor nella prevenzione del genocidio e quella dello Special Adviser sulla R2P, l’americano Edward Luck, mediante la creazione di un ufficio congiunto alfine di risparmiare risorse, eliminare duplicazioni e massimizzare le sinergie115. Appare opportuno sottolineare come l’ufficio dello Special Adviser on the Prevention of Genocide (OSAPG) abbi sin qui condotto una lavoro prezioso nella causa della prevenzione dei conflitti suscettibili di degenerare in genocidio, massicce violazioni dei diritti umani e crimini di guerra. Nell’ottobre del 2008 lo OSAPG ha prodotto un Analysis Framework, una sorta di guida per assistere lo staff onusiano nel monitoraggio e nella valutazione dei rischi di genocidio in una situazione di crisi116; dopo una missione nella RDC, compiuta alfine valutare le violenze esplose nella regione del nord del Kivu (dicembre 2008), lo Special Adviser ha seguito con attenzione le tensioni scoppiate in Sri Lanka e Kyrgyzstan117. Nel marzo 2010, lo SAPG si è infine recato in Guinea per analizzare le implicazioni delle violenze inter-etniche emerse nel corso della fase successiva al colpo di Stato del gennaio 2009 e valutarne l’impatto sulle possibili minacce alla

115 United Nations, Report of the Secretary-General, Early Warning Assessment and Responsibility to Protect, 14 July 2010 116 Cfr. Office of the Special Adviser on Prevention of Genocide, Analysis Framework, 28 October 2008, consultabile su http://www.un.org/preventgenocide/adviser , ultimo accesso 28 ottobre 2010. 117 Statement of the Special Advisor of the Secretary-General on the Prevention of Genocide on the situation in Sri Lanka, 15 May 2010; UN Special Advisers of the Secretary-General on the Prevention of Genocide and on the Responsibility to Protect on the Situation in Kyrgyzstan, 15 June 2010.

50 pace e alla stabilità del Paese soprattutto in relazione al rischio di violenze di massa e genocidio nel contesto della transizione elettorale e post-elettorale118. Di fronte alla naturale difficoltà nell’approcciare singoli Paesi in relazione alla prevenzione del genocidio, tema indubbiamente scomodo per governi alle prese con fenomeni di violenza etniche all’interno dei rispettivi territori, l’Ufficio dello Special Adviser ha avuto il merito di promuovere un approccio regionale e sub-regionale capace di ottenere, da parte degli Stati membri, quella cooperazione che sarebbe stata altrimenti difficile ottenere su un piano squisitamente bilaterale. È in questo senso che va letto il sostegno dato dallo SAPG all’organizzazione di un Forum sulla prevenzione del genocidio organizzato ad Arusha, in Tanzania, dai governi di Tanzania, Svizzera e Argentina nel marzo 2010119. In linea con il suddetto approccio, dopo l’organizzazione di un primo seminario in America Latina, lo SAPG è impegnato nell’organizzazione di training regionali per staff di governi nazionali e organizzazioni regionali e sub-regionali alfine di sviluppare e affinare capacità nell’analisi e raccolta di informazioni relative a crimini e potenziali situazioni di genocidio.

1.5. Conclusioni A conclusione del presente esame sugli sforzi condotti da Ban Ki-Moon nel consolidamento delle capacità onusiane in materia di conflict prevention, mediazione ed early warning, appare opportuno sottolineare come aspetto fondamentale di questo processo è stato senza dubbio il sostegno mostrato dalla membership dell’ONU. Un sostegno che, come indicato dagli ultimi due dibattiti sul tema svoltosi in Consiglio di Sicurezza del CdS – dicembre 2009 e luglio 2010120 – è da collegare ad una rinnovata consapevolezza emersa nella comunità internazionale sulla necessità di riscoprire la diplomazia preventiva e la mediazione come opzioni cost-effective nella gestione delle crisi. In un clima di persistente rigore finanziario, suggerito dalla crisi economica in corso, il ricorso ai buoni uffici, alla mediazione, ai diversi strumenti per la prevenzione dei conflitti si pone pertanto come alternativa efficace, oltre che più economica, al dispiegamento di costose operazioni di pace, giunte ormai ad impegnare oltre

118 United Nations, Office of the Special Adviser on Prevention of Genocide, Report on SAPG’s mission to Guinea from 7 to 22 March 2010, consultabile sul sito: http://www.un.org/preventgenocide/adviser/ , ultimo accesso 23 ottobre 2010 119 United Nations, Statement of the Special Adviser on Prevention of Genocide to the Regional Forum on Prevention of Genocide, 4 March 2010. 120 United Nations Department of Public Information, Presidential Statement Expresses Renewed Commitment as Security Council Holds Day-Long Open Debate on Preventive Diplomacy in Africa, 16 July 2010, SC/9984.

51 7miliardi di dollari e oltre 110mila peacekeepers, cifra mai raggiunta nella storia del peacekeeping onusiano121. La ricostruzione della storia passata e recente dell’impegno del SG e dei suoi inviati o rappresentanti speciali, del Segretariato ONU e del Consiglio di Sicurezza in materia di diplomazia preventiva ha permesso indubbiamente di sottolineare fallimenti, successi e leasson learned dell’azione delle Nazioni Unite nella difficile opera di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Alcuni osservazioni conclusive possono fornire un breve riepilogo dell’argomento e indicare possibile nuove linee di sviluppo.

Consolidamento dell’early warning onusiano Come si è ricostruito nel corso del presente capitolo, l’ORCI - Office for Research and Collection of Information (ORCI) – focal point della raccolta di informazione early warning fu smobilitato da Boutros Ghali a seguito della creazione di un dipartimento-leader nella prevenzione dei conflitti, il DPA, e nella distribuzione di compiti di analisi di potenziali situazioni di crisi tra lo stesso Dipartimento Affari Politici, il Dipartimento di operazioni di pace e l’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari (OCHA). L’ipotesi di recuperare l’idea Brahimi e consolidare nuovamente in un’unica entità la raccolta di informazioni sensibili finalizzati all’allerta rapida appare indubbiamente meritevole di attenzione.

Special rapporteur del Consiglio di Sicurezza Con riferimento alle difficoltà riscontrate dal Consiglio di Sicurezza nel porre in agenda situazioni di crisi rispetto alle quali gli Stati membri hanno manifestato la volontà di sottolinearne il carattere meramente interno, l’istituzione di Special Rapporteur sul modello di quelli impiegati dal Consiglio dei diritti umani potrebbe rivelarsi assai utile. In particolare, Special Rapporteur “regionali”, incaricati di aggiornare periodicamente il CdS sull’evoluzione di una situazione appunto regionale sarebbero in grado di affrontare in maniera più ampia e generale, ed anche più efficace, singole crisi nazionali e neutralizzare le resistenze della membership ad includere ripetutamente una singola situazione-Paese nell’agenda del massimo organo dell’ONU.

121 B. Lynn Pascoe, Under-Secretary-General for Political Affairs , Rediscovering Preventive Diplomacy: A View From The United Nations, Remarks at the Brookings Institution, 26 July 2010, consultabile su: http://www.un.org/wcm/content/site/undpa/peacemaking_prevention , ultimo accesso 3 novembre 2010.

52 Horizon Scan on Conflict Prevention La pratica recentemente inaugurata di un giro d’orizzonte sulla prevenzione dei conflitti - horizon scan on conflict prevention - effettuato dal Dipartimento Affari Politici in una specifica sessione del CdS merita indubbiamente di essere istituzionalizzata. Briefing periodici del Segretariato ONU al CdS sulle iniziative di prevenzione dei conflitti e sull’opera di diplomazia preventiva intrapresa dal DPA in varie situazioni di crisi potrebbe infatti avere un ruolo decisivo nello stimolare un approccio più dinamico, da parte del massimo organo dell’ONU, nell’interpretazione del proprio mandato relativo al capitolo VI della Carta122.

Consolidamento degli hubs regionali dell’ONU per la prevenzione dei conflitti Il lavoro sin qui svolto dall’ufficio dell’ONU in Africa occidentale dovrebbe ispirare una politica di riproduzione di altri hub regionali per la prevenzione dei conflitti in diverse sub-regioni. In particolare, la dinamica sub-regionale delle crisi nel continente africano potrebbe suggerire la creazione di unità per la prevenzione almeno in tre delle altre tre sub-regioni dell’Africa, meridionale, orientale e centrale, particolarmente esposte a ricorrenti crisi politiche. Una simile iniziative potrebbe riguarda l’America Latina/Centale e l’area del sud-est asiatico.

Missioni politiche e di peacebuilding ed exit strategies per operazioni di pace Come dimostrato dai casi di Sierra Leone, Burundi e Liberia, la creazione di light foot- print onusiani in contesti pacificati o post-conflittuali potrebbe indicare la via maestra per una sorta di istituzionalizzazione del ruolo delle attività di peacebuilding leggere- caratterizzate cioè da una presenza contenuta di personale e da un mandato specifico nell’assistenza alla stabilizzazione dei paesi reduci da conflitto - come exit strategies per le operazioni di pace dei caschi blu.

Forza ONU di dispiegamento rapido Le esperienze dell’United Nations Protection Force nell’ex Jugoslavia (UNPROFOR), dell’United Nations Preventive Deployement in Macedonia (UNPREDEP) dell’United Nations Observer Mission in South Africa (UNOMSA) – sebbene abbiano rivelato una storia fatta al

122 Security Council Report, Forecast Report, October 2010.

53 contempo di successi e fallimenti – sono stati fondamentali nel promuovere una concezione più dinamica della prevenzione. Nonostante il progresso rappresentato dalla creazione dello United

Nations Stand-by Arrangement System123, una forza di reazione rapida dell’ONU, capace di include sia civili che militari, garantirebbe la possibilità di disporre di una capacità d’azione tempestiva nella prevenzione o nel contenimento di situazioni di crisi.

123 Cfr. United Nations Stand-by Arrangement System, http://www.un.org/chinese/work/peace/rapid/sys.htm, ultimo accesso 23 ottobre 2010.

54 CAPITOLO II LA PREVENZIONE DEI CONFLITTI NELLE ORGANIZZAZIONI REGIONALI

Introduzione

Accennata nelle pagine precedenti, la questione delle relazioni tra ONU e organizzazioni regionali nella prevenzione e risoluzione dei conflitti merita indubbiamente un approfondimento specifico alfine di inquadrare giuridicamente e politicamente quei casi concreti di cooperazione in materia di conflict prevention e gestione delle crisi che saranno esaminati nel capitolo finale della presente ricerca. Sin dal 1994, anno dell’approvazione di una dichiarazione sul rafforzamento della cooperazione tra Nazioni Unite e organizzazioni regionali e sub-regionali nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, il Segretario Generale dell’ONU aveva convenuto consultazioni periodiche di alto livello con i leaders di tali organizzazioni124. Nel luglio del 2005, il sesto meeting di alto livello tra l’ONU e le organizzioni regionali discusse in maniera più concreta l’idea di un meccanismo regionale-globale di pace e sicurezza, riconoscendo la necessità di definire un sistema più strutturato di relazioni tra ONU e organizzazioni regionali fondato sul principio dei vantaggi comparati e l’elaborazione di precisi accordi di cooperazione o memorandum of understanding125. Le conclusioni adottate dal sesto high level meeting impegnarono i partecipanti ad organizzare le successive sessioni ai margini delle riunioni tra il Consiglio di Sicurezza e le stesse organizzazioni regionali alfine di massimizzare le possibilità di complementarietà delle iniziative; fu inoltre decisa la creazione di un focal point di alto livello in seno a ciascuna organizzazione126.

124 United Nations General Assembly, Declaration on Enhancement of Cooperation between the United Nations and Regional Arrangements or Agencies in the Maintenance of International Peace and Security, A/RES/49/57, 9 December 1994.

125 United Nations, Identical Letters dated 29 August 2005 from the Secretary-General addressed to the President of the General Assembly and the President of the Security Council, A/60/341/-S/2005/567, 8 September 2005

126 United Nations, Conclusion of the Chairman of the sixt high-level meeting between the United Nations and regional and other intergovernmental organization, Annex I, in Identical Letters dated 29 August 2005 from the Secretary-General addressed to the President of the General Assembly and the President of the Security Council, cit. , pag. 2.

55 Appena due mesi dopo il sesto high-level meeting, il Consiglio di Sicurezza aveva approvato la risoluzione 1625, la quale, oltre ad avviare un processo di rafforzamento dell’azione del CdS in materia di conflict prevention, aveva riconosciuto l’urgenza di promuovere un nuovo approfondimento della cooperazione e comunicazione tra l’ONU e le diverse organizzazioni regionali in linea con il dettato del capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite. A pochi giorni da quell’importante pronunciamento e in coerenza con le raccomandazioni approvate dal World Summit, il Consiglio aveva adottato la prima storica risoluzione sul tema della cooperazione tra ONU e organizzazioni regionali nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Con la risoluzione 1631 (2005), il Consiglio aveva infatti espresso il suo “committment” al consolidamento della cooperazione con le organizzazioni regionali, invitando altresì gli Stati membri a rafforzare le capacità delle stesse, in particolare quella della regione africana, in materia di prevenzione dei conflitti, gestione delle crisi, stabilizzazione post- conflittuale, contrasto al commercio delle armi di piccolo calibro, lotta al terrorismo. Oltre ad affermare l’importanza del ruolo delle Nazioni Unite nello sviluppo di capacità regionali e sub- regionali in materia di peacekeeping, il Consiglio aveva ribadito la necessità di incoraggiare l’azione delle organizzazioni regionali e sub-regionali nei processi di soluzione pacifica delle controversie. Mentre sino al 2005 l’interazione delle organizzazioni regionali con le Nazioni Unite si era manifestata, al più alto livello istituzionale, nelle consultazioni con il Segretariato e nella loro partecipazione, come osservatori, ai lavori dell’Assemblea Generale, il par. 7 della risoluzione confermò la volontà del Consiglio di istituzionalizzare la pratica delle consultazioni con le leadership delle varie organizzazioni regionali alfine di accrescerne l’interazione nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale127. La risoluzione raccomandò infine la nomina di liaison officers incaricati di garantire la continuità dello scambio di informazioni tra l’ONU e le organizzazioni regionali e richiese al SG di presentare un rapporto consolidato sulle sfide e le opportunità legate al processo di rafforzamento delle relazioni tra le Nazioni Unite e le organizzazioni nella promozione della pace e della sicurezza internazionale. Nel luglio 2006, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato, il Segretario Generale Kofi Annan presentò il rapporto intitolato “A regional-global security partnership: challanges and opportunities”, un documento che suggerì la creazione di una solida partnership tra le

127 United Nations Security Council Resolution, S/RES/1631 (2005), 17 October 2005.

56 organizzazioni regionali e l’ONU, in stretta cooperazione con il Consiglio di Sicurezza, basata su una chiara divisione del lavoro capace di riflettere i vantaggi comparati di ciascuna istituzione. La principale sfida insita in questo processo fu identificata da Kofi Annan nella necessità di chiarire l’identità e il ruolo di ciascun membro della partnership e di definire altresì un programma di azione per la costruzione delle capacità delle diverse organizzazioni regionali, alfine di assicurare che fossero tutte egualmente in grado di partecipare con efficacia al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale128. Secondo Kofi Annan, l’ipotesi di un bilanciamento tra l’approfondita conoscenza di un conflitto locale posseduta da una organizzazione regionale e la legittimità globale e l’autorità di cui era tradizionalmente investito il Consiglio di Sicurezza poteva accrescere i margini di successo degli sforzi condotti dall’intera comunità internazionale nella difesa della pace e della sicurezza. Ciò implicava evidentemente che il meccanismo di sicurezza globale si fondasse su una distribuzione adeguata di capacità e risorse nelle varie aree del mondo. Solo tale distribuzione-redistribuzione di capacità poteva alleviare alcune regioni dai rischi politici e militari di iniziative volte a mantenere la pace e la sicurezza, condotte tuttavia senza la disponibilità di capacita adeguate. Secondo Kofi Annan, il nuovo sistema, pur conservando il tradizionale ruolo di primauté assegnato al CdS dalla Carta dell’ONU in materia di mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, assicurava al palazzo di vetro la possibilità di contare sul ruolo sussidiario che le diverse organizzazioni potevano svolgere in materia. Kofi Annan aveva inoltre avuto il merito di proporre un articolato pacchetto di raccomandazioni che miravano al rafforzamento della partnerhsip con le organizzazioni regionali in materia di conflict prevention, peacemaking, peacekeeping, peacebuilding, disarmo-non proliferazione. In relazione alla prevenzione dei conflitti, Annan aveva suggerito di riorientare l’azione dei programmi e delle agenzie onusiane impegnate in materia di sviluppo su questioni relative alla pace e alla sicurezza e concentrarsi altresì nel rafforzamento di capacità nazionali e regionali in materia di conflict prevention. Il rapporto, oltre a raccomandare che l’interazione tra CdS e organizzazioni regionali conferisse alla prevenzione dei conflitti una speciale attenzione, invitò l’estensione del modello di dialogo e consultazioni dei desk-to-desk ( cioè tra funzionari al “working-level”) avviato dall’ONU con l’Unione Europea, il Consiglio d’Europa e l’OSCE, a tutte le altre organizzazioni regionali,

128 United Nations General Assembly, A regional-global security partnership: challenges and opportunities, Report of the Secretary-General, A/61/204/-S/2006/590, 28 July 2006.

57 alfine di accrescere lo scambio di informazioni, valutare i risultati della cooperazione in materia di diplomazia preventiva e pianificare iniziative congiunte di peacemaking. Il Secretario Generale aveva inoltre invitato il Consiglio di Sicurezza a riconoscere ufficialmente quelle guidelines della cooperazione tra ONU e organizzazioni regionale nel mantenimento della pace già identificate dai meeting di alto livello. Tali linee guida erano state indicate nell supremazia del dettato della Carta in materia e nella primauté del Consiglio, nella necessità di assicurare coerenza e imparzialità dell’Onu e dei suoi partners nelle attività di gestione delle crisi, nel pragmatismo e la flessibilità delle relazioni e, infine, nello lo sviluppo di una divisione del lavoro fondato sul principio dei vantaggi comparati. Il rapporto del 2006 generò un’attenzione crescente al tema del rafforzamento delle relazioni tra ONU e organizzazioni regionali nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Nel settembre 2006, nel marzo e nel novembre 2007 il Consiglio di Sicurezza organizzò ben tre riunioni in materia, approvando altrettante dichiarazioni presidenziali. La dichiarazione presidenziale adottata il 20 settembre 2006 accolse gran parte delle raccomandazioni proposte dal Segretario Generale, annunciando, “finalmente”, l’apertura delle porte del Consiglio alle organizzazioni regionali, le quali potevano essere invitate con regolarità a partecipare alle riunioni pubbliche o a porte chiuse del massimo organo del palazzo di vetro. Pur ribadendo con forza la sua responsabilità principale nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, il Consiglio incoraggiò le organizzazioni regionali e sub-regionali ad “inviare le rispettive valutazioni e analisi al CdS in occasione dell’esame di rilevanti questioni regionali”. 129 Il dibattito organizzato dalla presidenza sudafricana del Consiglio nel marzo 2007 fu dedicato invece al tema delle “relazioni tra le organizzazioni regionali, in particolare l’Unione Africana, nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”. Il focus specifico sull’Unione Africana fu indubbiamente legato al desiderio di Pretoria di farsi portavoce della richiesta del continente di veder riconosciuto il proprio contributo al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Un contributo che sarebbe emerso sempre più chiaramente con la progressiva operativizzazione del sistema di pace e sicurezza continentale ideato dall’atto costitutivo dell’UA e dal protocollo sulla creazione del Consiglio di pace e sicurezza dell’UA. Idea del Sud Africa e dei membri africani del Consiglio dell’ONU era quella di creare un consolidamento delle relazioni tra Nazioni Unite e UA che sostenesse l’Unione Africana nell’implementazione del sistema di pace e di sicurezza continentale e negli sforzi di prevenzione

129 United Nations Security Council, Presidential Statement, S/PRST/2006/39, 20 September 2006,

58 e risoluzione delle crisi avviati dall’Organizzazione in Burundi, Darfur, Somalia, Uganda, Costa d’Avorio130. La dichiarazione presidenziale adottata a conclusione del meeting rifletteva in parte tali aspirazioni e creava le premesse per un rafforzamento delle relazioni tra il Consiglio di Sicurezza e il CPSUA 131. Nel novembre 2007, l’Indonesia, membro influente dell’Association of the South East Asian Nations, ASEAN, presidente di turno del CdS, aveva inteso ricalibrare il focus del dibattito, allargandolo, più in generale, al “ruolo delle organizzazioni regionali e sub-regionali nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”e sottolineando, in particolare, il contributo offerto dall’Unione Europea, dall’ASEAN, dall’Unione Africana e dalla Lega Araba al lavoro del Consiglio di Sicurezza132. La dichiarazione presidenziale adottata a livello ministeriale riprese l’approccio sostenuto dall’Indonesia e oltre a dedicare particolare attenzione al tema del vantaggio comparato posseduto indistintamente da tutte le organizzazioni regionali nella prevenzione e soluzione delle crisi scoppiate nelle rispettive aree geopolitiche, aveva invitato il SG a formulare nuove raccomandazioni per accrescere e rafforzare la cooperazione tra ONU e organizzazioni regionali e sub-regionali nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale133. Nonostante lo sforzo condotto dall’Indonesia, la centralità della questione del mantenimento della pace e della sicurezza del continente africano, unita alla circostanza che vedeva (e vede ancora oggi!) le crisi africane occupare oltre il 60% dell’agenda del Consiglio di Sicurezza, assegnò al tema del rafforzamento delle organizzazioni regionali e sub-regionali africane una dimensiona prioritaria rispetto al tema più generale di quella global-security partnership che era stata invocata da Kofi Anna nell’estate del 2006.

130 United Nations, Security Council, Concept Paper on the relationship between the United Nations and regional organization, in particular the African Union, in the maintenance of international peace and security, in Letter dated1from the Permanent Representitive of South African to the UN to the Secretary-General, 4 March 2007, S/2007/148, 14 March 2007.

131 United Nations Security Council, Presidential Statement, S/PRST/2007/7, 28 March 2007.

132 United Nations, Security Council, Concept Paper: The Role of regional and sub-regional organizations in the maintenance of International peace and security, in Letter dated 29 October 2007 from the Permanent Representative of Indonesia to the United Nations addressed to the Secretary-General, 30 October 2007, S/2007/640

133 United Nations Security Council, Presidential Statement, S/PRST/2007/42, 6 November 2007.

59 A conferma di ciò, gran parte delle raccomandazioni contenute del nuovo rapporto del SG - presentato nell’aprile 2008 sulla base delle due dichiarazioni presidenziali sopra citate, S/PRST/2007/7, 28 March 2007 e S/PRST/2007/42 - riguardavano essenzialmente il rafforzamento delle capacità dell’Unione Africana e delle organizzazioni sub-regionali africane in materia di conflict prevention, mediazione, peacemaking, peacekeeping. Il nuovo documento presentato dal SG nella primavera del 2008 avrebbe peraltro lanciato quel processo culminato nel rapporto Prodi – che sarà esaminato nel successivo paragrafo dedicato all’Unione Africana – e in un articolato progetto di rafforzamento della partnership strategica tra l’UA e le Nazioni Unite. Nonostante la centralità della dimensione africana nel dibattito rilanciato dal rapporto del 2006, le altre organizzazioni regionali hanno comunque progressivamente intensificato la loro cooperazione con le Nazioni Unite in materia di diplomazia preventiva, conflict prevention gestione delle crisi. Proprio alcune tra quelle organizzazioni che la delegazione indonesiana all’ONU aveva indicato, nel novembre 2008, come le più rappresentative della proliferazione di sforzi e iniziative regionali nella gestione delle crisi – ASEAN, Organizzazione degli Stati Americani, Unione Europea - sono qui esaminate in virtù della loro specificità, dell’esperienza accumulata in materia di difesa della pace e della sicurezza, nonché del grado di cooperazione e interazione raggiunta con le Nazioni Unite. Tale capitolo si concentrerà pertanto su un’analisi generale delle carte istitutive dell’UA, dell’ASEAN, dell’OAS e dell’UE, ricostruendo il mandato ad esse assegnato in materia di prevenzione e risoluzione dei conflitti, diplomazia preventiva e mediazioni e facendo riferimento a quei policy documents o dottrine che enunciano le priorità nel mantenimento della pace e della sicurezza nell’area e indicano altresì i principi di cooperazione con le Nazioni Unite. Non si mancherà inoltre di fare un breve riferimento, ove essi esistano, ai programmi di cooperazione e di sostegno al capacity building che le stesse organizzazioni regionali hanno definito con il palazzo di vetro. Sulla base di tale ricostruzione sarà possibile contestualizzare in maniera più efficace quanto sarà esposto nell’ultimo capitolo della presente ricerca, ovvero l’esame di casi concreti di cooperazione tra le organizzazioni regionali/sub-regionali e le Nazioni Unite nella prevenzione dei conflitti e nella gestione delle crisi.

60 2.1. Mediazione e conflict prevention in Africa: il ruolo dell’UA, le Comunità economiche regionali e la cooperazione con le Nazioni Unite

Nelle pagine precedenti si è ricostruito come l’idea di rafforzamento delle capacità dell’ONU in materia di prevenzione dei conflitti sia strettamente legata proprio alle emergenze che, in particolare dopo la fine della guerra fredda, avevano investito il continente africano.

La fine della competizione bipolare è infatti coincisa ad una progressivo deterioramento delle condizioni di sicurezza nel continente e la proliferazione di cruenti conflitti intrastatali134.

L’azione dell’ONU in Africa in materia di mantenimento della pace e della sicurezza si è così realizzata mediante il dispiegamento di un numero impressionante di operazioni di pace e, altresì, attraverso la partecipazione ad attività di mediazione nel quadro di crisi politiche degenerate in guerre civili o suscettibili di degenerare in fenomeni di violenza diffusa.

Delle 19 operazioni di pace dispiegate dalle Nazioni Unite dopo il 1990, ben 16 furono quelle schierate nel continente africano, una cifra che può essere scomposta nell’elenco seguente: UN Verification Mission in Angola (UNAVEM I, II and III, 1989−1995), UN Observer Mission in Angola (MONUA, 1997−1999), UN Mission in Central African Republic (1990), UN Aouzou Strip Observer Group (1994), UN Observer Mission in Liberia−1997), (1993 UN Operation in Mozambique (1992−1994), UN Transition Assistance Group (1989−1990), UN Assistance Mission for Rwanda (1993−1996), UN Observer Mission in Sierra Leone (1998−1999), UN Operation in Somalia (UNOSOM I and II, 1992−1995), UN Organisation Mission in the Democratic Republic of Congo (MONUC, November 1999), UN Mission in Sierra Leone (UNAMSIL, 1998−1999), UN Mission for Referendum in (MINURSO, 1991).

Più recentemente il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dispiegato la UN Mission in Eritrea and Ethiopia (UNMEE, 2000−2008), la UN Operation in Burundi (ONUB, 2004) la UN Mission in Cote d’Ivoire (UNOCI, 2003)135.

134 Jacob Bercovitch, Resolving International Conflicts: The Theory and Practice of Mediation, Lynne Rienner, 1996

135 Aning, Kwesi. Confronting complex threats, coping with crisis. IPA Working Paper Series, New York: International Peace Academy,

61 Ad oggi, mentre le crisi africane occupano più del 60 per cento dell’agenda mensile del Consiglio di Sicurezza, l’Africa è la sede delle due più grosse operazioni di pace mai schierate da un’organizzazione internazionale, la Missione ONU in Congo e la forza ibrida ONU-Unione African in Darfur. L’azione dell’ONU in Africa si è tuttavia imposta anche per una massiccia presenza nell’ambito delle iniziative di conflict prevention e mediazione assunte dall’Organizzazione per l’Unità Africana/Unione Africana e le varie organizzazioni sub-regionali.

Le Nazioni Unite, al fianco di tali organizzazioni, hanno giocato un ruolo spesso centrale nelle mediazioni in Angola, repubblica centro-africana, Sahara occidentale, nella controversia Guinea Equatoriale-Gabon, in Somalia, nel conflitto Eritrea/Etiopia, in Guinea, Guinea-Bissau, Mauritania, Mozambico, Ruanda, Sierra Leone, Sudan, Uganda and Kenya136.

La continua proliferazione delle crisi nel continente, in cui le organizzazioni regionali e sub-regionali erano comunque intervenute, in vari modi, al fianco delle Nazioni Unite, aveva innescato un profondo dibattito sulle modalità di riforma delle capacità di intervento e azione dell’OUA e delle diverse comunità economiche nella difesa della pace e della sicurezza in Africa. Senza voler qui ricostruire il processo che ha guidato il delicato passaggio istituzionale dall’OUA all’UA, la presente trattazione non può esimersi dal far riferimento alla storica decisione con cui i capi di Stato e di governo africani promossero la creazione di un nuovo sistema di pace e sicurezza continentale, pensato come strumento in grado di garantire la promozione di “soluzioni africane a crisi africane”137.

L’atto costitutivo dell’Unione Africana, adottato a Lomé, Togo, nel luglio 2000, non promosse semplicemente un evoluzione cosemetica rispetto all’OUA, ma introdusse novità fondamentali nella visione, negli obiettivi e nelle responsabilità assegnate alla nuova organizzazione. L’attivazione promozione della pace, della sicurezza e della stabilità del continente, identificate come requisito per la crescita economica e lo sviluppo sostenibile, furono infatti identificate come obiettivo prioritario dell’organizzazione.

136 United Nations Experience in Mediation in Africa, Center for Conflict Resolution, Policy Advisory Group, 16-17 October 2006, Cape Town, South Africa.

137 Kristiana Powell- Thomas Tieky, The African Union’s New Security Agenda, Is Africa Closer to a Pax-Panafrican, in International Journal, Vol. 60, No. 4, Africa: Towards Durable Peace (Autumn, 2005), pp. 937-952

62 Più in particolare, l’atto costitutivo dell’Unione Africana introdusse un cambiamento culturale e politico rivoluzionario nel sistema delle relazioni intra-africane e rispetto alla pratiche e dottrine tradizionali dell’OUA. Pur ribadendo infatti l’attaccamento ai tradizionali principi della sovranità, dell’integrità territoriale, dell’indipendenza e non-interferenza - stelle polari del processo di decolonizzazione nel continente e cemento ideologico degli Stati di nuova indipendenza – l’articolo 4 (h) dell’atto costitutivo, oltre a riconoscere il diritto degli Stati membri a richiedere un intervento dell’Organizzazione per ripristinare la pace e la sicurezza al suo interno, assegnò all’UA il diritto di intervenire negli Stati membri in applicazione di una decisione dell’Assemblea in presenza di gravi circostanze quali i crimini di guerra, il genocidio, crimini contro l’umanità.

Tale disposizione fu ulteriormente rafforzata dall’articolo 7 (e) del protocollo sulla creazione del Consiglio di Pace e Sicurezza dell’Unione Africana (CPSUA), istituzione che richiamava, sia nel nome che nella composizione, una sorta di Consiglio di Sicurezza regionale.

Sulla base del suddetto articolo, il CPSUA può infatti raccomandare all’Assemblea dei capi di Stato un intervento in uno Stato membro, “on behalf of the AU”, nel caso di gravi circostanze come quelle indicate dall’atto costitutivo dell’UA.

Le disposizioni dell’atto costitutivo e quelle del protocollo sul CPSUA segnarono l’abbandono dell’intepretazione tradizionale dei principi dell’integrità territoriale e della non- interferenza negli affari degli Stati, siglando incontestabilmente il passaggio da una cultura politica del non-intervento alla dottrina della non-indifferenza. Tale dottrina consentiva all’UA il diritto di intervenire in situazioni interne suscettibili di degenerare in atrocità contro minoranze o comunità a rischio. In un periodo in cui la comunità internazionale, sull’onda dei fallimenti patititi dalle Nazioni Unite in Ruanda, Somalia e nell’ex Jugoslavia, si interrogava confusamente sulla portata e le implicazioni del concetto della “responsabilità di proteggere”, l’atto costitutivo dell’Unione Africana, con diversi anni di anticipo rispetto al palazzo di vetro, assumeva di fatto quella nozione come principio fondamentale alla base del suo mandato nella promozione della pace e della sicurezza continentale138.

L’atto costitutivo dell’UA, assieme al protocollo sul CPSUA, definì un’articolata architettura di pace e sicurezza continentale, composta, oltre che dal Consiglio, dal Panel dei saggi (Panel

138 Tim Murithi, The African Union Transition: from Non-Intervention to Non-Indifference. An Ad Hoc Approach to the Responsibility to Protect, Institute for Security Studies, ISS, Issue Paper 3, 13 October 2008.

63 of the Wise), dall’African Standby Force (ASF) e dal sistema di allerta continentale (Continent Early Earning System, CEWS). I mandati assegnati a queste istituzioni indicano chiaramente una prioritarizzazione delle funzioni di prevenzione dei conflitti all’interno dell’agenda di pace e sicurezza dell’organizzazione continentale139.

Il particolare, proprio l’anticipazione e la prevenzione dei conflitti sono indicati come obiettivi principali e aree di azione-chiave del CPSUA. I primi tre paragrafi dell’articolo 6 relativo alle funzioni assegnate al CPSUA affermano che il Consiglio dovrebbe contribuire alla promozione della pace, della sicurezza e della stabilità continentale (par. A); all’early warning e all’esercizio della diplomazia preventiva (par. B); al peacemaking, “including the use of good offices, mediation, conciliation and enquiry” (par. C). Nonostante il riferimento al principio dell’intervento e dell’allestimento di operazioni di pace, il protocollo sembra conferire una chiara prevalenza agli strumenti della diplomazia preventiva, del peacemaking e del peacebuilding e dell’early engagement nella gestione delle crisi.

Il sistema d’allerta rapido – il Continental Early Warning System – è la struttura centrale dell’architettura di pace e sicurezza continentale in tema di prevenzione e anticipazione dei conflitti140 . Composto da un centro di monitoraggio e osservazione – il Situation Room – responsabile per la raccolta e l’analisi di dati e informazioni, il CEWS è collegato ai sistemi di allerta analoghi presenti nelle varie comunità economiche regionali ed ha recentemente inserito nel suo database anche i contributi di organizzazioni della società civile, indispensabili per accrescere quantità e qualità delle notizie relative a remote aeree del continente dove tali associazioni costituiscono fonti preziose per la produzione di aggiornamenti e la rilevazione in anticipio di situazioni di crisi141. Secondo il protocollo sul CPSUA, il Chairperson della Commissione dell’UA è chiamato a servirsi delle informazioni e delle analisi offerte dal CEWS

139 ): Corinne A. A. Packer and Donald Rukare , The New African Union and Its Constitutive Act, in The American Journal of International Law, Vol. 96, No. 2 (Apr., 2002), pp. 365-379

140 Framework for the Operalization of the Continental Early Warning System, Meeting of governmental experts on early warning and conflict prevention, 17-19 December 2006, in African Union: Meeting the Challenge of Conflict Prevention in Africa, Towards the Operalization of the Continental Early Warning System, edited by the Conflict Management Division of the Continental Early Warning System, 2008

141 Issue Paper n. 3, Civil Society Participation in Conflict Prevention in Africa: An Agenda for Action, Meeting of governmental experts on early warning and conflict prevention, 17-19 December 2006, in in African Union: Meeting the Challenge of Conflict Prevention in Africa, Towards the Operalization of the Continental Early Warning System, cit. , pag. 93-98.

64 per allertare il Consiglio sul potenziale sviluppo di situazioni di crisi suscettibili di minacciare la pace e la sicurezza continentale142.

Non può infine essere dimenticato il ruolo di prevenzione esercitato dal Panel of Wise, il consiglio dei Saggi, una struttura divenuta pienamente operativa dall’autunno del 2008. Il Panel, composto da cinque personalità del continente altamente rispettate, ha infatti il compito di sostenere gli sforzi condotti dal CPSUA e del Chairperson della Commissione in materia di conflict prevention. Il Panel ha il compito di consigliare il CPSUA e il Chairperson su tutte le questioni relative al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale. Su richiesta del CPSUA e della Commissione, o motu proprio, il Panel può assumere iniziative finalizzate a sostenerne gli sforzi per la prevenzione dei conflitti ed eventualmente fornire il suo punto di vista in relazione a situazioni di crisi143.

In relazione alla ricostruzione post-conflittuale, occorre infine ricordare l’importanza della decisione adottata a Banjul, Gambia (giugno 2006) dai capi di stato e di governo africani con l’approvazione della AU policy on Post-Conflict Reconstruction Development (PCRD)144. Tale politica fornisce un contributo importante all’architettura di pace e sicurezza dell’Unione Africana e si pone oggi come guida per lo sviluppo di strategie per il consolidamento della pace e la promozione dello sviluppo sostenibile nei diversi Paesi africani reduci da conflitti.

Obiettivo della PCRD policy è quello di consolidare la stabilizzazione e prevenire fenomeni di ricaduta in situazioni caos e violenza, affrontando e risolvendo le cause profonde dei conflitti, incoraggiando una rapida pianificazione e implementazione delle attività di ricostruzione con l’obiettivo di accrescere il coordinamento e la complementarietà dell’azione dei diversi attori nazionali e internazionali impegnati nell’opera di peacebuilding.

Componente essenziale della prevenzione strutturale di crisi e conflitti nel continente è la dottrina sviluppata progressivamente dall’OUA/UA in materia di mutamenti incostituzionali di governo o colpi di Stato. In particolare, assieme alla carta costitutiva dell’UA e, come vedremo in seguito ad altri strumenti giuridici sub-regionali, la dichiarazione di Lomé – Declaration on the Framework for an OAU response to Unconstitutional Changes of Government (12 luglio 2000),

142 Protocol Establishing the Peace and Security Council of the African Union, article 14.

143 Protocol Establishing the Peace and Security Council of the African Union, cit. art. 18.

144 African Union, Policy on post-conflict reconstruction and development, 2007.

65 la Carta Africana su democrazia, elezioni e governance (gennaio 2007) e il più recente consenso di Ezulwini (gennaio 2010) guidano la politica continentale in materia di colpi di Stato, fondata sulla promozione del ritorno all’ordine costituzionale come chiave per la difesa delle istutuzioni democratiche e per la prevenzione di conflitti interni suscettibili di degenerare in fenomeni di violenza sociale e politica. Tale dottrina sarà esaminata in maniera approfondita nel capitolo relativo all’esame della performance concreta dell’UA e dai RECs rispetto ad alcuni case-studies145.

L’articolo 17 del protocollo sulla creazione del CPSAU definisce inoltre in maniera precisa il contesto giuridico e politico della cooperazione con le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali nel mantenimento della pace e della sicurezza nel continente.

Il par. 3 dell’articolo 17 stabilisce in particolare che il Consiglio di Pace e Sicureza e il chairperson della Commissione dell’AU debbano mantenere “close and continued interaction” con il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, i suoi membri africani e il Consiglio di Sicurezza, alfine di organizzare periodiche consultazioni e riunioni sulle questioni relative alla pace, alla sicurezza alla stabilità in Africa. Il par. 4 del medesimo articolo impone inoltre al CPSAU di lavorare in cooperazione con “altre rilevanti organizzazioni impegnate nella promozione della pace,della sicurezza e della stabilità in Africa. Tali organizzazioni – tra cui rientrano evidentemente l’Organizzazione Internazionale per la Francofonia, l’Organizzazione della Conferenza Islamica, l’Unione Europea – possono altresì essere chiamate a intervenire nelle riunioni del CPSAU su questioni di comune interesse se quest’ultimo ritiene che “the efficient discharge of its responsibilities does so require’146.

Componenti essenziali del sistema di pace e di sicurezza continentale delineato dall’atto costitutivo e dal protocollo sul CPSAU sono del resto le comunità economica regionali (Regional Economic Communities, RECs). Nonostante i rispettivi mandati fossero originariamente concentrati sulla promozione della crescita e dell’integrazione economica sub-regionale, di fronte alla progressiva degenerazione della situazione di sicurezza nelle diverse aeree del continente, organizzazioni come l’ECOWAS (Economic Community of West African States), la

145 Issaka K. Souaré, The AU and the challenges of unconstitutional changes of government in Africa, Institute For Security Studies, ISS Paper 197, August 2009.

146 Said Djinnit, Commissioner for Peace and Security, Foreward, African Union: Meeting the Challenge of Conflict Prevention in Africa, Towards the Operalization of the Continental Early Warning System, cit. , pag. 7-10.

66 SADC (Southern African Development Community), l’IGAD (Intergovernmental Authority on Development), hanno cominciato ad adottare e sviluppare propri meccanismi, strumenti e istituzioni per la prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti.

Nel 1996 la SADC stabilì ad esempio un Organo chiamato ad affrontare le questioni politiche, di difesa e di sicurezza della sub-regione147; due anni dopo, l’IGAD, il cui mandato originario era quello di affrontare e risolvere questioni della siccità e della desertificazione, autentiche piaghe della sub-regione, approvò una dichiarazione di obiettivi in materia di “conflict prevention, resolution, and management” e dispose la ristrutturazione del suo Segretariato includendovi una Divisione per la Pace, la Sicurezza e gli affari umanitari, definendo altresì le coordinate per un programma sub-regionale di prevenzione, risoluzione e gestione delle crisi che continuavano ad agitare il Corno d’Africa148.

Nel 1999, un'altra organizzazione regionale, la COMESA, the Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA), la cui membershop include molti degli Stati già appartenenti all’IGAD e alla SADC, integrò il suo focus sulla promozione dello sviluppo mediante l’integrazione dei mercati dell’Africa sud-orientale con un programma di prevenzione risoluzione dei conflitti concentrato sulla dimensione economica delle tensioni esistenti nella sub-regione.

Grazie ai rispettivi programmi e strategie d’azione, le diverse comunità economiche regionali hanno pertanto sviluppato un proprio approccio ai temi della prevenzione dei conflitti e della mediazione indubbiamente legato al contesto storico e culturale dell’area sub-regionale di riferimento. La familiarità dei diversi meccanismi regionali con le parti di una controversia o la situazione sul terreno, l’esistenza di legami personali tra i diversi leaders politici della sub- regione, la prossimità geografica all’area di turbolenza, il comune interesse a promuovere iniziative di peacemaking e conciliazione alfine di evitare fenomeni di allargamento di un conflitto hanno posto spesso tali organizzazioni nella condizione di godere di uno specifico vantaggio comparato – rispetto all’ONU o alla stessa istituzione continentale, l’Unione Africana – nell’azione di prevenzione o gestione delle crisi.

147 John Dzimba, A common sub-regional agenda for peace, human security and conflict prevention: a view from SADC, in Institute of Security Studies−UNESCO, Peace, human security and conflict prevention in Africa, Pretoria: Security, 2001, 23-36

148 Julia Maxted-Abebe Zegeye, Human stability and conflict in the Horn of Africa, in Institute of Security Studies−UNESCO, Peace, Human Security and Conflict Prevention in Africa, Pretoria, Security, 200. 45-54.

67 Mentre con riferimento alla SADC si possono ricordare, nel recente passato, il ruolo centrale giocato nella ricerca di soluzioni pacifiche alle crisi in RDC e nel Congo Brazaville, in Zimbabwe, Madagascar e Lesotho, l’IGAD ha offerto i suoi buoni uffici per porre fine al conflitto tra Eritrea ed Etiopia, mantenendo viva l’attenzione della comunità internazionale sulle crisi in corso in Sudan e Uganda. Di particolare rilievo nel panorama delle organizzazioni sub-regionali africani è indubbiamente l’esperienza dell’ECOWAS, organizzazione che ha assunto un ruolo decisivo nella soluzione di crisi che hanno minacciato di sconvolgere la pace, la stabilità e la sicurezza nell’intera Africa occidentale. L’intervento dell’ECOWAS in Liberia (1990), in Sierra Leone (1997−1999) 149, fondato sul dispiegamento di missioni di monitoraggio stabilizzazione, ha confermato come l’organizzazione, anche grazie al ruolo decisivo giocato dalla potenza regionale, la Nigeria, possa assumere la leadership nella soluzione delle crisi sub-regionali, nonostante l’intima vocazione dell’AU ponga l’organizzazione continentale nella condizione di rivendicare la guida dei processi di soluzioni di crisi in Africa150.

L’ambizione dell’ECOWAS a giocare un ruolo centrale nella prevenzione dei conflitti in Africa occidentale è chiaramente indicata dal protocollo relativo alla creazione del meccanismo per la prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti: adottato nel 1999, tale documento, che diede vita ad una serie di istituzioni, organi e strategie per la promozione della pace e della sicurezza può essere considerato senza dubbio il più avanzato strumento continentale in materia di conflict prevention. Istituzione principale del meccanismo dell’ECOWAS è il Consiglio di sicurezza e di mediazione che, a livello di capi di Stati e governo, ministri, rappresentanti permanenti/ambasciatori, prende le decisioni più importanti in materia. Altri organi sono: la Commissione difesa e sicurezza composta da esperti militari e capi di Stato maggiore della regione; il Monitoring Group dell’ECOWAS, istituzionalizzato dopo i sucessi in Liberia e Sierra Leone come multi-purpose standby force, dispiegabili in tempi rapidi come operazioni di peacekeeping, osservazione elettorale e monitoraggio di situazioni di crisi; un early warning system sub-regionale e, infine, un Consiglio degli anziani cui è assegnato il compito di svolgere la mediazione e la conciliazione, nonché quello di facilitare negoziati. Il Segretariato esecutivo è

149 Max A Sesay: Civil War and Collective Intervention in Liberia, Review of African Political Economy, n. 67, pag. 35- 52,1996.

150 Mark Malan, The OAU and African Sub-Regional Organisations: a Closer Look at the Peace Pyramid, Institute of Security Studies, ISS, Occasional Paper, n.36, January 1996.

68 infine la struttura amministrativa incaricata di assicurare la piena implementazione del meccanismo.

A complemento del meccanismo dell’ECOWAS non si può infine dimenticare il protocollo su democrazia e good governance adottato dall’organizzazione nel 2001, uno strumento giuridico e politico fondamentale nella promozione di una strategia di prevenzione strutturale dei conflitti nella sub-regione. I principi di convergenza costituzionale (“section I) e quelli relativi alla subordinazione costituzionale delle forze armate, di polizia e sicurezza alle istituzioni civili (section II) indicano chiaramente la definizione di un approccio strutturale al tema della prevenzione dei conflitti nella sub-regione151.

Pur riconoscendo la responsabilità primaria del CPSAU nella promozione della pace e della sicurezza continentale, l’articolo 16 del protocollo sulla creazione del Consiglio di Pace e di Sicurezza riconosce il ruolo dei RECs in materia e definisce nel dettaglio le relazioni tra l’Unione Africana e i meccanismi regionali per la prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti. Il par. 1 dell’articolo Article 16, indica infatti che i RECs sono parte della più ampia architettura di sicurezza dell’UA ed assegna al CPSUA il compito di armonizzare e coodinare l’attività delle comunità economiche regionali nel campo della pace, della sicurezza e della stabilità alfine di assicurare che tali iniziativi si sviluppino in coerenza con gli obiettivi e i principi dell’Unione Africana. Nondimeno, il par 1b dell’articolo 16 afferma che il CPSUA è chiamato a lavorare in stretta cooperazione con i RECs alfine di promuovere iniziative congiunte nell’anticipazione e promozione dei conflitti e, qualora questi siano già scoppiati, ad avviare attività di peacemaking e peacebuilding.

Nell’esecuzioni dei rispettivi mandati in materia di promozione della pace e della sicurezza regionale, i RECs sono del resto tenuti ad informare periodicamente il CPSUA alfine di assicurare che le loro iniziative si svolgano in maniera coordinata a quelle condotte dall’Unione Aricana. A tal fine il Chairperson della Commissione dell’UA è chiamato a faciliatare lo scambio di informazioni, organizzare riunioni e consultazioni periodiche con le leadership delle comunità regionali e con i funzionari da esse designate come responsabili in materia di pace e sicurezza. Nondimeno, la partecipazione dei RECs alle riunioni del Consiglio di pace e sicurezza su situazioni di crisi rispetto alle quali le comunità economiche regionali hanno un preciso interesse

151 Ci Obi, Economic Community of West African States on the ground: comparing peacekeeping in Liberia, Sierra Leon, Guinea and Cote d’Ivoire, African Security Review, 2, 2009, 119-135.

69 è indicata come strumento principale della suddetta interazione e scambio di informazioni. Al contempo, le istituzioni dell’Unione Africana, il Chairperson o il Commisario dell’UA per la pace e la sicurezza, sono spesso invitati a partecipare alle riunioni e alla deliberazioni delle comunità economiche regionali per assicurare che le direttive e le politiche dell’organizzazione continentale sino tenute in adeguata considerazione.

Nel corso del biennio 2008-2009 la creazioni di uffici di collegamento dei RECs presso il quartier generale dell’Unione Africana ad Addis Ababa, unita alla definizione di articolati memoranda of under standing (MoU), ha indubbiamente consentito di rafforzare la cooperazione e il coordinamento tra l’UA e le comunità economiche regionali. Nondimeno, la proliferazione dei RECs, la molteplicità delle membership detenute da alcuni Paesi (alcuni Stati sono infatti parte di due o più RECs), l’assenza di coordinamento tra le stesse comunità sub- regionali, la sovrapposizione di mandati e iniziative confermano oggi l’esistenza di confuse duplicazioni e ricordano l’urgenza di promuovere un’ulteriore razionalizzazione del loro operato152.

Appare evidente che le ambizioni del sistema di pace e sicurezza continentale, la sua intima articolazione, la volontà dei leaders africani di fornire “risposte africane ai problemi africani” pongano sia l’Unione Africana che le comunità economiche regionali in una posizione di naturale cooperazione con le Nazioni Unite. Come è stato ricostruito nel primo capitolo, sin dalla fine della guerra fredda, l’ONU ha cominciato ad assegnare una dimensione prioritaria ai problemi del continente africano. Aldilà dell’immenso lavoro di cooperazione e assistenza allo sviluppo condotta dalle varie agenzie e programmi del sistema ONU, la centralità della pace e della sicureza come problemi fondamentali del continente hanno conferito un carattere quasi naturale alla partnership UA-RECs-Nazioni Unite.

Ad un Consiglio di Sicurezza che dedica oltre il 60% della sua agenda a situazioni di crisi o conflitto in Africa, corrisponde una realtà, quella del peacekeeping onusiano, che schiera nel

152 Monde Muyangwa and Margaret A Vogt, An Assessment of the OAU Mechanism for Conflict Prevention, Management and Resolution, 1993-2000, New York: International Peace Academy, November 2000.

70 continente la maggioranza delle sue operazioni di pace e oltre il 50% del numero complessivo dei caschi blu dispiegati nelle diverse aeree del mondo153.

Occorre qui ricordare nuovamente come, la centralità dell’Africana nei lavori del palazzo di vetro, assieme alla nascita dell’UA ed alla creazione del sistema continentale di pace e sicurezza, abbiano per certi versi guidato il più ampio dibattito sul rafforzamento della cooperazione tra ONU e organizzazioni regionali e sub-regionali nel mantenimento pace e sicurezza internazionale. Com’è noto, tra il 2006 e il 2008, tale dibattito si è progressivamente concentrato sulle relazioni tra ONU e UA e sul rafforzamento delle capacità dell’UA nelle gestione delle crisi154. Un primo passaggio in questo senso fu rappresentato dalla firma del programma decennale per il rafforzamento della capacità dell’Unione Africana. Concepito come “overall strategic framework” della cooperazione tra le due organizzazioni, tale programma fu pensato dall’intesa tra Kofi Anna e Alpha Konara – allora Chairperson della Commissione dell’UA – come strumento per rafforzare le capacità complessive dell’Unione Africana nell’esecuzione del suo mandato ed assegnò uno specifico focus, per il periodo 2007-2010, sui temi della pace e delle sicurezza, ovvero alla prevenzione dei conflitti, al peacekeeping, al paeacemaking, al peacebuilding e all’assistenza elettorale155.

Nel 2008, il nuovo rapporto del SG sulle relazioni tra ONU e organizzazioni regionali, pur fornendo un aggiornamento sulle sfide e le opportunità legate ad un consolidamento della loro cooperazione, dedicò grande attenzione alla questione del rafforzamento dell’Unione Africana, raccomandando, in particolare, la creazione di un panel misto Nazioni Unite-UA, formato da personalità di alto livello e chiamato a formulare raccomandazioni su come finanziarie le operazioni di pace delle organizzazioni regionali156. A conclusione del meeting del Consiglio di Sicurezza chiamato ad esaminare il rapporto del SG, una risoluzione del palazzo di vetro

153 Cfr su questo, Baboucarr Blaise I. Jagne-Valerio Bosco, UN-AU-RECs cooperation in conflict prevention and mediation, in Africa Security Threats 2020, Institute for Security Studies, Addis Ababa, November 2010, in corso di pubblicazione.

154 Security Council Report, UN support for Regional Organizations, Monthly Forecast, March 2009, consultabile sul sito www.securitycouncilreport.org , ultimo accesso 29 ottobre 2010.

155 United Nations-African Union, Framework for cooperation: Ten-Year Capacity Building Program, 23 October 2006.

156 Report of the Secretary-General on the relationship between the United Nations and regional organizations, in particular the African Union, in the maintenance of international peace and security, 7 April 2008, S/2008/186.

71 dispose effettivamente la creazione del suddetto Panel suggerendo in particolare di concentrarne il mandato sull’esame di possibile proposte volte ad assicurare la prevedibilità, sostenibilità e flessibilità del finanziamento delle operazioni di pace condotte dalla organizzazioni regionali sulla base di un mandato onusiano157.

Presieduto da Romano Prodi, ex presidente del Consiglio e dall’ex presidente della Commmisisone dell’Unione Europea, il panel presentò, alla fine del 2008, un articolato pacchetto di pacchetto di proposte. In particolare, il panel suggerì il ricorso all’uso del bilancio ordinario dell’ONU, la creazione di un multi-donor trust fund su basi volontarie e, infine, l’impiego di tale mezzo di finanziario per il potenziamento delle capacità dell’UA in ambiti diversi da quello del peacekeeping o della logisitica per le operazioni di pace, ovvero in materia di conflict prevention, mediazione, early warning158.

Sebbene con l’approntamento di un package support per la missione dell’Unione Africana il Consiglio di Sicurezza avesse di fatto dato il via libero alla creazione di un trust fund e all’impiego parziale, ad hoc, di fondi del bilancio ordinario dell’ONU per facilitare e sostenere il dispiegamento dei caschi verdi in Somalia, l’ostilità dei membri permanenti all’uso istituzionale del budget ordinario per finanziarie operazioni non direttamente condotte dal palazzo di vetro ha congelato parzialmente il dibattito.

Nondimeno, il rapporto Prodi, ebbe il merito di accelerare in maniera assai significativa il consolidamento della partnerhsip tra Unione Africana e Nazioni Unite.

Le successive versioni del rapporto redatte dal Segretariato del palazzo di vetro ricalibrarono infatti il profilo del dibattito e spostando piuttosto il focus sulle modalità di rafforzamento di una partnership dal crescente valore strategico159.

In particolare, il documento ormai conosciuto come rapporto del 18 settembre (2009) suggeriva infatti la creazione di una “joint task force on peace and security” che, a livello di Under-Secretary General dell’ONU e di Commisari dell’UA, sarebbe stata chiamata ad

157 United Nations Security Council Resolution, S/RES/1809, 16 April 2008.

158 United Nations, General Assembly-Security Council, Identical Letters dated 24 December 2008 from the Secretary-General addressed to the President of the General Assembly and the President of the Security Council, a A/63/666; S/2008/813, 31 December 2008.

159 Cfr. Valerio Bosco, Dal Prodi report al rapporto del 18 settembre, in Osservatorio Strategico, ottobre 2009.

72 esaminare “immediate and long-term strategic and operational issues”. La ristrutturazione del supporto ONU all’Unione Africana attraverso una razionalizzazione-integrazione della presenza del Segretariato del palazzo di vetro ad Addis Ababa –caratterizzata da diversi anni da una pluralità di uffici inseriti nelle diverse strutture del Department of Political Affairs (DPA), del Department of Peacekeeping Operations (DPKO) e del Department of Field Support (DFS) – fu altresì indicata come un passaggio fondamentale nel rafforzamento della partnership tra le due organizzazioni. Pur limitandosi a riesaminare la questione del finanziamento del peacekeeping dell’UA suggerendo l’uso del bilancio ordinario solo in caso di un certo take over della forza regionale da parte di un contingente di caschi blu, il documento si era soffermato sul tema della “institutional capacity building” e sulla necessità di rafforzare le capacità dell’Unione Africana nel pianficazione, dispiegamento e gestione delle proprie operazioni di pace.

Nondimeno, il documento ricordava come il rafforzamento del peacekeeping dell’UA doveva procedere contemporaneamente al consolidamento delle capacità dell’organizzazione in materia di diplomazia preventiva, early warning e della mediazione 160.

È sulla scia del processo politico e diplomatico sin qui descritto che, ormai da quattro anni, è stata istituzionalizzata la pratica delle riunioni congiunte tra il Consiglio di Sicurezza dell’ONU e il CPSUA, convocate alternativamente a New York o Addis Abeba. Nonostante le difficoltà emerse periodicamente su aspetti procedurali - fondati sulla resistenza da parte dei membri permanenti del CdS a formalizzare le relazioni tra due organi secondo uno schema che, a detta di alcuni membri permaenenti, minaccerebbe la primautè del Consiglio – tali incontri si sono rivelati assai utili per garantire una reciprochi scambi di informazione e per avvicinare al foro newyorchese sensibilità e punti di vista di un continente, quello africano, che domina regolarmente l’agenda mensile del palazzo di vetro161.

Nondimeno, sin dalla fine del 2008, con cadenza quasi semestrale, desk officers del Segretariato ONU e della Commissione Africana si ritrovano nel quadro di “ UN-AU desk-to- desk meetings on management and prevention of conflicts” alfine di esaminare congiuntamente

160 Cfr in particolare, Report of the Secretary-General: Support to African Union peacekeeping operations authorized by the United Nations, A/64/359-S/2009/470, 18 September 2009.

161 Cfr. su questo, Valerio Bosco, La missione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU in Africa, in Osservatorio Strategico, maggio 2009.

73 le situazioni di crisi nel continente e formulare raccomandazioni ai vertici dell’Organizzazioni su possibili iniziative comuni nella promozione della pace e della sicurezza nel continente.

Gli ultimi sviluppi della cooperazione tra le due organizzazioni risalgono infine all’estate del 2010. Proprio ai margini della quarta riunione consultiva tra i due organi, svoltasi a New York lo scorso 9 luglio, è stata organizzata la sessione inaugurale della joint task force; negli stessi giorni, l’Assemblea Generale ha approvato la creazione dell’ufficio integrato ONU presso l’UA, ad Addis Abeba162.

Contemporaneamente al rafforzamento delle relazioni tra ONU e Unione Africana, il protagonismo dei RECs nella gestione di crisi nelle rispettive aeree sub-regionali – si pensi al ruolo dell’ECOWAS in Mauritania, Guinea, Niger o a quello della SADC in relazione al golpe del 2009 in Madascar - ha chiaramente creato le condizioni per un approfondimento della cooperazione tra questi e il palazzo di vetro. Seppure in misura minore, le comunità economiche regionali hanno cominciato a beneficiare gradualmente dell’offerta di assistenza e cooperazione da parte dell’ONU. Alla crescita dell’interazione quotidiana che esiste ormai da 4 anni tra il già accennato Ufficio ONU per l’Africa Occidentale – UNOWA – e l’ECOWAS, si è aggiunta recentemente la sigla di un memorandum of understanding tra il palazzo di vetro e la SADC e la creazione di una piccola unità di collegamento onusiana a Gabrone, Botswana, desinata a rafforzare la partnership tra le Nazioni Unite e l’IGAD163.

È dunque nel quadro della suddetta partnership triangolare tra ONU, Unione Africana e Comunità economiche regionali che, nel corso dell’ultimo capitolo, saranno esaminati alcuni case-study relativi alla prevenzione e gestione delle crisi in Africa. Particolare attenzione sarà dedicata all’esame dell’azione congiunta svolta in risposta alla nuova ondata di colpo di stato che ha scosso il continente tra il 2008 e 2010.

162 United Nations, Security Council, Letter dated 20 July 2010 from the Representatives of Gabon, Nigeria, and Uganda addressed to the United Nations addressed to the President of the Security Council, S/2010/392.

163 United Nations, Department of Political Affairs, Multi-Year Appeal: Enhancing the capacity of Regional and Sub- regional Organizations, A Liaison Team in SADC, pag.14, New York, 23 November 2010.

74 2.2. Diplomazia preventiva e conflict prevention nell’ASEAN

Esperienza di diplomazia preventiva particolarmente interessante è quella sviluppati negli ultimi decenni dall’Associazione dei Paesi del sud-est asiatico, regione per certi versi ancora più sensibile di quella africana al tema della non interferenza negli affari interni degli Stati.

L’Associazione delle Nazioni del sud-est asiatico fu creata nell’agosto 1967 a Bangkok, Tailandia, con la firma dell’ASEAN Declaration (o dichiarazione di Bangkok) da parte dei Paesi fondatori Indonesia, Malesia, Filippine, Singapore. Nel corso degli anni successivi, il Brunei (1984), il Vietnam (1995), il Laos e Mynamar /ex- Birmania (1997) e la Cambogia (1999) avrebbero condotto a dieci nazioni la membership dell’organizzazione.164

Come indicato nella dichirazione di Bangkok, gli Stati membri assegnarono all’organizzazione il compito essenziale di promuovere lo sviluppo economico sociale e culturale della regione “in the spirit of equality and partnership” , nonché la pace e la stabilità regionale attraverso il rispetto della giustizia e dello stato di diritto nei rapporti inter-statali e in rispetto ai principi delle Nazioni Unite.

L’attenzione alla difesa della pace e della stabilità regionale era indubbiamente legata al timore degli Stati membri rispetto a minacce di natura principalmente interna. Povertà di massa e sottosviluppo coincidevano spesso con una minaccia permanente di radicalismo politico che offriva terreno fertile all’insorgenza comunista. I Paesi dell’ASEAN pensavano evidentemente alla necessità di evitare fenomeni di cambiamento radicale della situazione politica interna sul modelli di quanto accaduto in Indocina165. Questione altrettanto allarmanti per i Paesi della regione erano le tendenze separatiste presenti in diverse nazioni, suscettibili di creare tensione nella relazioni bilaterali in virtù della natura spesso transfrontaliera di tali movimenti.

164 Thanat Khoman, ASEAN Conception and Evolution, in The ASEAN Reader, Institute of Southeast Asian Studies, Singapore, 1992.

165Ayako Acharya, A New Regional Order in South-East Asia: ASEAN in the Post-Cold War Era, Adelphi Paper 279, International Insititute of Strategic Studies, London, 1993.

75 Legata in gran parte a tali fattori, la nascita dell’ASEAN può tuttavia anche essere vista come il risulato di oltre tre anni di “konfrontasi” tra l’Indonesia di Sukarno e il nuovo regiome della Malesia (1963-1966). L’idea dei due Paesi fu infatti quella di legare la loro riconciliazione ad una più ampia struttura di cooperazione regionale, obiettivo che trovò il sostegno determinante della Tailandia, dando così luce ad un’organizzazione che si poneva come foro d’avanguardia nella ricostruzione e nella pacificazione post-conflittuale.

Siglato invece nel 1976, il trattato di amicizia e cooperazione nel sud est asiatico (Treaty of Amity and Cooperation, TAC) è ancora oggi il documento fondamentale che regola i rapporti tra gli Stati della regione. Il TAC si basa in basa in particolare sui seguenti principi:

i) rispetto reciproco dell’indipendenza, della sovranità, dell’eguaglianza, dell’integrità territoriale e dell’indentità di tutte le nazioni; ii) diritto di ogni Stato a condurre la sua vita nazionale liberamente e in piena autonomia dall’interferenza, la sovversione e la coercizione di matrice esterna; iii) non-inteferenza reciproca negli affari interni; iv) risoluzione delle controversie in maniera pacifica; v) rinuncio all’uso della forza; vi) cooperazione effettiva tra gli Stati membri166.

Il principio di non-interferenza, che ha trovato conferma solenne anche nella dichiarazione sulla zona di pace, libertà e neutralità, appare nondimeno l’elemento centrale del sistema di relazioni intra-statali nella regione167. Sulla base di tale principio, il profilo dell’ASEAN è dunque quello di una organizzazione affermatasi come foro di discussione e consultazione chiamato a deliberare, mediante consensus, su materie di comune interesse alfine di promuovere le relazioni di buon vicinato, la cooperazione e scongiurare altresì lo sviluppo di tensioni bilaterali.

166 Cfr. Treaty of Amity and Cooperation in Southeast Asia (TAC), Denpasar, Bali, Indonesia, 27 febbraio 1976, consultabile sul sito: http://www.aseansec.org/1217.htm , ultimo accesso 28 novembre 2010.

167 Zone of Peace, Freedom, and the Neutrality Declaration, Kuala Lumpur, Malaysia, 27 November 1971, consultabile su: http://www.aseansec.org/1215.htm , ultimo accesso 28 novembre 2010.

76 Strette relazioni personali tra i principali capi di stato e governo, consultazioni e riunioni ad hoc, basso grado di istituzionalizzazione, altro grado di discrezione e informalità, stile diplomatico “non aggressivo” (non-confrontational), non interferenza hanno in altre parole creato un modello di cooperazione conosciuto come “ASEAN Way”. L’ASEN Way si basa sostanzialmente sulla promozione della “regional resilience” mediante lo sviluppo e la crescita economica intesa come premessa suscettibile di creare naturalmente le condizioni per la stabilità politica regionale. Il processo di consultazione e costruzione del consenso in relazione alla soluzione di crisi emergenti è definito “musyawarah”, procedura informale mirante appunto a prevenire la radicalizzazione delle tensioni.

Pratica tradizionale usata nei villaggi di Indonesia, Malesia, Filippine, la musyawarah è lo strumento per ottenere il mufakat, ovvero una decisione consensuale. Musyawarah and mufakat sono diventati i perni del sistema decisionale in materia di gestione delle crisi all’interno dell’ASEAN e per la prevenzione o il contenimento delle tensioni tra gli Stati della regione.

Questo è stato il sistema applicato, nei decenni scorsi, per risolvere le tensioni tra Malesia e Singapore, successive alla separazione decretata da quest’ultima, quelle tra Tailandia e Malesia e, infine, la crisi scoppiata tra Indonesia e Singapore in seguito all’incidente dei marines indonesiani168.

Nondimeno, aldilà dell’assetto informale legato al musyawarah ed al mufakat, l’ASEAN è dotato, sin dal 1976, di un Segretariato, stabilito a Jakarta, in Indonesia, il cui compito è quello di assistere il coordinamento tra i diversi organi dell’ASEAN e di assicurare l’implementazione dei progetti e delle attività dell’organizzazione. La carica di segretario generale dell’Organizzazione - nominato dagli Stati membri ogni cinque anni – è oggi ricoperta dal tailandese Surin Pitsuwan.

Nonostante il ruolo importante giocato dall’organizzazione in occasione della lunga guerra civile in Cambogia tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ’90, l’ASEAN è sembrata tradizionalmente concentrata sulla integrazione dell’economia regionale, un obiettivo rilanciato con forza nel 1992 mediante la creazione di un area di libero scambio e l’avvio di progressive riduzione delle tarriffe doganali imposte sui beni agricoli.

168 Cfr. Amitav Acharya, Ideas, Identity and Institution Building: From the ASEAN Way to the Asia-Pacific Way, Pacific Review, n.10, pag. 329-335; Robini Ramcharan, Southeast Asian Security: Pitfalls of the Regional Approach, PSIS Occasional Paper n. 1, Geneva, Programme for Strategic and International Studies, 1998.

77 La firma del trattato sulla Southeast Asian Nuclear-Weapon-Free Zone Treaty nel 1995 confermò tuttavia l’intenzione dell’organizzazione di promuovere pace, sicurezza e confidenza politica tra i Paesi della regione mediante la creazione di una area libera dall’incubo nucleare.

Proprio nei primi anni ‘90, i leaders dell’ASEAN, cominciarono a riflettere sull’opportunità di estendere il proprio modello di consultazioni periodiche sulla sicurezza nella regione ad un’area allargata, quella dell’Asia-Pacifico, capace di includere tutti i principali partners della regione alfine di affrontare questioni come la prevenzione delle crisi, la sicurezza, la crescita economica mediante il commercio.169

In particolare, ispirandosi alla prassi delle periodiche consultazioni diplomatiche organizzate dall’ASEAN come strumento per promuovere il dialogo e la cooperazione in materia di sicurezza, l’idea era quella di creare un forum regionale esteso all’area del Pacifico e a tutti gli Stati ed i partners capaci di contribuire alla stabilità della regione. L’ASEAN Regional Forum (ARF) nacque così nel 1994 come organizzazione impegnata a promuovere il dialogo e la consultazione politica su questioni di interesse comune, lo sviluppo di confidence building measures e la diplomazia preventiva nella regione Asia-Pacifico. Automaticamente estesa a tutti i Paesi dell’ASEAN, la membership dell’ARF incluse progressivamente Australia, Canada, China, Unione Europea, India, Giappone, Repubblica democratica di Corea (Corea del Nord), Repubblica di Corea (Corea del Sud), Mongolia, Nuova Zelanda, Pakistan, Papua Nuova Guinea, Russia, Sri Lanka, Timor-Est, Stati Uniti: nel 1996, inoltre, l’ARF stabilì che la partecipazione al FORUM potesse essere estesa a tutti quei Paesi capace di offrire un contributo alla pace e alla sicurezza della regione Asia-Pacifico170.

Sin dalla sua creazione, l’ARF ha riprodotto lo stile consultivo e consensuale dell’ASEAN, vincolando al conseguimento del consenso l’adozione di ogni decisione. Al secondo meeting dell’ARF, svoltosi in Brunei nell’agosto 1995, i ministri degli esteri assegnarono all’ASEAN il ruolo di avanguardia nel processo di sviluppo del forum - fu infatti stabilito che la presidenza dell’ARF coincidesse con quella dell’ASEAN – scandnedolo in tre fasi:

169 S. Rajaratnam, “ASEAN: The Way Ahead"” in The ASEAN Reader, Institute of Southeast Asian Studies, Singapore, 2000.

170Sui criteri di partecipazione all’ARF adottati dall’organizzazione nel 1996, confronta il sito: http://www.aseanregionalforum.org/AboutUs/tabid/57/Default.aspx, ultimo accesso 27 novembre 2010.

78 i) promozione di misure per la creazione di confidenza nella regione (“first track”), ii) creazione di strumenti di diplomazia preventiva (“second track”) iii) elaborazione di meccansimi per la gestione e risoluzione delle crisi.

Sin dall’agosto 2005, l’ARF ha indubbiamente conseguito un successo significativo nella definizione e implementazione di diverse confidence building measures. In particolare, il forum ha promosso la trasparenza di informazioni in materia di politiche di sicurezza, la partecipazione al registro ONU sulle armi convenzionali, l’organizzazione di meeting congiunti per alti funzionari di sicurezza e delle forze armate dei diversi Paesi membri, scambio di osservatori in occasioni di esercitazioni militari. Nelle riunione svoltasi in Brunei, il coordinamento delle politiche di sicurezza, la creazione di un comune database per questioni legate alla sicurezza marittima, l’intensificazione dello scambio di informazione e dei training congiunti, la creazione di un meccanismo di notifica di dispiegamenti militari che abbiano un impatto sulla situazione regionale, furono inoltre identificate come confidence building measures da adottare nel medio- lungo periodo171.

Nonostante tali successi, l’ARF ha indubbiamente registrato difficoltà pressoché insormontabili nella definizione del concetto di diplomazia preventiva, una circostanza in gran parte legata al dibattito polarizzato tra Giappone e Cina. Mentre Tokyo ha generalmente sostenuto un approccio avanzato in materia, sostenendo il ruolo della diplomazia preventiva come strumento per la gestione di crisi intrastatali, Pechino, appoggiata da alcuni membri dell’ASEAN come Vietnam e Myanmar, ha difeso con tenacia il proprio attaccamento ai principi della non-interferenza mediante il sostegno ad un’interpretazione della Preventive Diplomacy (PD) che escludesse l’ipotesi di una intromissione negli affari interni degli Stati172.

171 Cfr. Asean Regional Forum, Internal document, Concept Paper, Brunei, 18 March, 1995.

172 Council for Security Cooperation in the Asia Pacific, CSCAP, Review of the Preventive iplomacy Activities in the Asia-Pacific Region, in The Next Stage: Preventive Diplomacy and Security Cooperation in the Asia Pacific Region, edited by Desmdond Ball-Amitav Acharya, Canberra, Australian National University, 1999, pag. 293-294.

79 Alla luce di tali difficoltà, in occasione della sua ottava sessione l’ARF sembrò aver raggiunto un generale consenso sulla diplomazia preventiva come “consensual diplomatic and political action taken by sovereign states with the consent of all directly involved parties”173.

In particolare, un minimo comune denominatore è stato raggiunto sulla diplomazia preventiva, intesa come:

1) mezzo per prevenire la degenerazione di dispute e conflitti tra gli Stati suscettibile di mettere in pericolo la pace e la sicurezza regionale;

2) mezzo per prevenire degenerazioni di tali crisi in conflitti armati;

3) mezzo per contenere e minimizzare effetto di tali crisi sulla situazione regionale.

Otto principi generali furono altresì identificati senza tuttavia rendere possibile la definizione di un’intesa formale che ne codificasse il valori di elementi chiave della diplomazia preventiva. I principi indicati furono i seguenti:

1) La diplomazia preventiva consiste in mezzi diplomatici e pacifici come il negoziato, l’inchiesta, la mediazione, la conciliazione.

2) La diplomazia preventiva non è misura coercitiva: azione militare o uso della forza non sono catalogabili come diplomazia preventiva.

3) La PD dovrebbe essere tempestiva: è azione preventiva, non “curativa” . I metodi della PD sono più efficaci se impiegati in uno stadio iniziale di una crisi o di una disputa

4) La PD richiede fiducia e confidenza e può essere esercitata con successo solo quando vi sono queste premesse e quando è condotta su basi di neutralità, giustizia, imparzialità.

173 Takeshi Yuzawa, The Evolution of Preventive Diplomacy in the ASEAN Regional Forum: Problems and Prospect, in Asian Survey, vol. 46, n. 5, September-October 2006, pag. 785-804.

80 5) LA PD si basa anche su consenso e consultazione e può essere avviata solo mediante consenso e dopo attenta considerazione e consultazioni tra i membri dell’ARF, “with due consideration for the need for timeliness”.

6) La PD è volontaria e i “suoi servizi” sono offerti su richiesta della parti direttamente coinvolte in una disputa o in seguito al loro chiaro consenso.

7) La PD si applica between and among States

8) La PD è condotta sulla base dei principi riconosciuti del diritto internazionale generale e delle relazioni inte-statali, contenuti, inter alia, nella carta ONU, nei cinque principi della coesistenza pacifica e nel TAC. Tali principi includono il rispetto per l’eguaglianza sovrana, l’integrità territoriale e la non-interferenza negli affari degli Stati174.

Parallelemente al dibattito promosso all’interno dell’ARF sul concetto di diplomazia preventiva e sulla prevenzione dei conflitti, gli Stati membri dell’ASEAN hanno avviato, sin dai primi anni anni ‘ 90, un dibattito assai approfondito sulle possibilità di rafforzamento delle capacità dell’organizzazione in materia175.

Nella prima metà deglia anni ’90 una serie di conferenze congiunte ONU-ASEAN, svoltesi nell’ambito della cosidetta “second track” – diplomazia preventiva – produssero infatti un primo pacchetto di raccomandazioni assai interessanti.

Oltre a identificare le nuove minacce alla pace e alla stabilità regionale nel periodo successivo alla guerra fredda – ritorno di forme radicali di nazionalismo, i conflitti etnici, le possibili tensioni nel mare della Cina meridionale, i flussi incontrollati di rifugiati, l’emergere di rivendicazioni territoriali inconciliabili, la crescita del traffico di droga e di armi – gli “ASEAN-UN Workshops for Peace and Preventive Diplomacy” suggerirono la creazione di un centro studi sulla sicurezza regionale, la pubblicazione di documenti riservati relativi alle disponibilità militari

174Cfr: ASEAN Regional Forum, Concept and Definition of Preventive Diplomacy, 25th July 2001, Singapore.

175 Ayako Acharya, The Association of Southeast Asian Nations: “Security Community or Defence Community?” , in Pacific Affairs, Summer 1991, pag. 159-177.

81 e, in particolare, l’ipotesi di dar vita ad un Segretariato per la gestione dei conflitti chiamato a coordinare il dispiegamento di fact-finding mission e le missioni di buoni uffici e di medizione176.

In occasione del 20esimo anniversario dell’ASEAN i leaders dell’organizzazione hanno trovato l’accordo sulla ASEAN Vision 2010, un progetto pensato per rilanciare il concerto delle nazioni del sud-est asiatico come “outward looking”, capace di vivere in pace, sicurezza e prosperità. Al nono Summit dell’Organizzazione, svoltosi nel 2003, fu infatti trovata l’intesa per la creazione di una Communità dell’ASEAN, fondata su tre pilastri, la comunità politica e di sicurezza, la comunità economica, la communità socio-culturale. Ciascuno di questi pilastri ha il suo blueprint e, assieme all “Initiative for ASEAN Integration (IAI) Strategic Framework” ed allo IAI Work Plan Phase II (2009-2015), formano la Roadmap la Comunità ASEAN 2009-2015.

Nel 2007 – in occasione del 12esimo Summit dell’Organizzazione - gli Stati membri si impegnarono ad accelerare il ritmo della creazione della Comunità firmando la “Cebu Declaration on the Acceleration of the Establishment of an ASEAN Community by 2015”.

Il 20 novembre, in occasione del 13 summit, la firma della Carta dell’Asean rappresentò un passaggio istituzionale fondamentale chiamato ad accrescere la cooperazione e l’integrazione economica regionale: gli stati membri assegnarono infatti piena personalità giuridica all’organizzazione conferendole di natura di accordo giuridico vincolante, accrescendone indubbiamente il profilo politico, nonchè la rilevanza del suo mandato in matera di promozione della pace e della sicurezza internazionale.177

Entrata in vigore il 15 dicembre 2008, la Carta dell’ASEAN concise con l’adozione di un blue print per la Comunità politica e sicurezza pensata come obiettivo da realizzare entro il 2015. Il blu print mirava alla promozione di una “people-oriented ASEAN”, in cui tutti i settori della scoeità, senza distinzione di genere, razza, religione, lingua, posizione sociale o origine culturale, erano incoraggiati a partecipare.

176 W. Pfennig, Workshops on ASEAN-UN Cooperation for Peace and Preventive Diplomacy, in International Asienforum, 1993, pag. 3-4.

177 The ASEAN Charter, Jakarta, Indonesia, December 2007.

82 La APSC si fonda anzitutto su approccio alla sicurezza regionale che riconosce la stretta relazione tra gli aspetti economici, sociali, culturali e politici dello sviluppo178.

La rinuncia all’aggressione all’uso o alla minaccia dell’uso della forza, la soluzione pacifica delle controversie costituiscono i principi fondamentali della Comunità, la quale “assorbiva” la Declaration on Zone of Peace, Freedom and Neutrality (ZOPFAN), il TAC, nonché il trattato sulla Nuclear Weapon-Free Zone del Sudest Asiatico (SEANWFZ), strumenti identificati come perno delle misure di confidenza regionali, della diplomazia preventiva e dell’approccio pacifico alla soluzione delle crisi.

Sulla base di tali premese politiche e giuridiche, i membri dell’ASEAN hanno assegnato alla Comunità politica e di sicurezza tre caratteristiche fondamentali:

1) è una Comunità di diritto basata norme e valori condivisi;

2) è una regione coesa, pacifica, stabile fondata su responsabilità condivise per la promozione della sicurezza e della pace;

3) è una regione dinamica, prioettata verso l’esterno e aperta alla globalizzazione.

Con riferimento alla Comunità di valori condivisi, la carta dell’ASEAN assegna all’organizzazione il compito di difendere e promuovere la democrazia, la buona governance e lo stato diritto, il rispetto dei diritti umani e della libertà fondamentali179. Assunti come strumenti per la prevenzione strutturale dei conflitti sul piano interno, tali principi sono sono accompagnati da una particolare attenzione alle specificità culturali degli Stati membri: in particolare, la difesa e la promozione dei sistemi politici e dell’esperienza storica delle diverse realtà nazionali è

178ASEAN, Political-Security Blue Print, Jakarta, June 2009, liberamente consultabile sul sito http://www.aseansec.org/5187-18.pdf;

179 Leszek Buszynski, ASEAN's New Challenges Pacific Affairs , in Pacific Affairs, Vol. 70, No. 4 (Winter, 1997-1998), pag. 555-577; S. P. Seth, ASEAN and Regional Security, in Economic and Political Weekly, Vol. 34, No. 33 (Aug. 14- 20, 1999).

83 strettamente collegata all’impegno nell’organizzazione nella promozione di una cultura della pace, che include la tolleranza, il rispetto delle diversità, il rispetto delle diverse fedi religiose.

L’inisistenza sulla dimensione educativa e culturale della promozione della pace è del resto confermata dal mandato assegnato all’ASEAN di sostenere l’isitituzione di network scolastici e universitari in materia, nonché di promuovere il dialogo tra le fedi, l’armonia tra i popoli della regione, l’interazione tra i vari gruppi religiosi ed etnici180.

In relazione al progetto di costruzione di una comunità coesa e pacifica, l’ASEAN ha sposato una visione della sicurezza regionale che, come indicato dalla Carta, include aspetti “non- tradizionali” e comunque necessari alla promozione di una “regional resilience”, intesa come moderazione e capacità di gestire con sagezza situazioni crisi. In questo senso l’ASEAN oltre a dedicare particolare attenzione alla dimensione economica, socio-culturale e ambientale dello sviluppo, assegna un valore prioritario alla diplomazia preventiva, la prevenzione dei conflitti, la ricostruzione post-conflittuale e alle già menzionate confidence building measures.

In particolare, il blue print per la Comunità politica e di sicurezza riconosce la capacità degli strumenti di diplomazia preventiva di smorzare le tensioni e le dispute che possono svilupparsi all’interno degli Stati e nelle relazioni tra gli stessi e contenere altresì pericolosi rischi di escalation o degenerazione.

Complemento importante a tali strumenti è indubbiamente la partecipazione dell’ASEAN, tramite i capi di stati maggiore dei Paesi membri alle consultazioni politiche regionali all’interno dell’ARG, ma anche il crecente coordinamento tra i diversi ministeri della difesa all’interno dei meeting annuali dei ministri e dei senior officials. Sempre in materia di difesa, l’istituzionalizzazione degli scambi di osservatori in occasione delle esercitazioni militari, la condivisione di informazioni sugli aggiornamenti inviati al registro ONU delle armi convenzionali, la definizione di progetti di ricerca congiunti sulle politiche di sicurezza nella regione riprendono le pratiche definite anche all’interno dell’ARF, di cui l’ASEAN costituisce indubbiamente perno fondamentale181.

180Ramses Amer, Conflict Management and Constructive Engagement in ASEAN's Expansion, in Third World Quarterly, Vol. 20, No. 5, New Regionalisms in the New Millenium (Oct., 1999), pag. 1031-1048.

181 Hiro Katsumata,Why Is Asean Diplomacy Changing? From "Non-Interference" to "Open and Frank Discussions", Asian Survey, Vol. 44, No. 2 (Mar. - Apr., 2004), pag. 237-254.

84 In materia di prevenzione dei conflitti e risoluzione pacifica delle controversie, il blu print afferma l’interesse dell’organizzazione alla definizione di procedure razionali, efficaci, flessibili, capaci tuttavia di scongiurare atteggiamenti negativi che potrebbero rendere più problematica la cooperazione tra gli Stati. In altre parole sebbene si suggerisca l’ipotesi di procedere alla creazione di meccanismi per la soluzione delle controversie, si ritiene che tali strumenti debbano rispettare i crismi della discrezione e non urtare le sensibilità dei membri e il rispetto delle sovranità nazionali. La promozione di studi, analisi, ricerche come mezzo per valutare le modalità di sviluppo di strumenti istituzionali per la soluzione di controversie, la definizione di guidelines per la promozione dei buoni uffici, della conciliazione e della mediazione e, infine, la compilazione di un manuale sull’esperienza dell’ASEAN in materia di pace, gestione e risoluzione dei conflitti, testimonia lo status di realtà in-fieri del sistema politico e di sicurezza su cui dovrebbe fondarsi l’ASEAN182.

Nondimeno, di grande interesse è l’implicita adozione da parte dell’organizzazione di una cultura della prevenzione strutturale dei conflitti che mescola gli assunti e le riflessioni formulate dal Segretariato ONU nel corso dell’ultimo decennio, con l’attaccemento ad una serie di valori tipicamente regionali o locali.

Assieme alle misure sopraindicate, la creazione di una serie di peacekeeping centres incaricati di condurre iniziative congiunte in materia di planning and training, il consolidamento delle capacità degli Stati nell’assistenza umanitaria, il rafforzamento della cooperazione regionale nel contrasto al crimine transnazionale, al terrorismo e al traffico di droga – legati rispettivamente alla piena implementazione della convenzione anti-terrorismo del’organizzazione e all’ambizioso progetto dell’ASEAN come regione “drug-free” entro il 2015 - la promozione di strategie di ricostruzioni post-conflittuali basate sulla partecipazione della società civile e, infine, la prevenzione e la lotta al commercio illegale di armi confermano l’adozione di quella visione articolata della prevenzione dei conflitti - fondata sulla triplice dimensione operativa, strutturale e sistemica – esposta dal Segretario Generale dell’ONU nei suoi rapporti del 2001 e del 2006183.

182 ASEAN, Political-Security Blue Print, Jakarta, June 2009.

183 Takeshi Yuzawa, The Evolution of Preventive Diplomacy in the ASEAN Regional Forum: Problems and Prospects, in Asian Survey, Vol. 46, No. 5 (Sep. - Oct., 2006), pag. 785-804.

85 Tale approccio che, com’è stato ricostruito, coesiste con pratiche regionali tradizionali come la consultazione e la ricerca del consensus, integra anche l’attaccamento ai principi fondamentali della sovranità territoriale, spesso interpretata come impermeabile rispetto all’idea di una diplomazia preventiva capace di sconfinare in una qualche forma di interferenza negli affari interni degli Stati.

Proprio in relazione a cìo, nonostante la natura particolarmente ambiziosa del progetto della Comunità politica e di sicurezza – la quale punta altresì al rafforzamento della figura del Segretario generale dell’organizzazione e delle sue funzioni politico-diplomatiche - il focus assegnato alla prevenzione dei conflitti e il riferimento alla possibile creazione di articolati meccanismi e istituzioni in materia, il blu print ribadisce tra gli obettivi fondamentali dell’ASEAN quello di rafforzare la difesa e il rispetto dell’integrità territoriale, della sovranità e dell’unità degli stati. L’ipotesi di regolarizzare meccanismi di consultazioni tra gli Stati è del resto ribadita anche in relazione alle minacce che possono coinvolgere l’integrità territoriale degli Stati, nonché quelle legate ai movimenti separatisti184.

È dunque alla luce delle caretteristiche politiche e culturali del sistema di sicurezza regionale delineato dal blue print e della carta dell’ASEAN che occorrerà fare riferimento per analizzare e comprendere i tempi e i modi dell’azione diplomatica condotta dall’organizzazione e dai suoi Stati membri nella promozione del dialogo e della riconcilazione nella ex-Birmania.

Nondimeno, la crescente interazione con le Nazioni Unite è fattore di cui si dovrà tenere conto nell’esame del case-study relativo a Myanmar.

Oltre alle conferenze organizate congiuntamente dal Dipartimento di Affari Politici delle Nazioni Unite e dell’ASEAN sui temi della prevenzione/risoluzione dei conflitti e della ricostruzione post-conflittuale185, tra il 2004 e il 2006, la cooperazione tra ONU e

184 Vejai Balasubramaniam, ASEAN Co-operation: Reconsidering Non-Involvement , in Economic and Political Weekly, Vol. 34, No. 3/4, Money, Banking and Finance (Jan. 16-29, 1999), pag. 89-91.

185 I resoconti di tali eventi - First United Nations-ASEAN Conference on Conflict Prevention, Conflict Resolution and Peacebuilding in Southeast Asia, Bangkok, January 2001; Second United Nations-ASEAN Conference on Conflict Prevention, Conflict Resolution and Peacebuilding in Southeast Asia, Manila, February 2002; Third United Nations- ASEAN Conference on Conflict Prevention, Conflict Resolution and Peacebuilding in Southeast Asia, Singapore on 17-19 February 2003; Fourth United Nations-ASEAN Conference on Conflict Prevention, Conflict Resolution and Peacebuilding in Southeast Asia, Jakarta, 23-25 February 2004 – sono liberamente consultabili sul sito http://www.aseansec.org/15451.htm, ultimo accesso 28 novembre 2010.

86 l’organizzazione del sud-est asiatico ha accresciuto la sua natura strategica mediante la convocazione di un summit annuale chiamato ad affrontare i temi della loro cooperazione sui diversi dossiers della cooperazione economica e sociale, del contrasto ai cambiamenti climatici, della pace e della sicurezza. Nel 2006, dopo aver acquisito lo status di osservatore ai lavori dell’Assemblea generale dell’ONU, l’ASEAN ha conferito alle Nazioni Unite lo status di partner ufficiale dell’organizzaizone186.

Appena un anno dopo, la sigla del memorandum of understanding sulla cooperazione politica, economica e socio-culturale tra ONU e ASEAN ha schiuso le prospettive per un rilancio della collaborazione in materia di prevenzione e gestione dei conflitti187.

È in tale quadro che le due organizzazioni stanno attualmente lavorando alla definzione di un programma di cooperazione per il rafforzamento delle capacità dell’ASEAN nella mediazione e nella prevenzione delle crisi.

186 United Nations, General Assembly, Cooperation between the United Nations and the Association of the Southeast Asian Nations, A/RES/61/46.

187 United Nations, Report of the Secretary General, Relations between the United Nations and Regional and other organizations, A/63/228; S/2008/531, 8 August, 2008.

87 2.3 L’OAS: tra prevenzione dei conflitti e difesa della democrazia

Con l’eccezione delle Nazioni Unite, l’organizzazione degli Stati americani è la più antica rispetto a quelle esaminate nella presenta ricerca e la sua esperienza ed evoluzione in materia di gestione delle crisi delinea un caso assai interessante di promozione di un concetto muldimensionale di sicurezza regionale che, nel tempo, ha assegnato una dimensione centrale al tema della conflict prevention.

Sorta nel 1948 con la firma della Carta di Bogotà, l’OAS nacque indubbiamente come meccanismo pensato per rafforzare la solidarietà inter-americana e prevenire la diffusione del comunismo. In particolare, sia il clima politico e ideologico della Guerra fredda che la volontà degli Stati Uniti di isolare il continente Americano dall’espansione comunista – applicazione aggiornata della dottrina Monroe e del corollario Roosvelt – fecero da sfondo alla creazione del sodalizio inter-americano188.

Muovendo dalla premessa che la democrazia è condizione essenziale per la pace, la sicurezza e lo sviluppo del continente, l’art. 1 della Carta di Bogotà assegnava all’OAS gli obiettivi di promuovere la pace e la giustizia, la solidarietà, rafforzare la solidarietà e la cooperazione tra gli Stati membri e difendere altresì la lora sovranità, integrità territorial e indipendenza189. Oltre a rafforzare la pace e la sicurezza continentale, l’articolo II impegnava gli Stati membri a promuovere e consolidare la democrazia rappresentativa, a prevenire possibili tensioni inter-statali rispettando il principio di soluzione pacifica delle controversie di natura politica, giuridica, economiche che poteressero emergere all’interno della membership dell’organizzazione.

Il capitolo VI della Carta di Bogotà indicava inoltre il negoziato diretto, i buoni uffici, la mediazione, l’investigazione e la conciliazione, l’arbitrato, il procedimento giudiziario come possibili strumenti di soluzione pacifica delle controversie (art.25). Oltre a garantire agli Stati la

188 James Byron, Regional Security in Latina America and Africa: the OAS and the OAU in light of contemporary security issues, PSIS Occasional Papers, n. 1/84, Geneva 1984; Gaddis Smith, The Last Years of the Monroe Doctrine.1943-1993, Hill and Wong, New York, 1994.

189 Carta dell’Organizzazione degli Stati Americani, Bogotà, 1948, consultabile sul sito http://www.oas.org/dil/treaties_A-41_Charter_of_the_Organization_of_American_States.htm .

88 possibilità di risolvere le rispettive differenze mediante altre procedure comunque suscettibile di fornire una soluzione (art. 26), la Carta rimandava ad uno speciale trattato la creazione di “mezzi adeguati per la soluzione delle controversie”, nonchè di procedure pertinent rispetto a ciascuno dei mezzi di risoluzione pacifica alfine di impedire che dispute tra Stati americani rimangano prive di un “definitive settlement” per un periodo troppo prolungato (art. 27).

Sulla base del capitolo VI, “Collective Security”, la Carta delineò in particolare un sistema di sicurezza regionale collettiva fondato sul principio che l’aggressione contro un Paese americano rappresentasse un’agressione contro l’intera comunità regionale; al contempo, il documento siglato nella capitale colombiana, riconosceva solennemente il principio di non- interferenza come elemento alla base delle relazioni inter-statali.

Questi obiettivi furono ribaditi dal patto di Bogotà – The American Treaty on Pacific Settlement, firmato anch’esso nel 1948 - e nel trattato americano di assistenza reciproca, o trattato di Rio (1947). Il patto di Bogotà, in particolare, invitava gli Stati membri a risolvere le controversie ricorrendo in prima battuta alle istutuzioni regionali e a ricorrere solo in una fase successive all’intervento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Nondimeno, il patto, oltre a spiegare nel dettaglio le procedure legate ai diversi mezzi di soluzione pacifica delle controversie assegnava al Segretario generale dell’OAS specifici compiti in materia di buoni uffici e disponeva altresì la creazione del Consiglio permanente dei rappresentanti degli Stati membri, pensato come forum diplomatico per la composizione delle divergenze.

Questi meccanismi furono di fatto marginalizzati nel corso della Guerra fredda a causa dell’attenzione data dall’OAS alle minacce interne alla sicurezza nazionale associate ai rischi dell’espansione comunista. L’OAS fu infatti incapace di prevenire ed impedire l’attività sovversiva americana contro Cuba e l’azione spregiudicata condotta da l’Havana nel sostegno ai movimenti rivoluzionari in America Latina. Stesse difficoltà furono sperimentate dall’OAS in occasione della crisi delle Falkland/Malvinas nel 1982 e l’invasione di Granada e Panama da parte degli Stati Uniti nel 1982 e nel 1983190.

Nel corso degli anni ’90, la massiccia ondata di democratizzazione seguita alla fine della Guerra fredda, la nascita di governi rappresentativi in sostituzione di autocrazie militari e

190 Andrés Serbin, The Organization of American States and Conflict Prevention, November 2008, Center on International Cooperation.

89 mediante competizioni elettorali credibili crearono le condizioni politiche adeguate per una rivitalizzazione dell’OAS e delle sue strutture191.

Gli Stati membri cominciarono infatti a discutere la possibilità di rinnovare l’organizzazione attraverso la promozione di una nuova agenda per la sicurezza dell’emisfero (occidentale), New Emispheric Security Agenda, fondata sulla creazione di un comitato di sicurezza – un organismo civile per il coordinamento delle politiche di difesa pensato per archiviare la stagione delle dittature militari – l’implementazione di confidence building measures, l’avvio di un dibattito sulla nozione multidimensionale di sicurezza regionale – fondata cioè sul contrasto a minacce di varie natura, come il traffico di droga, il terrorismo etc.

L’OAS cominciò del resto a concentrare la sua attenzione in materia di conflict prevention dedicandosi, in particolare, al sostegno e alla difesa delle democrazia, intesa come “sistema istutizionale congeniale per la promozione del dialogo e della risoluzione dei conflitti”, nonchè allo sviluppo di nuovi meccanismi per mantenere la pace , la sicurezza e la stabilità nella regione192. Fu nell’ambito di tale approccio che l’OUA caratterizzò la sua azione in materia di conflict prevention sui seguenti punti:

1) i buoni uffici; 2) la definizione di una carta inter-americana per la democrazia; 3) lo sviluppo dell’Unità per la promozione della democrazia e di altri meccanismi per la prevenzione dei conflitti 4) il consolidamento del sistema inter-americano per i diritti umani; 5) la creazione dello “Hemisperic Security System” 193.

191 Osvaldo Kreimer, Conflict Prevention in the Americas, in David Camet – Albrecht Schanbel, Conflict Prevention: Path to Peace or Grand Illusion, New York, United Nations University Press, 2007.

192 Acevedo Domingo, The Organization of American States and the Protection of Democracy, in Beyound Soverignity : Collectively Defending Democracy in the Americas, Baltimore, 1996, John Hopkins University Press, pag. 132-149.

193 Milet Paz Véronica, El Rol de l’OEA. El difficil caminp de la prevención y resolución de conflictos a nivel regional, in Piensamento Proprio, Buenos Aires, n. 19, January-June 2004.

90 Com’è stato accennato in precendenza, sia la Carta dell’OAS che il Patto di Bogotà avevano fatto diretto riferimento ai buoni uffici come mezzo principale per la risoluzione delle controversie, aspetto indubbiamente innovative rispetto alla carta delle Nazioni Unite la quale non aveva incluso i good offices all’interno del capitolo VI.

Nel corso degli ultimi decenni di vita dell’organizzazione, i buoni uffici sono diventati il più tradizionale meccanismo per impedire o neutralizzare conflitti inter ed intra-statali, sia mediante l’azione diplomatica del Segretario Generale dell’OAS, che attraverso la costituzioni di commissioni ad hoc incaracate di esaminare le situazioni di crisi.

Nondimeno, la Carta dell’OAS assegnava al Consiglio permanente, composti dai rappresentanti dei Paesi membri al livello di ambasciatori, il compito di assistere le parti di una controversia nella ricerca di una soluzione; sulla base dell’articolo 110, lo stesso Segretario Generale aveva ricevuto inoltre il mandato di sottoporre all’attenzione del Consiglio situazioni suscettibili di minacciare la pace e la sicurezza nell’emisfero. L’implemetazione di tale disposizione, che ricalacava chiaramente lo schema delle relazioni tra il Segretario Generale e il Consiglio di Sicurezza – si pensi all’articolo 99 della Carta ONU – è stata progressivamente rafforzata grazie alla creazione del Segretariato per gli Affari politici dell’OAS, struttura cui è stato assegnato il mandato di rafforzare i processi politici negli Stati membri e in particolare di sostenere la democrazia come “soluzione migliore per la promozione della promozione di pace, sviluppo e sicurezza”. Grazie al Segretariato per gli Affari Politici– articolato al suo interno in una triplice struttura: Dipartimento per la cooperazione e osservazione elettorale; Dipartimento per la democrazia sostenibile e le missioni politiche speciali; Dipartimento per l’amministrazione pubblica – il Segretario dell’OAS ha potuto ricevere un’assistenza adeguata sia nella promozione delle sue iniziative di buoni uffici che nel monitoraggio e nell’identificazione di potenziali situazioni di crisi194.

L’enfasi che si è sin qui ricostruita sulla difesa della democrazia da parte dell’OAS, esaltata, per oltre un trentennio, come istituto congeniale alla promozione di pacifiche relazioni inter ed intra-statali, sembrò del resto superare, all’inizio degli anni ’90, quella dimensione retorica che aveva tradizionalmente contrassegnato i proclami formulati dall’Organizzazione in material. Nel 1991, infatti, l’Assemblea Generale dell’OAS approvò all’unanimità la storica

194 Sul mandato del Segretariato per gli Affari Politici dell’OAS, cfr. il sito: http://www.oas.org/en/spa/default.asp , ultimo accesso 29 novembre 2010.

91 risoluzione 1080, altrimenti nota come l’impegno di Santiago, “The Santiago Commitment”. Con quel documento, l’Assemblea Generale assegnava al Segretario Generale la facoltà di richiedere l’immediata convocazione di una riunione del Consiglio permanente a seguito di episodi “che potessero creare le condizioni per un’improvvisa o irregolare interruzione del processo democratico o del legittimo esercizio del potere politico da parte di governo regolarmente eletto”195. Tale sessione di emergenza sarevve stata chiamata ad esaminare la situazione ed eventualemente a deliberare sull’opportunità della convocazione, entro la scadenza di dieci giorni, di una riunione ad hoc dei ministri degli esteri o di una special session dell’Assemblea Generale dell’Organizzazione196.

Momento altrettanto importante nella promozione di una difesa collettiva della democrazia fu la firma, nel 1992, del protocollo di Washington, il quale garantiva all’OAS la possibilità di sospendere dall’organizzazione uno Stato membro nel quale si fosse registrato il rovesciamento di una governo democratico eletto.

Il commitment di Santiago e il protocollo di Washington furono infine seguiti dalla Inter- American Democratic Charter, approvata all’unanimità a Lima, in Perù, da una sessione special dell’Assemblea Generale l’11 settembre 2001.

La Carta inter-americana definiva una articolata lista di benchmarks in materia di difesa e rispetto della democrazia rappresentativa includendovi il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, l’accesso al potere politico in accordanza con le regole dello stato di diritto, lo svolgimento periodico di elezioni libere, trasparenti, basate sul voto segreto, il suffragio universal e intese come espressione della libera sovranità popolare, il carattere pluralistico del sistema politico, la separazione dei poteri.

Il capitolo 4 della Carta – “Strenghtening and Preserving Democratici Institututions – introduceva per inoltre un significativo consolidamento degli incventivi, delle sanzioni e dei meccanismi di early warning per la difesa della democrazia. Mentre gli Stati membri venivano infatti autorizzati a richiedere l’assistenza del segretario generale o del Consiglio permanente

195 Stephen Schnably, Constitutionalism and Democratic Governance in the Inter-American System, in Democratic Governance and International Law, ed. Gregory Fox and Brad Roth, New York, Cambridge University Press, pag. 155-198

196 Richard Bloomfield, Making the Western Emisphere Safe for Democracy? The OAS Defense-of-Democracy Regime, Washington Quarterly, 1994, vol. 17, n.2, pag. 157-169

92 (art. 17), lo stesso segretario generale vedeva assegnarsi il diritto di visitare i Paesi membri, previo consenso degli stessi, per monitorare lo sviluppo del processo politico democratico.

La Carta non mancava inoltre di far riferimento a disposizioni innovative come quelle inerenti al diritto alla democrazia, alla definizione di regole precise per l’osservazione elettorale e alla valorizzazione del contributo delle organizzazioni della società civile nella promozione del dialogo politico197.

Secondo diverse interpretazioni, la carta, riconoscendo l’importanza di sviluppare un sistema di montoraggio delle situazioni di crisi, assegnava una chiara priorità all’azione preventiva rispetto a quella “filosofia della reazione” – ovvero della risposta ex-post ad emergenze democratiche già in corso - che aveva tradizionalmente ispirato i primi meccanismi ideati dall’OAS nella promozione e difesa della democrazia198.

La risoluzione 1080 è stata invocata dall’Organizzazione in diverse situazioni. La prima occasione fu rappresentata dalla crisi di Haiti nel 1991, scoppiata in seguito alla rimozione del president Jean-Betrand Aristide: in quella circostanza, l’OAS allestì una risposta energica fondata sulla doppia convocazione del Consiglio Permanente e della riunione ad hoc dei ministri degli esteri ma, più in particolare, sull’isolamento diplomatico, dalla pressione politica e dale sanzioni commerciali decretate contro Port-au-Prince, la Carta inter-americana. La risoluzione fu invocata anche in occasioni di alter crisi democratiche come quelle scoppiate in Perù e Venezuela nel 1992, in Guatemala nel 1993, in Paraguay nel 1996 e 1999, in Ecuador e Perù nel 2000 e,infine, ancora in Venezuela nel 2002199.

In occasione della crisi venezuelana del 2002, quando la repressione sanguinosa delle proteste democratiche da parte del regime di Chavez fu seguita da un colpo di Stato guidato da

197 Andrew Cooper – Thomas Legler, The OAS Democratic Solidarity Paradigm: Questions of Collective and National Leadership, Latin American Politics and Society, vol. 43, Spring 2001, pag. 103-126.

198 Soto Yadira, The Role of the Organization of American States in Conflict Prevention, in Albrecht Schable- David Carment, Conflict Prevention from Rethoric to Reality, Lanham, Lexinton Books, 205.

199 Acevedo Domingo, The Haitian Crisis and the OAS Response: a Test of Effectiveness in Protecting Democracy, in Enforcing Restraint : Collective Intervention in Internal Conflicts, ed Lori Damrosch, New York, Council of Foreing Relations Press, pag. 119-156; Andres Oppenheimer, Slow Motion Coup May Hit Peru, Miami Herald, 5 March 2000; Arturo Valenzuela, 1997: Paraguay: The Coup that did not Happen, Journal of Democracy, n. 8, 1997, pag. 43-55; Andrew Cooper, The OAS in Peru: A Model for Future? Journal of Democracy, n. 12, 4 October 2001, pag. 123-136.

93 Pedro Carmona, il dibattito tra gli stati membri si concentrò invece sui margini di applicazioni della carta inter-americana. Nondimeno, proprio le diverse interpretazioni date all’azione anti- Chavez – rovesciamento di un governo eletto o leggittima rimozione di un esecutivo che aveva violato le libertà costituzionali – indicarono come l’assenza di unanimità di giudizio tra gli Stati membri potesse di fatto paralizzare l’azione dell’Organizzazione200.

Secondo alcuni osservatori, la regola informale del consenso che ha caratterizzato e continua sin qui a caratterizzare il processo decisionale del Consiglio permanente e l’Assemblea Generale dell’Organizzazione ha spesso contributo a rendere inefficace il pur articolato meccanismo di prevenzione e gestione delle crisi democratiche201.

Parte del processo sopradescritto fu inoltre la creazione, nel 1991, dell’Unità per la promozione della democrazia, il cui mandato era quello di rafforzare la capacità dei governi di gestire e risolvere dispute politiche – mediante l’assistenza allo sviluppi di meccanismi nazionali di conciliazione – l’interazione tra le strutture statali e le organizzazioni della società civile e, infine, il consolidamento delle relazioni intra-regionali attraverso la definizione di programmi sub-regionali tesi a promuovere il dialogo politico. La UPD, in qualità di focal point dell’organizzazione per la prevenzione delle crisi, organizzò diverse missioni politiche speciali, tra cui la Verification and Support Mission in Niaragua, il dispiegamento di un team per facilitare i colloqui di pace in Suriname (1982), la prima missione congiunta ONU-OAS ad Haiti incaricata di verificare il rispetto dei diritti umani. Tali iniziative furono accompagnate dal sostegno offerto al processo di pace in Guatemala – realizzato mediante un ambizioso programma di conflict prevention e management - e dalle iniziative di rafforzamento della governance nazionale in Bolivia202.

Nel corso del 2004 l’UPD fu assorbito dal processo di ristrutturazione interna dell’OAS e, in particolare, all’interno dell’ufficio per la prevenzione e risoluzione dei conflitti (OPRC), parte

200 Thomas Legler, The Inter-American Democratic Charter: From Peru to Venezuela and Beyond, Paper Presented at the 2003 Annual Conference of the International Studies Association, Portland, Oregon, 25 February – 1 March 2003.

201 Barry S. Levitt, A Desultory Defense of Democracy: OAS Resolution 1080 and the Inter-American Democratic Charter, Latin American Politics and Society, vol. 48, n.3, Autumn 2006, pag. 93-123.

202 Cfr. Yasmine Shamsie, Moving Beyond Mediation: the OAS Trasforming Conflict in Guatemala, in Global Governance, n.13, 2007, pag. 409-425

94 del Dipartimento degli affari politici e democratici. Tale ufficio fu in seguito integrato nel Dipartimento di crisi e prevenzione dei conflitti e, in seguito, nel Dipartimento della democrazia sostenibile e delle missioni politiche, componente del nuovo Segretariato per gli affari politici – la cui struttura è stata precendentemente accennata – responsabile presso il gabinetto del Segretario Generale.

Tra le missioni politiche speciali recentemente organizzate dal Segretariato si può ricordare la missione di supporto al processo di pace in Colombia (nota nel suo acronimo spagnolo MAPP) e la missione di buoni uffici tra Colombia e Ecuador (MIB/OEA)203.

Il sistema inter-americano dei diritti umani costituisce un altro elemento importante della struttura di conflict prevention dell’OAS. La Commissione inter-americana dei diritti umani, IACHR, impegnata nel monitaraggio del rispetto dei diritti umani nei diversi Paesi membri e la Inter-American Court on Human Rights, il cui mandato fonda sul controllo della corretta applicazione della American Convention on Human Rights, sono le due istituzioni cardine del sistema204. Numerose organizzazioni governative e non-governative partecipano attivamente al lavoro di queste istituzioni fornendo informazioni, presentando petizioni e creando un foro di dibatitto e di esame di situazioni critiche che spesso consente di accrescere la visibilità di abusi e violazioni dei diritti umani. In tal modo, la Commissione e la Corte si configurano chiaramente come istituzioni capaci di fornire precisi early warning che possono identificare tempestivamente, prevenire ed eventualemente risolvere potenziali situazioni di crisi o conflitto205.

La breve panoramica sul sistema di prevenzione delle crisi dell’OUA non sarebbe del resto completo senza un breve accenno al cosidetto “sistema di sicurezza dell’emisfero”, Hemispheric Security System. Tale sistema nacque nell’ottobre 2003 con l’approvazione, da parte della commissione sulla sicurezza emisferica, organo del Consiglio permanente, della

203 La MAPP fu creata dal Consiglio permanente con il mandato di proteggere e sostenere le comunità locali colpite dal processo di demobilizzazione dei gruppi e le organizzazioni paramilitari in Colombia; la MIB/OEA fu invece stabilita da una riunione dei ministri degli esteri alfine di promuovere la riconciliazione tra Colombia e Ecuador, verificare il rispetto degli accordi bilaterali e prevenire nuovi incidenti alla frontier tra i due Paesi. Sulla MAPP e sulla MIB/OEA cfr. i siti: http://www.mapp-oea.net/; http://www.oas.org/es/sap/secretaria/misiones_politicas.asp

204 Edward Clearly, Mobilizing for Human Rights in Latin America, Kumarian Press, Bloomfield, 2007.

205 Elizabet Jelin – Eric Hershberg, Constructing Democracy, Human Rights, Ciitzenship and Society in Latin America, Boulder, Westview Press, 1996.

95 “Dichiarazione sulla Sicurezza nelle Americhe”. Tale dichiarazione, oltre a riconoscere il concetto sopraccennato di sicurezza multidimensionale, identificò “la prevenzione dei conflitti e la risoluzione pacifica delle controversie come essenziali per la stabilità e la sicurezza dell’OAS”. Sulla scia della dichiarazione, le riunioni regolari dei ministri della difesa e dei capi di stato maggiore delle diverse forze armate hanno in seguito affermato l’impegno dell’organizzazione ad accrescere la cooperazione regionale con le operazioni di pace delle Nazioni Unite206.

Proprio sulla questione del rafforzamento delle relazioni con le Nazioni Unite, affrontata con decisione dall’ex Segretario Generale dell’OAS, il brasiliano Joao Baena Soares, si sono registrati negli scorsi anni importanti sviluppi, soprattutto in materia di consolidamento dell’attività di prevenzione dei conflitti condotta dall’organizzazione.

Nel corso del suo mandato, Soares fece diverse volte riferimento all’implicita divisione del lavoro che si andava definendo tra Nazioni Unite e OAS, con le “prime impegnate a evitare la guerra e promuovere il mantenimento della pace internazionale e l’organizzazione americana, pensata per rafforzare la solidarietà emisferica in un contesto politico e giuridico che ammette il ricorso alla forza solo in caso di aggressione esterna”207.

La già accennata Dichiarazione sulla Sicurezza delle Americhe aveva del resto confermato questa divisione del lavoro tra ONU e OAS, riaffermando la responsabilità del Consiglio di Sicurezza del palazzo di vetro nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e, al contempo, l’obbligo per l’organizzazione degli Stati americani di cooperare con le Nazioni Unite e concentrare tuttavia la propria azione sulla risoluzione pacifica delle controversie208.

In altre parole, mentre l’OAS assumeva di fatto l’impegno a promuovere la sicurezza nella regione mediante la diplomazia preventiva, la mediazione, i negoziati nonchè vari

206 Declaration on the Security in the Americas, Organization of American States, Special Conference on Security, Mexico, 2003.

207 Citato in, Heralzo Munoz, The Future of the Organization of American States, New York, Twentieth Century Press, 1999.

208 Siriam Chandra Lekha, Refining Conflict Prevention – Sharing Best Practices and Improving Partnering, in Sharing Best Practices on Conflict Prevention: the UN, Regional and Subregional Organizations, National and Local Actors, IPA, Policy Report, New York, International Peace Academy, 2005

96 meccanismi creati per la difesa del sistema democratico, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite veniva riconosciuto come l’unica istanza leggittimata all’uso della forza per il mantenimento della pace quando I mezzi della soft diplomacy fallivano nel conseguimento del medesimo obiettivo209.

Conferma evidente della profonda riluttanza dell’OAS a dissociarsi dall’uso della forza fu fornita dagli accadimenti haitiani del 2004, a pochi mesi di distanza dalla firma della Dichiarazione sulla sicurezza delle Americhe. Dopo il fallimento dell’iniziativa di mediazione dell’OAS e della cominità degli Stati caraibici, fu il Consiglio di Sicurezza che, nel febbraio 2004, grazie alle forti pressioni esercitate da Stati Uniti e Francia, autorizzo il dispiegamento della forza multinazionale per la stabilizzazione del Paese; la MIF, Multinational Interim Force, fu una sorta di bridging operation, operzione ponte, destinata a schiudere la possibilità per l’invio di una missione dei caschi blu, la Mission de Nations Unites pour la stabilization à Haiti, MINUSTAH, la quale avrebbe successivamente incluso una forte component latino- americana210.

Aldilà della questione di Haiti, la cooperazione tra ONU e OAS si è progressivamente consolidata, nel corso degli anni ’90, sulla base dell’importante ruolo giocato dale Nazioni Unite nella soluzione dei conflitti e delle crisi scoppiate in America centrale – Nicaragua, Guatemala, El Salvador – dove il palazzo di vetro, mediante il dispiegamento di missioni di sostegno ai processi di pace, missioni di buoni uffici, attività di osservazione e assistenza elettorale e, finachè, due operazioni di caschi blu ha offerto un contributo decisivo ai processi di stabilizzazione post-conflittuale211.

Tradizionalmente, partner principale dell’OAS è stata in particolare l’agenzia onusiana impegnata nella promozione dello sviluppo economico e sociale, lo United Nations Development Program, UNDP. OAS e UNDP hanno cooperato in maniera assai efficace ad

209 Unica eccezione a tale principio fu, nel 1965, l’invasione della Repubblica Domenicana da parte degli Stati Uniti, condotta sotto gli auspice dell’OAS, la quale si rivelò tuttavia profondamente divisa sulla questione. Su questo cfr. Oscar Menjivas, Consenso Hémisperhicos y seguridad dura en los tiempos del 11-5, in Jospeh Tulchin –Raul Benitez, El Rompecabezas: Conformando la séguridad hémisferica en el siglo XXI, Buenos Aires, Prometeo Libros, 2006.

210 Cfr su questo, Haiti: Historical Cronology, consultabile sul sito www.securitycouncilreport.org, ultimo accesso 1 dicembre 2010.

211 Cfr su questo: http://www.un.org/wcm/content/site/undpa/main/activities_by_region/americas , ultimo accesso 2 dicembre 2010.

97 Haiti all’inizio del decennio; l’agenzia ONU ha altresì dispiegato ingente risorse e capacità in programmi e iniziative volte a promuovere la modernizzazione dei partiti politici e il dialogo politico all’interno della regione. Allo stesso modo UNDP, assieme al Carter Center e all’OAS, cercò di giocare un ruolo di mediazione nella crisi venezuelana del 2002212.

Questa prevalenza del “development arm” dell’ONU nella cooperazione con l’OAS è stata più recentemente riequilibrata dall’intensificazione del dialogo tra l’organizzazione degli Stati americani e il focal point onusiano per la prevenzione dei conflitti, ovvero il Dipartimento Affari Politici. Dopo aver avviato, nel 2003, in partnership con UNDP, il programma di sostegno al Peace and Development Programme in the Northern Border Zone of Ecuador (PDP-NBZ) – pensato per appoggiare gli sforzi condotti dal governo ecuadoreno per il miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni al confine con la Colombia , nel 2006, d’intesa con l’OAS, il Dipartimento Affari Politici ha svolto un ruolo cruciale nella creazione della Commissione Internazionale contro l’impunità in Guatemala, un organo itnernazionale indipendente chiamato a investigare sugli atti condotti dai gruppi criminali sin dalla fine del conflitto interno.

È stato tuttavia nel 2008 che, dopo l’incontro tra il Segretario Generale dell’OAS, José Miguel Insulza e il capo del Dipartimento Affari Politici dell’ONU, l’Under-Secretary General Lynn Pascoe, che le due organizzazioni hanno avviato una nuova fase della loro cooperazione.

Consultazioni desk-to-desk sulla gestione e prevenzione delle crisi, training congiunti e, infine, il monitoraggio periodico della performance della cooperazione tra le due organizzazioni in materia di conflict prevention hanno conferito alla partnership una dimensione indubbiamente strategica213.

Appare importante osottolineare come l’insieme dei meccanismi di early warning e gestione delle crisi sin qui descritti– incluso il riferimento appena formulato alla cooperazione con le Nazioni Unite – non sembrano poggiare, paradossalmente, sull’attribuzione di un mandato chiaro e specifico all’OAS in materia di conflict prevention.

212 Steve Ellner – Fred Rosen, Crisis in Venezuela, The Remarkable Fall and Rise of Hugo Chávez: Coup, Chaos, or Misunderstanding, NACLA, Report on the Americas, n. 36, July-August , 2002.

213 Cfr. Politically Speaking, Bulletting of the UN Department of Political Affairs, Summer-Fall 2008; cfr. anche, 22 August 2008 - United Nations and OAS seeking stronger cooperation, consultabile sul sito: http://www.un.org/depts/dpa/whatsnew-Feb07-Dec-08.html , ultimo accesso, 29 novembre 2010.

98 Tale omissione non ha tuttavia impedito all’OAS di sviluppare capacità specifiche nella prevenzione nei conflitti e, in particolare, con riferimento a quelli che l’Assistente Segretario generale dell’organizzazione ha definito “i tre pilastri del peacebuilding”, ovvero la risoluzione pacifica delle dispute tra stati, la protezione dei diritti umani e, infine, la promozione della democrazia e delle sue istituzioni rappresentative.

Se le le diverse trasformazioni subite dalla struttura di prevenzione dell’OAS nel corso degli ultimi venti anni hanno indotto alcuni osservatori a sospendere il giudizio dell’azione condotta dall’organizzazione in materia, è stato altresì osservato come sul piano teorico, la riluttanza degli stati membri ad accettare la nozione stessa di conflict prevention, sia concisa con la preferenza per l’uso dei termini di peacebuilding o crisis management214.

Secondo diverse interpretazioni i continui assestamenti della struttura interna del Segretariato, uniti a una scarsa chiarezza sul significato della prevenzione dei conflitti, avrebbero condotto l’organizzazione a sviluppare un confidenza eccessivo nel ruolo di mediazione e nei buoni uffici del segretario generale, ridimensionando profondamente le possibilità di una piena la piena implementazione dei meccanismi di early warning, percepiti ancora, in molti casi, come un forma di intrusione eccessiva negli affari degli Stati215.

Sarebbe cioè questo persistente attaccamento ad una concezione ancora tradizionale dei principi della sovranità e della non-interferenza a condizionare l’approccio dell’OAS alla gestione delle crisi, che, nonostante l’articolato sistema di early warning sopra descritto, sarebbe fondato principalmente sulla “risposta” e sulla “reazione” e assai meno sull’azione di prevenzione e anticipo rispetto a potenziali situazioni di conflitto216.

Sarà proprio l’interazione tra il principio della non-interferenza, i meccanismi di reazione e prevenzione dell’OAS e la rigorosa difesa dei principi democratici – perno, come abbiamo visto, della struttura di conflict prevention dell’organizzazione – a caratterizzare l’analisi del

214 John Pevehouse, Democracy form the Outside In? in International Organizations and Democratization, in International Organnizations, n.56, Summer, 2003, oag. 515-549

215 Andrés Serbin, The Organization of American States and Conflict Prevention, cit, pag. 13.

216 Paris Randall – Mark Peceny, Kantian Liberalims and the Collective Defense of Democracy in Latin America, in Journal of Peace Research, n. 38, pag. 229-250.

99 case study relativo alla cooperazione con le Nazioni Unite in occasione della crisi scoppiata in Honduras nel giungo 2009.

100

2.4. La prevenzione dei conflitti nell’Unione Europea

La nozione di prevenzione dei conflitti è stata streemente associata all’idea stessa di costruzione dell’unità europea. Uno dei motivi principali dell’azione dei padre costitutenti dell’Europa unita fu indubbiamente quello di impedire nuovi conflitti continentali mediante la creazione di una comunità del vecchio continente, sorta dapprima come mezzo di condivisione di materie prime nei progetti della CECA e dell’EURATOM e, sviluppatasi, in seguito come mercato comune.

La nascita dell’Unione Europea, il suo continuo processo di allargamento possono essere altresì intepretati come uno dei programmi più ampi e ambiziosi di prevenzione dei conflitti, fondato sulla diffusion dei valori dell’UE in materia di democrazia e stato di diritto all’intero vecchio continente. Imponendo di fatto specifici criteri per l’acquisizione della membership, i criteri di Copenaghen, l’Unione Europea è ricorsa all’uso di incentivi e disincentivi (“carrot and stick” ) per promuovere verso est l’estensione della zona di pace, sicurezza e prosperità economica: tale processo è stato del resto accompagnato da un grado di interferenza significativo negli affari interni dei Paesi aspiranti all’ingresso nell’UE217.

Nel corso degli anni ’90, l’Unione Europea ha progressivamente consolidato e rafforzato la propria politica estera e di sicurezza comune – PESC (Common Foreign and Security Policy,CFSP) creando altresì le premesse per l’avvio della politica europea di sicurezza e difesa, PESD (European Security and Defense Policy). Sulla scia di tale processo, l’UE ha maturato una crescente attenzione alla questione della prevenzione dei conflitti e alla necessità di allineare il suo crescente protagonismo nella gestione delle crisi internazionali con una strategia capace di affrontare le cause profonde delle crisi. In questo senso, il Programma

217 Fraser Cameroon, The European Union and Conflict Prevention, United Nations Insititute Disarmament Research, Bruxelles, 2003

101 di Gotenborg per la prevenzione dei conflitti violenti rappresentò una novità senza precedenti nella storia dell’impegno europeo in materia218.

Il programma di Gotenborg, riconoscendo il ruolo primario della prevenzione dei conflitti nelle relazioni esterne dell’UE, indicava una serie di raccomandazioni per rafforzare l’azione dell’organizzazione in materia: in particolare l’Unione era chiamata a identificare una serie di priorità politiche per l’avvio di preventive actions, migliorare la coerenza delle sue iniziative e politiche nel campo dell’early warning, rafforzare i suoi strumenti per la prevenzione a lungo e breve termine e, infine, a costruire “effective partnerships for prevention”. In relazione alla questione delle priorità poltiche, il programma ebbe il merito di suggerire l’integrazione di una dimensione di conflict prevention all’interno di tutte le attività esterne dell’UE, incluso la PESD, la cooperazione allo sviluppo e il commercio internazionale. A tal fine il Programma aveva incoraggiato la cooperazione regolare tra i principali organi dell’UE, il Consiglio, la Commissione, la Presidenza dell’UE, il Comitato Politico e di Sicurezza alfine di identificare aree e regioni prioritarie per l’azione preventiva dell’Unione; in particolare, mentre il Consiglio veniva invitato a promuovere “coherent and comprehensive preventive strategies”, la Commissione, braccio dell’integrazione comunitaria e della cooperazione allo sviluppo fu incoraggiata invece ad integrare elementi di prevenzione nei Country Strategy Papers, documenti che tradizionalmente definivano la strategia e l’approccio dell’Unione ai diversi Paesi con i quali si intrattenevano programmi di cooperazione e assistenza in campo economico e sociale219. Alfine di migliorare il coordinamento e le sinergie tra i vari strumenti di early warning, il programma aveva raccomandato il rafforzamento delle funzioni del Comitato di pace e sicurezza- organo permanente della PESC formato dai direttori politici dei ministeri dei Paesi membri – nel monitoraggio delle politiche di prevenzioni condotte nel quadro della PESC e della PESD, l’intensificazione dello scambio di informazioni su potenziali situazioni di crisi tra gli Stati membri, i capi-missione, gli Special Representatives dell’Unione Europea, il Military Staff dell’UE. Le proposte suddette erano chiaramente pensate per garantire la combinazione di misure preventive di breve periodo – mediazioni di crisi potenziali, dispiegamento di missioni civili, assistenza umanitaria- con iniziative di carattere strutturale e di più lungo periodo come

218 European Union, Presidency Conclusions, Gothenborg, Sweden, 15 and 16 June 2001; Commission of the European Union, One Year On: The Commission’s Conflict Prevention Policy, March 2002.

219 Background note: The Role of the EU in Conflict Prevention, Parliamentary Meeting, The Future of Europe: from reflection to action, 4-5 December 2006, Brussels.

102 potevano essere la cooperazione allo sviluppo, il commercio, il controllo degli armamenti, la promozione dei diritti umani e del dialogo politico, tradizionalmente pianificate nel package di assistenza e nella strategia di azione delineati nei country papers220. L’idea avanzata dal documento di Gotenborg era cioè quella di usare l’insieme degli strumenti suddetti in una maniera più integrata ed efficace alfine di affrontare le cause profonde dei conflitti come la povertà, l’emarginazione sociale, la mancanza di buona governance, la violazione dei diritti umani. In tal senso, i programmi di assistenza allo sviluppo varati dalla Commissione dovevano affrontare quei problemi suscettibili di creare tensioni e violenza ed essere altresì affiancati da iniziative più mirate nel sostegno alla democrazia, come l’assistenza ai processi elettorali, all’amministrazione della giustizia, alla formazione delle forze di polizia e di sicurezza in materia di rispetto dei diritti umani, condotte nel quadro di una più ampia politica di conflict prevention.

Allo stesso modo, mentre il dialogo politico dell’UE con i Paesi terzi doveva concentrarsi sulla possibilità di prevenire eventuali motivi di conflitto, il programma di Gotenborg pensava ad un rafforzamento della struttura di diplomazia dell’Unione presente nelle diverse aeree di crisi con inviati o rappresentanti speciali.

Ultimo punto saliente del programma del 2001 era infine quello relativo alla necessità di rafforzare le partnerthip e la cooperazione in materia di conflict prevention, early warning con le Nazioni Unite, l’OSCE, la NATO e le altre organizzazioni regionali e sub-regionali. Oltre a invocare, sulla base dell’art. 19, maggiore impegno da parte degli Stati membri ad agire in maniera coordinata all’interno dell’ONU e del suo Consiglio di Sicurezza per promuovere l’attività di prevenzione delle Nazioni Unite, il programma varato nel 2001 assegnava all’EU il compito di contribuire al rafforzamento delle capacità delle organizzazioni regionali e sub- regionali in materia di conflict prevention.

Nello stesso anno della pubblicazione del programma di Gotenborg la Commissione dell’Unione Europea pubblicò una comunicazione sulla prevenzione dei conflitti: tale documento confermò la necessità di rendere più sistematico e coordinato l’insieme degli strumenti a disposizione dell’UE per affrontare le cause più profonde dei conflitti, migliorare le capacità dell’organizzazione nella reazione rapida a crisi/conflitti nascenti. La Commissione suggeriva infatti di istituzionalizzare l’inclusione di indicatori su potenziali situazioni di crisi all’interno dei country strategy papers e di considerare, caso per caso, la possibilità di concentrare l’aiuto

220European Union, Development Council Conclusions on Countries in Conflict, May 2002.

103 esterno sulla promozione di un ambiente politico favorevole – sostegno alla democrazia, allo stato di diritto, all’indipendenza dei media – della riforma del settore di sicurezza e di condizioni favorevoli alla ripresa economica e sociale221. Secondo la Commissione, parallelamente all’intensificaizone dell’azione internazionale di contrasto alle cross-cutting issues – il traffic di armi e droga, lo sfruttamento illecito delle risose naturali – l’organizzazione doveva sfruttare le potenzialità del meccanismo di reazione rapida - Rapid Reaction Mechanism, RRM.

Tra il 2001 e il 2002 lo RRM è stato impegato per finanziare progetti di emergenza in aree di conflitto, in particolare in material di sminamento e sostegno alla ricostruzione economica dei paesi reduci da conflitti. Le raccomandazioni avanzate dal Programma di Goteborg e dalla Commissione produssero comunque innovazioni importanti nelle iniziative di prevenzione condotte dall’Unione Europea.

Nello stesso periodo l’Unione Europea siglò inoltre gli accordi di Cotonou con oltre 70 Paesi dell’Africa e della regioni dei cariaibi e del Pacifico, definendo intesa basata sui tre pilastri del sostegno allo sviluppo, della cooperazione economica e commercial e del dialogo politico.

Proprio l’inclusione del dialogo politico come parte integrale degli accordi l’UE promuoveva un nuovo approccio ai temi della cooperazione con i Paesi in via sviluppo che includeva l’attenzione al mantenimento della pace e della sicurezza, al commercio di armi. Più in particolare, l’accordo, che indicava l’obbligo degli Stati beneficiari di rispettare e promuovere la buona governance prevedeva che in casi di corruzioni, gravi atti di violazione delle libertà fondamentali, gli aiuti previsti potessero essere temporaneamente sospesi. Legando peranto la politica di sostegno allo sviluppo a precise clausole politiche l’UE poteva usare una leva d’influenza importante nello scoraggiare l’emergere di situazioni suscettibili di degenerare in conflitto222.

Ad esempio, nel caso del Sudan, tra il 2000 e il 2001, l’UE, dopo aver escluso il governo di Karthoum dal gruppo di beneficiari degli aiuti aveva avviato, sulla base dell’articolo 96 degli accordi di Cotonou, nuove consultazioni alfine di valtare la possibilità di una ripresa

221 Communication from the European Commission on Conflict Prevention, Brussels, 11 April 2004, consultabile sul sito: http://ec.europa.eu/external_relations/cfsp/crisis_management/docs/com2001_211_en.pdf , ultimo accesso 12 novembre 2010.

222 Sarah Bayne, Conflict Preventuion and the EU: from rethoric to reality, International Alert and Saferworld, 2004, London.

104 delle iniziative di cooperazione. Dialogo politico, assistenza allo sviluppo, coinvolgimento della società civile per la promozione della democrazia e dei diritti umani rappresentarono il link che l’Unione Europea impiegò per cercare di prevenire la degenerazione della crisi in Sudan. Nello stesso periodo in Ruanda, l’UE avviò un programma di sostegno economico e politico al processo di riconciliazione in corso nel Paese destinato a rafforzare il processo di stabilizzazione post-conflittuale223.

L’idea di integrare attività di prevenzione e gestione delle crisi con assistenza tecnica e allo sviluppo trovò un’immediata applicazione con il lancio delle prime operazioni civili e military in ambito PESD – Operazione Althea in Bosnia (2003), Concordia-Macedonia (2003),.

Proprio nel 2003 la strategia di sicurezza dell’Unione Europea (SSE) offrì un contributo ulteriore al dibattito sul rafforzamento del sistema di prevenzione dell’organizzazione indicando precise deadline. In particolare, la strategia pose particolare enfasi sulla necessità di estendere la zona di sicurezza alla periferia dell’UE, sostenere le istituzioni multilaterali e promuovere un “comprehensive approach” nella risposta a minacce tradizionali e inedite. Obiettivi prioritari come la proliferazione di armi di distruzioni di massa e il terrorismo internazionale dovevano essere combattuti nel quadro di un multilaterismo efficace che faceva riferimento ovviamente ad un sistema delle “Nazioni Unite rafforzato”. Compito dell’UE era dunque quello di sostenere il palazzo di vetro e i diversi partners nella soluzioni dei drammatici problem della povertà e dell’assenza di buon governo, indentificate come cause profonde dei conflitti.

Questo approccio , unito alla particolare enfasi posta sul concetto di impegno preventivo (“preventive engagement”) piuttosto che su quello di attacco preventivo (o “pre- emption”), noto come dottrina Bush, poneva indubbiamente la Strategia di Sicurezza Europea su un piano teorico assai diverso da quello della US National Security Strategy. Pur infatti riprendendo alcune delle riflessioni avanzate dalla presidenza Bush, in particolare al riferimento alla zona esterna alle frontiere dell’UE come prima linea di difesa, la SSE affermava che l’opzione militare era parte di un ventaglio articolato di possible risposte alle crisi, ma

223 Vincent Kronenberger The European Union and Conflict Prevention: Policy and Legal Aspects, Hardcover, Jan Wouters, London, 2003.

105 concentrava la sua attenzione sulla necessità di un impegno politico sistematico alla prevenzione224.

Sull’onda delle riflessioni forumalate dalla SSE, l’UE dedicò particolare attenzione al tema della “human security agenda”: fu infatti l’Alto Rappresentante per la politica estera Javier Solana a sottolineare l’urgenza di accrescere le capacità civili dell’organizzazione in materia di prevenzione e gestione delle crisi225. In occasione della Conferenza del 22 novembre 2004, gli Stati membri dell’Unione promisero il contributo volontario di 5.761 ufficiali di polizia, 631 giuristi, 562 amministratori civili, 4988 unità di personale della protezione civile226.

Nacquero così le operazioni Proxima in Macedonia, la EU police mission in Bosnia (2003) e la EUPOL Kinshasa (2003); in risposta ad un invito della Georgia, l’Unione Europea inviò la sua prima missione PESD per lo stato di diritto (ESDP Rule of Law Mission)227. In parallelo ai Military Headline Goals 2010 – un progetto mirante alla creazione di una sorta di forza militare di reazione rapida capace di sbrigare compiti di assistenza umanitaria, peacekeeping, gestione delle crisi, peacemaking228 - l’UE fissò i Civilian Headline Goal 2008 pensati per rafforzare la quantità e la qualità delle risorse a disposizione dell’organizzazione per il lancio di nuove operazioni civili di prevenzione e gestione delle crisi. In particolare, gli Stati membri aggiunsero alle tipologie di impiego definite nel 2004 anche quelle relative a funzionari dispiegabili in missioni di monitoraggio elettorale e politico o a consiglieri di sostegno all’azione diplomatica condotta dai rappresentanti speciali nelle aree di crisi. Nondimeno, gli Stati membri avevano altresì affermato l’urgenza di intensificare il focus delle missioni civili sul sostegno alla riforma del settore di sicurezza ed ai programmi di disarmo, smobilitazione e re-intetegrazioni

224 European Union Institute for Strategic Studies, A Secure Europe in a Better World: European Security Strategy, 2003, .

225 A Human Security Doctrine for Europe, Barcellona, 15 September 2004, consultabile sul sito http://www.consilium.europa.eu/uedocs/cms_data/docs/pressdata/solana/040915capbar.pdf , ultimo accesso 5 dicembre 2010.

226 Ministerial Declaration, Civilian Capabilities Commitment Conference, Brussels, 22 November 2004.

227 Council of the European Union, Joint Action 2004/523/CFSP of 28 June 2004 on the European Union Rule of Law Mission in Georgia, EUJUST THEMIS, EU document 2004/523/CFSP, 28 June 2004

228 G. Quille and J. Mawdsley, The EU Security Strategy: A New Framework for ESDP and Equipping the Rapid Reaction Force, International Security Information Service, 2003; see also From St. Malo to Nice, European Defence: Core Documents, compiled by Maartje Rutten in the series: Chaillot Paper, ISS, n. 47, May 2001.

106 nei Paesi reduci da conflitti, alfine di per prevenire ed impedire pericolosi fenomeni di ricaduta in situazioni di caos e violenza. Il rapido dispiegamento in non-benign environment era del resto l’impegno cardine assunto dagli Stati membri: sulla base dell’intesa raggiunta a Bruxelles, l’UE si era infatti impegnata a lanciare una operazione civile a soli 5 giorni dall’approvazione di un crisis management concept da parte del Consiglio 229.

Ad oggi, l’UE, seguendo l’impegno assuno nel 2004, ha lanciato ben 16 operazioni civili e 7 operazioni militari (più una ibrida, civile-militare, in sostegno della forza dell’Unione Africana in Sudan) principalemente in Africa, Europa Orientale e Medio Oriente.230

Non si può infine dimenticare come, sempre nel 2004, l’UE abbia del resto avviato la sua politica di vicinato, the European Neighbourhood Policy (ENP) pensata per evitare la formazione di nuove “dividing lines” tra l’Unione Europea allargata e i Paesi vicini e rafforzare piuttosto la prosperità economica, la stabilità e la sicurezza.

La ENP, aperta a 16 Paesi vicini - , Armenia, Azerbaijan, Bielorussia, Egitto, Georgia, Israele, Giordania, Libano, Libia, Moldovia, Marocco, Siria, Tunisia e Ucraina - è arricchita da una serie di accordi di coperazione multilaterale e regionale - come la Partnership orientale, lanciata a Praga nel 2009, l’Unione per il mediterrano e la Black Sea Synergy lanciata a Kiev nel febbraio 2008 – ed è basata su un impegno comune alla promozione della democrazia, dei diritti umani, della buona governance, obiettivi che indicano chiaramente la finalità di prevenzione dei conflitti assegnata al progetto di buon vicinato231.

Di grande importanza in relazione alle questioni legate al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e, in particolare, alla prevenzione delle crisi, è l’ambiziosa iniziativa di sostegno dell’UE in favore dell’Unione Africana. Tale iniziative nacque nell’aprile 2004 con la decisione dell’UE di creare, su richiesta dell’UA, un African Peace Facility:

229 Civilian Capabilities Improvement Conference - Ministerial Declaration, Brussels, 21 November 2005. Civilian Capabilities Improvement Conference - Ministerial Declaration, Brussels, 13 November 2006.

230 Per una lista complete delle operazioni civili e military PESD lanciate dall’UE alla data del novembre 2010, consulta il sito: http://www.consilium.europa.eu/showPage.aspx?id=268&lang=EN, ultimo accesso 12 novembre 2010.

231 Cfr. su questo il sito www. http://ec.europa.eu/world/enp/policy_en.htm , ultimo accesso 2 dicembre 2010. Cfr. anche Roland Dannreuther European Union foreign and security policy: towards a neighbourhood strategy, Amsterdam, Brussels, 2006.

107 250milioni di euro ricavati dal Fondo Europeo di Sviluppo furono destinati alla promozione di “soluzioni africani alle crisi africane”, ovvero al sostegno finanziario delle iniziative di peacekeeping e peacemaking dell’Unione Africana. All’indomani della creazione dell’AFP, l’EU adottò una posizione comune sulla prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti in Africa che sottolineava la necessità di un approccio integrato e più a lungo termine in materia di conflict prevention e ribadiva al contempo l’irgenza di integrare “conflict prevention perspectives” nelle politiche commerciali e di sostegno allo sviluppo al fine di ridurre al minimo i rischi di crisi e massimizzare l’impatto delle azioni di peacebuilding232.

È stato tuttavia nel 2007 che l’UE ha dato una dimensione coerente al suo sostegno all’UA siglando una partnership strategica che assegnava alla pace e alla sicurezza e alla promozione della governance democratica e dei diritti umani un ruolo fondamentale. Tra gli obiettivi della partnership venivano indicati in particolare:

1) L’uso efficace e coerente degli strumenti militari e civili della PESD per la gestione delle crisi; 2) La definizione di un comune understanding sulle cause dei conflitti in Africa e sulle possibilità di risoluzione; 3) Il rafforzamento della cooperazione tra UE e UA nella prevenzione, gestione e risoluzione delle crisi e nella riscotruzione post-conflittuale; 4) La crescita del coordinamento tra il coordinamento delle iniziative continentali e sub- regionali in Africa; 5) La piena operalizzazione delle diverse componenti del sistema di pace e sicurezza dell’UA, che include, come si è visto in precedenza, organi chiave, dotati di un specifico mandato in materia di perevenzione dei conflitti, il Panel of the Wise, il CEWS; 6) Il rafforzamento delle capacità dell’UA e delle organizzazioni sub-regionali nella prevenzione, gestione e risoluzione delle crisi;

232 Cfr. Council Common Position Concerning Conflict Prevention, Management and Resolution in Africa and

Repealing Common Position, 2001/374/CFSP”, 26 January 2004.

108 7) La riduzione delle mancanze finanziarie delle operazioni di pace dell’UA e la promozione di migliori paramteri di efficacia per il loro dispiegamento233.

Appare inoltre opportuno sottolineare che, nel corso dell’ultimo biennio, il piano d’azione per la partnership in materia di pace e sicurezza ha posto particolare all’enfasi alla cooperazione tra le due organizzazione nei processi di prevenzione e gestione delle crisi con specifico riferimento alla mediazione, indentificata dall’Unione Europea come uno “strumento di prima risposta” alle crisi emergenti o in corso 234.

Parallalemente alla definizione della partnership con l’UA, la Commissione europea ha offerto un nuovo importante contribituo in materia di conflict prevention mediante la pubblicazione “Towards an EU response to situations of fragility” , documento che può essere considerate come il più articolato sforzo europeo di rilanciare in maniera efficace l’integrazione di una prospettiva di prevenzione nelle politiche di assistenza allo sviluppo235.

Nel novembre 2009 – a pochi mesi dalla pubblicazione del rapporto di Ban Ki-Moon “Enanhncing Mediation and Its support activities” – il Consiglio e la Commissione hanno prodotto un inoltre paper congiunto sul rafforzamento delle capacità di mediazione e dialogo dell’Unione Europea. Tale pubblicazione ha indubbiamente proiettato l’UE verso la condivisione di quell’obiettivo di professionalizzazione della mediazione indicato dal SG delle Nazioni Unite nel suo rapporto 2009. Il paper congiunto ha anztitutto indicato la mediazione come parte dello “EU comprehensive toolbox” in materia di prevenzione dei conflitti e gestione delle crisi, sottolineando l’esistenza di strong linkages and sinergie tra la mediaizone e altri strumenti a disposizione dell’Organizzazione. Sul piano teorico, il paper sposa le valutazioni presentanti da Kofi Annan e Ban Ki-Moon sul carattere cost-effective della mediazione, capace, in caso di

233 The Africa-EU Strategic Partnership: A Joint Africa-EU Partnership, Brussels, 2007.

234 Cfr su questo, Statement on behalf of the European Union by Pedro Serrano, Acting Head of the Delegation of the European Union to the United Nations, at the Security Council Open Debate on Conflict prevention and settlement of disputes, 16 July 2010, consultabile sul sito http://www.europa-eu- un.org/articles/en/article_9960_en.htm, ultimo accesso 3 dicembre 2010.

235 Communcation from the Commission to the Council, the European Parliament, The European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, Brussels, 25 October 2007, COM (2007), 643 final.

109 successo, di evitare il ricorso a più costosi strumenti di gestione delle crisi come le operazioni PESD o le missioni di pace delle Nazioni Unite236.

In particolare, dopo aver indicato le varie modalità di coinvolgimento dell’UE alle iniziative di mediazione - a) promotore b) parte di un gruppo allargato in cui l’organizzazione può far valere il suo “leverage” c) sostegno esterno alla mediazione condotto da ONU o organizzazioni regionali, anche in termini di creazioni di capacità ed expertise in materia d) finanziamento della mediazione - il documento ha avuto il merito di precisare le guidelines che dovrebbero regolare l’azione dell’UE. Oltre a ribadire la necessità di garantire coerenza e “comprehensiveness” della mediazione rispetto agli altri strumenti e obiettivi della politica estea dell’Unione Europea, il paper suggerisce la valutazione dei rischi e delle opporunità di un coinvolgimento o della partecipazione dell’UE che consideri l’esistenza di margini di successo, l’emergere di eventuali tensioni tra i valori dell’Unione in materia di diritti umani e diritto internazionale e obiettivi a breve termini di gestione dei conflitti e, infine, la possibilità di contribuire alla definizione di una giustizia di transizione che sappia conciliare la difesa della pace con la lotta all’immunità, tema questo spesso sintetizzato come dilemma tra “peace and justice”.

Pur riconoscendo come la storia delle Nazioni Unite assegni al palazzo di vetro il ruolo di attore più importante ed esperto nell’ambito della mediazione, la Commissione e il Consiglio sottolinearono il crescente coinvolgimento di attori regionali e sub-regionali nelle prevenzione dei conflitti, realtà capaci di sfruttare il vantaggio comparato della vicinanza, della conoscenza delle dinamiche locali e della familiarità con le situazioni di crisi.

Secondo il paper, l’UE, in qualità di attore globale, era altresì chiamata ad intensificare l’azione oltre i suoi confini e ad offrire i suoi “mediation support services” in ogni situazione di crisi e come parte del suo più complesso approccio alla prevenzione e alla risoluzione dei conflitti: in tal senso, lo sviluppo e il consolidamento delle capacità di mediazione dell’Unione Europea potevano fornire entry-points aggiuntivi per le “third-party peace mediation” e dunque contribuire, in stretta cooperazione con il Mediation Support Unit del Dipartimento Affari Politici dell’ONU, al rafforzamento delle capacità dell’intera comunità internazionale.

236 Council of the European Union, Concept on Strenghtening EU Mediation and Dialogue Capacities on Strenghtening EU Mediation and Dialogue Capacities, Brussels, 10 November 2009, 15779/09.

110 Mediante due strumenti finanziari – lo Instrument for Stability e il già accennato African Peace Facility – l’Unione Europea è attualmente impegnata in maniera massiccia in attività di sostegno alla mediazione.

Lo IfS contiene anzitutto il Policy Advice and Mediation Facility, destinato a finanziare, in tempi rapidi, attività di mediazione in contesti di crisi particolari come la mediazione condotta dall’inviato Speciale dell’ONU in Myanmar o il dialogo tra il governo del Laos e la diaspora Hmong; allocazioni specifiche e separate dello IfS sono invece impiegate per il finanziamento degli sforzi di mediazione condotti dallo joint United Nations-African Union mediation support in Darfur.

L’AFP offre invece risorse per il rafforzamento delle capacità dell’UA e delle organizzazioni sub-regionali in materia di mediazione e assicura altresì disborsi flessibili e rapidi in sostegno della fase di lancio delle mediazione condotte dall’Unione Africana e le comunità economiche regionali237.

Merito del concept paper è stato infine quello di aver presentato specifiche raccomandazioni per il rafforzamento delle capacità dell’UE nella mediazione. Tali raccomdandazioni si sono concetrate sugli aspetti strategici e orizzontali, quelli legati al supporto operativo, all’organizzazione di training, alla “gestione delle conoscenze” e, infine, alla cooperazione con gli altri attori internazionali. In materia strategica, tutte le istituzioni dell’UE, l’Alto Rappresentante, gli Special Representatives, le operazioni PESD, le Delegazioni della Commissioni, la Presidenza e gli Stati membri furono invitati a facilitare la tempestiva mediazione dell’UE in situazioni di crisi, continuare e consolidare il sostegno a iniziative condotte da altri partners, accrescere il sostegno ai mediatori europei nella gestione delle situazioni relative allla giustizia di transizione e alla lotta contro l’impunità.

Oltre a ciò, l’UE è stata invitata ad impegnarsi ad assegnare ai compiti di mediazione una parte centrale del mandato degli special representatives ed eventualmente includere l’esercizio di tali funzioni anche in quelli assegnati alle operazioni PESD.

237 Council of the European Union, Concept on Strenghtening EU Mediation and Dialogue Capacities on Strenghtening EU Mediation and Dialogue Capacities, cit. , pag. 7.

111 La Commissione e il Consiglio suggerirono altresì l’urgenza di generare un massiccio programma di training capace di arrichire le conoscenze e i curricula a disposizione dell’Organizzazione e degli Stati membri238.

Nondimeno, l’organizzazione di periodici scambi di informazione e esercizi di lesson learned su processi di mediazione, condotti congiuntamente all’ONU, alle varie organizzazioni regionali o ad organizzazioni non governative è stato indicato come aspetto centrale della gestione delle conoscenza relativi ai progressi e alle difficoltà che caratterizzano le diverse iniziative di conflict prevention. Proprio la stretta cooperazione con l’ONU, l’Unione Africana e l’OSCE è stata infine ricordata come priorità della strategia dell’UE in materia di mediazione.

Di grande interesse è stata infine la proposta di stabilire un Mediation Support Group, composto da rappresentanti del Consiglio e della Commissione, pensato come focal point per cordinare le varie iniziative di mediazione con la Presidenza e gli Stati membri.

Il paper congiunto è stato approvato dal Consiglio dell’Unione Europea nel novembre 2009, il quale ne ha riconosciuto lo straordinario contributo in termini di rafforzamento e consolidamento del processo inauguarato dal programma di Gotenborg sulla prevenzione dei conflitti. Nondimeno, il Consiglio, dopo aver patrocinato un programma biennale sul tema “Conflict Prevention in Practice - Creating a Leading Role for the European Union”, ha annunciato per il 2011, in occasione del decennale del documento di Gotenborg, l’avvio di un processo di studio e rivisitazione complessiva dei progressi sin qui compiuti dall’Organizzazione in materia di prevenzione dei conflitti239.

Nuovo impulso al rafforzamento delle ambizioni europea a giocare un ruolo cruciale nei processi di prevenzione e gestione delle crisi è indubbiamente giunto dalla fase aperta dal trattato di Lisbona e dalla decisione sulla creazione del servizio diplomatico europeo240.

238 Michaela Racovita, The European Union's Conflict Prevention Strategies: optimal configurations of methods for achieving success" Paper presented at the annual meeting of the Midwest Political Science Association 67th Annual National Conference, Chicago, Illinois, consultabile sul sito: www.allacademic.com/meta/p363632_index.html, ultimo accesso 4 dicembre 2010.

239 Concil of the European Union, Council conclusions on military capabilities (Extract from Council conclusions on ESDP) 2974th External Relations, Council meeting Brussels, 17 November 2009.

240 Council of the European Union, Council adopted a decision today establishing the European External Action Service (EEAS) and setting out its organisation and functioning (11665/1/10), 8 July 2010, Press release ,

112 Com’è noto, nel dicembre del 2009, l’entrata in vigore del trattato di Lisbona ha prodotto cambiamenti sostanziali in relazione alla politica estera dell’Unione. Il trattato ha infatti modificato la rappresentanza esterna dell’UE disponendo la creazione di due nuove figure, il Presidente (permanente) del Consiglio europeo e l’Alto rappresentante dell’Unione per la Politica estera e di sicurezza. All’Alto Rappresentante è stato del resto assegnato il mandato di condurre il dialogo politico con Paesi terzi a nome dell’Unione e di esprimere le posizioni europee in seno alle organizzazioni e alle conferenze internazionali.. La rappresentanza estera dell’UE è stata dunque affidata congiuntamente all’Alto Rappresentante, assistito da un servizio diplomatico europeo, al presidente del Consiglio, alla Commissione europea e alle nuove delegazioni dell’EU.

Con l’acquisizione di una più chiara personalità giuridica sul piano internazionale – desinata ad archiviare l’istituto della presidenza semestrale - l’UE ha così rimpiazzato la Comunità Europea, assumendone i diritti e obblighi anche in termini di rappresentanza in seno alle Nazioni Unite e alle altre organizzazioni internazionali.

Dal primo dicembre 2009, le diverse delegazioni della Commissione europea presso l’ONU sono state trasformate in delegazioni dell’Unione Europea. In altre parole, la precedente rappresentanza della commissione e il liaison office del Segretariato del Consiglio europeo presso l’ONU a New York, sono state integrate per dar vita ad una delegazione unica posta sotto l’autorità di un rappresentante del Consiglio e capace di sostituirsi progressivamente al ruolo giocato dalle presidenze semestrali241. Da diversi mesi, l’Unione Europea è così rappresentata da delegazioni accreditate presso le varie istituzioni del sistema ONU presenti a Ginevra, Parigi, Nairobi, Addis Abeba, Roma e Vienna.

Se si pensa inoltre all’importanza assegnata al rafforzamento delle capacità dell’Unione Africana in materia di prevenzione e gestione delle crisi e al sostegno alla piena implementazione del sistema di pace e di sicurezza continentale, la creazione ad Addis Abeba

consultabile sul sito: http://www.eu-un.europa.eu/articles/fr/article_9914_fr.htm , ultimo accesso 4 dicembre 2010.

241 Statement delivered by European Union High Representative for Foreign Affairs and Security Policy/European Commission Vice-President Catherine Ashton at the United Nations Security Council, 4 May 2010, New York, consultabile su : http://www.europa-eu-un.org/articles/fr/article_9715_fr.htm, ultimo accesso 4 dicembre 2010.

113 di una delegazione integrata Consiglio-Commissione presso l’UA schiude nuove prospettive per un ulteriore rilancio del ruolo dell’Unione Europea nella prevenzione dei conflitti242.

In conclusione, ai fini della presente analisi, appare opportuno sottolineare come il trattato di Lisbona si inserisca anche in un processo di ormai decennale consolidamento della cooperazione tra Unione Europea e le Nazioni Unite, cominciato con la firma, nel 2003, della Joint Declaration ONU-UE sulla cooperazione nella gestione delle crisi.

Da qualche mese, nel tentativo di consolidare l’applicazione del trattato di Lisbona, l’UE ha sollevato la questione della propria rappresentanza in seno all’Assemblea Generale, cercando di ottenere una sorta di “avanced observer status”.

Lo stesso trattato di Lisbona ha inoltre introdotto una piccola ma significativa modifica dell’articolo 19 del trattato, divenuto articolo 34, che ora impone a tutti gli Stati membri presenti in Consiglio di Sicurezza – siano essi permanenti o non permanenti – di difendere le posizioni e gli interessi dell’Unione. Com’è noto, l’attaccamento di Francia e Gran Bretagna al loro seggio permanente e le divergenze sull’allargamento del CdS – in particolare tra Italia e Germania – hanno sin qui limitato le capacità dell’UE di “parlare con una sola voce” all’interno del Consiglio dell’ONU. Tale questione non ha tuttavia impedito il lancio di alcune iniziative diplomatiche tese a coinvolgere con maggiore efficacia l’UE nel sostegno all’azione del CdS nelle sue attività di prevenzione dei conflitti ed è altresì coincisa con un inarrestabile crescita della cooperazione tra le istituzioni di Bruxelles e il palazzo di vetro243.

Oltre ad aver dispiegato, sulla base di specifici mandati assegnatigli dal Consiglio di Sicurezza, un numero crescente di operazioni di politica estera e difesa comune in sostegno ed in appoggio a missioni delle Nazioni Unite in Afghanistan, nella Repubblica Democratica del Congo, in Chad, in Guinea Bissau Passaggio, la cooperazione tra le due organizzazione ha segnato un passaggio storico con il lancio dell’operazione navale Atlanta impegnata nel

242 Cfr su questo: European Union, Annual report from the High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy to the European Parliament on the main aspects and basic choices of the CFSP, July 2010; cfr. anche European Commission and African Union Commission to meet in Addis Ababa, consultabile sul sito, http://www.europa-eu-un.org/articles/en/article_9822_en.htm, ultimo accesso 4 dicembre 2010.

243 Nicoletta Pirozzi, The EU’s contribution to the Effeciviness of the UN Security Council: Representation, Coordination and Outreach, in Istituto Affari Internazionali, Documenti IAI 14-10, July 2010.

114 contrasto della pirateria al largo delle coste delle Somalia e nella protezione degli aiuti alimentari del World Food Program (WFP)244.

Qualche mese fa, il rapporto redatto dall’ufficio ONU a Bruxelles ha fornito un quadro aggiornato delle iniziative comuni condotte dall’UE e dalle Nazioni Unite in materia di prevenzione delle crisi, azione umanitaria, sviluppo sostenibile, promozione della democrazia.

I dati forniti dal rapporto delineano la realtà di una preziosa opera comune fondata sull’assistenza offerta a oltre 60 Paesi colpiti da disastri naturali, sul rifornimento di aiuti alimentari a oltre 14 milioni di persone sparsi in 50 Paesi, sul sostegno ai processi elettorali in oltre 22 Paesi tra il dicembre 2008 e il dicembre 2009, sulla promozione dell’integrazione di strategie per la lotta contro la povertà in oltre venti programmi di sviluppo condotti da altrettanti Paesi245.

La cooperazione tra ONU e Unione Europea in Kosovo, caso di studio che sarà esaminato nel capitolo successivo, andrà evidentemente inserita nel contesto di una partnership strategica tra le due organizzazione che fonda gran parte dei suoi obbiettivi sulla prevenzione delle cause profonde dei conflitti. Particolare attenzione sarà posta al ruolo di mediazione che l’Unione Europea ha assunto nella delicata vertenza tra Belgrado e Pristina, cercando di capitalizzare, alidilà delle divisioni interne sul tema dell’indipendenza del Kosovo, la sua capacità di attrazione e la molteplicità di strumenti politici ed economici a disposizione per prevenire nuovi avvitamenti della crisi e contenere le tensioni in un quadro regionale di pace sostenibile.

244 La EUPOL ha collaborato con United Nations Assistance Mission in Afghanistan, UNAMA; nella Repubblica democratica del Congo due misioni, EUSEC e EUPOL DRC hanno lavorato alla riforma del settore di sicurezza e di polizia in cooperazione con la MONUC; dopo il dispiegamento di una forza in Chad, pensata per facilitare il ridispiegamento di una contingente dei caschi blu, un’altra operazione è stata lanciata dall’UE in Guinea Bissau alfine di assistere gli sforzi condotti dallo United Nations Integrated Peacebuilding Office.

245 United Nations-Brussels, Improving Lives: Results of the partnership between the United Nations and the European Union in 2009, Results of the partnership between the United Nations and the European Union in 2009, June 2010.

115

2.5. Conclusioni Al termine della ricostruzione dell’azione svolta in materia di prevenzione dei conflitti da parte delle quattro organizzazioni regionali oggetto del presente studio – UA, ASEAN, OAS, UE - appare opportuno limitarsi all’indicazione di una serie di misure di carattere generale capaci di razionalizzare le relazioni tra queste e le Nazioni Unite

Formalizzazione e consolidamento delle partnership

Sulla scia delle raccomandazioni formulate dal SG nel suo rapporto sulle relazioni tra ONU e organizzazioni regionali, l’OAS, l’UA e l’ASEAN hanno formalizzato le rispettive cooperazioni con il palazzo di vetro mediante una serie di intese e memorandum of understanding. L’UE, che ha sempre dichiarato di preferire un approccio flessibile e informale che non nega la natura strategica della partnership, è riuscita nell’intento di consolidare e approfondire la cooperazione delle Nazioni Unite senza doversi sottoscrivere articolate alle intese sul modello di quelle definite dalle altre organizzazioni regionali.

Aldilà dei modelli di istituzionalizzazione della partnership, quel che appare centrale nel processo di consolidamento delle cooperazione è la creazione di una rete di rappresentanze efficaci delle organizzazioni regionali presso le Nazioni Unite e viceversa.

Aldilà dei dubbi che possono essere avanzati sull’efficacia dell’Unione Europea nel far valere le sue posizioni comuni all’interno del Consiglio di Sicurezza – dove due suoi membri sono anche membri permanenti del massimo organo onusiano – appare indubbio che il meccanismo di coordinamento dell’UE a New York, la rappresentanza dell’organizzazione ora affidata ad una Delegazione dell’UE le consentono ora di presentare con maggiore efficacia il punto di vista europeo nei meccanismi decisionali del palazzo di vetro.

116 Mentre in relazione ad ASEAN e OAS i rispettivi moduli istituzionali non prevedano una rappresentanza dell’organizzazione all’ONU se non quella delegata alla presidenza di turno, l’UA possiede invce una missione di osservazione permanente.

Aldilà della scelta o meno delle organizzazioni - e dei rispettivi Stati membri - di formalizzarne una presenza presso le Nazioni Unite, ciò che appare opportuno sottolineare è la necessità che le posizioni in relazione a situazioni di crisi espresse da ASEAN, OAS e UA - come quelle di altre realtà non incluse nel presente studio - siano note e pubblicizzate all’interno dell’ONU. Perchè ciò sia possibile, la questione delle capacità a disposizione delle organizzazioni e dei rispeetivi Stati membri di far valere e rendere note le posizione collettive dei diversi gruppi regionali è indubbiamente un tema centrale.

Scambi inter-regionali e tra organizzazioni regionali e ONU

Un nuovo rapporto del Segretario Generale sulla cooperazione tra ONU e organizzazioni generale, atteso per la prima metà del 2011, dovrebbe indicare precise raccomandazione per proumuovere un nuovo processo di di rafforzamento delle capacità delle organizzazioni regionali in materia di prevenzione dei conflitti. L’ipotesi più accreditata è che Ban Ki-Moon suggerisca l’intensificazione dei programmi di scambio e secondment di personale tra le varie organizzazioni e tra queste e le Nazioni Unite, nonchè la definizione di strategie a medio e lungo termine di rafforzamento delle capacità dei partners del palazzo: l’idea potrebbe cioè quella di invitare altre organizzazioni regionali a replicare iniziative come quella avviata dal 2006 con l’Unione Africana, il 10-Year Capacity Building Programm for the African Union.

117 CAPITOLO III CASE-STUDIES: ESPERIENZE DELLA COOPERAZIONE TRA ONU E ORGANIZZAZIONI REGIONALI NELLA PREVENZIONE E RISOLUZIONE DEI CONFLITTI

Introduzione

Il mandato e l’azione delle organizzazioni regionali in materia di prevenzione e risoluzione dei conflitti descritto nel secondo capitolo costituirà il quadro di riferimento dell’analisi di quattro differenti case-studies, la cui ricostruzione approfondita consentirà di ricavare qualche lesson learned relativa alla cooperazione con le Nazioni Unite nella gestione delle crisi. Sul piano metodologico appare necessario chiarire la scelta operata in merito ai differenti case-studies: sebbene si riferiscano tutti a crisi in corso o in via di soluzione, i cui sviluppi meritano evidentemente un monitoraggio costante, essi offrono una prima chiave di lettura delle più recenti evoluzione in materia di cooperazione tra ONU e organizzazioni regionali e sub- regionali nelle attività di prevenzione dei conflitti e mediazione. In relazione al continente africano e alle diverse crisi che ne compromettono ancora oggi la pace e la stabilità, la scelta è caduta su un case-study tematico, quello della nuova ondata di colpi di stato, cominciata nell’estate del 2008 con il golpe in Mauritania e proseguita con i mutamenti incostituzionali di governi registratisi in Guinea, Madagascar, Niger. Non c’è dubbio che i casi della Somalia e del Sudan costituiscano ancora oggi le punte avanzate della cooperazione tra ONU e Unione Africana in materia di mediazione/conflict prevention e peacekeeping: il support package approvato dal CdS in sostegno alle forze AMISOM a Mogadiscio, il ruolo politico giocato dallo UN Political Office for Somalia (UNPOS), la forza ibrida ONU-AU in Darfur (UNAMID), la missione di pace UNMIS chiamata a garantire l’applicazione dei CPA e la tenuta del referendum del gennaio 20111 e, infine, l’azione di un mediatore congiunto ONU-UA indicano chiaramente come la cooperazione tra le due organizzazioni nei due dossiers che infiammano l’Africa orientale sia particolarmente rilevante. Nondimeno, la risposta data dall’Unione Africana alla nuova ondata colpi di Stato ha provocato una reazione politica immediata che è coincisa con una profonda riflessione sulle possibilità di promuovere un concreto rafforzamento delle capacità dell’UA e delle organizzazioni sub-regionali nella prevenzione del fenomeno. In altre parole, il fatto che sia a livello continentale che sub-regionale sia emerso un concreto interesse politico a consolidare e perfezionare un

118 meccanismo di prevenzione delle crisi in parte già delineato agli inizi del decennio è apparso meritevole di attenzione; il nuovo framework africano di risposta ai golpe, nel quale si è inserita un nuovo capitolo della collaborazione con l’ONU, si è formato nella reazione alle situazioni di Mauritania e Guinea ed è poi stato messo a dura prova dagli accadimenti in Niger e Madagascar. Altro aspetto che giustifica tale scelta è il fatto che i diversi golpe esaminati si riferiscono a diversi contesti sub-regionali – Africa Occidentale, Africa Meridionale – dove, accanto al ruolo giocato dall’UA e dall’ONU, l’azione delle comunità economiche regionali, ECOWAS e SADC, è stata fondamentale nel definire tempi e modi della politica di gestione delle diverse crisi costituzionali. In altre parole, le mediazioni condotte per facilitare il ritorno all’ordine costituzionale in Madagascar, in Guinea, in Niger consentono di far luce su alcuni aspetti della cooperazione triangolare ONU-Unione Africana-Comunità Economiche Regionale. La selezione dei casi di Honduras e Myanmar è parsa per certi versi naturale: oltre a costituire le più recenti crisi che hanno coinvolto rispettivamente OAS e ASEAN, le vicende dei due Paesi hanno messo a dura prova i principi alla base delle due organizzazioni. Mentre l’Honduras ha rappresentato per l’OAS l’ultima sfida al rispetto della solidarietà democratica intra-americana, l’evoluzione della situazione nell’ex Birmania è coincisa con una significativa rivisitazione e ridimensionamento del principio di non-interferenza tradizionalmente alla base dell’ASEAN. Un ridimensionamento che, come vedremo, non si è tuttavia imposto in relazione all’altra situazione delicata che ha coinvolto l’ASEAN, ovvero il rovesciamento del primo ministro Thaksin Shinawatra. Nondimeno, il caso di Myanmar ha anche dato vita ad interessante dibattito sulle modalità di implementazione del principio della responsabilità di proteggere. In relazione all’UE, la scelta del Kosovo si spiega con la sua natura di crisi che, dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza, ha indubbiamente sollevato un dibattito assai delicato all’interno della membership delle Nazioni Unite. Sul Kosovo, le capacità dell’Unione Europea di usare con efficacia la vastità di strumenti di cui dispone nell’ambito della prevenzione dei conflitti sono messe a dura prova. La filosofia politica dell’allargamento e l’attaccamento europeo al principio della creazione di stati multi-etnici e democratici nei territori dell’ex-Jugoslavia – aspetti fondamentali della strategia di prevenzione dell’UE nei Balcani – affrontano la sfida delicata di contribuire ad una soluzione pacifica della crisi e neutralizzare definitivamente la persistente tensione tra Pristina e Belgrado.

119 3.1 I colpi di stato in Africa nel biennio 2008-2010

Nel corso degli ultimi anni, i colpi di stato verificatisi in Repubblica centroafricana (marzo 2003) Sao Tome Principe (luglio 2003), Guinea Bissau (settembre 2003), Togo (febbraio 2005), Mauritania (agosto 2005 e agosto 2008), Guinea (dicembre 2008), Madagascar (marzo 2009), Niger (marzo 2010) hanno destato l’impressione, tra molti osservatori, che il continente africano, dopo la felice parentesi di democratizzazione che aveva segnato gli anni ‘90, stia riproponendo drammaticamente un fenomeno - quello dei golpe militari - che aveva costituito la normalità della storia e della geografica politica africana nei primi decenni successivi alla decolonizzazione 246. Tra l;inizio degli anni ‘60 e la fine degli anni ‘70 si ebbero nell’Africa sub-Sahariana ben 47 casi di presa del potere da parte dei militari, oltre ad un numero elevatissimo di falliti golpe. 17 putsch militari furono invece coronati da successo nel brevissimo periodo tra il 1966 e il 1970. Tra il 1980 e la fine degli anni ´90 vi furono infine 33 colpi di stato. Sino all’inizio degli anni ’90, non si registrò alcun caso di mutamento di governo attraverso il voto e ben pochi furono gli episodi di ritiro volontario dall´esercizio del potere. Aden Abdullah Osman in Somalia (giugno 1967), Leopold Senghor in Senegal (dicembre 1980), Ahmadou Ahidjo in Cameron (novembre 1982), Juilius Nyerere in Tanzania (ottobre 1985) rappresentarono gli unici casi, sebbene tutti avessero confermato il ritiro solo dopo la designazione di un successore. Nel corso degli anni ‘90, l’avanzamento della prassi democratica in diversi Paesi del continente contribuì a plasmare un nuovo clima politico, fondato sulla promozione del costituzionalismo, del multipartitismo, del buon governo e dello stato di diritto. Molti Paesi, pur organizzando consultazioni elettorali spesso poco credibili, adottarono il principio delle libere elezioni democratiche247. Processi intensi di democratizzazione coinvolsero Paesi come il Sud Africa - dove Nelson Mandela divenne presidente nel 1994 - il Ghana, la Nigeria, la Costa d´Avorio. Tentativi più o meno efficaci di democratizzazione si estesero alle varie sub-regioni del continente, coinvolgendo il Mali, la Tanzania, lo Zambia. In un continente che pareva assuefatto all´ipotesi di tollerare capi di stato e di governo a vita, le rinunce di Mandela a ricandidarsi alla presidenza del Sud Africa, ma ancor più quelle di Frederick Chiluba nello Zambia, Jerry Rawlings in Ghana, Daniel Arap Moi in Kenya, Omar Konaré in Mali, Joachim Chissano in

246 Pat McGowan- Thomas H. Jonhson, African Military Coups d’Etat and Underdevelopment: a Quantitative Historical Analysis, Journal of Modern African Studies, 22, December 1984, pag. 633-666.

247 Cfr. Valerio Bosco, Africa: I colpi di stato tra passato e presente, consultabile sul sito: www.diario21.net/index.php ultimo accesso 12 dicembre 2010

120 Mozambico e Olegun Obasanjo in Nigeria confermavano l´emergere di una nuova visione della politica. Gli accadimenti registratisi in Sierra Leone nel 1997 schiusero le porte per un drastico cambio di rotta. Per la prima volta, l’Organizzazione per l’unità africana, predecessore dell’UA, sostenuta dai leaders africani, pressoché all´unanimità, condannò il golpe militare che aveva condotto alla rimozione del Presidente Tejan Kabbah e rifiutò di riconoscere il nuovo regime, colpevole di aver violato la costituzione del Paese. Fu sulla scia di quanto accadde in Sierra Leone che la dichiarazione di Lomé (Togo) sui mutamenti incostituzionali di governo - adottata dai capi di stato e di governo dell´OUA nell´estate del 2000 - codificò il primo importante cambiamento rivoluzionario nella politica dell´organizzazione rispetto ai coup d´etat248. Il fenomeno veniva identificato come un preoccupante arretramento nel processo di democratizzazione dell´Africa e, al contempo, come una grave minaccia alla pace e alla sicurezza continentale. La dichiarazione di Lomé riconobbe i “mutamenti di governo incostituzionali” in 4 tipologie:

a) golpe militari contro governi eletti democraticamente; b) intervento di mercenari volti alla rimozione di governi eletti democraticamente; c) rimozione di governi eletti per effetto dell´azione di gruppi dissidenti armati ; d) rifiuto di un governo in carica di abbandonare il potere in favore del partito politico vincitore di una consultazione elettorale libera e trasparente.

La dichiarazione di Lomé pose altresì particolare enfasi sul rispetto di alcune condizioni sistemiche - rispetto della costituzione, del principio della separazione dei poteri, dell’indipendenza del potere giudiziario, multipartitismo, organizzazione di elezioni periodiche, libere e trasparenti - capaci di prevenire il fenomeno dei colpi di stato249. La sospensione immediata del Paese in cui si era registrato il golpe dalla partecipazione ai lavori dell’OUA e la concessione, alle autorità “de facto”, di un periodo massimo di 6 mesi entro il quale favorire il ritorno alla legittimità costituzionale sintetizzavano la politica di condanna del fenomeno e istituzionalizzavano la riposta dell’organizzazione. Secondo il dettato della

248 Issaka Toure, Civil Wars and Coups d’État in West Africa: An Attempt to Understand the Roots and Prescribe Possible Solutions, Lanhamn, University Press of America, 2006.

249 Issaka Toure, The AU and the Challenges of Unconstitutional Changes of Government in Africa, Institute for Security Studies,ISS Paper 197, August 2009.

121 dichiarazione, il mancato rispetto della scadenza suddetta poteva coincidere con l’adozione di “sanzioni mirate” - congelamento dei beni, diniego dei visti, etc. - destinate a colpire le singole personalità del regime golpista. L´atto costitutivo dell’Unione Africana, siglato nel luglio 2008, rappresentò il vero passaggio rivoluzionario nella storia dell´organizzazione continentale. L´articolo 4 (h) della nuova istituzione riconosceva all´UA il diritto di intervenire in uno Stato membro in presenza di gravi circostanze come crimini di guerra, genocidio o crimini contro l´umanità. L´UA codificava pertanto l´emergente principio giuridico della “responsabilità di proteggere la popolazione civile”, ben prima di ogni altra organizzazione regionale e internazionale e con grande anticipo rispetto al sistema ONU, all´interno del quale la norma emergente è tutt’ora oggetto di controversie interpretative. In particolare, l’articolo suddetto sintetizzava un preciso mutamento di paradigma nel sistema delle relazioni diplomatiche inter-africane: il vecchio principio della non-interferenza, che spesso era coinciso con una sorta di "disinteresse istituzionale" rispetto alle gravi violazioni dei diritti umani o delle libertà civili e politiche compiute da singoli Stati membri, veniva sostituto dal principio dell´intervento e della non-indifferenza che annullava la tradizionale immunità di fatto garantita ai regimi autocratici del continente. È in questo contesto politico e culturale, legato alla nascita dell´Unione Africana, che il consolidamento della politica continentale di contrasto ai colpi di stato compie passi di grande rilievo. Nel 2002, al Consiglio di pace e di sicurezza dell´UA veniva infatti assegnato il delicato mandato di promuovere la pace, la sicurezza e la stabilità in Africa attraverso la promozione della democrazia, del buon governo, del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il “Consiglio di Sicurezza africano” diveniva così l’organo incaricato di approvare le sanzioni contro gli autori dei colpi di Stato e di dare applicazione alla dichiarazione di Lomé. Fu però la Carta sulla democrazia, le elezioni e la governance, firmata ad Addis Abeba nel gennaio 2007, a completare il quadro politico e normativo della politica di contrasto ai colpi di stato250. Mentre la manipolazione delle costituzioni alfine di perpetuare in maniera illegittima la permanenza al governo veniva indicata come la quinta tipologia del colpo di stato, l’articolo 25 della Carta di Addis Abeba sanciva il divieto della auto-legittimazione da parte delle autorità golpiste, decretando cioè “l´impedimento per gli autori del colpo di stato di partecipare alle elezioni tese a ristabilire l´ordine costituzionale violato e di occupare posizioni di responsabilità all´interno delle istituzioni politiche del Paese”.

250 African Charter on Democracy, Elections and Governance, Addis Ababa, 30 January 2007; cfr. anche AU Peace and Security Council Report: the African Charter on Democracy, Elections and Governance, March 2010, pag. 1o.

122 Oltre a ribadire la possibilità dell’adozione di sanzioni da parte del Consiglio di pace e sicurezza contro i Paesi ritenuti di appoggiare e sostenere le autorità golpiste, la Carta riconosceva altresì la possibilità di perseguire i “perpetrators of unconstitutional change of government” innanzi ai competenti organi giudiziari dell´Unione Africana. I tre strumenti dell’UA – la dichiarazione di Lomé, l’atto costitutivo e, infine la Carta di Addis Abeba prefiguravano così un processo di gestione delle crisi costituzionali/colpi di stato che doveva cominciare con la condanna immediata del golpe da parte dal Chairperson della Commissione dell’Unione Africana, proseguire con la convocazione di una riunione ad hoc del Consiglio di pace e sicurezza e culminare, infine, con la sospensione di 6 mesi dalla partecipazione ai lavori degli organi politici dell’Organizzazione. Il periodo dei 6 mesi indicava fatto indicava lo spazio temporale per la definizione di una soluzione diplomatica al ripristino dell’ordine costituzionale; alla scadenza prescritta le sanzioni mirate costituivano lo strumento di risorsa estrema per piegare la volontà delle autorità di fatto al rispetto del framework continentale in materia di uncostitutional change of government251. È all’interno di tale quadro istituzionale che dovrà essere esaminata l’azione dell’UA, dell’ONU e delle comunità economiche regionali nella gestione delle crisi scoppiate in Mauritania, Guinea, Madagascar e Niger.

i) Mauritania

Il 6 agosto 2008, un colpo di stato guidato dal Generale Mohammed Ould Abdel Aziz, ex capo di Stato Maggiore dell’esercito nazionale e capo della guardia presidenziale, rimosse dal potere Sidi Mohammed Ould Cheikh Abdallahi, il primo presidente eletto democraticamente nella storia della Mauritania, il quale fu posto agli arresti nel palazzo della presidenza nella capitale Nouakchott. Il Consiglio di pace e sicurezza dell’UA condannò immediatamente il colpo di Stato, sospese la membership della Mauritania dall’Organizzazione, domandò il ritorno all’ordine costituzionale attraverso “l’incondizionato re-insediamento” del presidente Abdallahi, dichiarando altresì nulle le misure costituzionali e legislative assunte dal Generale Aziz e minacciando infine l’adozione di sanzioni252.

251 Issaka Toure, The AU and the Challenges of Unconstitutional Changes of Government in Africa, cit. , pag. 10-11.

252 African Union, Peace and Security Council, Communiqué adopted on 22 September 2008.

123 Quasi contemporaneamente, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU approvò una dichiarazione presidenziale che condannava il golpe e chiedeva il rilascio immediato del presidente Sidi Mohamed Ould Cheikh Abdallahi e il ripristino delle istituzioni legittime, costituzionali e democratiche253.

Il pronunciamento del CdS schiuse l’opportunità per l’avvio di un processo di coordinamento della mediazione internazionale mediante l’organizzazione di una serie di riunioni consultative tra l’Unione Africana ed i suoi principali partners, in particolare, l’Unione Europea, l’Organizzazione Internazionale della Francofonia, La Lega Araba e l’Organizzazione della Conferenza Islamica. L’idea di questo foro consultivo era quello di scambiare informazioni sulla situazione in Mauritania e di delineare, sotto la guida dell’UA, una pressione diplomatica congiunta sulle autorità di fatto per favorire il ritorno all’ordine costituzionale e definire eventualmente azioni comune in materia. 254

Qualche sviluppo in senso positivo sembrò arrivare dalla decisione della giunta militare di liberare, il 21 dicembre 2008, il presidente Abdaallahi; nonostante ciò, nessuna delle richieste dell’Unione Africana fu assecondata e il CPS, pur salutando positivamente il ritorno alla libertà del legittimo presidente, dichiarò la propria determinazione a ricorrere all’applicazione del framework per la riposta continentale ai colpi di Stato annunciando che, allo scadere dei 6 mesi previsti dai tre documenti dell’Organizzazione, avrebbe proceduto all’imposizione di sanzioni mirate255. Il 5 febbraio 2009 il CPS decise pertanto di imporre il congelamento dei beni e il blocco dei visti contro tutti i civili e i militari che contribuivano al mantenimento dello status quo incostituzionale; tali misure furono applicate in seguito alla definizione di una lista di nomi da parte del Consiglio stesso.

La determinazione mostrata dal CPS sembrò a tratti ostacolata dalla diplomazia di Gheddafi, il quale, intervenendo innanzi al Parlamento di Nouakchott lasciò chiaramente intendere di non gradire la reazione dell’UA e di preferire la conferma dei militare al potere.

253 United Nations Security Council, Presidential Statement, 19 August 2008.

254 Communiqué: Consultative Meeting on the Situation in Mauritania, Addis Ababa,10 November 2008; Communiqué: Consultative Meeting on the Situation in Mauritania, Bruxelles,12 December 2009; Communiqué: Consultative Meeting on the Situation in Mauritania, Paris, 23 January 2009.

255 Mauritania: What Way Out of the Political Crisis in the Country, Institute for Security Studies, 16 March 2009.

124 Le grandi pressioni esercitate della Libia per spingere l’UA ad accettare la completa estromissione dal processo politico dell’ex presidente sembrarono per certi versi vincenti; su invito delle autorità militari, Abdaallahi fu indotto a firmare un documento attestante in maniera ufficiale le sue dimissioni e affidare altresì i poteri ad un governo di transizione chiamato ad organizzare le elezioni previste per il 18 luglio. Nondimeno, sempre sotto la regia di Tripoli, le dimissioni dall’esercito del generale Abdelaziz consentirono all’autore del golpe di partecipare alle elezioni ed ottenere la conferma al potere. Nonostante le proteste delle opposizioni, che pure erano state reintegrate nel processo elettorale grazie alla mediazione condotta dal Senegal, le elezioni furono giudicate “free, fair and transparent” da diversi osservatori internazionali, inclusa una missione di osservazione condotta dall’UA. Una riunione del Consiglio di pace e sicurezza, svoltasi a Tripoli il 29 giugno 2009 dichiarò di fatto ristabilito l’ordine costituzionale e dispose la rimozione delle sanzioni256.

ii) Guinea Conakry

Una giunta militare guidata dal capitano Moussa Dadis Camara prese il potere a Konacry il 23 decembre 2008 poche ore dopo la morte del Presidente Lansana Conte, al potere da oltre vent’anni. La reazione dell’UA e dell’ECOWAS fu rapida e senza esitazioni: rispettivamente il 29 dicembre 2008 e il 10 gennaio 2009, le due organizzazioni condannarono il colpo di Stato e sospesero la Guinea dalla partecipazione ai loro lavori. L’UA e l’ECOWAS assunsero la leadership del processo di mediazione per il ritorno all’ordine costituzionale e promossero la creazione di un gruppo internazionale di contatto che includeva la Comunità degli Stati del Sahel-Sahara (CEN-SAD), le Nazioni Unite, l’Unione Europea, l’Unione del Manu River, l’Organizzazione Internazionale della Francofonia, l’Organizzazione per la Conferenza Islamica, il presidente del CPS, i membri africani ed i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU257. Pensato per sostenere le decisioni e l’iniziativa diplomatica dell’UA e dell’ECOWAS, il gruppo si riunì per la prima volta ad Addis Abeba il 30 gennaio 2009 alfine di delineare una strategia di accompagnamento del ripristino dell’ordine costituzionale a Conakry.

256 Communiqué of the ICG on the situation in Mauritania, 10 September 2009.

257 International Crisis Group, Guinea-Bissau: Beyond Rule of the Gun, Africa Briefing N°61, 25 Jun 2009

125 Una shuttle diplomacy piuttosto intensa vide protagonisti, in particolare, funzionari dell’ECOWAS e lo Special Representative dell’ONU e capo dello UN Office for West Africa, l’algerino Said Djinnit.

Nel marzo del 2009, una coalizione di forze della società civile – Force vives - presentò una proposta per la tenuta di elezioni legislative e presidenziali entro la fine dell’anno.

Quando il capitano Camara, assieme agli altri membri del Consiglio nazionale per lo sviluppo e la democrazia (CNND) rifiutò di confermare l’impegno a non presentarsi come candidato nelle elezioni presidenziali per il ripristino della legittimità costituzionale, l’UA decise di imporre sanzioni mirate contro i membri del CNDD e tutti gli individui, militari e civili, le cui attività fossero finalizzate al mantenimento dello status quo incostituzionale.258 La settima sessione del gruppo internazionale di contatto, svoltasi a New York nel settembre 2009 ai margini dell’Assemblea Generale dell’ONU, si svolse nel clima di shock seguito al massacro di oltre cento civili – che manifestavano per chiedere la fine del regime militare – perpetrato dalle truppe fedeli a Camara nello stadio di Conakry. L’indignazione internazionale che seguì un massacro che coinvolse donne e bambini fu all’origine della decisione del Segretario Generale di creare una commissione internazionale d’inchiesta per accertare le responsabilità del massacro259. Sostenuto da UNOWA e dall’Ufficio dell’Alto Commissario ONU per i rifugiati, la Commissione, in cooperazione con l’UA e l’ECOWAS, ha ascoltato oltre 700 persone ed ha pubblicato un rapporto che ha accusato le autorità di fatto di aver cercato di cancellare l’evidenza del massacro e ridimensionare il numero delle vittime. Il ferimento di Camara in un presunto tentativo di contro-colpo di Stato sembrò suggerire alla giunta la necessità di assumere un atteggiamento più cooperativo e favorevole al ripristino dell’ordine costituzionale. La tredicesima riunione dell’ICGA, svoltasi a Conakry dal 15 al 16 maggio 2010, manifestò apprezzamento per la decisione del presidente della transizione e capo di Stato ad interim, il generale di brigata Sékouba Konaté, di rispettare la data del 27 giugno 2010 come giorno dello svolgimento del primo turno delle elezioni presidenziali.260

258 Communiqué of the 204th Meeting of the PSC, 17 September 2009.

259 La Commissione Internazionale comprendeva Mohamed Bedjaoui of Algeria come Chairman, Françoise Ngendahyo Kayiramirwa del Burundi e Pramila Patten of Mauritius. Cfr. su questo: http://www.un.org/News/Press/docs/2009/sgsm12581.doc.htm , ultimo accesso 12 dicembre 2010.

260 Communiqué issued by the 13th meeting of the ICG on Guinea, Conakry, 15 to 16 May 2010.

126 In occasione del completamento delle operazioni di voto, il Segretario Generale dell’ONU espresse la soddisfazione del palazzo di vetro per la tenuta delle prime elezioni democratiche nella storia del Paese sin dal conseguimento della sua indipendenza.261 Il secondo turno delle elezioni si è svolto il 7 novembre 2010 assegnando la vittoria ad Alpha Conde, leader storico dell’opposizione guineana262. Il 10 dicembre, il Commissiario alla pace e alla sicurezza dell’Unione Africana,l’algerino Ramtane Lamamra ha annunciato la sospensione delle sanzioni adottate contro gli elementi della giunta militare che aveva preso il potere nel dicembre 2008263. Il 9 dicembre 2010 è stato infine il CPS dell’UA a manifestare soddisfazione per lo svolgimento regolare delle elezioni del 27 giugno e del 7 novembre ed a dichiarare la sospensione delle sanzioni contro la Guinea in virtù della piena restaurazione dell’ordine costituzionale264.

iii) Madagascar

Il 17 marzo 2009, il presidente eletto Marc Ravalomanana, in seguito ad una lunga disputa con l’opposizione, fu costretto dall’esercito alle dimissioni. Andry Rajoelina, leader dell’opposizione ed ex-sindaco di Antanarivo ricevette l’investitura di nuovo presidente dall’esercito golpista. Il trasferimento dei poteri da Ravalomanana a Rajoelina fu interpretato a livello internazionale come un nuovo episodio di colpo di Stato in Africa; il 20 marzo 2009 il Consiglio di pace e sicurezza dell’UA decise di sospendere il Madagascar dai lavori dell’Organizzazione sino alla piena restaurazione dell’ordine costituzionale; l’ipotesi di ricorrere all’adozione di sanzioni contro le autorità di fatto fu affermata energicamente nel comunicato approvato dall’organo dell’Unione Africana265.

261 Guinea earns UN plaudits after peaceful staging of presidential election, 27 June 2010, UN News Centre.

262 African Union, Press Release: The Chairperson of the Commission of the African Union commends the smooth conduct of the second round of the presidential election in the Republic of Guinea, 8 November 2010.

263 African Union lifts sanctions against Guinea, 10 December 2010, consultabile sul sito www.africanews.com, ultimo accesso 12 dicembre 2010.

264 African Union, Peace and Security Council, 252nd Meeting, 9 December 2010, PSC/PR/COMM.2 (CCLII).

265 African Union, Peace and Security Council, 181st Meeting, 20 March 2009, Communiqué, Addis Ababa, Ethiopia, PSC/PR/COMM. (CLXXXI).

127 Una medesima decisione fu adottata dalla SADC il 30 marzo 2009266; nel frattempo, nei primi giorni dell’aprile 2009, indiscrezioni emerse nella comunità diplomatica africana ad Addis Abeba, sede dell’Unione Africana, facevano riferimento ad un’iniziativa segreta della comunità economica regionale volta ad ottenere il consenso di parte dell’esercito malgascio per promuovere una sorta di contro-colpo di stato, mirante a favorire il re-insediamento del presidente Ravalomanana. Nei primissimi giorni della crisi, l’ONU aveva inviato ad Antanarivo l’Assistatant Secretary- General Haile Menkerios, alfine di convincere le autorità al potere ad avviare un processo di transizione politica aperto a tutte le componenti del sistema politico; nel mese di aprile le Nazioni Unite nominarono altresì un Senior Adviser sul Madagscar, il maliano, Tiebile Dramé. La situazione del Madagascar cominciò presto a risultare complicata in relazione alla pluralità di attori che reclamavano il diritto di partecipare attivamente alla transizione. Tra questi, oltre all’ex presidente Zafy, figurava anche Didier Ratsiraka, il quale, nel 2002 era stato escluso dalla competizione elettorale dallo stesso Ravalomanana267. Nel timore di un avvitamento della tensione politica, l’Unione Africana e le Nazioni Unite cercarono di favorire la creazione di un nuovo International Contact Group alfine di esercitare una più coordinata pressione internazionale per il ripristino dell’ordine costituzionale ad Antanarivo268. L’International Contact Group, ICG-Madagascar, che comprendeva l’UA, l’ONU, la SADC, l’organizzazione per il mercato comune dell’Africa meridionale e orientale (COMESA, Common Market for Eastern and Southern Africa (COMESA), la Commissione per l’Oceano Indiano, l’Unione Europea, i membri africani e i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, si riunì per la prima volta ad Addis Abeba alla fine dell’aprile 2009269.

266 Communiqué of the Extraordinary Summit of SADC Heads of State and Government on Madagascar, 30 March 2009

267 In quella circostanza, fu infatti Ravalomanana a compiere una sorta di golpe, autoproclamandosi presidente prima del secondo turno e suscitando la reazione dell’UA che aveva immediatamente sospeso la membership del Madagascar. Solo dopo forti pressioni internazionali, Ravalomanana aveva accettato l’organizzazione di nuove elezioni nell’autunno del 2002; la sua conferma mediante elezioni che sembrarono libere e regolari gli valsero la riconciliazione con l’Unione Africana e la piena reintegrazione di Antanarivo nell’organizzazione. Cfr. su questo, International Crisis Group, Madagascar: Sortir Du Cycle de Crises, Rapport Afrique, n.156, 18 Mars 2010.

268 Communiqué adopted by the PSC following its 221st meeting, 17 March 2010.

269 African Union, 5th Meeting of the International Contact Group on Madagscar, 18 February 2010.

128 La nomina da parte di SADC dell’ex presidente del Mozambico, Joaquim Chissano, come inviato speciale dell’organizzazione indicò la chiara volontà della comunità economica regionale di assumere la leadership nel processo di mediazione delle crisi e sollevò altresì la delicata questione della possibile proliferazione di mediatori e delle necessità di garantire un efficace coordinamento delle iniziative miranti a favorire il ritorno dell’ordine costituzionale ad Antanarivo. Il rango e il prestigio di Chissano, la sua conoscenza e familiarità con le dinamiche regionali era indubbiamente maggiore di quella detenuta dallo special adviser ONU Drammé o dall’ivoriano Amara Essy, ex ministro degli esteri e ultimo segretario generale dell’OUA, il quale promosse con ostinazione la necessità di coinvolgere tutti gli attori politici malgasci nel processo di transizione. La nomina dell’ex presidente mozambicano confermava l’idea della SADC di rivendicare il suo ruolo centrale nella prevenzione e gestione delle crisi nella propria area di competenza sub-regionale270. Fu infatti con la mediazione determinante di Chissano che le parti malgascie siglarono, nell’agosto 2009, gli accordi di Maputo, un’intesa finalizzata alla definizione di una bozza provvisoria di power sharing agreeement relativo all’occupazione di cariche ministeriali nel governo ad interim incaricato di guidare il ritorno all’ordine costituzionale e la convocazione di elezioni libere e competitive271. Le misure unilaterali prese tuttavia dal presidente di fatto Rajeolina poche settimane dopo la firma degli accordi di Maputo creò una nuova situazione di impasse. Rajeolina lasciò infatti chiaramente intendere la propria volontà di non rispettare gli accordi suddetti e si attivò per l’attribuzione di ruoli e posizioni chiave nelle istituzioni della transizione ai suoi fedelissimi, nomando in particolare, il 4 Monja Roindefo come primo ministro. Il nuovo atto di sfida del presidente illegittimo fu seguito da una tesa sessione dell’Assemblea Generale dell’ONU dove il gruppo SADC inscenò una clamorosa protesta per impedire al presidente golpista di prendere la parola in occasione del dibattito tra i capi di Stato e di governo degli Stati membri del palazzo di vetro272.

270 African Union, Communiqué of the Consultative Meeting on the situation in Madagascar, Addis Ababa, 22 July 2009.

271 Les Negociations de Maputo, Annexe D, in International Crisis Group, Madagascar: Sortir Du Cycle de Crises,cit., pag. 38.

272 Margaret Besheer, Madagascar President Prevented From Attending the UN General Assembly, consultabile sul sito: http://www.globalsecurity.org/military/library/news/2009/09/mil-090926-voa05.htm, ultimo accesso 23 ottobre 2010.

129 Nonostante l’episodio di New York, la nomina di un nuovo primo ministro gradito ai 4 movimenti, Eugene Mangalaza, sembrò spianare la strada ad una soluzione della crisi; dopo la convocazione di una terza riunione dell’ICG-Madagascar, l’Unione Africana, assieme all’ONU e alla SADC, facilitò la definizione di un nuovo e più preciso accordo sulla distribuzione dei portafogli ministeriali e delle varie cariche di alto profilo delle istituzioni della transizione; assieme agli accordi di Maputo, l’Atto Addizionale di Addis Abeba aveva il merito di indicare le coordinate di un processo di transizione consensuale capace di unire le leadership dei quattro movimenti politici guidati da Rajoelina, Ravalomanana, Didier Ratsiraka and Albert Zafy273. Una nuova riunione dei leaders delle opposizioni con il mediatore Chissano a Maputo, volta ad accelerare il processo di formazione di un governo di unità nazionale fu tuttavia boicottata da Rajoelina, il quale, alla vigilia di Natale, licenziò il primo ministro consensuale nominando in sua sostituzione il colonnello dell’esercito Camile Vitale ed annunciando, altresì, la volontà di procedere unilateralmente all’organizzazione di una consultazione elettorale. La reazione del Consiglio di pace e sicurezza, sostenuto dall’ICG-Magadascar, non si lasciò attendere274: in occasione della sua 216esima sessione, tenutasi il 19 febbraio 2010, il CPS chiese il rispetto integrale degli accordi di Maputo e dell’atto addizionale di Addis Abeba, indicando la data del 16 marzo come termine massimo entro il quale Rajoelina avrebbe dovuto confermare formalmente la propria volontà di onorare gli impegni presi275. Il 17 marzo, poche ore dopo la scadenza dell’ultimatum, il CPS adottò un pacchetto di sanzioni che includeva il travel ban, il congelamento dei beni, il blocco dei visti e l’isolamento diplomatico per Rajoelina e 118 politici e alti funzionari legati al governo golpista. Contemporaneamente, il CPS chiese al Chairperson della Commissione dell’UA, in stretta collaborazione con la SADC e l’ICG- Madagascar di monitorare l’applicazione delle sanzioni e continuare tuttavia a favorire il dialogo per il ripristino dell’ordine costituzionale ad Anatanarivo. Il CPS chiese altresì a tutti i partners dell’UA, specialmente l’ONU, l’Unione Europea e i vari partners bilaterali a sostenere la decisione dell’organizzazione e ad astenersi “ da ogni

273 Union Africaine, Rapport du President de la Commission sur la situation a Madagascar, 19 Février 2010, Addis Abeba, Ethiopie, PSC/pr/2 (CCVI).

274 5th Meeting of the International Contact Group on Madagascar: Communiqué, Addis Ababa, 18 February 2010

275 African Union, Peace and Security Council, 216th Meeting, 19 February 2010, Communiqué, Addis Ababa, Ethiopia, PSC/PR/COMM.1 (CCXVI).

130 azione che potesse inviare un segnale sbagliato ai responsabili del mutamento di governo incostituzionale in Madagascar” 276. Ad oggi, Andry Rajoelina ha ribadito la propria indisponibilità a rispettare gli accordi di Maputo e Addis Abeba; la sospensione del Madagascar dall’UA e le sanzioni votate dall’UA nel marzo 2010 rimangono ancora in vigore. Il 17 novembre 2010 un referendum costituzionale ha approvato una riforma che, abbassando l’età richiesta per occupare la carica di capo dello Stato, consente al presidente Rajoelina di conservare un ruolo centrale nella transizione e di competere per eventuali elezioni presidenziali indette per la primavera del 2011.

iv) Niger

Proprio nei giorni in cui il CPS si apprestava a valutare l’adozione di sanzioni contro Rajoelina ed i suoi alleati, un nuovo colpo di Stato, largamente annunciato, scosse il Niger, Paese da mesi alle prese con una durissima crisi economica e con una carenza di cibo ormai divenuta cronica. Il presidente Tandja aveva da tempo minacciato di sfidare la corte costituzionale e il Parlamento nazionale alfine di ottenere un terzo termine come presidente della repubblica277. Sulla base della costituzione del Paese, il secondo mandato di Tandja, l’ultimo possibile, scadeva alla fine del dicembre 2009; il presidente in carica cercò invece di ottenere la convocazione di un referendum costituzionale che lo autorizzasse ad ottenere un prolungamento triennale. Lo scioglimento illegittimo del Parlamento, l’indizione del referendum costituzionale senza il consenso del potere legislativo, l’affronto alla corte costituzionale, spinsero l’opposizione a parlare di golpe costituzionale, al quale, un gruppo di militari riuniti nel Consiglio Supremo per la Restaurazione della Democrazia rispose con un colpo di stato278. In linea con la politica dettata dai suoi strumenti in materia di golpe, l’UA sospese immediatamente la membership del Niger, ma il CPS non identificò la restaurazione dell’ordine costituzionale con il re-insediamento del presidente golpista Tandja. Infatti, prima dell’intervento

276 African Union, Peace and Security Council, 221st Meeting, 17 March 2010, Communiqué, Addis Ababa, Ethiopia, PSC/PR/COMM. (CCXXI); African Union Imposes Sanctions on Madagascar, 17 March 2010, Reuter, ultimo accesso 22 settembre 2010.

277 International Crisis Group, Crisis Watch, 15 January 2010.

278 Coup d’Etat in Niger, What’s next, France24, 16 February 2010, Niger: Military Seize Power, 14 February allafrica.com/stories/201002190015.htm, ultimo accesso 12 dicembre 2010.

131 dei militari, il CPS, in concerto con il mediatore dell’ECOWAS, il generale Abdulsalami Abubakar e lo SRSG dell’ONU per l’Africa occidentale, Said Djinnit, era impegnato nel favorire una soluzione alla crisi politica nata dal tentativo dell’ex-presidente di “legalizzare e legittimare un atto di illegalità costituzionale”279. Nondimeno, l’Unione Africana accrebbe il profilo del suo coinvolgimento nella crisi in Niger mediante la nomina dello Special Envoy, Albert Tevoedjere, del Benin, al fine di sostenere l’azione di leadership svolta dall’ECOWAS. La giunta militare al potere a Niamey ha del resto preso atto della condanna formulata dall’UA e dall’ECOWAS ed ha promesso di voler organizzare con rapidità nuove elezioni alfine di dar vita ad un nuovo governo sostenuto dal legittimo e democratico voto popolare.

v) Il rilancio della politica di tolleranza zero da parte dell’UA e il pronunciamento storico del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel maggio 2009

Appare qui importante sottolineare come i casi di Guinea, Madagascar e Nigeria abbiano di fatto accompagnato e accelerato un nuovo processo di aggiornamento della politica e degli strumenti dell’UA in materia di contrasto ai colpi di Stato. Un retreat meeting del CPS svoltosi a Ezulwini, in Swaziland, dal 17 al 19 dicembre 2009, trovò l’accordo per l’approvazione di un documento volto a rafforzare l’efficace della politica di contrasto dell’UA ai colpi di stato, nonché a promuovere la concreta implementazione delle misure sanzionatorie adottate contro gli autori dei colpi di Stato mediante l’accelerata creazione di un comitato sanzioni, organo ausiliario del Consiglio chiamato a riprodurre l’esperienza dei Sanctions Comittee del Consiglio di Sicurezza dell’ONU280. Sulla base del cosiddetto consenso di Ezulwini, il chairperson della Commissione dell’UA, il gabonese Jean Ping ha infine presentato un articolato rapporto intitolato “Prevenzione dei mutamenti incostituzionali di governo e rafforzamento delle capacità dell’Unione Africana di

279 African Union, Communiqué, The Chairperson of the Commission Condemns the Seizure of Power by Force in Niger, Addis Ababa, 19 February 2010.

280 Conseil de Paix and Securité, 213eme Reunion, 27 Janvier 2010, Cadre d’Ezulwini pour le renforcement de la mise en ouvre des disposition des l’Unione Africaine dans les situations des changements anticonstitutionnel de government in Afrique, PSC/PR/(CCXIII); African Union, 178th Meeting of the Peace and Security Council, Communiqué,13 March 2009;

132 gestire tali situazioni”, sottoposto, nel gennaio 2010, all’attenzione della 14esima sessione ordinaria dell’Assemblea dei capi di stato e di governo dell’Unione Africana. Il Summit dell’AU ha adottato gran parte delle raccomandazioni presentate da Jean Ping, sottolineando in particolare di istituzionalizzare un’insieme di “prohibitive stipulations”pensate come strumento di deterrenza contro gli autori del golpe. Queste misure includevano: a) la proibizione dello o degli autori dei golpe di partecipare a nuove elezioni politiche; b) la possibilità che gli autori di colpi di Stato siano processati dalle “legittime autorità giuridiche dell’Unione” come la Corte Africana sui diritti umani e dei popoli c) la preparazione di un manuale delle sanzione adottate contro i golpisti e la definizione di misure di esenzione. Il Summit concordò del resto sulla necessità di promuovere una massiccia rivitalizzazione di tutta una serie di strumenti preventivi capaci di impedire, nel lungo periodo, lo sviluppo di nuovi colpi di stato. In particolare, il Summit fece indicò la Dichiarazione solenne sulla sicurezza, la stabilità, lo sviluppo e la cooperazione in Africa, l’African Peer Review Mechanism – meccanismo di revisione dei pari, basato sulla produzione di self-assessment da parte degli Stati sulla propria performance in materia di buona governance e rispetto dei diritti umani - la Carta Africana sui diritti dell’uomo e dei popoli, la Dichiarazione dell’OUA sui principi delle elezioni democratiche. Oltre a sollecitare la firma e la ratifica di questi strumenti, il Summit invocò l’accelerazione del processo di ratifica ed entrata in vigore della Carta Africana sulla democrazia, la buona governance e le elezioni, strumento che può essere considerato come la pietra angola della strategia dell’Unione Africana in materia di prevenzione strutturale del fenomeno dei colpi di stato281. La decisione del Summit suggerì infine di accrescere il coordinamento e l’armonizzazione delle iniziative condotte dall’UA, dai meccanismi sub-regionali e le Nazioni Unite nel mantenimento della pace e della sicurezza continentale, istituzionalizzando la prassi della creazione, da parte del CPS, degli International Contact Group pensati come foro internazionale per la mobilitazione e il sostegno internazionale alla politica di tolleranza zero contro i colpi di stato promossa dall’Unione Africana. I partner bilaterali e multilaterali, inclusi l’ONU e l’Unione Europea furono inoltre invitati a sostenere con energia le posizioni e le decisioni dell’UA e ad astenersi “from any action that could undermine the efforts of the AU and send confusing signals

281 Together with the Lomé Declaration, the Constitutive Act of the AU and the PSC Protocol, the African Charter represents the normative framework of AU policy on unconstitutional government change.

133 to the perpetrators of unconstitutional change of government”282, un riferimento implicito all’episodio che aveva suscitato le durissime proteste dell’Unione Africana e della SADC in occasione della sessione 2009 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, quando le regole di procedura e accreditamento del palazzo di vetro, non avevano potuto impedire al presidente golpista Rajoelina di rappresentare il Madagascar nel corso del dibattito tra i capi di stato di governo. L’episodio registratosi nel corso della 64esima sessione dell’AG dell’ONU non deve tuttavia ridimensionare l’importanza di una storica evoluzione registratasi nel meccanismo decisionale del Consiglio di Sicurezza. L’attiva diplomazia condotta dall’UA, dalle organizzazioni sub regionali africani e dal Segretario Generale dell’ONU attraverso i suoi inviati o rappresentanti speciali ha infatti creato le premesse per un superamento del tradizionale approccio ad hoc sui colpi di stato storicamente e ciclicamente adottato dal Consiglio di Sicurezza su ispirazione di alcuni dei suoi membri permanenti. Il 5 maggio del 2009 Consiglio di Sicurezza dell’ONU (CdS) ha infatti adottato una dichiarazione presidenziale che ha espresso profonda preoccupazione per il riemergere dei fenomeni dei colpi di Stato in Africa e degli “unconstitutional changes of government”. Oltre ad esprimere il proprio sostegno agli sforzi delle organizzazioni regionali e sub-regionali africane nella promozione di soluzioni pacifiche dei conflitti e nella difesa dell’ordine costituzionale, il CdS ha espresso formalmente la propria investitura alla politica dell’Unione Africana di condanna incondizionata dei colpi di Stato inquadrando il fenomeno come minaccia alla pace, alla sicurezza e alla stabilità del continente. Per la prima volta, il CdS, guidato dalla presidenza russa, sembrò di fatto delineare le coordinate di una UN policy rispetto ai colpi di Stato, superando così la tradizionale riluttanza dei membri permanenti del Consiglio ad assumere una posizione di principio sulla questione e archiviando, almeno ufficialmente, un approccio che tendeva a distinguere tra “good and bad coups d’Etat” e a formulare un giudizio positivo o negativo sui golpe in base alle possibilità di tutelare precisi interessi politici ed economici283. Nondimeno, il CdS, sottolineando la necessità di promuovere un approccio preventivo basato sulla promozione dei diritti umani, della democrazia, dello stato di diritto e del rispetto

282 Assembly of the African Union, Decision on the Prevention of Unconstitutional Changes of Government and Strengthening the Capacities of the African Union to Manage Such Situations, Doc. Assembly/AU/4(XVI), Fourteenth Ordinary Session, 31 January-2 February 2010, Addis Ababa, Ethiopia.

283 Security Council Report, The Resurgence of Coups d’État in Africa, Update report, 15 April 2009, consultabile sul sito www.securitycouncilreport.org

134 dell’ordine costituzionale, ha espresso profonda preoccupazione per possibili episodi di violenze che spesso rischiano di accompagnare i golpe nonché per il negativo impatto sul benessere economico e sociale della popolazione dei Paesi coinvolti284. L’implicito riferimento agli effetti negativi del congelamento degli aiuti spesso decretati dai partners internazionale in caso di rovesciamenti incostituzionali del potere politico legittimo fu infine accompagnato dall’enfasi posta sulla necessità di garantire il ritorno dell’ordine costituzionali mediante l’organizzazione di consultazioni elettorali libere e trasparenti285.

vi) Conclusioni

Il peso diplomatico dell’UA In virtù della sua autorità morale come istituzione continentale responsabile per il mantenimento della pace e della sicurezza in Africa, il CPS ha di fatto usato le sanzioni mirate come strumento capace di provocare un isolamento diplomatico delle autorità protagoniste dei colpi di stato e incoraggiare l’avvio di una transizione politica volta al ristabilimento dell’ordine costituzionale. Nonostante i problemi relativi alle concrete capacità dell’UA di garantire l’applicazione delle sanzioni, l’autorità morale detenuta dal PSC, sostenuta dall’endorsement del Consiglio di Sicurezza, organo che detiene comunque la primauté nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, non può essere sottovalutata. Il CPS, con la sua politica di tolleranza zero contro i colpi di Stato, fornisce infatti un contributo fondamentale alla promozione di una governance globale fondata sullo stato di diritto e sul costituzionalismo. Il rafforzamento del comitato sanzioni creato dal CPS come suo organo ausiliario incaricato di controllare il rispetto delle sanzioni applicate contro gli autori dei colpi di Stato appare un aspetto cruciale per dare credibilità all’intera politica di contrasto dell’UA ai mutamento incostituzionali di governo. Il Segretariato ONU con la sua oltre cinquantennale esperienza in materia di sanzioni e comitati sanzioni può offrire un contributo assai importante nella creazione di capacità dell’Unione Africana in materia.

Cooperazione tra CPS e Consiglio di Sicurezza

284 UN Security Council, Presidential Statement, PRST/2009/11, 5 May 2009; UN Security Council Report, Resurgence of coups d’etat in Africa, Update Report no. 3, April 2003.

285 UN Department of Public Information, Security Council Presidential Statement expresses deep concern over resurgence of unconstitutional changes of government ‘in a few African countries’, 5 May 2009.

135 Il ruolo giocato dall’Uganda nell’incoraggiare il Consiglio di Sicurezza a mutare il proprio tradizionale atteggiamento ad hoc in materia di colpi di stato in Africa conferma come esistano le potenzialità che un’azione coesa del gruppo di Paesi africani in seno all’ONU possa condizionare il processo decisionale del CdS. La dichiarazione presidenziale del maggio 2009 rappresenta una lezione importante sulla possibilità di ottenere dal massimo organo dell’ONU una formale investitura delle decisioni assunte dalle organizzazioni regionali. Il rafforzamento dei meccanismi di coordinamento tra i Paesi africani in seno all’ONU potrebbe agevolare enormemente la difesa e la promozione di posizioni e le decisioni assunte dal CPS dell’UA, dalla Commissione dell’Unione Africana e dalle organizzazioni sub-regionale. Appare tuttavia ancora remota la possibilità che i Paesi africani accettino di rafforzare la missione di osservazione dell’UA a New York assegnandole altresì il compito di promuovere tale coordinamento.

Rappresentanza delle autorità di fatto in seno alle Nazioni Unite Questione assai più complessa è indubbiamente quella legata all’episodio registratosi in senso alla riunione di apertura della 64esima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Sebbene l’ONU e il Segretariato dell’Organizzazione non abbiano una dottrina precisa in materia di colpi di stato, il palazzo di vetro è chiaramente guidato dal principio che gli “unconstitutional changes of government” violino i principi fondamentali della Carta, le norme fondamentali del diritto internazionali e i diritti umani internazionalmente riconosciuti. Le situazioni relative a Madagascar, Guinea e Mauritania hanno messo in luce la delicata questione delle rappresentanza degli Stati membri negli organi intergovernativi dell’ONU e la possibilità che essa venga esercitata dalle autorità di fatto autrici del colpo di stato. Occorre qui ricordare che un particolare sistema di norme e procedure regola il processo di accreditamento diplomatico presso le Nazioni Unite. In relazione al Madagascar, l’assenza di una precisa condanna da parte del CdS o dall’Assemblea Generale diede sostanzialmente alle autorità di fatto la possibilità di rappresentare il Paese nei diversi fori intergovernativi dell’organizzazione. Rappresentanti delle autorità golpiste furono del resto invitati dal presidente dell’Assemblea Generale a partecipare, nel giungo 2009, alla conferenza ONU sulla crisi economica e finanziaria mondiale. Tale circostanza sollevò le proteste, in particolare, dei Paesi appartenenti alla SADC, i quali interpretarono la vicenda come l’espressione di un chiaro riconoscimento politico delle autorità di fatto. Tale impressione fu tuttavia il risultato di una non corretta interpretazione delle norme che regolano il processo di accreditamento diplomatico all’ONU. Infatti, il potere di

136 accreditamento risiede unicamente negli stessi Stati membri, rappresentati all’interno di un credentials committee dell’Assemblea Generale286. Tale comitato è composto da nove membri eletti dall’AG all’inizio di ciascuna sessione annuale su proposta del presidente dell’AG; due dei nove membri appartengono tradizionalmente al gruppo africano. Il Segretario Generale dell’ONU come chief administrative officer dell’organizzazione non possiede alcun potere per limitare la partecipazione dei governi all’interno dei fori e organi intergovernativi delle Nazioni Unite. Una forte di presa di posizione unitaria dei Paesi membri dell’UA o della SADC in seno all’ONU avrebbe probabilmente impedito un simile misunderstanding; come vedremo in seguito, la condanna del colpo di Stato in Honduras, pronunciata dall’AG su forti pressioni del gruppo dei paesi latino-americani impedì alle autorità di fatto di partecipare ai lavori dei diversi organi onusiani, il cui accesso era invece garantito ai soli rappresentanti del governo rimosso del presidente Zelaya. La situazione verificatisi in relazione alla presenza di Rajoelina a New York durante i lavori della 64esima sessione dell’AG, solleva nuovamente la questione del coordinamento delle posizioni africane in seno all’ONU. Un’azione più concertata del gruppo africano all’ONU, magari grazie al coordinamento e alla leadership esercitata da una più forte rappresentanza dell’UA alle Nazioni Unite, avrebbe potuto indubbiamente spingere l’AG a formulare un pieno endorsement della politica dell’Unione Africana e delle organizzazioni sub-regionali in materia di colpi di stato. 287

Cooperazione UA-ONU-RECs La cooperazione tra UA-ONU-RECs è sembrata funzionare con particolare efficacia in Africa Occidentale, dove anche grazie al ruolo di UNOWA, l’intesa tra UA ed ECOWAS ha accompagnato, senza frizioni diplomatiche, l’intesa fase di mediazione in Guinea e Niger. La cooperazione triangolare ONU-UA-ECOWAS ha indubbiamente le potenzialità di contribuire in maniera crescente alla difesa della pace, della sicurezza e della stabilità nella sub-regione. L’esperienza del Madagascar ha invece indicato un fenomeno di proliferazione di mediatori che non sembra aver facilitato una riposta internazionale efficace alla crisi. La nomina di Chissano come mediatore SADC, un ex-capo di stato “dell’area”, dotato di un’esperienza e familiarità con il Madagascar assai maggiore rispetto a quella dei mediatori dell’ONU e dell’UA,

286 Cfr su questo: http://www.un.org/en/ga/credentials/credentials.shtml , ultimo accesso 12 dicembre 2010.

287 Mskolisi Nkosi, Analysis of OAU/AU Response to Unconstitutional Change of Government in Africa, University of Pretoria, South Africa, 2010.

137 entrambi dell’Africa occidentale, ha chiaramente indicato la volontà dell’organizzazione sub- regionale di assumere la leadership nella promozione del ritorno dell’ordine costituzionale ad Antanarivo. La scarsa coordinazione tra i tre mediatori, una competizione piuttosto forte emersa tra UA e SADC nella leadership della facilitazione dei negoziati tra i gruppi politici del Madagascar ha creato una sorta di “cacofonia della mediazione” che ha consentito ai protagonisti della crisi di sfruttare tali divisioni e di usare tale rivalità per difendere le rispettive posizioni e complicare ulteriormente la definizione di una soluzione diplomatica.

International Contact Group(s) Gli IGC si sono rilevati un foro indubbiamente importante ed efficace per il coordinamento della mobilitazione e del sostegno internazionale alle posizioni dell’Unione Africana e delle comunità economiche regionali nel contrasto ai colpi di stato. Gli ICG hanno consentito di includere nel processo di mediazione partners dell’UA e dei Paesi colpiti dal golpe i quali per ragioni economiche, politiche e culturali – si pensi alle politiche di sviluppo dell’UE o ai legami della Francia con il Madagascar e la Guinea – possono esercitare un ruolo importante nel facilitare la transizione. Appare tuttavia importante che i diversi membri dell’ICG ne accettino la funzione di foro di coordinamento al sostegno delle posizioni africane, garantendo massima trasparenza e scambio di informazioni in merito alle iniziative assunte bilateralmente. Nel caso del Madagascar, la Francia è stata più volta implicitamente accusata da parte di alcuni Paesi del gruppo SADC di avere un atteggiamento eccessivamente conciliatorio nei confronti delle autorità di fatto di Antanarivo. La definizione di più precisi terms of reference per gli ICG potrebbe consentire di migliorarne il funzionamento e incrementarne il ruolo di monitoraggio delle iniziative diplomatiche condotte bilateralmente – magari anche legittimamente - da altri mediatori che pure fanno parte del gruppo. Il rischio è infatti, anche in tal caso, che i diversi protagonisti della crisi “giochino” i membri dell’ICG “uno contro l’altro”, prolungando i tempi della crisi del ritorno all’ordine costituzionale.

Sfide nazionali alla credibilità del CPS dell’UA In parte legato al tema precedente è, infine, la questione della sfida alla credibilità dell’UA e del “suo Consiglio di Sicurezza” che può originare, diversamente dal caso degli ICG, “dal fronte interno”. La diplomazia di Gheddafi in Mauritania e quella del presidente senegalese Wade in Guinea – entrambi particolarmente vicini alle autorità golpiste dei due Paesi – hanno

138 indubbiamente rischiato di danneggiare la credibilità morale e politica delle posizioni assunte dall’UA e dall’ECOWAS. Politiche e iniziative di mediazione condotte direttamente dalla diplomazia degli Stati nazionali, dotati magari di relazioni speciali con i protagonisti del golpe, sono indubbiamente utili per facilitare un processo di ritorno all’ordine costituzionale. Nondimeno, iniziative nazionali che si discostano sensibilmente dai principi fondamentali dell’azione continentale in materia di colpi di stato dovrebbero poter essere oggetto di adeguate verifiche o sottoposti a qualche forma di meccanismo sanzionatorio.

3.2. Myanmar: non interferenza e responsabilità di proteggere tra ASEAN e ONU

Myanmar/l’ex Birmania è entrata nei riflettori della politica internazionale nel 1990 quando le prime elezioni multipartitiche nella storia del Paese che avevano dato alla Lega Nazionale per la Democrazia oltre l’ottanta per cento delle preferenze furono annullate dalla giunta militare. Da allora, il partito al potere, divenuto nel 1997 Consiglio per la pace e lo sviluppo ha sistematicamente impedito il pluralismo politica, la libertà di opinione e la libertà di stampa, costringendo di fatto alla clandestinità la Lega Nazionale e mettendo in prigione oltre 1100 oppositori politici, tra cui la sua prestigiosa leader Aung San Suu Kyi. Organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani hanno ripetutamente accusato la giunta militare di aver raso al suolo oltre 2500 villaggi, deportando centinaia di migliaia di cittadini appartenenti alle varie minoranze etniche in un clima di violenza e terrore diffuso288. La situazione di oltre 70mila bambini costretti ai lavori forzati e al servizio militare, la crescita esponenziale della produzione e del traffico di eroina, un altissimo tasso di contagio da HIV sono furono denunciate a più riprese, sin dal 1992, dallo Special Rapporteur del Commissione dei diritti umani dell’ONU, il brasiliano Paulo Sérgio Pinheiro of Brazil289. Il caso di studio relativo alla performance dell’ASEAN nella crisi scoppiata nell’ex Birmania può essere indubbiamente interpretato come un graduale processo di ridimensionamento di

288Human Rights Watch: The situation in Myanmar, consultabile sul sito http://hrw.org/doc/?t=asia&c=burma, ultimo accesso 10 ottobre 2010

289 United Nations, Human Rights Commission, Report on the situation in Myanmar, E/CN.4/1999/129, 22 March 1999.

139 quell’interpretazione radicale del principio della non-interferenza indicato in precedenza come aspetto centrale della cultura politica e giuridica dell’organizzazione. L’azione bilaterale degli Stati membri, la crescente pressione dell’ASEAN come gruppo e l’impegno della comunità internazionale e delle Nazioni Unite sono indubbiamente i tre fattori che vanno esaminati in maniera approfondita per comprendere il “rilassamento” di quel principio della non-interferenza che ha sembrato dominare incontrastato il sistema delle relazioni intra- regionali.

i) L’azione degli Stati membri dell’ASEAN L’azione diplomatica bilaterale intrapresa separatamente dai cinque membri fondatori dell’ASEAN, Tailandia, Singapore, Filippine, Malesia e Indonesia, ha giocato un ruolo fondamentale nel riesame della concezione tradizionale della dottrina della non-interferenza. Le ragioni dell’attivo coinvolgimento di Bangkok nel tentativo di promuovere una riconciliazione politica in Myanmar sono legate a tre delicate questioni di sicurezza che hanno afflitto per anni il governo tailandese. La prima di queste è la crescita esponenziale della produzione e del traffico di droga proveniente dall’ex Birmania: i gruppi organizzati delle minoranze etniche oggetto della repressione della giunta di Rangoon, in particolare quello degli Wa, hanno infatti finanziato la propria attività politica e militare mediante il commercio di stupefacenti, diretto principalmente verso la Tailandia. Alla fine degli anni ’90, oltre alla proliferazione di bande criminali dedite al traffico di droga, la Tailandia aveva assistito ad una crescita esplosiva del consumo di stupefacenti, il quale, secondo alcuni dati, coinvolgeva ormai oltre il 10% della popolazione290. Secondo movente del dinamismo diplomatico di Bangkok fu quello relativo alla tensione transfrontaliera tra i due Paesi: le forze militare di Rangoon, nel tentativo di reprimere le ribellioni delle minoranze, sconfinavano spesso in territorio tailandese creando ripetuti incidenti diplomatici. A costituire infine elemento altrettanto decisivo nello spingere Bangkok ad un’azione più risoluta di sostegno al processo di conciliazione nazionale a Rangoon è stato il crescente flusso di rifugiati proveniente dall’ex Birmania, una conseguenza drammatica della repressione che portò in Tailandia decine di sfollati e rifugiati, scappati dalla repressione e dai lavori forzati.

290 Bertil Lintner, Politics of Heroin in South East Asia, New York, Harper and Row, 1992; Speech by Prime Minister Thaksin Shinawatra on Prevention and Suppression of Drugs, Press Bureau, Office of the Prime Minister, January 2003, www. thaigov.go.th , ultimo accesso 10 dicembre 2010.

140 Oltre a complicare la ripresa economica della Tailandia, questa fenomeno fu accompagnato dalla radicalizzazione di alcuni gruppi di profughi, i quali cominciarono ad organizzare atti terroristici dimostrativi per sensibilizzare l’opinione pubblica internazionale sulla situazione in Mynmar291. Fu sulla base di tali premesse che la Tailandia, tra il 1997 e il 2001 avanzo l’idea di una politica di “flexible engament” mirante a schiudere concrete prospettiva per l’avvio di una transizione politica democratica nell’ex Birmania. Tale ipotesi puntava ad un sostanziale riesame della tradizionale politica di non-interferenza associato alla promozione di una libera discussione sulle situazioni interne ai diversi stati membri dell’ASEAN. L’approccio di Bangkok, pur appoggiato dalle Filippine, si scontrò con l’atteggiamento ostruzionista di Myanamr, entrata a far parte dell’ASEAN nel 1997: la politica di impegno flessibile fu così sostituita con la nozione di dialogo/interazione avanzata, “enhanced interaction”, formula capace di favorire il confronto degli Stati membri su questioni interne, senza tuttavia ridimensionare, né rimettere in discussione la dottrina della non-interferenza292. La seconda fase dell’impegno diplomatico di Bangkok fu intrapresa dal primo ministro Thaksin Shinawatra tra il 2001 e il 2005 con la proposta di promuovere un “forward engagement” con le autorità militari di Rangoon. Il governo tailandese cercò di abbandonare un approccio diplomatico troppo aggressivo e stabilire una certa confidenza con la giunta alfine di ottenere la liberazione dei prigionieri politici e la fine degli arresti domiciliari di Suu Kyi. Nonostante i segnali incoraggianti e le prime timide aperture all’opposizione, lo scoppio di violenti scontri tra le forze governative e la Lega Nazionale Democratica causò il nuovo arresto di Suu Kyi e un nuovo pesante deterioramento della situazione293. Nel 2003, il premier tailandese Shinawatra propose una road map per la riconciliazione nazionale in Myanmar fondata sulla liberazione di Suu Kyi, l’avvio di un processo democratico e la convocazione di libere elezioni aperte a tutte le minoranze. La giunta militare rifiutò la proposta tailandese e propose un proprio piano, sintetizzato in sette punti e articolato attorno al progetto di creare una convenzione nazionale per la transizione democratica. L’obiettivo della

291 Embassy under Siege, http://news.bbc.co.uk/l/hi/world/asia-pacific/463737.stm , ultimo accesso 5 dicembre 2010.

292 Surakiart Sathirathai, Forward Engagement: Thailand's Foreign Policy: A Collection of Speeches, Bangkok, Ministry of Foreign Affairs of Thailand, 2003.

293 Burma's Black Friday, BBC News, http://news.bbc.co.uk/l/hi/world/asia-pacific/2993196.stm , ultimo accesso 10 dicembre 2010.

141 giunta fu chiaramente quello di ridurre la pressione diplomatica regionale e internazionale senza tuttavia indicare un calendario preciso o uno schema elaborato di ripresa del dialogo politico con l’opposizione294. Ultima fase dell’impegno tailandese fu quello lanciato mediante la convocazione, nel dicembre 2003, del “Forum on International Support for National Reconciliation in Myanmar” aperto alla partecipazione dei Paesi dell’ASEAN, dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite, rappresentate in quella circostanza dall’inviato del Segretario Generale Razali Ismail. Sebbene le autorità di Myanmar avessero cercato di giustificare la necessità di promuovere un processo di liberalizzazione politica assai graduale, il Forum indicò una serie di misure volte a creare le premesse per la definizione di una soluzione “inclusiva”, aperta cioè a tutte le componenti dell’opposizione e accompagnata alla liberazione della leader della lega nazionale. All’inviato ONU Razali fu affidato il compito di facilitare il dialogo tra la giunta e i movimenti di opposizione. In conclusione, dal suo attivo impegno diplomatico Bangkok riuscì ad ottenere solo la crescita della cooperazione con la giunta in materia di contrasto al traffico di droga, senza tuttavia riuscire ad ottenere un alleggerimento della repressione contro le forze di opposizione. Dopo una fase di esitazione dovuta alla crisi interna relativa alla crisi economica e all’azione dei separatisti musulmani del fronte islamico di liberazione e del gruppo Aby Sayaf, le Filippine assunsero una posizione di grande sostegno dell’iniziativa tailandese, invocando a più riprese la liberazione della Suu Kyi ed esprimendo profonda preoccupazione per le massicce violazioni dei diritti umani nell’ex Birmania295. Forti del sostegno e della simpatia personale del presidente Gloria Arroyo per la Suu Kyi, un attivo gruppo di parlamentari filippini promosse un’iniziativa nazionale e regionale per impedire che Rangoon assumesse la presidenza di turno dell’ASEAN, prevista per il 2006, e giudicata inopportuna in ragione della repressione inumana in corso nell’ex Birmania. Cruciale fu il inoltre il ruolo giocato dalla Malesia, sponsor principale dell’ammissione di Myanmar nell’ASEAN e divenuta, sin dal 2003, aspra contestatrice della politica di repressione condotta dalla giunta . La Malesia fu costretta a rivedere la sua politica di tolleranza nei confronti delle malefatte dei militari al potere a Rangoon a seguito del progressivo

294 National Coalition Government of Union of Burma, A Collection of Proposed Road Maps for Future Burma, consultabile sul sito: http://www.ncgub.net/Road%20Map/index%20of%20road %20%maps.htm, ultimo accesso 10 dicembre 2010.

295 Cfr. : Philippines Still Troubled by Rights Abuses in Burma, Irrawaddy, 2 June 2005, consultabile sul sito: www.irrawaddy.org/aviewer.asp?a=4685&z= 153 ultimo accesso 12 dicembre 2010

142 ridimensionamento dei suoi interessi economici nel Paese e del mutamento politico registrato in Indonesia, divenuta favorevole alla promozione di una agenda democratica a livello regionale296. Segno del nuovo orientamento assunto dal governo malese fu la tendenza ad assegnare alla questione della situazione in Myanmar una dimensione centrale della propria politica estera; la nomina del malese Razali, alto diplomatico di Kuala Lumpu e stretto consigliere del primo ministro Mahatir, come inviato speciale delle Nazioni Unite. Frustrata dall’assenza di gesti di apertura da parte della giunta, Kuala Lumpur giunse a minacciare l’espulsione di Myanmar dall’ASEAN in caso di mancati progressi sulla questione della liberazione dei prigionieri politici e della detenzione della Suu Kyi; il primo ministro Abdullah Badawi, succeduto a Mahatir nel 2003, appoggiò infine l’azione dei parlamentari malesi in appoggio all’iniziativa mirante a contrastare l’assunzione della presidenza dell’organizzazione da parte dell’ex Birmania. Come già accennato in precedenza, la rivoluzione democratica che scosse l’Indonesia all’indomani della capitolazione del regime di Siharto, proiettò Jakarta verso l’esercizio di una funzione di una potenza regionale impegnata nella promozione della democrazia nella regione, una strategia che poteva rilanciare al contempo le sue ambizioni di leadership dell’ASEAN e di Paese capace di attrarre attenzione economica ed investimenti dal resto del mondo. In qualità di presidente di turno dell’ASEAN nel 2003, sotto la guida del presidente Megawait Sukarnopotri, l’Indonesia assegnò alla situazione di Myanmar la posizione di dossier centrale per l’impegno dell’organizzazione alla promozione della pace, della stabilità e della sicurezza nella regione. Il ministro degli esteri indonesiano, Ali Alatas, incontrò diverse volte i leaders della giunta in qualità di inviato speciale del presidente Sukarnopotri. Di un certo rilievo fu infine il ruolo diplomatico che il Singapore ha cercato di ritagliarsi nella gestione delle crisi. Paese non confinante con Myanmar, segnato da dati non certo incoraggianti in materia di rispetto dei diritti umani e della democrazia, Singapore, i cui interessi economici nell’ex Birmania sono cresciuti vertiginosamente nell’ultimo decennio, ha visto nella possibilità di partecipare al nuovo trend di condanna della repressione nell’ex-Birmania - aperto dai nuovi orientamenti dei suoi tradizionali partners regionali, Indonesia e Malesia - una

296 Mahathir's statement was widely reported by the media: ASEAN Must Reflect before Axing Burma, Nation, 22 July 2003, consultabile su

143 possibilità di migliorare l’immagine internazionale del Paese e dell’ASEAN stesso e creare le condizioni per un rilancio economico e politico della regione297.

ii) Dall’azione bilaterale a quella dell’ASEAN

L’allineamento delle posizioni di Tailandia, Malesia, Indonesia e Singapore fu dunque all’origine di un mutamento dell’interpretazione radicale del principio della non-interferenza. L’avvio della cooperazione tra Malesia e Tailandia tramite l’inviato speciale dell’ONU Razali e il forum su Myanmar del 2003 furono probabilmente i momenti che segnarono l’avvio di una collettiva e libera discussione sulla situazione a Rangoon. Questione che catalizzò gli sforzi diplomatici per la definizione di una posizione comune dell’ASEAN fu indubbiamente l’ipotesi dell’assunzione della presidenza di turno da parte di Myanmar, prevista per il 2006: tale circostanza rischiava infatti di creare un conflitto politico con la comunità internazionale. Fu in particolare il primo ministro di Singapore, Lee Hsien Loong a denunciare apertamente il rischio di una marginalizzazione dell’ASEAN nel caso in cui non si fosse riusciti ad impedire all’ex Birmania di rappresentare l’organizzazione298. La campagna dei parlamentari di Indonesia, Filippine, Tailandia in favore di una energica azione diplomatica per impedire quella che rischiava di apparire come una sorta di legittimazione della giunta militare fu rilanciata con la creazione di un caucus inter-parlamentare in seno all’ASEAN. Sebbene Paesi come Brunei, Laos e Vietnam preferirono mantenere un atteggiamento più cauto, la pressione collettiva della comunità dell’ASEAN indusse di fatto le autorità militari, nell’estate 2005, a rinunciare alla presidenza dell’organizzazione. Nel corso dell’undicesimo summit dell’ASEAN, svoltosi in Malesia nel dicembre 2005, il gruppo ufficializzò la rottura di un tabù: una lunga discussione sulla situazione in Myanmar fu seguita dalla formulazione di un chiaro invito alla giunta militare di rilasciare i prigionieri politici e accelerare le riforme democratiche. Una delegazione dell’organizzazione fu incaricata di recarsi

297 Foreign Investment in Burma, Irrawaddy Research Page, http://www.irrawaddy. org/ aviewer.asp?a=453&z; Leslie Kean and Dennis Bernstein, Burma-Singapore Axis: Globaliz-ing the Heroin Trade, in Singapore Window,

298 Malaysia Disappointed with ASEAN's Burma Path, Irrawaddy, September 29, 2005.

144 a Rangoon per verificare la situazione del Paese. Mentre la Malesia chiese a Rangoon di convincere la comunità internazionale della propria disponibilità al dialogo, l’Indonesia sottolineò la necessità che l’ASEAN mostrasse al mondo la propria credibilità politica denunciando la gravità della situazione a Myanmar e avviando la discussione sulle massicce violazioni dei diritti umani, le quali non potevano essere considerate come semplici questioni interne. 299 Ciò che apparse chiaro ai diversi membri dell’ASEAN tra 2005 e 2006 e, in particolare, ai Paesi guida come Indonesia, Filippine e Tailandia era l’imbarazzo internazionale che la situazione di Myanmar procurava per l’ASEAN e l’anacronistica freddezza diplomatica e cultura di segretezza di Rangoon sia nei confronti della comunità internazionale che delle stesse nazioni del gruppo regionale. Ad una giunta che nascondeva nel mistero la questione dell’imminente trasferimento della capaitale nazionale da Rangoon a Pynmana e che di fatto rinunciava all’uso di efficaci canali di comunicazione con la comunità internazionale e l’organizzazione regionale, si contrapponeva la realtà di Paesi come l’Indonesia - che aveva accolto la mediazione dell’Henry Dunat Center per risolvere il conflitto con il Free Aceh Movement o addirittura richiesto l’invio di consiglieri militari dalla Tailandia e dalle Filippine per monitorare l’accordo di pace nella provincia di Aceh – o le stesse Filippine, le quali avevano chiesto alla vicina Malesia, nazione a maggioranza musulmana, di facilitare la conclusione degli accordi di pace con le forze separatiste meridionali. Sulla stessa linea, la Tailandia, di fronte all’avvitamento della minaccia separatista nel sud del Paese, situazione che rischiava di minacciare la sicurezza della Malesia, avviò consultazioni serrate con Kuala Lampar tenendo altresì costantemente informata Jakarta. Nondimeno, appare opportuno sottolineare come Tailandia, Filippine e Indonesia guardarono con favore alla partecipazione e all’impegno politico dei grandi partners internazionali come Stati Uniti e Unione Europea nella promozione di una soluzione alle rispettive crisi interne: influenzate da sistemi politici nazionali in cui si consolidavano checks and balances – parlamento, organizzazioni della società civile, media – in tali Paesi prevaleva una sensibilità diffusa sulla situazione dei diritti umani a Myanmar; in particolare il caso dell’ex- Birmania era visto come suscettibile di minacciare le relazioni economiche e di sicurezza con le potenze occidentali presenti all’interno dell’ASEAN Regional Forum.

299 ASEAN Urges Burma to Reform, Free Political Prisoners, Irrawaddy, 12 December 2005, consultabile sul sito "

145 Paesi come Cambogia, Laos e Vietnam, giovani membri dell’ASEAN dotati di un profilo politico assai diverso dalle forze guida dell’ASEAN, si associarono senza particolare entusiasmo al processo di ridimensionamento della non-interferenza: nondimeno, il trattamento preferenziale e l’assistenza economica che ricevevano dai membri fondatori dell’organizzazione li obbligò ad assumere un atteggiamento cooperativo all’iniziative diplomatica per il rilancio del processo di riconciliazione politica a Myanmar. Appare infine opportuno notare come, in certo senso, la posizione assunta dall’ASEAN non sia concisa con il superamento del consensus, regola che ha tradizionalmente definito il sistema di relazioni intra-regionali. Sul tema di Myanmar, oggi, non c’è ancora unanimità di giudizio: nondimeno, non esiste e non è emersa obiezione al ruolo che l’ASEAN ha cercato di ritagliarsi nel promuovere la soluzione della crisi. Nondimeno, gli Stati membri che hanno discretamente celato le rispettive perplessità rispetto all’azione dell’ASEAN non hanno lamentato il rilassamento del principio di non- interferenza, che non è appunto coinciso con una drastica rivisitazione delle sue implicazioni. È stata poi del resto la crisi scoppiata a Bangkok nel 2006 - in seguito al rovesciamento, mediante un golpe, del primo ministro Thaksin Shinawatra - a confortare alcuni Stati membri sulla tenuta del principio di non-interferenza: in tale circostanza, la Tailandia è riuscita a scongiurare qualsiasi iniziativa dell’ASEAN la quale non ha neppure invocato il ripristino della legalità costituzionale300.

iii) I partners dell’ASEAN, il ruolo delle Nazioni Unite e gli ultimi sviluppi della situazione a Myanmar

Anche prima dell’ingresso ufficiale di Myanmar nell’ASEAN, avvenuta nel 1997, Unione Europea e Stati Uniti hanno esercitato diverse pressioni sulle autorità militari di Rangoon. Tra il 1990 e il 1991, l’UE ha imposto un embargo sulle armi, sospeso gli aiuti bilaterali al Paese, definendo altresì una serie di sanzioni mirate come lo scambio di visti, il blocco delle missioni diplomatiche nel Paese e la definizione di specifiche restrizione allo sviluppo di investimenti

300 Tanvi Pate, Crisis in Thailand: Analysing ASEAN, US, UN and EU responses, in Institute of Peace and Conflict Studies, 22 June 2010, consultabile su http://www.ipcs.org/article/southeast-asia/crisis-in-thailand-iv-analysing- asean-us-un-and-eu-3163.html

146 nell’ex Birmania301. Gli Stati Uniti decisero invece il blocco degli investimenti privati a Myanmar nel 1997; una misura che, qualche anno dopo, fu seguita dal blocco delle esportazioni verso Washington, il congelamento dei beni e delle proprietà dei membri della giunta, il blocco dei visti. L’Unione Europea, particolarmente seccata dalla partecipazione di Myanmar ai meeting Asia-Europea, esercito, assieme agli Stati Uniti, un’intensa pressione diplomatica per bloccare l’assunzione della presidenza dell’ASEAN da parte della giunta, una circostanza che avrebbe permesso all’ex Birmania di partecipare ai lavori dell’ASEAN Regional Forum, definire diversi aspetti della agenda politica regionale e ridurre la pressione internazionale sulla sua situazione interna. Sia UE che Stati Uniti minacciarono di boicottare l’ARF e comprimere sensibilmente i propri investimenti nello sviluppo della regione, nonché le rispettive iniziative commerciali.

Pubblicamente, sia il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice che il Commissario UE per le relazioni esterne si riferirono alla scioccante situazione di Myanmar come ostacolo insuperabile al rafforzamento delle relazioni e della cooperazione con i Paesi dell’area e con l’ASEAN stessa302. Partners cruciali nel contrasto al terrorismo internazionale e ai cambiamenti climatici – dossiers centrali per l’ASEAN – UE e Stati Uniti trovarono sponda diplomatica nei Paesi leaders dell’organizzazione: in particolare, il primo ministro malese Abdullah, aveva più volte sottolineato come la questione di Myanmar rischiasse di ostacolare le ambizioni dell’organizzazione e dei Paesi membri. Come già accennato in precedenza, l’ipotesi di un irrigidimento delle relazioni con Stati Uniti e Unione Europea rischiava di compromettere la leadership dell’ASEAN all’interno dell’ARF, foro di consultazione sui problemi della sicurezza regionale aperto a Stati Uniti, Cina, Giappone, Francia, Germania, Gran Bretagna e India e perciò capace di radunare i diversi poli di potenza del sistema delle relazioni internazionali. In definitiva, lo stesso ARF, per la natura della sua membership, offriva l’occasione per esercitare sulla Cina quelle pressioni diplomatiche necessarie per favorire l’evoluzione della

301 Suthipand Chirathivat - Corrado Molteni, EU-ASEAN Economic Relations: The Impact of Asian Crisis on the European Economy and Long-term Potential, Baden Baden, Nomos, 2000.

302 Rice's Unfortunate Choice, in Asia Times Online, July 28, 2005, http://www.atimes. com/Southeast- Asia/GG28Ae03.html ; Rice, in Asia, Takes Heat for Avoiding ASEAN Trip, International Herald Tribune, July 12, 2005, http://www.iht.com/articles/2005/07/1 I/news/ rice.php ; EU Cancels Talks with Asia in Myanmar Row, Channel News Asia, http://www. channelnewsasia.com/stories/afp_asiapacific/news/89982/1/.html, ultimo accesso 11 dicembre 2010.

147 situazione in Myanmar. La Cina partner economico e politico preferito di Rangoon offriva la chiave d’accesso alla dittatura militare e poteva essere sensibile sia alle pressioni di Stati Uniti e Giappone che a quelle dell’India, interessata a sostenere le riforme democratiche nell’ex Birmania e contenere altresì l’influenza di Pechino a Myanmar. Fu in definitiva la Cina a bloccare, nel 2007, l’iniziativa americana di rilanciare la promozione di una soluzione alla crisi di Myanamr nel quadro di un intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. L’origine dell’iniziativa del gennaio 2007 fu l’ultimo passaggio di un complicato processo diplomatico mirante ad intensificare l’azione delle Nazioni Unite per la promozione di una soluzione alla crisi in Myanmar. Nel 2005, lo Special Rapporteurs della Commissione dei diritti umani – che dal 2003 non fu più autorizzato a recarsi a Rangoon - formulò una critica approfondita della situazione dei diritti umani nel Paese, giudicando negativamente il processo di democratizzazione avanzato dalla giunta nella sua cosiddetta road map, che sembrava perpetuare l’esclusione del partito della Kyi, ancora limitata nella sua libertà assieme ad oltre 1500 membri della Lega nazionale. Il rifiuto delle autorità di Myanmar a concedere l’ingresso nel Paese allo Special Rapporteur dell’ONU fu accompagnato dal medesimo divieto posto a Razali Ismail, inviato speciale del Segretario generale, per oltre un anno, tra il 2004 e il 2005: tali circostanze confermavano la completa chiusura di Myanmar alla presenza di una canale di comunicazione e monitoraggio da parte della Comunità Internazionale sulla propria situazione interna. Di fronte allo stallo della situazione ed alla chiusura diplomatica promossa dalle autorità di Rangoon ad ogni tipo di coinvolgimento attivo delle Nazioni Unite, fu un iniziativa esterna al palazzo di vetro a suggerire l’ipotesi di un rilancio dell’azione multilaterale per la promozione della democrazia in Myanmar. Un rapporto commissionato congiuntamente dall’ex presidente ceco Vaclav Havel e dal vescovo Desmond Tutu - “Threat to Peace: A call for the UN Security Council to Act in Burma” – suggerì infatti l’urgenza di un energico intervento del Consiglio di Sucurezza dell’ONU in nome del principio della responsabilità di proteggere la popolazione civile dell’ex-Birmania303. Nonostante l’opposizione di Cina e Russia all’ipotesi di una inclusione formale della questione Myamar all’interno dell’agenda dei lavori del Consiglio di Sicurezza, il Segretariato dell’ONU cercò di avviare un nuovo dialogo con le autorità di Rangoon: tale incarico

303 Threat to Peace: A call for the UN Security Council to Act in Burma, DLA Piper Rudnick Gray Cary US LLP, 22 settembre 2005, consultabile su: http://www.unscburma.org/Docs/Threat%20to%20the%20Peace.pdf, ultimo accesso 29 novembre 2010.

148 fu affidato dall’allora Segretario Generale Kofi Annan all’ Under-Secretary-General per gli affari politici, il nigeriano Ibrahim Gambari. Interropendo l’embargo biennale posto alla visita di funzionari ONU a Myanmar, Gambari riuscì ad organizzare una missione di buoni uffici a Rangoon dal 18 al 20 maggio del 2006304. L’obiettivo della visita era quello di verificare di persona l’evoluzione della situazione, stabilire un primo contatto con la giunta, facilitare l’avvio della comunicazione e cooperazione tra la stessa e le agenize umanitarie onusiane presenti nel Paese e, infine, esprimere le preoccupazioni del Segretario Generale dell’ONU per il deterioramento della situazione dei diritti umani nel Paese305. La visita avveniva infatti nel periodo appena successivo all’ondata di indignazione internazionale suscitata dalla nuova offensiva di repressione condotta dalle autorità militari contro le minoranze etniche dello stato del Karen, dal quale si era innescato un movimento mensile di oltre 2mila rifugiati verso la Tailandia. Una settimana prima della partenza di Gambari per Rangoon, il Senato americano aveva approvato una risoluzione che chiedeva il passaggio di una risoluzione del Consiglio dell’ONU che obbligasse la dittatura militare a collaborare con i buoni uffici offerti dal Segretario del palazzo di vetro per avviare il processo di democratizzazione nel Paese306. Nel corso dei suoi tre giorni a Rangoon Gambari incontrò Than Shwe, leader della giunta militare e, sorprendentemente, fu autorizzato ad incontrare brevemente Aung San Suu Kyi, ancora posta agli arresti domiciliary. Nel corso del suo colloquio con Than Shwe e gli altri elementi della giunta, Gambari sottolineò come il miglioramento delle relazioni tra Myanmar e la Comunità Internazionale passasse necessariamente dai progressi in material di rispetto dei diritti umani, dall’avvio del processo di democratizzazione, nonchè dalla liberazione della Kyi e degli altri prigionieri politici. Gambari indicò al Consiglio il disappunto del Segretariato del palazzo di vetro per la mancata liberazione della storica leader dell’opposizione e incoraggiò il CdS a sostenere la mediazione dell’ONU alfine di sfruttare le pur deboli aperture mostrate dalla giunta. Proprio la persistente detenzione della Kyi fu all’origine del piano americano, sostenuto dai Paesi dell’UE, di inserire ufficialmente Myanmar nell’agenda del Consiglio, superando la prassi di

304 Security Council Report: Myanmar, Update Report, 26 May 2006, n. 6.

305 Security Council Report, Myanmar, Update Report, n.1, 1 June 2006.

306 Kye Mau Kaung, US Senate Hearing on Burma, 17 November 2007, consultabile sul sito: http://asiapacific.anu.edu.au/newmandala/2007/11/09/us-senate-hearing-on-burma/ , ultimo accesso 28 novembre 2010.

149 briefing informali – ipotesi osteggiata da Russia e Cina - e di lavorare ad un testo di risoluzione non punitivo che tuttavia obbligasse la giunta ad un atteggiamento cooperativo con la Comunità Internazionale, l’ONU e l’opposizione politica interna alfine di accelerare le riforme democratiche307.

Nonostante gli sforzi della delegazione statunitense all’ONU, i successive briefing di Gambari sulla situazione in Myanmar continuarono ad conservare la natura di “closed doors” o “private meetings”. Gambari si recò infatti nuovamente a Rangoon nel corso del novembre 2006 alfine di dare un seguito alla sua prima missione. Gambari potè nuovamente incontrare Suu Kyi e consegnò alle autorità di Myanmar una lettera dell’allora Segretario Generale Kofi Annan che richiedeva nuovamente il rilascio di tutti I prigionieri politici, l’apertura di un processo inclusivo per la scrittura di una costituzione democratica, l’arresto dell’offensiva militare nello stato di Kayin e, infine, la definizione di un accordo con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, impegnata nelle investigazioni sulle politica dei lavori forzati condotta dal regime militare308. Nel frattempo, l’amministrazione di George W. Bush, sollecitata da un fronte interno di critiche dei neo-conservatori per la passività ONU nei confronti della crisi in Myanmar, accelerò le preparazioni uno show down all’interno del Consiglio di Sicurezza. La delegazione americana alle Nazioni Unite, guidata dal John Bolton, presentò così, il 13 gennaio 2007, una risoluzione sulla situazione in Myanmar che ottenne anche la sponsorizzazione da parte della Gran Bretagna. La risoluzione chiedeva al governo di Rangoon di rispondere in maniera concreta e tempestiva alle richieste formulate dal Segretario Generale mediante le sue missioni di buoni uffici e invitava la giunta a garantire la piena libertà di espressione, associazione e movimento di Suu Kyi e di tutti i prigionieri politici, rimuovendo altresì tutti le restrizioni imposte ai cittadini e ai leader politici e garantendo al contempo alla Lega Nazionale per la democrazia ed agli altri partiti di agire e operare liberamente309. La risoluzione, presentata probabilmente senza un’adeguata preparazione diplomatica e sottovalutando le implicazioni sollevate dal testo in merito al principio di non-interferenza - che

307 Letter dated 15 September 2006 from the Permanent Representative of the United States of America to the United Nations addressed to the President of the Security Council, S/ 2006/ 742 15 September 2006.

308 Security Council Report, Myanmar, Update Report, n.3, 22 November 2006.

309 United Nations Security Council Resolution, S/2007/14, 12 January 2007.

150 seppur smorzato rispetto alla sua originale interpretazione continuava a costituire il perno delle relazioni intra-regionali nel sud-est asiatico - si scontrò con il veto di Cina e Russia. Intervenendo per giustificare il ricorso al veto, la delegazione cinese indicò che la crisi in corso in Myanmar era una questione interna e che - nonostante l’emergenza umanitaria, la questione dei diritti umani e del traffico di droga – essa non potesse essere interpretata come una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale. Assumendo una posizione che sembrava rilanciare l’interpretazione radicale della non- interferenza abbandonata dall’ASEAN nel 2005, la Cina affermò che quella risoluzione avrebbe illegittimamente esteso l’azione del Consiglio oltre i compiti ad esso indicati dalla Carta o cioè nella sfera del dominio riservato degli Stati membri310. L’Indonesia, membro non permanente del Consiglio di Sicurezza, pur manifestando l’appoggio incondizionato di Jakarta allo sforzo di mediazione condotto da Gambari, motivò invece la propria astensione osservando come il documento non avrebbe avuto l’effetto sperato di aprire una nuova fase a Rangoon. La perplessità di Jakarta era chiaramente legata al rischio che quella risoluzione potesse definitivamente archiviare il principio della non-interferenza e magari suscitare indirettamente effetti contro-producenti sulla continuità della cauta diplomazia dell’ASEAN nella promozione della conciliazione nazionale in Myanmar311. Nel corso dell’estate 2007, una massiccia ondata di proteste dell’opposizione creò un nuovo clima di tensione a Rangoon che fu seguito dalla nuova missione di Gambari, nominato nella primavera dello stesso anno come Special Adviser del Segretario Generale su Myanmar. Nell’ottobre e nel novembre del 2007, il Consiglio di Sicurezza discusse per due volte lo sviluppo della situazione nell’ex Birmania, dove la protesta si era estesa ai monaci buddisti312. Nell’aggiornare il CdS sugli ultimi sviluppi, Gambari aveva sottolineato l’importanza dell’avvio di colloqui tra la giunta e la Kyi, il ritorno a Rangoon, per la prima volta dal 2003, dello Special Rapporteur del Consiglio dei diritti umani Paulo Sergio Pinheiro; nondimeno tali aperture erano ancora ridimensionate dal rifiuto all’indicazione di una data del rilascio della leader della

310 United Nations Department of Public Information: Security Council Fails to adopt Resolution on Myanmar, SC/8939, 16 January 2007

311 United Nations, Security Council, 5619th Meeting, 16 January 2007, S/PV5619.

312 Security Council Report, Myanmar, Update n. 4, 1 November 2007.

151 Lega nazionale e della mancata presentazione di una road map per il processo di democratizzazione e la convocazione di elezioni libere e trasparenti313. Nel marzo 2008 la giunta militare indicò tuttavia un calendario che prevedeva lo svolgimento di un referendum costituzionale nel mese di maggio e la preparazione di elezioni politiche per il 2010. Nel tentativo di sostenere gli sforzi condotti da Gambari per garantire che tale processa venisse con in pieno coinvolgimento di tutti i gruppi dell’opposizione, il Segretario Generale dell’ONU promosse la creazione di un Group of Friends di Myanmar, composto da India, Tailandia, Indonesia, Singapore, Vietnam, i cinque membri permanenti del CdS, l’Australia, la Norvegia, il Giappone e l’Unione Europea314. Nel corso della primavera del 2009, la catastrofe umanitaria scoppiata in Myanmar in seguito all’abbattimento del ciclone Nargys sul Paese sembrò schiudere le prospettive per una nuova fase nelle relazioni tra l’ex Birmania e la Comunità Internazionale. L’ostilità iniziale dei militari dell’ex Birmania ad aprire le porte del Paese a operatori umanitari occidentali scatenò una nuova campagna per l’applicazione del principio della responsabilità di proteggere315. La delegazione francese all’ONU accusò infatti la giunta militare di venire meno all’obbligo di proteggere la popolazione civili dai disastrosi effetti sociali ed economici scatenati dal ciclone Nargys316. Con una paziente opera di mediazione, il Segretario generale Ban Ki-Moon riuscì a convincere le autorità di Rangoon a ricevere gli aiuti offerti dalla Comunità Internazionale e ad accettare una minima presenza di volontari e organizzazioni non governativi: una commissione tripartita ASEAN-ONU-Mynamar fu incaricata di coordinare la distribuzione degli aiuti e garantire l’efficacia dell’opera di assistenza umanitaria.317 Nonostante tale sviluppo fosse indubbiamente incoraggiante, la promulgazione di una serie di leggi elettorali che di fatto miravano ad impedire la partecipazione alle elezione di tutti i

313 United Nations Department of Public Information, Security Council Told Positive Outcome of Visit to Myanmar by the Special Adviser Gambari, SC/ 9168, 17 November 2007.

314 Security Council Report, Myanmar Update, n.2, 18 March 2008.

315 Nargys, Campaign for Burma, consultabile sul sito: http://uscampaignforburma.org/cyclone-nargis, ultimo accesso 23 novembre 2010.

316

317 Security Council Report, Myanmar Update, n.4 , 14 May 2008.

152 cittadini che fossero stati precedentemente imprigionati – sia l’elettorato passivo che attivo sarebbe cioè stato privato alla stessa leader Kyi – creò nuove tensioni. Alcune incomprensioni tra i leader della Lega Nazionale e Gambari rischiarono di minare l’efficacia dell’opera di mediazione condotta dall’ONU: l’inviato speciale di Ban Ki-Moon fu infatti accusato di non essere riuscito ad ottenere significativi risultati dai suoi ripetuti incontri con la giunta. L’indiscrezione secondo la quale il diplomatico nigeriano avesse offerto l’assistenza elettorale dell’ONU per le elezioni previste del 2010 – che si non sembravano poter rispettare i requisiti di liberà e pluralismo – minò la credibilità di Gambari, il quale, dopo essersi visto negare la possibilità di nuovi incontri con la Kyi, lasciò l’incarico nel dicembre 2009. In sostituzione di Gambari, Ban Ki-Moon nominò il suo capo di gabinetto Vij Nambiar Special come special advisor temporaneo sulla questione di Myanmar318. Nel marzo del 2010, un nuovo rapporto sulla situazione dei diritti umani nell’ex Birmania presentato dallo Special Rapporteur Tomás Ojea Quintana al Consiglio dei diritti umani dell’ONU ha infiammato nuovamente il dibattito internazionale su Myanmar319. Secondo il rapporto, la massiccia e sistematica violazione dei diritti umani registratasi a Myanmar per oltre un ventennio, unita alla mancata individuazione di responsabili, indicano che tali violazioni sarebbero state condotte come “parte di una politica statale che ha visto la partecipazione, a tutti i livelli, della autorità politiche, giudiziarie e militari del regime di Rangoon”. Il rapporto ha sottolineato inoltre la possibilità che i crimini compiuti nell’ex Birmania possano rientrare tra quelli previsti all’interno dello Statuto della Corte Penale Internazionale, ovvero crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Ad innescare la reazione diplomatica violenta delle autorità di Rangoon è stata tuttavia la raccomandazione relativa alla possibile creazione di una commissione d’inchiesta incaricata di accertare quelle responsabilità che il governo in carica o quello eletto in futuro dovrebbero avere 320 il compito primario di verificare .

318 Security Council Report, Myanmar Update, n.3, 23 March 2010.

319 Kanya D’Almeida, UN Urged to Establish Commission on Inquiry on Burma, Inter Press Service, Terraviva online, 7 October 2010.

320 United Nations, Human Rights Council, Progress Report of the Special Rapporteur on the situation in Myanmar, 13th Session, 10 March 2010 A/HRC/13/48,

153 Nel corso della prima metà del 2010 il Consiglio di Sicurezza e il Segretariato dell’ONU hanno continuato a monitorare la situazione a Myanmar e, in particolare, la preparazione delle 321 elezioni, annunciate per la prima settimana di novembre . A pochi giorni dalle elezioni, Ban Ki-Moon, in occasione del summit annuale ONU-ASEAN, pur esprimendo l’auspicio che le consultazioni in Myanmar potessero rispettare e garantire i principi di libertà, integrità e trasparenza invitò le autorità militari e l’ASEAN a concentrarsi sulla fase post-elettorale, la quale avrebbe comunque aperto un superamento dello status quo322. La dichiarazioni di Ban Ki-Moon nascondevano tuttavia una profonda preoccupazione per il carattere delle consultazioni sulla cui mancanza di trasparenza e libertà si sarebbe espresso più chiaramente appena dieci giorni dopo. Dopo l’annunciò dei risultati che assegnavano oltre l’80% delle preferenze al partito della giunta sia il Segretario Generale che lo Special Rapportuer del Consiglio dei diritti umani, hanno denunciato infatti le elezioni come “insufficiently inclusive, participatory, and transparent”323. Mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno apertamente accusato la giunta di aver inscenato una farsa, la Cina ha salutato le elezioni come un passaggio pacifico e decisivo nella formazione di un governo rappresentativo. Su una linea più cauta, ma comunque entusiasta, si è invece tenuta l’ASEAN che ha sottolineato il voto del 7 novembre come “passo importante nella realizzazione dei 7 punti stabiliti dalla giunta nella marcia verso la democrazia”324. Appena pochi giorni dopo il voto, la ripresa degli scontri tra i ribelli della regione del Karen e le truppe di Rangoon ha provocato un nuovo avvitamento della tensione, causando un nuovo flusso di 15mila rifugiati nella vicina Tailandia. Gli ultimi sviluppi della situazione in Myanmar sono infine legati alle ultime settimane e alle prospettive che si aprono per l’azione congiunta ONU-ASEAN nella facilitazione di una autentica transizione democratica all’indomani delle elezioni del 7 novembre e della liberazione della Kyi325.

321 Marwaan Macan-Markar, After 20 Years, Burmese Junta Picks November Poll Date, IPS Terraviva Online,16 August 2010.

322 Statement of the UN Secretary General, UN-ASEAN Summit, 29 October 2010, consultabile sul sito http://www.un.org/apps/sg/sgstats.asp?nid=4887 .

323 Thalif Deen, UN Doubts Credibility of Burmese Polls, in Inter Press Service, Terraviva online, 12 November 2010

324 Security Council Report, Myanmar, Update Report n. 3, 17 November 2010.

325 Security Council Report, Myanmar, Update Report n. 1, 3 December 2010.

154

Conclusioni

Il principio della non-interferenza e gli Stati dell’ASEAN I Paesi membri dell’ASEAN hanno giocato un ruolo decisivo nel ridimensionamento dell’interpretazione radicale del principio della non-interferenza. Tale circostanza ha indubbiamente consentito una progressiva apertura delle autorità di Myanmar alla Comunità Internazionale. Nonostante l’esito delle mediazioni condotte dall’ASEAN non possa dirsi soddisfacente in ragione della persistente emarginazione e repressione delle opposizioni, le elezioni dello scorso novembre e la stessa liberazione della Kyi possono essere interpretati come successi della diplomazia graduale dell’ASEAN. Compito dell’organizzazione sarà ora quello di accompagnare la fase post-elettorale per assicurare un progressivo coinvolgimento delle opposizioni, arrestare la repressione delle minoranze etniche e proseguire il dialogo tra la giunta e la Lega Nazionale Democratica. Il ruolo dell’ASEAN e dei suoi membri testimonia chiaramente il vantaggio comparato dell’organizzazione e delle nazioni del sudest Asiatico nell’affrontare una crisi che investiva ed investe ancora oggi un principio alla base delle relazioni intra-regionali.

Il ruolo dei partners dell’ASEAN Il ruolo di Stati Uniti e Unione Europea è sembrato efficace nello stimolare l’azione diplomatica dell’ASEAN e dei Paesi leaders dell’organizzazione, preoccupati che il dossier- Myamar potesse danneggiare le relazioni economiche e le intese in materia di difesa e di cooperazione alla stabilità della regione nel quadro dell’ASEAN Regional Forum. La pressione sull’ASEAN è parsa del resto assai più efficace di quelle esercitate direttamente contro Myanmar mediante ritorsioni e sanzioni economiche o dell’iniziativa anglo- americana in Consiglio di Sicurezza. La risoluzione del gennaio 2007 sembrò innescare una reazione opposta a quella prevista: la Cina prese rigorosamente le difese della giunta, negando l’identità tra la crisi interna e minaccia alla pace internazionale; la stessa Indonesia favorevole ad accelerare il processo di democratizzazione nell’ex Birmania fu costretta ad assumere una posizione mediana alfine di evitare che Pechino apparisse l’unica potenza rimasta a difendere strenuamente il principio della non-interferenza.

Il ruolo delle Nazioni Unite

155 La performance delle Nazioni Unite nella facilitazione del dialogo tra la giunta e le opposizioni ha indubbiamente denunciato qualche lacuna. Rezai, Gambari e ora Nambiar, capo di gabinetto di Ban Ki-Moon, hanno incarnato il tentativo dei diversi Segretari Generali dell’ONU di utilizzare i buoni uffici del capo del palazzo di vetro per facilitare il processo di riconciliazione nazionale e di democratizzazione. Una lettura più attenta del recente rapporto redatto da Ban Ki-Moon “Enhancing Mediation and its support actvities” alla luce del processo di mediazione ONU in Myanmar potrebbe indurre ad una più efficace implementazione delle guidelines definite in merito alla selezione del “most appropriate mediator”. Se Rezai, diplomatico malese di alto livello sembrava incarnare la figura ideale di un mediatore estremamente familiare con le dinamiche locali, lo stesso non può dirsi per il nigeriano Gambari. Nonostante la legittimità fornitagli dal mandato onusiano, sostenuta dal suo profilo di figura interna al Segretariato ONU, nonché di diplomatico africano imparziale rispetto ad una contesa relativa ad una diversa area geografica, Gambari è sembrato aver perso la fiducia delle diverse componenti dell’opposizione dell’ex Birmania e, in particolare, della stessa Suu Kyi, la quale, nel 2008, avrebbe addirittura declinato due proposte di incontro allo special adviser del SG, accusato di aver violato la sua posizione di imparzialità per aver offerto o fatto riferimento all’ipotesi di assistenza elettorale dell’ONU in un processo politico che si profilava tutt’altro che democratico. La nomina di Nambiar da parte del SG suscita infine una prima perplessità in relazione alla natura dell’incarico: oltre ad essere capo di gabinetto di Ban Ki-Moon, il diplomatico indiano è solo temporaneamente special adviser su Myanmar, una posizione che, nonostante la vicinanza funzionale al Segretario Generale, contraddice l’importanza della questione e del mandato assegnatogli, soprattutto alla luce del rapporto presentato al Consiglio dei diritti umani e alla fese post-elettorale che sembra ora aprirsi nel Paese. Nonostante la sua veste di alto funzionario ONU, i suoi ottimi rapporti con le autorità cinesi – parla fluentemente cinese ed ha servito la diplomazia indiana a Pechino ed Hong-Kong – Nambiar rischia di essere visto dalla Cina come rappresentante indiretto degli interesse di Nuova Dehli, la cui politica su Myanmar è stata tradizionalmente basata sulla necessità di muovere concorrenza all’influenza economica e politica cinese nel sud-est asiatico e, in particolare, nell’ex Birmania. La fase post-elettorale apertasi in Myanmar, avviata con la liberazione della Kyi, sembra poter schiudere nuove prospettive per un coinvolgimento dell’ONU nella facilitazione della conciliazione nazionale.

156 Un nuovo protagonismo delle Nazioni Unite dovrebbe tuttavia passare per la nomina a tempo pieno di un mediatore originario dell’area, eventualmente con doppio capello Nazioni Unite-ASEAN. Nonostante l’ONU sia in grado di far coincidere con il suo coinvolgimento un’idea di imparzialità, neutralità e legittimità, la sua azione sul dossier Myanmar può essere talora presentata dagli elementi della giunta e da alcuni Paesi dell’area come una forma di interferenza che viola il principio del dominio riservato. L’ipotesi di un maggiore coinvolgimento dell’ONU potrebbe pertanto riflettere modi e forme dell’impegno dell’organizzazione in occasione della crisi umanitaria seguita al ciclone Nargys. Una sorta di meccanismo tripartito composto da ASEAN, ONU e attori locali, rappresentanti di governo e opposizione, potrebbe costituire un forum efficace per accompagnare il processo di democratizzazione nel Paese.

La questione-Myanmar presso il Consiglio dei diritti umani Il rapporto su Myanmar presentato dallo Special Rapporteur innanzi al Consiglio dei diritti umani – e dunque l’ipotesi della creazione di una commissione di inchiesta dei crimini compiuti in Myanmar - potrebbe rappresentare un incentivo alla cooperazione da parte delle autorità militari di Rangoon. Solo una credibile indagine interna condotta dalle autorità di Myanmar può evitare ciò cui l’ex giunta militare guarda con preoccupazione, ovvero il possibile intervento della Corte Penale Internazionale. Il ruolo della Cina nel persuadere Myanmar ad un atteggiamento cooperativo in materia sarà cruciale; ASEAN, Stati Uniti, Unione Europea saranno altresì chiamate ad operare pressioni su Pechino perché induca il nuovo governo dell’ex Birmania a mutare atteggiamento e ad impostare un processo di riconciliazione che non sia solo credibile, mediante una genuina apertura all’opposizione, ma soprattutto sostenibile, cioè basato sull’accertamento delle responsabilità per i massacri compiuti contro la popolazione civil

157

3.3 Il caso Honduras: ONU e OAS nella difesa della democrazia costituzionale

i) Le origini della crisi e la rimozione del presidente Zelaya

Sin dalla capitolazione della dittatura militare nel 1982, il sistema politico dell’Honduras, Paese popolato da circa 7 milione e mezzo di abitanti, è stato segnato dalla contrapposizione tra il partito liberale (PL) e il partito nazionale (PN), considerati entrambi di orientamento sostanzialmente moderate o di centro-destra. Nel novembre 2005 Manuel Zelaya, leader di punta del PL fu eletto presidente dell’Honduras in una competizione elettorale che lo vide vincere, con un piccolo margine, contro il candidato rivale Porfirio Lobo Sosa. Al momento della suo insediamento nel gennaio 2006, per il primo termine di 4 anni, Zelaya, un facoltoso proprietario terriero con importanti investimenti nel settore dell’acciaio e dell’allevamento, era generalmente visto come un politico dalle indubbie credenziali moderate326. Nel corso del suo mandato, Zelaya sembrò mutare progressivamente il suo profilo politico adottando alcune iniziative d’impostazione sociale, ma anche populista, quali l’introduzione della scuola gratuita, la crescita degli stipendi degli insegnanti e l’aumento del 60% dei salari minimi. In politica internazionale, Zelaya cominciò a stringere una solida intesa con il leader populista del Venezuela Hugo Chávez aderendo alla sua agenda terzomondista e filo-socialista: l’Honduras aderì infatti al Petrocaribe – un programma venezuelano che prevede la cessione di petrolio a prezzi scontati ai Paesi caraibici – e alla Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA), un blocco commerciale di ispirazione sociale comprendente Bolivia, Cile, Nicaragua e Venezuela e fondato sulla cooperazione in campo sanitario, culturale e finanziario327. Sebbene le politiche sociali avessero consentito a Zelaya di consolidare il consenso presso i ceti popolari, tali iniziative gli avevano alienato in misura crescente la simpatia dell’elite politica ed economica tradizionale del Paese. Nondimeno, le difficoltà riscontrate da Zelaya

326 People Profile: Manuel Zelaya, Latin News Daily, 15 November 2005; Manuel Zelaya: empresario conservador que transitó a la inzquierda, Agencia Mexicana de Noticias, 29 June 2009.

327 The National Congress ratified Honduras entrance into both PetroCaribe and ALBA, Latin American Caribbean and Central America News , March 2008; Honduras: Congress approves Alba, with caveats, Latin American Caribbean and Central America News, October 2008

158 nell’ottenere concreti risultati nella sua opera di contrasto al crimine e alla povertà sembrò intaccare la sua immagine politica328. La crisi in Honduras cominciò indubbiamente con la promulgazione da parte di Zelaya di un ordine esecutivo che si proponeva di aprire un processo politico per la riforma della costituzione. Il decreto assegnava all’Istituto di statistica nazionale il compito di organizzare un referendum popolare nella data del 28 giugno per stabilire se le elezioni generali del novembre 2009 potessero includere una scheda addizionale mirante a richiedere il parere degli elettori sulla opportunità della convocazione di una assemblea costituente chiamata a varare una nuova carta costituzionale. Nel maggio 2009 Zelaya emise un nuovo decreto che trasformò il referendum in una consultazione non vincolante sulla possibile convocazione di una assemblea nazionale costituente e tuttavia priva del diretto riferimento alla scrittura di una nuova costituzione. Idea di Zelaya era infatti che la costituzione del 1982 necessitasse un profondo aggiornamento e revisione per adattarla ai cambiamenti sostanziali e significativi che si erano registrati nella società honduregna329. La proposta di Zelaya si scontró presto con l’ostilità del presidente del congresso Roberto Micheletti, candidato alle primarie delle elezioni presidenziali del 2009 e il PN, i quali accusarono il presidente Zelaya di voler estendere la sua permanenza in carica oltre il secondo mandato attraverso una manipolazione della riforma costituzionale; contemporaneamente il procuratore generale accusò Zelaya di violare la costituzione e la Corte costituzionale dichiarò la proposta del referendum come incostituzionale. Nonostante tali opposizioni, Zelaya decise comunque di rilanciare il suo disegno muovendo dalla convinzione che la legge sulla partecipazione popolare da lui approvata pochi mesi dopo il suo insediamento nel 2005 gli consentisse di consultare il popolo in un referendum non vincolante. Il rifiuto del presidente Zelaya di riconoscere la validità del parere emesso dagli organi giudiziari nazionali fu all’origine delle indiscrezioni che lo ritenevano lavorare segretamente per lo scioglimento del congresso e la convocazione di un’assemblea costituzionale330. La polarizzazione dello scontro politico e l’aperto scontro tra le massime istituzioni del Paese creò indubbiamente un clima di forte tensione politica.

328 Mica Rosenberg, Protest erupt, gunshots heard after Honduras coup, Reuters, 28 June 2009.

329 Constitutional Power Grab, Latin American Weekly Report, 26 March 2009.

330 Honduras: Zelaya denies coup rumours, Latin AmericanWeekly Report, 11 June 2009.

159 Il 23 giugno 2009, il congresso cercò di porre un nuovo ostacolo alla realizzazione del progetto presidenziale approvando una legge che proibiva la tenuta di un referendum nei 180 giorni precedenti e successivi alle elezioni politiche generali. Il giorno successivo Zelaya ordinò il licenziamento del ministro della difesa Edmundo Orellana Mercado e il comandante dello Stato maggiore Romeo Vasquez Velasquez, i quali avevano informato il presidente che l’esercito nazionale non avrebbe offerto il sostegno logistico e di sicurezza per una consultazione referendaria la cui incostituzionalità era stata ufficialmente riconosciuta dalla Corte. La crisi conobbe a quel punto una prima escalation in termini di scontro istituzionale: ben 36 alti ufficiali dell’esercito, della marina e dell’aereonautica annunciarono le loro dimissioni. Nel frattempo la corte suprema ordinò la reintegrazione del ministro della difesa e del capo di stato maggiore nelle loro rispettive funzioni e il congresso nazionale cominciò a discutere la possibilità di una mozione di censura contro il presidente Zelaya. Zelaya denunciò a sua volta il tentativo del parlamento e delle corti giudiziarie di cospirare con le oligarchie del Paese per ottenerne la rimozione mediante un colpo di stato331. Nei giorni precedenti alla consultazioni volute da Zelaya, la frattura politica tra le istituzioni si trasferì in misura crescente nel Paese: assieme al fronte composto da parlamento, magistratura e procuratore generale si unirono anche alcuni gruppi evangelici, la gerarchia della chiesa cattolica e i gruppi più influenti della comunità economica e dei ceti produttivi. Mentre gran parte dei partiti presenti in parlamento si schierarono contro il presidente, i sindacati, le associazioni contadine, le minoranze etniche e il partito dell’unità democratica chiamarono la popolazione al voto332. Lo show down si ebbe il 28 giugno con l’arresto del presidente Zelaya da parte dell’esercito e il suo trasferimento forzato in Costa Rica; la rimozione del presidente fu seguita dall’annuncio che la Corte Suprema del Paese era stata costretta, qualche giorno prima, a formulare un mandato d’arresto “segreto” in ragione della mancata cooperazione delle autorità governative nell’applicazione delle sentenze che avevano dichiarato l’incostituzionalità del referendum. Zelaya era stato accusato di crimini contro il Parlamento, tradimento, abuso di autorità, usurpazione delle funzioni – per aver convocato il referendum senza il consenso del

331 Zelaya claims coup, Latin News Daily, 26 June 2009.

332 Llegó el día de verdad, El Tiempo, Honduras, 28 June 2009; Partidos politicos advirtieron de crisis, El Heraldo, 28 June 2009.

160 Congresso nazionale – e per aver richiesto all’istituto nazionale di statistica anziché al tribunale supremo elettorale di coordinare e controllare le operazioni di voto333. Il Congresso nazionale ratificò immediatamente la rimozione di Zelaya dal Paese e dichiarò altresì di accettare la lettera di dimissioni firmata dal presidente esiliato, il quale accusò del resto la natura fraudolenta del documento. Con una mozione di censura del comportamento di Zelaya e delle sue ripetute violazioni della costituzione e delle leggi nazionali, l’assemblea ne confermò la deposizione disponendo la nomina di Roberto Micheletti a presidente della repubblica - il quale era presidente del Congresso e seconda carica istituzionale del Paese - fino alla fine del gennaio 2010, data di scadenza del mandato originariamente assegnato al presidente eletto nel 2005.

ii) La reazione dell’OAS, delle potenze regionali e delle Nazioni Unite

Aldilà della polemica interna che scoppiò in Honduras circa le legittimità o meno della rimozione di Zelaya – per alcuni osservatori nazionali e internazionali la rimozione del presidente in carica fu un atto costituzionale, per altri una violazione della costituzione e un colpo di stato334 che di fatto arrestò il legittimo processo d’incriminazione da parte degli organi giudiziari nazionali e privò Zelaya della possibilità di difendersi – quel che conta è esaminare la reazione della comunità internazionale ponendo ovviamente particolare attenzione alla risposta diplomatica e politica dell’OAS e dalle Nazioni Unite e ricostruendo altresì l’azione dei major players regionali, gli Stati Uniti e il Venezuela di Hugo Chavez. In merito alla reazione dell’OAS, occorre in primo luogo sottolineare che, appena due giorni prima della rimozione di Zelaya, in quello che era stato l’esercizio delle sue funzioni di diplomazia preventiva, il Consiglio permanente aveva adottato una risoluzione con la quale aveva accettato la richiesta formulata dal presidente in carica Zelaya di assistere l’Honduras nella conservazione e rafforzamento delle istituzioni democratiche e dello stato di diritto335.

333 Poder Judicial de Honduras, Expediente Judicial Relación Documentada Caso Zelaya Rosales, consultabile sul sito www.poderjudicial.gob.hn/ , ultimo accesso 13 dicembre 2010.

334 Octavio Sánchez, A ‘coup’ in Honduras? Nonsense, Christian Science Monitor, July 2, 2009; Miguel A. Estrada, “When a coup isn’t; Under Honduras’ Constitution, the ouster of President Manuel Zelaya was legal,” Los Angeles Times, July 10, 2009; U.S. House Committee on International Relations, Subcommittee on the Western Hemisphere, Statement of Guillermo Perez- Cadalso, July 10, 2009.

335 Organization of American States, Permanent Council, Situation in Honduras, Resolution 952 (1699/09), 26 June 2009.

161 La stessa risoluzione, oltre a incoraggiare gli attori politici e sociali a mantenere la pace sociale e prevenire la rottura dell’ordine costituzionale, invitava il Segretario Generale dell’OAS a stabilire una commissione speciale chiamata ad esaminare la situazione e contribuire alla promozione di un dialogo per l’identificazione di soluzione democratiche alla crisi politica in corso in Honduras. La rimozione di Zelaya coincise tuttavia con l’attivazione delle procedure previste dalla risoluzione 1080 e dalla Carta democratica inter-americana: a poche ore del golpe , il Segretario Generale dell’OAS condannò il colpo di stato, richiedendo altresì l’immediata convocazione del Consiglio336. Il Consiglio permanente, riunitosi d’urgenza, confermò la dura condanna del golpe, domandò l’immediato e incondizionato ritorno di Zelaya e dichiarò di non riconoscere il nuovo governo. Il Segretario Generale dell’Organizzazione veniva invitato a promuovere approfondite consultazioni con gli Stati membri alfine di facilitare il ritorno all’ordine costituzionale del Paese. Oltre a condannare l’arbitraria detenzione di diversi ministri del governo Zelaya, il Consiglio dispose l’ immediata convocazione di una sessione speciale della’Assemblea chiamata a prendere le decisioni necessarie per garantire il rispetto e la corretta applicazione della carta democratica inter-americana337. Tra il pronunciamento del Consiglio Permanente e la riunione emergenza dell’Assemblea dell’OAS, un folto gruppo di Paesi latino-americani e caraibici avviò un’iniziativa diplomatica per ottenere dall’Assemblea Generale delle Nazioni una dura condanna del golpe e domandare ufficialmente, anche in sede onusiana, la piena reintegrazione di Zelaya nelle sue funzioni. Il presidente dell’AG del palazzo di vetro, il nicaraguense Miguel d’Escoto Brockman, giocò un ruolo fondamentale nel modificare l’agenda dell’Assemblea, in quel momento impegnata nella discussione sulle conseguenze della crisi finanziaria ed economica mondiale sui Paesi in via sviluppo. L’ex prete sandinista presentò la convocazione dell’Assemblea come un atto doveroso alfine di reagire a quella situazione di rottura della democrazia in Honduras che rischiava di riportare il continente americano “ai giorni bui dei colpi di stato degli anni ’70 e ‘80”.

336 Organization of American States, Press Release, E-212/09,Secretary-General Condemns Coup Against Government of Honduras, Press Release 28 June 2009.

337 Organization of American States, Permanent Council, Situation in Honduras, Resolution 953 (1700/09), 28 June 2009

162 L’idea del Presidente dell’AG era di rafforzare la portata dell’eventuale pronunciamento del palazzo di vetro con la presenza del presidente rimosso Zelaya, il quale sarebbe intervenuto del dibattito in qualità di unico e legittimo rappresentante del governo dell’Honduras. Difendendo peraltro il diritto di Zelaya di ricorrere alla consultazione popolare per prolungare il suo mandato, d’ Escoto Brockman aveva sottolineato l’urgenza di un pronunciamento dell’ONU che fosse in linea con la condanna formulata dall’OAS e dagli altri gruppi regionali, tra cui il MERCOSUR, il gruppo di Rio, l’Associazione degli Stati caraibici (CARICOM), l’Unione delle nazioni sudamericane (UNASUR). Il dibattito del 29 giugno fu segnato dagli interventi di oltre 20 delegazioni del continente americano: la condanna del golpe formula dal Venezuela, a nome dell’Alleanza Bolivariana, il Messico, a nome del gruppo di Rio, il Cile, a nome dell’UNASUR, Cuba, in rappresentanza del cartello onusiano dei Paesi non allineati, la Jamaica, in mome del CARICOM, il Brasile, in rappresentanza del MERCOSUR, fu condivisa dall’Unione Europea e, in particolare, dalla delegazione degli Stati Uniti all’ONU338. In altre parole, il foro onusiano, consentì all’Amministrazione Obama di allinearsi pienamente alla condanna del golpe rispetto al quale Washington aveva inizialmente manifestato un’incertezza di giudizio a causa delle manovre politiche un po’ spericolate di Zelaya, il quale era sospettato di voler favorire una crescita inarrestabile dell’influenza del Venezuela di Chavez negli equilibri interni del Paese339. Fu sulla base di tale valutazione che la delegazione statunitense al palazzo di vetro confermò il pieno sostegno di Washington alla condanna del golpe formulata dall’OAS sottolineando altresì il rifiuto dell’Amministrazione Obama di riconoscere qualsiasi altro governo che non fosse presieduto dal legittimo presidente Zelaya. Nondimeno, l’ambasciatrice Rosemary di Carlo ribadì l’appello lanciato dal presidente americano per una soluzione pacifica della crisi “libera da ogni influenza estranea”, una formula diplomatica che confermava la persistente irritazione americana per l’attivismo di Chavez. Era in definitiva tale vicinanza e confidenza tra Chavez e Zelaya che era stata all’origine del mancato incontro, nelle 24 ore successive al golpe, tra il presidente honduregno e i vertici dell’Amministrazione americana. Appare qui opportuno sottolineare come, contemporaneamente al dibattito al palazzo di vetro, il comando supremo meridionale delle forze armate americane dispose la riduzione della

338 United Nations, Department of Public Information: General Assembly President Expresses Outrage at Coup d’État in Honduras, Says Crucial for World Community to Stand as One in Condemnation, 29 June 2009.

339 United Nations, Department of Public Information, General Assembly Acting Unanimously Condemns Coup d’État in Honduras, Demands Immediate, Unconditional Restoration of President, 30 June 2009.

163 cooperazione e dei contatti con le forze armate honduregne e, al contempo, l’amministrazione Obama cominciò a valutare l’ipotesi di un’interruzione degli aiuti al Paese centro-americano340. Il vasto consenso registratosi in Assemblea Generale sulla condanna al colpo di stato in Honduras rese del resto possibile l’approvazione all’unanimità di una risoluzione che domandava “l’incondizionato re-insediamento del legittimo e costituzionale governo del presidente Zelaya” e affermava di non riconoscere alcun governo “other than that of the Costitutional President, Mr. José Manuel Zelaya Rosales”341. Il successo dell’iniziativa avviata dai Paesi del continente americano – salutata con soddisfazione da Zelaya come “storica” – coincise tuttavia con un primo avvitamento della repressione interna orchestrata dalle forze armate su ordine del governo Micheletti: il riferimento del Segretario Generale dell’OAS alla possibilità che l’organizzazione disponesse la sospensione della membership dell’Honduras fu infatti accompagnato, tra il 30 giugno e il 1 luglio, dalla decisione del congresso nazionale honduregno di dichiarare il copri-fuoco e varare la sospensione di una prima serie di diritti costituzionali, tra i quali la libertà di associazione e di movimento. 342 Nel frattempo, la procedura avviata dall’OAS in difesa della carta democratica inter- americana proseguì. Il 1 luglio, l’Assemblea Generale dell’Organizzazione, affidò al Segretario Generale il compito di condurre, in concertazione con i Paesi membri, sulla base dell’articolo 20 della carta democratica inter-americana, una nuova iniziativa diplomatica finalizzata alla restaurazione della democrazia e dello stato di diritto in Honduras. Elemento fondamentale della risoluzione fu tuttavia l’annuncio che in caso di mancata reintegrazione di Zelaya, l’Assemblea avrebbe automaticamente disposto l’applicazione dell’articolo 21 sulla sospensione della membership dell’Honduras, la cui delegazione sarebbe stata così privata delle possibilità di partecipare ai lavori dell’OAS343.

340 In a Coup in Honduras, Ghosts of Past US Policies, in New York Times, 29 June 2009, consultabile sul sito: http://www.nytimes.com/2009/06/30/world/americas/30honduras.html , ultimo accesso 13 dicembre 2010.

341 United Nations, General Assembly, Situation in Honduras: democracy breakdown, A/63/L.74, 29 June 2009

342 Organization of American States, Press Release, E-215/09, Secretary General Says Institution Will not Accept Return to the Past and Rjects Making Concessions to Regime Emanated from Coup, 29 June 2009.

343 Organization of American States, General Assembly, Thirty-seven Special Session, Resolution on the Political Crisis in Honduras, AG/RES 1 , XXXVII-E/O9, 1 July 2009.

164 Tre giorni dopo, il 4 luglio, il Miguel Insulza, il Segretario dell’OAS, aggiornò gli Stati membri sulle conversazioni da lui avute con i rappresentanti delle autorità di fatto in Honduras, i partiti politici, rappresentanti della società civile e della vita economica. Secondo Insulza, l’estremo clima di tensione presente nel Paese coincideva con l’atteggiamento fermo e inflessibile delle autorità golpiste ostili ad ogni ipotesi di re-insediamento di Zelaya. L’assenza di sviluppi positivi nella crisi costrinse pertanto l’Assemblea dell’OAS ad approvare all’unanimità la sospensione dell’Honduras dall’Organizzazione344. Una serie di ulteriori reazioni internazionali accompagnò il pronunciamento dell’OAS: la maggioranza dei Paesi latino-americani e dell’Unione Europea richiamarono i rispettivi ambasciatori dall’Honduras, accentuando di fatto l’isolamento politico del governo Micheletti. Nondimeno, un blocco commercial di 72 ore fu imposto dai Paesi centro-americani; prestiti per oltre 485 milioni di dollari furono bloccati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale; l’Unione Europea sospese oltre 93milioni di dollari di sostegno al bilancio honduregno; gli Stati Uniti bloccarono invece un volume di aiuti economici e militari di 33 milioni di dollari; il Venezuela, infine, fornitore del 50% delle importazioni petrolifere dell’Honduras, bloccò le proprie vendite345. Forte dell’isolamento internazionale che sembrava penalizzare gravemente il governo Micheletti, motivato dal doppio pronunciamento ONU-OAS, Zelaya cercò di rientrare in Honduras: tale decisione innescò tuttavia una nuova violenta repressione dell’esercito; le violenze che accompagnarono il tentativo del presidente rimosso di tornare nella capitale furono probabilmente all’origine della decisione americana di fornire un contributo più attivo alla soluzione della crisi346. Dopo l’incontro del 7 luglio tra il Segretario di Stato Hillary Clinton e Zelaya, l’amministrazione americana annunciò che il presidente legittimo e Micheletti, grazie alla

344 Organization of American States, Press Release E219-09, OAS Suspends Membership of Honduras, 4 July 2009.

345 Robin Emmott, Aid freeze in post-coup Honduras hurting poor, Reuters, November 12, 2009; Honduras can’t touch IMF resources, Reuters, September 9, 2009; Unión Europea suspende ayuda financiera a Honduras, Reuters, July 20, 2009; Senior State Department Officials Hold Background News Teleconference on Honduras, CQ Newsmaker Transcripts, September 3, 2009; Venezuela halts oil deliveries to Honduras, EFE News Service, July 8,

2009.

346 Mary Beth Sheridan-Juan Forero, Secretary Clinton Agrees to Meet Zelaya, in Washington Post, 7 July 2009.

165 congiunta pressione svolta da Washington e del Segretario dell’OAS, erano riusciti a trovare l’accordo per l’avvio di negoziati sotto la mediazione del presidente costaricano Oscar Arias347.

iii) La mediazione di Arias Costa: gli accordi di San José e Tegucigalpa/San José

Nel corso di due settimane, il presidente Arias riuscì a definire un’intesa per la soluzione della crisi in dodici punti, definita l’accordo di San José. Tale accordo prevedeva la re- integrazione di Zelaya, la creazione di un governo di unità nazionale, una amnistia generale per tutti i crimini politici commessi prima e successivamente la rimozione del legittimo presidente, uno schema di riforma della costituzione e, infine, la creazione di una commissione di verifica incaricata di monitorare l’applicazione dell’intesa. Nonostante le sue iniziali perplessità, Zelaya aderì all’accordo, il quale, dopo alcuni ripensamenti, fu rifiutato dai negoziatori che rappresentavano Micheletti, oppostisi energicamente alle pressioni esercitate da una delegazione dei ministri degli esteri dell’OAS348. Lo stallo della mediazione avviata da Arias coincise con un ulteriore avvitamento della repressione interna in Honduras. Tra la fine di agosto e le prime settimane di settembre, parallelamente all’annuncio del ritorno di Zelaya in clandestinità in Honduras e al suo rifugio nell’ambasciata brasiliana a Tegucigalpa, il governò intensificò il ricorso a misure di coprifuoco, spesso arbitrarie e senza alcuna notifica avanzata, comprimendo ulteriormente le libertà civili e politiche. La commissione inter-americana dei diritti umani, organo indipendente dell’OAS, recatasi per cinque giorni in Honduras accertò, in un dettagliato rapporto, il compimento di numerose violazioni dei diritti umani, incluse “uccisioni, arbitrarie dichiarazioni dello stato di emergenza, soppressione della libertà manifestazione attraverso un uso sproporzionato della forza, criminalizzazione della protesta pubblica, detenzioni e fermi arbitrari di migliaia di persone, trattamenti crudeli, inumani e degradanti, condizioni di reclusioni ampiamente inadeguate,

347 Organization of American States, Press Release, E-221/09, OAS fully support mediation of President Arias in Honduras, 7 July 2009.

348 Zelaya reafirma apoyo a Plan Arias para ser restituido como presidente,”Agence France Presse, August 4, 2009; Honduras: De Facto Leader Rejects Part of a Deal, New York Times, August 1, 2009; Corte Suprema opuesta a la restitución de Manuel Zelaya, El Tiempo (Honduras), August 24, 2009.

166 militarizzazione del territorio nazionale”349. La Commissione verificò inoltre la proliferazione di episodi di discriminazione razziale, la violazione dei diritti delle donne, le gravi limitazioni poste alla libertà di espressione e massicce violazione dei diritti politici. Tale quadro, aggiunto alla denuncia della sostanziale complicità del sistema giudiziario honduregno, accusato di non accertare le responsabilità delle violazioni dei diritti umani, descrisse sostanzialmente la situazione post-Zelaya come profondamente liberticida, anti- democratica e tendenzialmente autoritaria350. Oltre che dalla paralisi dei negoziati e dalla crescita della repressione interna, il mese di settembre fu accompagnato da una intensificazione della pressione diplomatica americana – Washington blocco i visti dei membri e dei sostenitori del governo Micheletti – e dalla spregiudicata azione delle autorità golpiste, le quale avviarono una forte campagna d’intimidazione contro il governo brasiliano, la cui ambasciata a Tegucigalpa ospitava il presidente Zelaya351. Le pressioni del Brasile per affrontare tale questione all’interno delle Nazioni Unite sfociarono nella convocazione di una riunione del Consiglio di Sicurezza, presieduta dall’ambasciatrice americana al palazzo di vetro, Susan Rice352. Nonostante il nuovo intervento dell’ONU, gli atti di sfida condotti dalle autorità golpiste non si arrestarono: alcuni giorni dopo la riunione del palazzo di vetro, il governo Micheletti espulse 4 diplomatici dell’OAS, parte di un “advanced team”, chiamato a organizzare una nuova missione di mediazione da parte di una delegazione dei ministri degli esteri dell’OAS353.

349 Gobierno ordena suspender garantías constitucionales, El Tiempo (Honduras), September 28, 2009; Elisabeth Malkin & Ginger Thompson, Honduras Shuts Down 2 Media Outlets, Then Relent, in New York Times, September 29, 2009.

350 Pepe Lobo: Suspensión de garantías daña la imagen del país, El Tiempo (Honduras), September 28, 2009; Elisabeth Malkin & Ginger Thompson, Honduras Shuts Down 2 Media Outlets, Then Relents, New York Times, September 29, 2009; Faustino Ordóñez Baca, Decreto entorpece el proceso electoral, El Heraldo (Honduras), September 28, 2009; Micheletti publica revocación restricciones in Honduras, Reuters, October 19, 2009.

351 United Nations, Security Council, Letter dated 22 September 2009 from the Permanent Representative of Brazil to the United Nations addressed to the President of the Security Council, 24 September 2009, S/2009/487.

352 United Nations, Security Council, 6192nd Meeting, S/PV.6192, 25 September 2009.

353 Honduras Exples OAS Team and Gives Ten Days Deadline to the Brazilian Embassy, in Daily News, 29 September 2009, consultabile su: http://www.ticotimes.net/dailyarchive/2009_09/0928091.cfm , ultimo accesso 14 dicembre 2010.

167 Nonostante la nuova tensione diplomatica, l’OAS riuscì, nelle settimane successive, a rilanciare il dialogo tra Micheletti e Zelaya, i quali, il 30 ottobre, siglarono gli accordi di Tegucigalpa/San José, basati sui seguenti punti:

i) Formazione di un governo unità nazionale e di riconciliazione; ii) Rinuncia ad ogni ipotesi di modifica delle disposizioni fondamentali della costituzione; iii) Convocazione di elezioni nazionali alla presenza di osservatori internazionali; iv) Trasferimento della supervisione delle elezioni dall’esercito al Tribunale Elettorale supremo; v) L’organizzazione di un voto del Congresso sulla possibile reintegrazione di Zelaya; vi) La creazione di una commissione di verifica sull’applicazione dell’accordo, nonché di una commissione incaricata di indagare i fatti precedenti e successivi al 28 giugno, data della rimozione di Zelaya; vii) Il riconoscimento internazionale del nuovo governo dell’Honduras e la rimozione delle sanzioni internazionali354.

Sebbene gran parte della Comunità Internazionale guardasse agli accordi di Tegucigalpa/San José come alla conclusione della crisi del sistema democratico in Honduras355, dopo la creazione della commissione di verifica, le autorità golpiste ostacolarono apertamente la formazione di un nuovo governo di unità nazionale356. Nondimeno, il Congresso nazionale considerò, bocciandolo, la questione della possibile reintrgrazione di Zelaya solo il 2 dicembre 2009, tre giorni dopo le elezioni presidenziali del 29 novembre, boicottate dal movimento politico del legittimo presidente, “Fronte della Resistenza Nazionale contro il colpo di Stato”357.

354 El próximo jueves debe estar formado el gobierno de unidad, El Tiempo (Honduras), October 30, 2009.

355 Secretary of State Hillary Rodham Clinton, Breakthrough in Honduras,U.S. Department of State, October 30, 2009; Jordi Zamora, Fin de crisis en Honduras, un espaldarazo a la política multilateral de EEUU, Agence France Presse, October 30, 2009; La comunidad internacional celebra el acuerdo alcanzado en Honduras, Agence France Presse, October 30, 2009.

356 Micheletti. “Comisión de Verificación se instala y el Congreso consulta al Poder Judicial,” EFE News Service, November 3, 2009; “Micheletti pretende seguir en Gobierno de Honduras mientras Congreso decide,” EFE News Service, November 4, 2009.

357 “Rechazan restitución de Zelaya,” La Prensa (Honduras), December 3, 2009.

168 Le elezioni del 29 novembre assegnarono così la vittoria al candidato presidenziale del Partito Nazionale Porfirio Lobo, il quale sconfisse l’ex vice-presidente Elvin Santos del Partito liberale con un ampio margine, 56% contro il 38%. Mentre il PN guadagnò 71 dei 128 seggi parlamentari in palio, il PL ne ottenne solo 45, una circostanza interpretata da molti analisti come una chiara indicazione popolare di sfiducia al partito liberale da cui provenivano entrambi I protagonisti della crisi, Zelaya e Micheletti. Il boicottaggio operato dal partito di Zelaya, il basso tasso di partecipazione al voto, al di sotto del 50%, la repressione dei media dei ostili al governo Micheletti hanno coinciso per altro con la mancata partecipazione all’osservazione elettorale da parte dell’OAS, dell’UE e del Carter Center: tali circostanza hanno spinto molti analisti interni e internazionali a denunciare la sostanziale illegittimità delle consultazioni elettorali. Nei mesi successivi al voto, il presidente Lobo ha dovuto pertanto affrontare la questione della continua polarizzazione politica interna e della persistente tensione sociale. Dopo aver incluso nel suo governo alcuni dei candidate presidenziali che gli si erano contrapposti nelle elezioni del novembre 2009, Lobo ha incoraggiato il Congresso nazionale ad includere nel commissione del parlamento membri di tutti i partiti dell’opposizio. Lobo ha garantito inoltre a Zelaya la libera uscita dal Paese firmando un provvedimento politico di amnistia per l’ex- presidente e per i responsabili materiali della sua rimozione358. I tentativi di Lobo di promuovere una riconciliazione nazionale all’indomani del voto rispondevano chiaramente all’esigenza di rompere l’isolamento internazionale del Paese359. In tale processo è stato fino ad ora fondamentale il ruolo degli Stati Uniti: sin dalla fase successiva al voto l’Amministrazione Americana ha riconosciuto l’apertura di una nuova fase politica ma ha costantemente invitato la autorità dell’Honduras a lavorare alla reintegrazione di Zelaya e alla completa pacificazione del paese. Nondimeno, l’assistente Segretario di Stato alle Americhe dell’Ammnistrazione Obama, Arturo Valenzuela, ha incoraggiato ripetutamente la comunità internazionale ad accompagnare il processo di transizione in Honduras e facilitare il pieno ritorno della democrazia nel Paese360.

358 Lobo secures exit from Honduras for Zelaya, Latin News Daily, January 21, 2010; Congreso aprueba amnistía para delitos políticos comunes conexos, El Tiempo (Honduras), January 27, 2010.

359 Honduras politics: Lobo takes charge, Economist Intelligence Unit, January 26, 2010.

360 Assistant Secretary of State Arturo Valenzuela, Remarks on Recent Developments in Honduras, U.S. Department of State, December 3, 2009; U.S. Ambassador Hugo Llorens, Remarks at the Inter-American Dialogue, Washington, DC, January 19, 2010.

169 Nonostante le più recenti aperture di Washington in merito alla possibilità che nuovi progressi sul terreno della riconciliazione nazionale e dell’allargamento delle basi politiche e sociali della restaurazione democratica possano riaprire le porte dell’OAS all’Honduras361, molti membri dell’Organizzazione rimangono contrari a tale ipotesi e continuano ad indicare il re- insediamento di Zelaya e la piena implementazione degli accordi di Tegucigalpa/San José come la condition sine qua non della riabilitazione internazionale del Paese centro-americano.

iv) Lessons Learned

Il ruolo e l’efficacia dell’OAS Pur essendo riuscita ad attivare il meccanismo previsto dalla carta idemocratica inter- americana per il ritorno all’ordine costituzionale e democratico, l’OAS ha pagato le divisioni al suo interno. In particolare, il sospetto americano nei confronti dell’interventismo di Chavez e al contempo l’accusa del Venezuela nei confronti degli Stati Uniti di aver fomentato il golpe hanno sicuramente impedito all’Organizzazione di svolgere un ruolo più incisivo. La crisi in Honduras ha rivelato come lo stesso ruolo del Segretario Generale dell’Organizzazione richiederebbe un rafforzamento delle sue prerogative in termini di mediazione e prevenzione dei conflitti.

Il ruolo delle Nazioni Unite L’Assemblea Generale dell’ONU è stato il foro internazionale che ha permesso una efficace ricomposizione delle divergenze inter-americane in seno alle Nazioni Unite. In particolare, la natura del dibattito in seno all’AG ha indubbiamente contribuito ad incoraggiare l’Amministrazione Americana a precisare la sua posizione sulla rimozione di Zelaya e a superare lo scetticismo nei confronti del Presidente Zelaya, la cui agenda filo-Chavez era comunque particolarmente sgradita a Washington. Il ruolo centrale svolto dall’OAS nella mediazione e nella facilitazione del dialogo tra le parti è sembrato confermare quella divisione del lavoro tra l’organizzazione e le Nazioni Unite che era stata preconizzata e teorizzata dall’ex Segretario Generale dell’OAS Joao Soares.

361 Valenzuela Wraps Up Honduras Visit, 5 December 2010, Honduras news, consultabile su http://www.hondurasnews.com/valenzuela-wraps-up-honduras-visit/ , ultimo accesso 13 dicembre 2010.

170 Come si è accennato in precedenza, tale divisione implicava una concentrazione dell’OAS in materia di diplomazia preventiva e mediazione e una devoluzione all’ONU e al Consiglio di Sicurezza della responsabilità di ricorrere ad azioni coercitive implicanti l’uso della forza, ovvero all’autorizzazione allo schieramento di una forza di pace. Escluso dalla mediazione, condotta di fatto dall’OAS con il sostegno degli Stati Uniti, il sistema ONU può giocare un ruolo fondamentale nella promozione di un nuovo patto sociale e politico ad oltre un anno di distanza dal voto, il quale non è stato seguito da un genuine processo di conciliazione. In particolare, la persistente tensione sociale nel Paese, la necessità di accrescere il coinvolgimento della società civile nel rafforzamento e consolidamento del processo di democratizzazione schiudono le possibilità per l’avvio di una più incisiva azione della principale agenzia onusiana, lo UNDP, nella facilitazione della stabilizzazione politica ed economica post-conflittuale.

Transitional Justice Chiave del successo della riconciliazione nazionale in Honduras è indubbiamente l’accertamento delle responsabilità politiche e penali per le numerose e ripetute violazioni dei diritti umani condotte dai funzionari del governo Micheletti e dell’esercito nelle fasi successive alla rimozione del presidente Zelaya. Solo un’iniziativa trasparente e credibile di accertamento di tali responsabilità potrà creare le condizioni per una efficace stabilizzazione politica e sociale post-conflittuale ed eventualmente consentire all’Honduras di creare le premesse per un ritorno nell’OAS, ipotesi al momento ancora osteggiata dalla gran parte dei Paesi membri dell’Organizzazione.

171

1.4. Kosovo: ONU e UE tra indipendenza, secessione e integrazione

Lo status del Kosovo e la risoluzione 1244 Sin dalla liberalizzazione nell’ex-Jugoslavia nel 1974, il Kosovo aveva goduto lo status di provincia autonoma all’interno della repubblica serba, una condizione soppressa dalla politica repressiva del regime di Milosevic, il quale, nella prima metà degli anni ’90, sfruttando il sentimento anti-albanese del nazionalismo servo aveva adottato misure di emergenze che avevano di fatto provocato un’espulsione di massa della popolazione di etnia albanese dalle istituzioni pubbliche362. Com’è noto, nel corso degli anni ’90 la questione di uno status per il Kosovo non fu contemplata dalle diverse iniziative diplomatiche che stavano accompagnando il processo di riorganizzazione geopolitica dell’ex-Jugoslavia. Nel 1991-1992 la commissione di arbitrato Badinter nominata dall’Unione Europea aveva stipulato alcune linee direttive per l’esercizio del diritto di autodeterminazione da parte delle varie repubbliche dell’ex-Jugoslavia escludendo il Kosovo da tale ipotesi. Neppure i colloqui di pace di Dayton del 1995, che definirono una soluzione per la Bosnia-Erzegovina, affrontarono la questione del Kosovo363. Nel 1998, lo sviluppo di un conflitto armato tra l’esercito di liberazione del Kosovo e le forze di sicurezza serbe aveva in qualche modo riaperto la questione: nell’anno successivo, il gruppo di contatto formato da 6 nazioni, Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Russia

362 Carole Rogel Kosovo: Were It All Began, Source: International Journal of Politics, Culture, and Society, Vol. 17, No. 1, Studies in the Social History of Destruction: The Case of Yugoslavia (Fall, 2003), pp. 167-182; Nikolas K. Gvosdev, Comprehensive Peace in the Balkans: The Kosovo Question, in Human Rights Quarterly, Vol. 18, No. 4 (Nov., 1996), pag. 821-836

363 Thomas M. Franck, Lessons of Kosovo, in The American Journal of International Law, Vol. 93, No. 4 (Oct., 1999), pag. 857-860

172 spinsero le parti all’avvio di colloqui a Rambouillet, in Francia, dove fu siglato un accordo di pace interinale fondato sull’autogoverno del Kosovo364. In particolare, l’autonomia era stata associata alla presenza di una forza NATO, KFOR, e al ritiro serbo o alla smilitarizzazione del territorio kosovaro con l’eccezione delle zone di confine. La bozza di accordo prevedeva la convocazione di una conferenza internazionale entro tre anni alfine di determinare lo status finale del Kosovo che avrebbe dovuto tenere conto “della volontà popolare, del parere delle rilevanti autorità, degli sforzi condotti dalle parti nell’implementazione dell’intesa e dell’atto finale di Helsinki” sulla cooperazione e la sicurezza in Europa. Mentre i kosovari guardarono con entusiasmo alla bozza di Rambouillet, confidando nella possibilità di indire un referendum sull’indipendenza in tre anni, le autorità di Belgrado rifiutarono di accettare l’accordo365. La storia che seguì fu quella di una reazione brutale da parte del governo serbo contro gli albanesi del Kosovo e la discussa decisione della NATO di lanciare una campagna aerea, senza l’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, mirante ad arrestare l’offensiva militare di Belgrado. Dopo 78 giorni di conflitti, Milosevic accettò la capitolazione autorizzando l’ingresso della KFOR in Kosovo e il ritiro del contingente serbo: una decisione che metteva fine ad un periodo, quello tra il marzo e il giugno 1999, in cui oltre 800mila kosovari di etnia albanese – circa la metà della popolazione kosovara - erano fuggiti come rifugiati in Albania, Macedonia e Montenegro, mentre centinaia di migliaia erano stati sfollati internamente dalla rispettive zone d’origine366. La distruzione di centinaia di abitazioni e moschee, il ricorso agli stupri, alla violenze di massa, alle esecuzioni sommarie di centinaia aveva accompagnato aveva contrassegnato le operazioni militare condotte dalle forze serbe367. Fu in questo scenario che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU giunse, il 10 gennaio 1999, all’approvazione della risoluzione 1244, passata all’unanimità e con la sola astensione della delegazione cinese.

364 Marc Weller, The Rambouillet Conference on Kosovo, in International Affairs (Royal Institute of International Affairs 1944-), Vol. 75, No. 2 (Apr., 1999), pag. 211-253.

365 Peter W. Rodman, The Fallout from Kosovo, in Foreign Affairs, Vol. 78, No. 4 (Jul. - Aug., 1999), pag. 45-51,

366 Jef Huysmans, Shape-Shifting NATO: Humanitarian Action and the Kosovo Refugee Crisis, in Review of International Studies, Vol. 28, No. 3 (Jul., 2002), pag. 599-618; John V. A. Fine, Kosovo, in World Policy Journal, Vol. 16, No. 3 (Fall, 1999), pag. 125-126.

367 United Nations, Press Release: Security Council Welcoming Yugoslavia’s Acceptance of Peace Principles Establishes Civil Security Presence in Kosovo, 10 June 1999, SC/6686.

173 La risoluzione 1244 autorizzò la presenza della forza NATO in Kosovo e dispose la creazione di una missione civile internazionale, UNMIK, chiamata a creare le istituzioni provvisorie democratiche di auto-governo del Kosovo e controllarne l’operato. La forza ONU era chiamata a fornire al Kosovo un’amministrazione ad interim capace di consentire alla popolazione locale di godere di autonomia sostanziale all’interno della repubblica federale della Jugoslava; il progetto era quella di aprire un processo di transizione destinato a creare le autorità provvisorie del Kosovo e controllarne l’operato alfine di assicurare il ritorno ad una vita normale e pacifica per la popolazione locale. Pur definendo una soluzione che restava temporaneamente all’interno del framework della sovranità jugoslava, il Consiglio di Sicurezza assegnava alla missione civile dell’ONU di facilitare un processo politico destinato a determinare il futuro del Kosovo, “taking into account the Rambouillet accords” una postilla che teneva chiaramente aperta la possibilità della convocazione di un referendum per l’indipendenza368. La prospettiva di una soluzione politica era del resto legata al rispetto di una serie di condizioni annesse al testo di risoluzione, gran parte delle quali erano state definite dal meeting del G8 di Petersberg del 2009. Tali condizioni erano:la fine delle violenze e delle repressioni in Kosovo, la creazione di una presenza civile internazionale capace di garantire la protezione della popolazioni civile, la presenza della KFOR della NATO, il libero e sicuro rientro dei rifugiati nelle rispettive zone di origine, la definizione di un approccio integrato alla stabilizzazione economica e politica dell’Europa sud-orientale alfine di promuovere democrazia, sviluppo economico e cooperazione tra i Paesi dell’area, ritiro calendarizzato delle forze serbe (comunque autorizzate a garantire una presenza di difesa e presidio dei siti legati al patrimonio religioso e culturale serbo). In particolare, il secondo annesso alla risoluzione 1244, pur ribadendo quanto contenuto nella parte dispositiva del testo sembrava conferire maggior rilievo al principio che un “interim political framework agreement” per l’autogoverno del Kosovo dovesse tenere in conto non solo degli accordi di Rambouillet ma anche dei principi di sovranità e integrità territoriale della repubblica federale jugoslava, una circostanza, questa, sulla quale le autorità di Belgrado avrebbero presto basato le proprie contestazioni rispetto ai più recenti sviluppi della crisi369. Nel 2001 UNMIK promulgò una bozza di costituzione che consentiva la formazione di un parlamento elettivo, la nomina di un presidente e di un governo provvisorio, il quale poteva di

368 United Nations Security Council Resolution 1244, 10 June 1999.

369 Mary Ellen O'Connell, The UN, NATO, and International Law after Kosovo, in Human Rights Quarterly, Vol. 22, No. 1 (Feb., 2000), pag. 57- 69.

174 fatto accedere all’esercizio di quei poteri e di quelle funzioni che non facevano parte del dominio riservato di UNMIK. Tra il 2002 e il 2003, dopo la formazione di del governo provvisorio, il capo di UNMIK Steiner, sostenuto dal gruppo di contatto, tornato in vita dopo qualche anno, delineò la politica dello Standards Before Status definendo una serie di benchmark e condizionalità legate al miglioramento della governance locale come condizione per l’avvio di discussioni sulla revisione dello status del Kosovo, eventualmente entro la prima metà del 2005370. Nel marzo del 2004 si registrò tuttavia un repentino peggioramento delle condizioni di sicurezza in Kosovo: attacchi contro UNMIK e le comunità serbe causarono la morte di 20 persone e lo sfollamento di oltre 5mila kosovari di etnia serba, mettendo di fatto in crisi lo spirito degli Standards Before Status. Qualche mese dopo, nel luglio 2004, l’inviato speciale dell’ONU Kai Eide raccomandò comunque il trasferimento di maggiori poteri alle autorità provvisorie e l’avvio di discussioni sul futuro status del Kosovo in seno al Consiglio di Sicurezza dell’ONU; sulla stessa linea, il nuovo capo di UNMIK, Soren Jessen Petterson assegnò all’avvio di tale processo la funzione di priorità del suo mandato. Nel frattempo, di fronte all’impazienza delle autorità kosovare, il gruppo di contatto lanciò un segnale di rassicurazione affermando che la situazione del Kosovo non sarebbe comunque ritornata allo status ante marzo 1999, una formula che sembrava escludere categoricamente l’ipotesi di un ritorno sotto il dominio serbo371. Nel corso dell’aprile del 2005 il gruppo di contatto escluse apertamente la partizione del Kosovo e, al contempo, l’ipotesi di un’unione con l’Albania; l’implementazione degli standards in termini di buona governance da parte delle autorità kosovare fu giudicata ancora lacunosa ma sufficiente per l’avvio di una revisione dello status372. Più articolato fu invece l’assessment formulato nell’ottobre del 2005 dall’inviato speciale del Segretario Generale dell’ONU: Eide sottolineò infatti l’insufficiente incorporazione delle regole dello stato di diritto nell’amministrazione quotidiana esercitata dalle autorità kosovare e notò la persistenza mancanza delle premesse giuridiche e politiche necessarie per la creazione

370 United Nations Security Council, Presidential Statement, S/PRST/2003/26, 12 December 2003; United Nations Security Council, Presidential Statement S/PRST/2004/13, 30 April.

371 Cfr. Evolution of Kosovo Status, Appendix D, in International Crisis Group, Europe Report n. 182, No Good Alternatives to the Athisaari Plan, 14 May 2007.

372 Nikolas K. Gvosdev, Kosovo and Its Discontents, in Foreign Affairs, Vol. 85, No. 1 (Jan. - Feb., 2006), pag. 169-170

175 di una società multi-etnica. Perplessità piuttosto forti furono sollevate sul grado di preparazione dell’amministrazione kosovara a rilevare competenze rilevanti in materia di ordine pubblico. Nondimeno, la Serbia fu chiaramente accusata di ostacolare intenzionalmente gli sforzi kosovari di raggiungere gli standards richiesti in materia di buona governance. Il consolidamento dei poteri delle municipalità kosovare a maggioranza serba e il rafforzamento dei loro legami istituzionali con Belgrado fu indicato come rimedio ai fallimenti registrati nella politica multi-etnica delle autorità provvisorie373. Il rapporto oltre a sottolineare l’inopportunità di ritardare ulteriormente il processo di revisione dello status del Kosovo osservava come, nella nuova fase politica, l’Unione Europea fosse ormai in grado di giocare un ruolo decisivo: le politiche di integrazione e allargamento dell’UE furono chiaramente indicate da Eide come la chiave per la stabilizzazione della regione374. Merito del rapporto fu indubbiamente quello di indicare con chiarezza la necessità di una crescita della presenza europea in Kosovo, al fianco di quella della NATO e di quella dell’OSCE, alfine di assistere i settori di polizia e dell’amministrazione della giustizia nel quadro di un processo di verifica periodica del rispetto degli standards di buona governance. Secondo Eide, una road map per l’integrazione del Kosovo nelle strutture internazionali, al pari della promozione di incentivi per l’integrazione nella comunità euro-atlantica, potevano creare le condizioni più efficaci per la soluzione della controversia. Proprio in quelle settimane, del resto, l’UE aveva avvitato negoziati con Serbia e Montenegro per la definizione di un accordo di stabilizzazione e associazione375. Nel frattempo la decisione del Segretario Generale dell’ONU di nominare un nuovo inviato speciale per il Kosovo fu approvata dal CdS: la scelta di Kofi Anann cadde sull’ex presidente Martii Ahtisaari376. Athisaari, sostenuto nella sua opera di buoni uffici e mediazione dallo United

373 United Nations, Security Council, Letter dated 7 October 2005 from the Secretary-General addressed to the President of the Security Council S/2005/635

374 United Nations, Security Council, A Comprehensive Review of the Situation in Kosovo, Annex, in Letter dated 7 October 2005 from the Secretary-General addressed to the President of the Security Council S/2005/635, pag. 3-6.

375 European Union, Press Release, Commission recommends continuing separate Stabilisation and Association Agreement negotiations with Montenegro and with Serbia, IP/06/941, 6 July 2005.

376 United Nations, Secretary-General Appoints Former President of Finland Marrti Athisaari as Special Envoy United Nations for Future Status Process for Kosovo, SG/A/955 BIO/3714, 15 November 2005; Security Council, Presidential Statement S/PRST/2005/51, 24 October 2005.

176 Nations Office of the Special Envoy for Kosovo, UNOSEK, si impegnò in una consultazione continua con i membri del gruppo di contatto e suggerì la definizione dei principi guida per la soluzione alla questione del Kosovo. Oltre ad affermare che la decisione finale sullo status avrebbe dovuto ricevere un’approvazione da parte del CdS dell’ONU, i cosidetti “Guiding Principles”, sui quali il gruppo di contatto trovò l’accordo, delineavano le coordinate per la promozione del “final settlment”. I punti erano i seguenti:

1) Conformità agli standard giuridici internazionali e contributo del final status alla sicurezza regionale; 2) Conformità agli standards europei e assistenza internazionale al processo di integrazione del Kosovo nell’UE e nella NATO; 3) Garanzia di multi-etnicità; 4) Definizioni di meccanismi istituzionali capaci di assicurare la partecipazione di tutte le comunità nel governo centrale e locale; 5) Definizione di misure di salvaguardie e protezione per i siti religiosi serbi nel Kosovo; 6) Difesa della sicurezza regionale mediante la rinuncia a progetti di partizione o unione del Kosovo ad altri Stati; 7) Identità tra sicurezza del Kosovo e sicurezza regionale; 8) Rafforzamento della capacità del Kosovo di rafforzare lo stato di diritto, la lotta al terrorismo e al crimine organizzato; difesa del carattere multi-etnico del settore di polizia e dell’amministrazione giudiziaria; 9) Promozione dello sviluppo economico e politico del Kosovo e della sua cooperazione con le istituzioni politiche e finanziarie internazionali; 10) Definizione dei dettagli della presenza civile e militare internazionale incaricata di verificare l’implementazione dello status, la protezione delle minoranze e l’allineamento del Kosovo agli standards internazionali di buona governance e dei diritti umani377.

Nel frattempo, tra l’autunno 2005 e l’inverno 2006, dopo aver approvato un documento sul “Kosovo Europeo”, la Commissione europea diversificò ufficialmente i suoi progressi annuali su

377 Security Council Report, Udpate Report, Kosovo, February 2005.

177 Serbia, Montenegro e Kosovo, riconoscendo la definizione di percorsi istituzionali distinti nel processo di possibile acquisizione della membership378. Nei primi mesi del 2006 i ministri del gruppo di contatto precisarono ulteriormente la loro comune soluzione alla questione del Kosovo accordandosi sul principio che tutti i possibili sforzi diplomatici dovessero essere condotti alfine di definire, entro la fine dell’anno, uno status finale che fosse accettabile da parte della popolazione kosovara. I ministri degli esteri del gruppo di contatto trovarono l’intesa su una interpretazione della questione kosovara come problema specifica all’interno del più ampio processo di disintegrazione della Jugoslavia e riconobbero altresì la necessità di considerare il periodo di amministrazione internazionale sotto l’egida della risoluzione 1244 come elemento importante nella definizione del nuovo status. I nuovi punti presentati dal gruppo di contatto sollevarono presto un’aspra controversia tra Athissari e il governo serbo, il quale reagì duramente alle osservazioni formulate dall’inviato speciale dell’ONU sulla necessità che Belgrado facesse definitivamente ammenda della repressione e delle atrocità perpetrate dal regime di Milosevic contro la comunità albanese in Kosovo. Nonostante tali schermaglie diplomatiche, mentre l’Unione Europea cominciava a discutere e preparare piani per una possibile operazione PESD nel campo dello stato di diritto e per la creazione di un ufficio di un rappresentante speciale dell’UE in Kosovo, tra la primavera e l’estate del 2006, Anthisaari intensificò le sue consultazioni con delegazioni serbe e kosovare attraverso una serie di negoziati diretti alfine di accelerare la presentazione di un rapporto finale sulla questione dello status dell’ex provincia autonoma dello repubblica federale jugoslava.379

II. Dal piano Athisaari alla mediazione della troika Il 26 marzo del 2007, dopo una serie di consultazioni aggiuntive tese ad includere le osservazioni formulate dalla parti serbe e kosovare e quelle dei membri del gruppo di contratto, il rapporto di Athisaari, che aveva già sollevato diverse critiche sia da parte di Pristina che di Belgrado, fu inviato al Consiglio di Sicurezza nella sua versione finale380.

378 Su questo cfr. : http://ec.europa.eu/enlargement/potential-candidates/kosovo/relation/index_en.htm, ultimo accesso 29 novembre 2010.

379 Paolo Quercia, Kosovo: ultimo capitolo a primavera, in Osservatorio Strategico, marzo 2007.

380 La proposta Athisaari è consultabile sul sito www.unosek.org/docref/Comprehensive_proposal-english-pdf, ultimo accesso 18 dicembre 2010

178 Il piano di Athisaari definiva una sorta di road map per un processo di formazione graduale dello stato kosovaro basato sulla presenza di una supervisione internazionale chiamata ad accompagnare la nascita progressiva di un’entità indipendente. Il progetto indicava un periodo di transizione di 120 giorni fondato sulla conservazione dei poteri e del mandato assegnato ad UNMIK e sulla preparazione, da parte dell’assemblea parlamentare kosovara, in consultazione con lo International Civilian Representative, della legislazione costituzionale e ordinaria necessaria all’implementazione della proposta sull’acquisizione progressiva del nuovo status. Al termine del periodo di transizione, il mandato di UNMIK sarebbe terminato e sarebbe altresì coinciso con il trasferimento di tutti i poteri legislativi ed esecutivi alle autorità di governo del Kosovo. L’idea del piano ONU era dunque quella di un percorso di indipendenza monitorato da una nuova presenza civile internazionale: lo ICR avrebbe infatti avuto il compito di assicurare l’implementazione da parte delle autorità kosovare dei suoi obblighi internazionali ed eventualmente correggere o annullare provvedimenti legislativi suscettibili di violare i principi della decentralizzazione o mettere a rischio i diritti delle comunità o la protezione del patrimonio culturale religioso delle stesse. La proposta disegnava infatti un Kosovo fondato sul principio della decentralizzazione, intesa come strumento per garantire protezione e partecipazione politica delle minoranze. Pur non facendo direttamente riferimento al principio della multi etnicità, il rapporto assegnava infatti competenze avanzate alle diverse municipalità a maggioranza serba: Mitrovica Nord si vedeva conferita poteri esclusivi in materia di educazione; la stessa Mitrovica Nord, Gracanica e Strpce potevano esercitare funzioni autonome in materia di assistenza sanitaria. Nondimeno, tutte le municipalità a maggioranza serba potevano esercitare pieno monopolio sulle politiche culturali e ampi poteri di controllo sulla selezione della polizia locale; un sistema di accordi di partnership tra i comuni “serbi” e le autorità di Belgrado completava un sistema di garanzia della minoranza della minoranza etnica che, sulla carta, appariva anche più progressista del progetto di convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione delle minoranza nazionali381.

381 Cfr. International Crisis Group, Kosovo: No Good Alternatives to the Ahtisaari Plan, Europe Report, n. 182, 14 May 2007, pag. 8-9.

179 In difesa di tali disposizioni su decentralizzazione e tutela della minoranza serba, lo ICR avrebbe potuto rimuovere funzionari governativi recalcitranti ed esercitare così un elevato grado di controllo dell’azione politica e amministrativa delle autorità kosovare382. Secondo il progetto Athisaari, lo ICR doveva inoltre essere affiancato da un vice rappresentante che sarebbe stato alla guida di una operazione PESD dell’Unione Europea dotata di esperti nei settori dell’amministrazione della giustizia, di consiglieri in materia di polizia civile e doganale e di controllo delle frontiere. Di fatto, assieme al suo deputy, lo ICR poteva intervenire, quando necessario, nel mantenimento e nella promozione dello stato di diritto, dell’ordine pubblico e della sicurezza. Un International Steering Group, composto dal gruppo dio contatto, il Consiglio dell’Unione Europea, la Commissione europea e la NATO, avrebbe infine avuto il compito di riesaminare, dopo due anni, il lavoro dello ICR ed eventualmente modificarne il mandato. Appare infine opportuno sottolineare che l’attuazione del rapporto Athisaari prevedeva evidentemente l’adozione di una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che superasse o abolisse esplicitamente il quadro politico e giuridico della risoluzione 1244, la quale confermava la sovranità serba come framework nel quale inserire il nuovo status del Kosovo. Dopo aver ricevuto il consenso da parte della NATO, il parere favorevole della presidenza dell’Unione Europea, all’epoca a guida tedesca, nonché il sostegno da parte del Segretario Generale dell’ONU, il progetto Atishaari giunse all’attenzione del Consiglio di Sicurezza nell’aprile 2007, il quale registrò ufficialmente la totale ostilità della delegazione russa al palazzo di vetro383. Nel corso del mese di marzo, l’ambasciatore della Russia all’ONU, Vitaly Chrurkin, aveva già accusato il capo di UNMIK, il tedesco Joachim Rucker, di aver violato il principio dell’imparzialità presentando, in seno al Consiglio, una ricostruzione dei fatti e degli ultimi sviluppi in Kosovo che era stata giudicata incompleta. Successivamente, bersaglio dell’offensiva diplomatica russa fu lo stesso Athisaari, accusato di aver assunto l’intransigenza kosovara per l’indipendenza come soluzione negoziabile e di aver lavorato su tavoli separati, mediante un

383 Worren Hoge, Russia Rejects UN Plan for Kosovo as One Sided, in New York Times, 27 March 2008; Judy Dempsey, Diplomats to Increase Pressures on Serbia to Accept Kosovo Plan, in New York Times, 17 April 2007.

180 doppio negoziato bilaterale, per trovare nei sui contatti con le parti una proposta che potesse soddisfare gli interessi minimi di Belgrado in relazione alla protezione delle minoranze serbe384. Fu tuttavia nel corso del mese di aprile che lo show down della diplomazia russa coincise con la minaccia di ricorrere al veto nel caso in cui il piano fosse formalmente presentato al Consiglio per l’approvazione: la delegazioni di Mosca all’ONU sottolineò con insistenza il valore della risoluzione 1244 come paradigma giuridico e politico nel quale inserire il nuovo status del Kosovo – inteso come autonomia avanzata nella sovranità serba – e formulò riferimenti impliciti ed espliciti alla creazione di una UNOSEK II, chiamata ad aprire un nuovo ed autentico negoziato diplomatico ed a archiviare la mediazione “parziale” e “non costruttiva” svolta Athisaari385. Quest’ultimo aspetto fu tuttavia respinto dalle potenze occidentali presenti in CdS, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna: il rischio sarebbe infatti stato quello di esporre UNMIK ad una forte delegittimazione interna e di riconoscere ufficialmente il fallimento di oltre un anno di intensa mediazione diplomatica386. Una proposta di compromesso fu trovata nell’invio di una missione del Consiglio di Sicurezza nella stessa primavera del 2007387: annunciata come mezzo per verificare le posizioni negoziali delle parti, che erano ormai ampiamente note e definite, la missione indicò un successo diplomatico dell’asse Mosca-Belgrado, il quale riuscì a rallentare, almeno temporaneamente, la road map e poté così cominciare a lavorare sulla creazione di un fronte internazionale contrario all’indipendenza del Kosovo. Tale fronte mirava a raccogliere il sostegno dei Paesi africani, all’interno e all’esterno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ma anche quello di Canada e Giappone all’interno del G8388.

384 Russia Seeks New Mediator for Kosovo, in Reuters, 18 March 2007, consultabile su http://www.nytimes.com/2007/03/18/world/europe/18kosovo.html?ref=marttiahtisaari , ultimo acesso 29 novembre 2010.

385 Russia FM Blasts UN Kosovo Envoy, Suggests Unfit to Foster Resolution, Associated Press, 17 July 2007

386 United Nations Security Council Official communiqué of the 5654th (closed) meeting of the Security Council, 3 April 2007, S.PV/5654;

387 United Nations, Department of Public Information: Achieving Reconciliation, Multi-Ethnic Society in Kosovo Will Require Sustained Commitment by All Parties Security Council Told, 5673rd Meeting, 17 May 2007; United Nations Security Council, Report of the Security Council Mission in Kosovo, 4 May 2007, S/2007/256.

388 Paolo Quercia, Kosovo, La Serbia chiede un nuovo negoziato, la Russia alza la posta, l’ONU prende tempo, in Osservatorio Strategico, Aprile 2007

181 Lo stallo registratosi in seno al Consiglio di Sicurezza – dove a nulla valsero gli sforzi di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Italia per mettere ai voti una risoluzione di compromesso che non sosteneva apertamente il progetto Athisaari ma che confermava l’idea di una road map verso l’indipendenza 389- fu all’origine dell’apertura di un nuovo processo di mediazione. La nuova mediazione non fu più affidata alle Nazioni Unite, bensì promossa dal gruppo di contatto e, in particolare, da un troika composta dall’Unione Europea (rappresentata dal tedesco Wolfgang Ischinger), gli Stati Uniti (rappresentati da Frank Weisner) e la Russia ( Alexsandr Botsan-Kharachenko).Tale fase negoziale avrebbe dovuto del resto chiudersi entro il 10 dicembre 2007, data nella quale la troika sarebbe stata chiamata ad aggiornare il Segretario Generale dell’ONU e il Consiglio di Sicurezza390. Svoltisi a margine della sessione annuale dell’Assemblea Generale dell’ONU, i colloqui tra serbi e kosovari facilitati dal gruppo di contatto non sembrarono poter ottenere significativi risultati: mentre i delegati di Belgrado presentarono una nuova proposta di autonomia sostanziale all’interno della Serbia – definita come il modello storicamente più avanzato – i rappresentanti delle autorità kosovare confermarono il loro attaccamento alla road map definita dal piano Athisaari, indicando la disponibilità a creare rapporti di vicinato e amicizia con lo Stato serbo391. Neanche un ulteriore aggiornamento che le autorità serbe inclusero nella loro offerta, legato ad una sorta di modello Hong Kong che prevedeva un accordo ventennale sulla base della formula “due sistemi-un Paese”, incontrò la risposta positiva di Pristina392. La nuova paralisi del negoziato e l’evidente inconciliabilità delle posizioni schiuse progressivamente l’ipotesi di una dichiarazione unilaterale di indipendenza da parte delle autorità kosovare. Il 19 dicembre del 2007, nel corso di una riunione a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, più che registrare la permanenza di punti di vista non disponibili al compromesso, il palazzo di vetro cominciò a discutere animatamente le conseguenze di una possibile dichiarazione unilaterale di indipendenza, indicando l’ovvia ostilità russa e la ferma disponibilità

389 Statement issued on 20 July 2007 by Belgium, France, Germany, , and the United States of America, co-sponsors of the draft resolution on Kosovo presented to the UNSC on 17 July, consultabile sul sito www.securitycouncilreport.org , ultimo accesso 15 dicembre 2010. 390 Security Council Report, Kosovo, October 2007,

391 Paolo Quercia, Kosovo, gli ultimi colloqui prima del buio, in Osservatorio Strategico, settembre 2007.

392 Paolo Quercia, Il Kosovo sospeso tra il voto di Pristina e quello di New York, in Osservatorio Strategico, novembre 2007.

182 al riconoscimento da parte degli Stati Uniti e, con varie sfumature, anche dai Paesi dell’Unione Europea presenti in CdS393.

III. La dichiarazione unilaterale di indipendenza e il dispiegamento di EULEX Il 17 febbraio 2008, nel corso di una seduta straordinaria del Parlamento di Pristina, l’Assemblea parlamentare approvò la dichiarazione unilaterale di indipendenza. La dichiarazione incluse riferimenti a due documenti considerati per lo più incompatibili, ovvero la proposta Anthisaari e la risoluzione 1244. Il riferimento alla proposta formulata dall’inviato dell’ONU fu evidentemente dettata dall’esigenza di conservare quegli elementi di condizionalità e monitoraggio dell’indipendenza che erano stati indicati dall’ex presidente finlandesi come aspetti necessari della road map. L’accenno operato invece dalla dichiarazione alla risoluzione 1244 – che ribadiva sostanzialmente l’integrità territoriale della serba – era piuttosto collegato alla necessità di salvaguardare la legittimità della presenza militare internazionale della KFOR: l’idea era cioè quella di confermare il sostegno della NATO fino al momento in cui le istituzioni del Kosovo non fossero in grado di assicurare le responsabilità per la sicurezza394. Altro elemento che caratterizzava la dichiarazione era formulazione di un chiaro invito alla NATO e alla missione civile internazionale di sostenere gli sforzi del Kosovo: tale formula tradiva la volontà di superare la dimensione coercitiva della presenza della KFOR e di UNMIK, ovvero il fatto che esistessero sulla base di uno specifico mandato del Consiglio di Sicurezza. L’idea di Pristina era sostanzialmente quella indicare la legittimità della presenza della comunità internazionale sul proprio territorio come frutto della libera volontà di uno stato libero e indipendente395. Nonostante la persistenza di divisioni all’interno dell’UE – Paesi come Spagna, Grecia, Cipro, Romania e Slovenia indicarono la propria non disponibilità al riconoscimento – la

393 United Nations Security Council, Official communiqué of the 5811th (closed) meeting of the Security Council, 17 December 2007, S.PV/5811.

394 Il testo della dichiarazione è consultabile sul sito http://www.assembly- kosova.org/?krye=news&newsid=1635&lang=en, ultimo accesso 18 dicembre 2010; Dan Bilefski, Kosovo Declares Its Indipendence from Serbia, in New York Times, 18 febbraio 2008.

395 Paolo Quercia, L’indipendenza del Kosovo tra riconoscimenti, conseguenze e ripercussioni, in Osservatorio Strategico, Febbraio 2008.

183 dichiarazione unilaterale di indipendenza aprì un nuovo scenario per le possibilità di azione dell’Unione Europea. Sulla base del Consiglio Europeo di Bruxelles del 14 dicembre 2007 – il quale aveva affermato la volontà dell’UE di giocare un ruolo centrale nella stabilizzazione della regione – e contemporaneamente alla prima ondata di riconoscimenti, che interessò soprattutto diversi Paesi membri della NATO e dell’Unione Europea – tra cui l’Italia stessa – l’UE assunse la storica decisione del dispiegamento di EULEX, una missione civile inquadrata nell’ambito PESD. EULEX, che sarebbe divenuta la più grande e costosa operazione civile dell’UE - ad oggi composta da 2800 uomini, con un budget di 265 milioni di euro396 - fu istituita con il compito di assistere, monitorare e sorvegliare le attività del governo di Pristina in materia di stato di diritto e delle attività giudiziarie e di polizia. In particolare, il mandato della missione era quello di accompagnare gli sforzi delle autorità kosovare nello sviluppo e rafforzamento di un sistema giudiziario e di polizia multi-etnico, di un efficace servizio doganale e di assicurare altresì che tali istituzioni fossero liberi dall’interferenza politica ed in linea con gli standards internazionali riconosciuti dall’Unione Europea397. Dopo la nomina di Peter Feith come rappresentante speciale dell’UE , il quale fu anche incaricato di agire come International Civilian Representative for Kosovo, i Paesi protagonisti della prima ondata di riconoscimento – tra cui Gran Bretagna, Francia, Italia, Stati Uniti, Austria, Repubblica Ceca, Turchia, Belgio, Slovenia, Svizzera, Ungheria, etc - diedero vita allo ISG, previsto dal piano Athisaari398 . Di fatto, il piano dell’ex presidente finlandese, pur non avendo ottenuto l’investitura del Consiglio di Sicurezza, era stato indicato da un folto gruppo di membri del CdS – Gran Bretagna, Francia, Croazia, Belgio, Italia, Germani e Stati Uniti – come l’unica opzione disponibile per risolvere l’impasse tra Serbia e Kosovo e proseguire sulla strada dell’indipendenza di Pristina mediante un controllo adeguato da parte della Comunità Internazionale399.

396 European Union Common Security Defense Policy, EULEX, Factsheet, 10 August 2010, consultabile su http://www.consilium.europa.eu/showPage.aspx?id=1461&lang=fr , ultimo accesso 15 dicembre 2010.

397 Council Joint Action, 2008/124/CFSP of 4 February 2008 on the European Union Rule of Law Mission in Kosovo, EULEX KOSOVO, Official Journal of the European Union 16.2.2008.

398 Security Council Report, Kosovo, Update Report, March 2008.

399 United Nations Security Council, 5839th Meeting, S.PV/5839, 18 February 2008; United Nations, Department of Public Information: Security Council Meets in Emergency Session Following Kosovo’s Declaration of Independence, with Members Sharply Divided, 18 February 2008, SC/9252.

184 Nel marzo 2008, gli incidenti verificatisi a Mitrovica segnarono il ritorno della violenza politica in Kosovo, a quattro anni di distanza dagli episodi del 2004 e indicarono chiaramente l’ostilità di Belgrado e delle minoranze serbe del Kosovo settentrionale all’ipotesi che la missione europea EULEX, pensata per accompagnare l’indipendenza di Pristina, assorbisse nella sua sfera di controllo il tribunale dell’enclave serba posto sotto supervisione della missione ONU. Ciò che pareva delinearsi nel quadro di un progressivo ridimensionamento della presenza ONU nella nuova fase politico-diplomatica era una sorte di divisione del lavoro tra UNMIK e EULEX: mentre la prima sembrava potere dedicarsi in misura crescente ai problemi delle aeree a maggioranza serba e a offrire un canale di dialogo tra queste, Belgrado e il governo kosovaro, la seconda svolgeva i suoi compiti di controllo e supervisione delle autorità di Pristina400. Di fronte a queste possibili evoluzioni delle forme della presenza internazionale in Kosovo - peraltro ancora segnata dal ruolo cruciale ruolo dei 16mila uomini della NATO nel garantire con continuità la sicurezza all’intero territorio di Pristina - il Segretario Generale dell’ONU presentò, nell’estate 2008, un articolato rapporto mirante ad una ridefinizione del ruolo di UNMIK. In particolare, Ban Ki-Moon, osservando come UNMIK, all’indomani della dichiarazione di indipendenza conservasse il suo profilo di neutralità sulla questione dello status del Kosovo, sottolineò il fatto che la nuova situazione creatisi con l’entrata in vigore della costituzione kosovara richiedesse un significativo riaggiustamento della presenza ONU. In particolare, il SG riteneva che l’Unione Europea potesse svolgere un crescente ruolo operativo nel campo dello stato di diritto all’interno di un ombrello politico assicurato da un nuovo Special Representative dell’ONU per il Kosovo. Secondo Ban Ki-Moon, l’UE avrebbe potuto comunque svolgere tale compito nel quadro giuridico definito dalla risoluzione 1244 e nell’ambito di una precisa divisione del lavoro: mentre l’Unione Europea avrebbe di fatto assunto nuove addizionali responsabilità in materia di polizia, giustizia e sistema doganale, l’ONU si sarebbe invece ritagliata la funzione di facilitare la partecipazione del Kosovo agli accordi internazionale e il dialogo tra le autorità di Pristina e quelle di Belgrado401. Parte integrante della proposta era la nomina di uno rappresentante speciale del SG, il quale fu identificato nella persona del diplomatico Lamberto Zannier402.

400 Security Council Report, Update Report n.5, 13 June 2008.

401 United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, 12 June 2008, S/2008/354.

402 United Nations, Secretary-General Appoints Lamberto Zannier as new Special Representative of the Secretary- General for Kosovo, 13 June 2008.

185 Il nuovo piano di Ban Ki Moon fu discusso dal Consiglio di Sicurezza nello stesso mese di giugno 2008 e creò una nuova controversia di difficile risoluzione Russia e Serbia indicarono la loro netta contrarietà al ridimensionamento di UNMIK, percepita evidentemente come garanzia della persistente validità della risoluzione 1244 e del principio dell’integralità territoriale e sovranità della Serbia sul Kosovo. Nondimeno, la controversia si concentrò presto sul dispiegamento e sul mandato di EULEX, avversata inizialmente dai serbi che, come dimostrato dagli incidenti del marzo 2008, ne temevano la possibile azione di sostegno alle pretese di Pristina di recuperare pieno e totale controllo delle aeree settentrionali a maggioranza serba403. Mentre la stessa Pristina fu costretta ad accettare il dispiegamento di EULEX come contropartita per l’indipendenza e condizione capace di rassicurare i Paesi che procedevano al riconoscimento del Kosovo, le autorità di Belgrado riconobbero la legittimità dell’operazione dell’UE solo in seguito alla firma di un accordo sullo stato della missione.

Tale accordo, che ha riconfigurato EULEX come missione interna al sistema ONU, operante in rispetto della risoluzione 1244, precisò la natura di “status neutral” dell’operazione PESD - ovvero di imparzialità nei confronti delle rivendicazioni delle due parti - e fu successivamente approvato dal Consiglio di Sicurezza404. Tale circostanza sollevò tuttavia la dura opposizione delle autorità kosovare, le quali vedevano nella conservazione ufficiale del quadro giuridico della 1244 come una minaccia all’indipendenza di Pristina: nondimeno, a suscitare perplessità era l’intero impianto della proposta Ban Ki-Moon, ovvero quella funzione di UNMIK nel nord del Paese, cioè di tutela attiva delle minoranze serbe, che sembrava schiudere nuove ipotesi di una partizione del Kosovo405. Appare opportuno qui sottolineare che parallelamente al dibattito sul ruolo di EULEX e sulle relazioni tra EULEX e UNMIK, l’Unione Europea intensificò, tra il 2008 e il 2009, il proprio impegno nella promozione di una strategia dell’allargamento fondata sulla creazione di precisi incentivi, sia per la Serbia che per il Kosovo, capaci di facilitare l’allineamento degli standard interni a quelli europei – in materia di diritti delle minoranza, democrazia, stato di diritto, etc – e di

403 Security Council Report, Kosovo, July 2007.

404 United Nations Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, 15 July 2008, S/2008/458.

405 International Crisis Group, Europe Report n. 196: Kosovo’s Fragile Transition, 25 September 2008

186 fondare sulla condivisione dei benefici della partecipazione all’integrazione europea la risoluzione della crisi tra Pristina e Belgrado406. Nonostante tali sviluppi, sin dall’estate del 2008, la Serbia aveva comunque intrapreso, all’interno dell’ONU, un iniziativa che apriva una nuova vertenza con Pristina, ovvero la presentazione di un progetto di risoluzione all’Assemblea Generale che richiedeva un parere da parte della Corte Internazionale di Giustizia sulla conformità o meno della dichiarazione unilaterale di indipendenza al diritto internazionale407.

IV) Il parere della CIG e il parere dell’Assemblea Generale dell’ONU Atteso per l’estate del 2010, il pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia rischiava di fomentare nuove tensioni tra Belgrado e Pristina. In particolare, sin dall’inizio del 2010, il rappresentante speciale del SG, Lamberto Zannier, aveva evidenziato l’estrema fragilità della situazione nel nord del Kosovo, dove l’attrito e la contrapposizione tra le comunità serbe e kosovare poteva trasformarsi in conflitto alla prima occasione408. In particolare, nella primavera del 2010 sono emerse talune incomprensioni nella gestione della situazione del Nord del Kosovo. Il rapporto presentato dal SG nello scorso mese di aprile ha infatti sollevato alcune perplessità sulla “strategia di integrazione del Kosovo settentrionale” definita dallo Special Representative dell’Unione Europea, Peter Feith, in stretta consultazione con le autorità di Pristina. Ban Ki Moon lamentò implicitamente il fatto che UNMIK non fosse stata consultata nella fase di preparazione della strategia e neppure coinvolta nell’eventuale piano di implementazione409. Il Segretariato ONU era ovviamente consapevole che il

406Press Release, Commissioner Europea, Realizzare la prospettiva europea del Kosovo,consultabile sul sito http://europa.eu/rapid/pressReleasesAction.do?reference=IP/09/1516&format=HTML&aged=0&language=EN&gui Language=en , ultimo accesso 15 dicembre 2010; Serbia 2009 Progress Report ,Communication from the Commission to the European Parliament and Council, 14 October 2009, consultabile sul sito: http://ec.europa.eu/enlargement/pdf/key_documents/2009/sr_rapport_2009_en.pdf , ultimo accesso 17 dicembre 2010. Cfr. anche 2008/213/EC: Council Decision of 18 February 2008 on the principles, priorities and conditions contained in the European Partnership with Serbia including Kosovo as defined by United Nations Security Council Resolution 1244 of 10 June 1999 and repealing Decision 2006/56/EC.

407 Serbia Submit Kosovo Draft to UN General Assembly, consultabile sul sito: http://www.b92.net/eng/news/politics-article.php?yyyy=2010&mm=07&dd=28&nav_id=68748 , ultimo accesso 13 dicembre 2010.

408 United Nations, Security Council, 6264th Meeting, S.PV/6264, 14 January 2010

409 Cfr. su questo, Paolo Quercia, Kosovo e Bosnia Erzegovina. Le Spine dei Balcani nel soft power europeo, in gennaio 2010.

187 consolidamento dei legami tra Belgrado e le regioni settentrionali del Kosovo attraverso la proliferazione di istituzioni parallele si scontrava apertamente con il disegno di Pristina di formulare un nuovo piano di decentralizzazione fondato sulla creazione di unità amministrative locali. Il Segretariato del palazzo di vetro temeva infatti che, in assenza di una consultazione sul tema con le componenti serbe del Kosovo settentrionale, si potesse creare un pretesto per facilitare la riedizione di quella violenza politica esplosa nell’area di Mitrovica nel marzo 2008, quando, il takeover da parte di EULEX delle responsabilità di supervisione di UNMIK sul tribunale della città aveva innescato la dura reazione della comunità serba, ostile a ciò che appariva come un’estensione indiretta dell’autorità di Pristina410. Il 22 luglio la Corte Internazionale di Giustizia emise del resto l’atteso parere consultivo sulla la dichiarazione unilaterale di indipendenza formulata dalle autorità del Kosovo nel febbraio 2008. Secondo la Corte, la dichiarazione di indipendenza non costituì né una violazione del diritto internazionale né una infrazione alla risoluzione 1244411. Contrariamente alle aspettative, il pronunciamento della Corte non è sembrato contribuire ad un ulteriore radicalizzazione delle posizioni di Pristina e Belgrado. Sebbene la diplomazia serba si sia affrettata a depositare presso l’AG dell’ONU un nuovo testo di risoluzione che condannava nuovamente la dichiarazione di indipendenza, invitando altresì le autorità di Pristina ad avviare nuovi negoziati, la” prospettiva europea” ha indubbiamente incoraggiato il pragamatico governo Tadic a considerare l’ipotesi di approcci nuovi alla soluzione della questione del Kosovo412. Il processo di ufficializzazione della domanda di ammissione all’UE da parte della Serbia è infatti coinciso con alcuni gesti significativi: quasi contemporaneamente alla decisione delle autorità giudiziarie serbe di processare nove membri delle forze para-militari accusate di aver ucciso 43 cittadini di etnia albanese, la delegazione di Belgrado all’ONU decise di abbandonare il progetto originario di risoluzione per l’Assemblea generale, accordandosi con l’Unione Europea per la presentazione di un testo più soft, rispettoso del pronunciamento della

410 United Nations, Report of the Secretary-General, Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, S/2010/169, 6 April 2010.

411 United Nations General Assembly, Advisory opinion of the International Court of Justice on the accordance with international law of the unilateral declaration of independence in respect of Kosovo, 22 luglio 2010, A/64/881.

412 Security Council Report, Kosovo, October 2010.

188 Corte ed aperto all’ipotesi di un rilancio di nuovi negoziati tra le parti con la mediazione dell’Unione Europea413. Il 9 settembre del 2010 l’Assemblea generale ha infatti approvato un testo di risoluzione completamente diverso da quello presentato in estate dalla delegazione serba all’ONU. La risoluzione, presentata dalla Serbia e da tutti i 27 Stati membri dell’Unione Europea, ha presso atto del parere emesso dalla Corte – “the Assembly acknowledges the contnent of the advisory opinion of the International Court of Justice on the Accordance with International Law of the Unilateral Declaration of Indipendence in respect of Kosovo...” – ed ha accolto con favore la determinazione dell’UE a facilitare il processo di dialogo tra le parti. La risoluzione ha indicato altresì come tale processo possa trasformarsi in“fattore di pace, stabilità e sicurezza nella regione”, sottolineando come il dialogo tra Serbia e Kosovo sia in grado di creare le condizioni per un progresso nel cammino verso l’Unione Europea e nel miglioramento della vita delle popolazioni (“promote cooperation, achieve progress on the path to the EU and improve the lives of people”)414. Nonostante la fase immediatamente successiva al pronunciamento della Corte fosse sembrata schiudere le opportunità di nuovi negoziati, il rappresentante speciale Lamberto Zannier ha recentemente denunciato l’esercizio di un crescente ostruzionismo da parte delle autorità kosovare nella promozione della cooperazione regionale e nella facilitazione delle operazioni dell’ONU dell’area settentrionale di Mitrovica. Nello scorso novembre 2010, in occasione del briefing periodico presso il CdS, il rappresentante del SG ha sottolineato come, sin dal voto in AG, le istituzioni kosovare avessero perso preziose opportunità di trarre benefici concreti dalla cooperazione regionale e dall’intensificazione degli sforzi per la riduzione della tensione nel nord del Kosovo. Il diplomatico italiano ha ricordato l’impegno di UNMIK nello scongiurare un pericoloso scivolamento delle autorità kosovare in una politica di neo-isolamento capace di impedire la promozione di uno sviluppo adeguato della regione e dunque ostacolare

413Andrei Fedyashin Serbia Accepts Water Down Resolution, 10 September 2010, consultabile su: http://www.finchannel.com/Main Serbia_accepts_watereddown_U.N._Kosovo_resolution/ , ultimo accesso 24 novembre 2010.

414 United Nations General Assembly, Request for an advisory opinion of the International Court of Justice on whether the unilateral declaration of independence of Kosovo is in accordance with international law, A/64/L.65/Rev.1, 8 September 2010.

189 gravemente le prospettive di pace415. Sia Ban Ki-Moon che Zannier hanno apertamente denunciato il significativo deterioramento in corso delle relazioni inter-etniche nel nord del Kosovo: ripetuti incidenti nel corso dell’autunno 2010 avrebbero indicato i forti rischi di instabilità e la necessità di contenere tali frizioni. In tale quadro, pur riconoscendo la centralità dell’Unione Europea nella promozione e facilitazione di un nuovo dialogo tra Pristina e Belgrado sulla base della risoluzione dell’Assemblea Generale, Ban Ki-Moon ha rivendicato il mandato di UNMIK nella mediazione tra le comunità e nella sua funzione di ponte tra “tutti i cittadini e le autorità kosovare”416. Le recenti elezioni svoltesi in Kosovo – le prime sin dalla dichiarazione di indipendenza del febbraio 2008 – hanno non solo ribadito i profondi ritardi delle autorità locali nel raggiungimento di adeguati parametri in termini di governance e efficienza dell’amministrazione pubblica e giudiziaria417, ma hanno anche confermato le preoccupazioni espresse dal palazzo di vetro in relazione allo stato di profonda emarginazione nella quale vivono le comunità serbe nel nord del Paese418. Nonostante il presente del Kosovo rimanga indubbiamente popolato di luci ed ombre, il Consiglio europeo ha ribadito l’impegno dell’UE a continuare il dialogo con Pristina relativo al processo di stabilizzazione e associazione. Sottolineando lo sviluppo positivo legato al rilancio dell’agenda europea da parte delle autorità kosovare, indicato dalla creazione di un ministro per l’integrazione europea, nonché lo svolgimento pacifico delle elezioni del 12 dicembre, il Consiglio non ha fatto mistero di indicare le profonde difficoltà che ancora incontra il cammino europeo di Pristina. In particolare, il rispetto dello stato di diritto, la riforma dell’amministrazione pubblica, la lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione e al riciclaggio di denaro, la protezione e l’integrazione delle comunità serbe e la promozione della conciliazione e del dialogo tra le

415 United Nations Department of Public Information, Briefing Security Council, Secretary-General’s Envoy in Kosovo Urges Pristina, Belgrade to Make Use of United Nations, European Efforts to Bridge Differences, SC/100083, 12 November 2010

416 United Nations Security Council, S.PV/6422, 12 November 2010; United Nations, Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, S/2010/562, 20 October 2010.

417 Cfr. su questo International Crisis Group, Europe Report n. 204: The Rule of Law in Independent Kosovo, 19 May 2010.

418 Mark Lowen, Kosovo Serbs Split by Parliamentary Election, BBC News, 11 December 2011, consultabile sul sito: http://www.bbc.co.uk/news/world-europe-11978021 , ultimo accesso 18 dicembre 2010; Kosovo Prime Minister Thaci Claims Election Victory, in BBC News, 11 December 2010, consultabile sul sito: http://www.bbc.co.uk/news/world-europe-11978021 , ultimo accesso 18 dicembre 2010.

190 diverse comunità rappresentano ancora i temi sui quali le autorità di Pristina sono state chiamate ad intensificare il proprio impegno. Formulando infine un nuovo invito alla Commissione europea perché continui a sostenere i progressi del Kosovo verso l’UE, “in line with the European perspective of the region”, alfine di realizzare le condizioni per un rafforzamento delle relazioni commerciali, il Consiglio ha altresì confermato il proprio impegno a facilitare il dialogo tra Belgrado e Pristina, sulla base della richiesta formulata dalla risoluzione 64/298 dell’Assemblea Generale. 419

4.5. Conclusioni

Proposta Atishaari, critiche ingiuste Tra il 2007 e il 2008, seppure con diverse sfumature, diversi analisti hanno duramente criticato il piano Atishaari, sottolineando come la proposta avanzata dall’ex presidente finlandese avesse sostanzialmente seguito uno scenario prestabilito, assumendo cioè come dato ineliminabile il principio dell’indipendenza del Kosovo. Critiche più dure hanno addirittura imputato ad Atishaari la mancata esecuzione del mandato affidatogli dal Segretario Generale dell’ONU: la proposta del marzo 2007 non poteva cioè considerarsi come una mediazione giacché si configurava come una sorta di certificazione dell’ultimo episodio di disintegrazione dell’ex Jugoslavia che non teneva conto delle possibilità di conservazione di una forte e solida autonomia del Kosovo nel quadro della Serbia ed in linea con la risoluzione 1244. Secondo diversi osservatori, l’idea stessa di superamento della 1244, insita nel piano Athisaari, aveva prodotto divisioni di difficile ricomposizione, certificando in particolare la paralisi all’interno del Consiglio di Sicurezza e la polarizzazione tra le potenze occidentali e l’asse russo-serbo, spesso sostenuto dai Paesi africani all’ONU420. Sebbene appare indubbio che la mediazione Atishaari sia stata profondamente condizionata dal peso politico della componente occidentale del gruppo di contatto – e in particolare Stati Uniti e Gran Bretagna, i principali sostenitori dell’indipendenza del Kosovo - non si può negare che la visione indicata nel piano del marzo 2007 corrispondesse

419 European Union, Council conclusions on enlargment/stabilization and association process, 3060th General Affairs, Council meeting, Bruxelles, 14 December 2010

420 Cfr. su questo, Paolo Quercia, Kosovo, La Serbia chiede nuovo negoziati, Russia alzaa la posta, l’ONU prende tempo, cit. , pag. 11-13

191 culturalmente e politicamente all’ideale dell’Unione Europea della creazione di stati multi-etnici e democratici nei territori della vecchia Jugoslavia. In altre parole il vantaggio comparato posseduto dall’UE nel comprendere le dinamiche regionali ha ispirato indubbiamente la proposta Athisaari. Tale proposta, nel contesto di un ordinamento giuridico come quello internazionale, chiaramente fragile e tradizionalmente conservatore, non poteva essere accolta con unanimità: il caso del Kosovo poteva avere implicazioni ben aldilà della sua dimensione regionale o europea e dunque minacciare, teoricamente, l’integrità territoriale e la sovranità di altri Stati. Dal punto di vista dell’interresse europeo, la nascita di un Kosovo fondato sulla democrazia, il rispetto dello stato di diritto e la tutela delle minoranze etniche poteva e può ancora oggi offrire un contributo centrale alla pace e alla stabilità regionale; la realtà dei massacri contro la popolazione di etnia albanese e l’acrimonia inter-etnica suggeriva l’impossibilità di re-integrare con efficacia la comunità albanese in una struttura statale guidata da Belgrado che per un decennio ne aveva chiaramente compresso spazi di autonomia e libertà. Erano in definitiva questi gli aspetti che qualificavano come sui generis il caso del Kosovo. Le stesse critiche sull’eccessiva “parzialità” del piano potrebbero oggi essere profondamente ridimensionate: oltre a sposare il principio dell’indipendenza mediante un processo graduale controllato dalla comunità internazionale, la proposta si fondava sulla promozione della decentralizzazione, intesa come strumento fondamentale per garantire protezione e partecipazione politica delle minoranze. Tale idea, come confermano gli ultimi due anni di tensioni sul controllo amministrativo delle zone settentrionali del Kosovo, era ed è ancora oggi profondamente osteggiata dalle autorità di Pristina, le quali identificano piuttosto efficienza e centralizzazione come un binomio inscindibile.

Critiche al metodo Athisaari e tecnica della mediazione dell’ONU Critiche hanno inoltre riguardato la tipologia e la tecnica del negoziato di Athisaari, che sarebbe stato caratterizzata dalla creazione di un doppio negoziato bilaterale tra ONU e serbi da un lato, e tra ONU e albanesi kosovari dall’altro. Questo “caucasing” o divisione del processo di mediazione è parsa necessaria per mantenere il contatto tra le parti, altrimenti irriducibilmente compromesso. In un momento in cui l’UE era ancora piuttosto divisa sulla questione del Kosovo, il mediatore dell’ONU offriva l’unica possibilità credibile di facilitazione del dialogo; una possibilità che derivava dall’investitura indiretta data dal CdS – tramite il sostegno alla decisione del SG di nominare un inviato speciale – e che si fondava evidentemente sulla natura di imparzialità e

192 legittimità tradizionalmente identificata con i buoni uffici e la mediazione del Segretario Generale del palazzo di vetro. Nel medio periodo, ad alterare i crismi della legittimità e imparzialità dell’ONU è stata la dialettica politica irriducibile tra Serbia e Kosovo: per Belgrado difendere la presenza di UNMIK era un modo per ribadire la validità della risoluzione 1244 e per continuare a ostacolare l’estensione dell’autorità di Pristina sulle zone settentrionali dell’ex penisola. In definitiva, il fatto che UNMIK fosse strumentalizzata come garante del vecchio ordine dalla Serbia ha attirato e accresciuto l’ostilità kosovara contro la presenza ONU, la cui funzione di facilitazione del dialogo è stata messa a dura prova. Nondimeno, come dimostra l’azione condotta dal rappresentante speciale del palazzo di vetro,l’italiano Lamberto Zannier, tali difficoltà non hanno impedito all’ONU di mantenere tra Serbia e Pristina un minimo canale di comunicazione che, ancora oggi, potrebbe facilitare la nuova opera di mediazione dell’Unione Europea.

Forza e debolezza di Eulex Come è stato osservato in precedenza, le divisioni interne all’UE, con alcuni paesi che ancora oggi sono ostili al riconoscimento, ha indubbiamente segnato la nascita e i primi mesi di vita di EULEX, privandola della forza politica necessaria. Fattore che ha ridimensionato inizialmente le potenzialità di EULEX è stato anche il paradosso giuridico-politico del suo inserimento all’interno del framework della risoluzione 1244: per rendere possibile tale missione in un paese indipendente, si è dovuti fare riferimento al documento del CdS che riconosceva di fatto la sovranità di Belgrado sul Kosovo. Sulla base di un accordo tra la missione e il governo di Belgrado, EULEX ha così legato il suo profilo di neutralità rispetto allo status del Kosovo (status- neutral profile), una circostanza necessaria per proteggere una missione il cui dispiegamento nelle zone settentrionali del Kosovo, nei territori dell’enclave serba, era stato la causa scatenante delle violenze di Mitrovica nel marzo 2008. Nel corso del 2009 le debolezze di EULEX erano piuttosto legate alla complessa natura della presenza internazionale in Kosovo, condizionata dalla catena di comunicazione tra minoranza serba e il governo di Pristina. I serbi, che boicottavano EULEX, lavoravano con UNMIK su diversi dossiers; al contempo, le autorità di Pristina accusavano l’ONU di perpetuare il sistema di governo parallelo edificato da Belgrado nelle enclave serbe. UNMIK si relazionava così con EULEX – per lo più impossibilitata ad operare al Nord - la quale era vista da Pristina, nonostante il suo inserimento nella 1244, come garanzia dell’indipendenza del Kosovo. Una catena di comunicazione così composta, ovvero Enclaves serbe-UNMIK-EULEX-Pristina

193 indicava la realtà di una sorta di balcanizzazione dei due pilastri della comunità internazionale presenti in Kosovo, ovvero una situazione in cui mentre le autorità di Pristina erano sostenuti dalla missione europea nel contrasto ai propri deficit di sovranità, l’enclave serba poteva contare sull’operazione dell’ONU421. Aldilà di tali aspetti, la missione EULEX conferma oggi il suo ruolo centrale nel sostegno agli sforzi del Kosovo di raggiungere standards europei in materia di buona governance, rispetto dello stato di diritto, amministrazione efficiente della giustizia, polizia doganale, contrasto alla criminalità. Solo ulteriori progressi in questo settore possono rendere sostenibile la nascita, effettiva, di un Kosovo indipendente.

Le prospettive di una nuova mediazione europea Il più recente rapporto sulla questione redatto da International Crisis Group ha sottolineato come sia ormai compito centrale dell’UE quello di facilitare il pur difficile processo di riavvicinamento tra Pristina e Belgrado, paralizzatosi attorno alla questione del riconoscimento diplomatico del Kosovo. Nondimeno, in linea con le raccomandazione indicate dal paper congiunto del Consiglio e della Commissione dell’UE - Concept on Strenghtening EU Mediation and Dialogue Capacities on Strenghtening EU Mediation and Dialogue Capacities422 - l’UE è chiamata a valutare attentamente i rischi e le opportunità di una sua funzione di leader nella mediazione tra Serbia e Kosovo. Nel suggerire linee d’azione all’UE,l’ICG ha sottolineato come la situazione delicata tra Belgrado e Pristina verta ora soprattutto sulla persistente tensione esistente nelle municipalità settentrionali del Kosovo dove è presente l’enclave serba. Ricordando come anche il piano Atishaari avesse proposto precisi requisiti di autonomia per tali aree, l’ICG ha suggerito la possibilità di sbloccare l’impasse mediante la concessione di addizionali diritti al nord del Kosovo, comparabili con quelli goduti da alcune regioni europee: un parlamento regionale, la creazione di tribunali municipali e di una polizia locale, la definizione un sistema di riscossione doganale e fiscale che garantisca la permanenze di tali proventi nelle aeree di origine sono stati indicati come una delle possibili” way forward” capace di riaprire il negoziato423.

421 Cfr. Paolo Quercia, I Balcani restano il cuore irrisolto dei problemi della sicurezza europea, in Osservatorio Strategico, settembre 2009.

422 Council of the European Union, Brussels, 10 November 2009, 15779/09, cit. pag. 5-7.

423 International Crisis Group, Europe Report n. 206, Kosovo and Serbia After ICJ Opinion, 26 August 2010.

194 L’ICG non ha escluso tuttavia l’ipotesi più creativa o ardita di uno scambio di territori tra una parte della valle del Presevo, porzione di territorio della Serbia meridionale a maggioranza albanese e le enclaves serbe del nord del Kosovo. Aspetto infine da non sottovalutare è quello relativo alla definizione di uno status di autogoverno per i siti religiosi del Kosovo appartenenti alla chiesa ortodossa: tale condizione, unita ad una protezione internazionale post-KFOR, dovrebbe indubbiamente costituire parte di un eventuale intesa tra Belgrado e Pristina. L’UE è stato infine invitata a sfruttare una nuova sensibilità che è parsa emergere nel governo serbo e nell’approccio politico manifestato dal presidente Tadic e dal suo stretto circolo, ovvero l’intenzione non apertamente confessata di volersi liberare, con onore, del fardello Kosovo alfine di facilitare e accelerare l’integrazione della Serbia nell’Unione Europea424. In conclusione, la promozione di contatti diretti ad alto livello tra Pristina e Belgrado mediante la nomina di un high-level diplomat dell’UE, chiamato all’avvio di una shuttle diplomacy tra le due capitali, potrebbe essere associata alla la definizione di una agenda aperta – senza cioè l’esclusione di soluzioni apparentemente poco praticabili – e di una data dell’estate 2011 come scadenza entro la quale promuovere l’intesa.

424 International Crisis Group, Europe Report n. 206, Kosovo and Serbia After ICJ Opinion, cit. , pag. 3-6.

195

BIBLIOGRAFIA

*Le numerosississime risoluzioni e dichirazioni del Consiglio di Sicureza, dell’Assemblea Generale e di altri organi delle Nazioni Unite e non sono qui citate per motivi di spazio; i documenti e gli articoli consultati sono ordinati facendo riferimento alle diverse organizzazioni regionali.

I. Documenti delle Nazioni Unite

United Nations, Report of the Secretary General: Prevention of Armed Conflict, S/2001/574, 7 June 2001. United Nations, Report of the Secretary General Progress report on the prevention of armed conflict, A/60/891, 18 July 2006; United Nations, General Assembly-Security Council, Report of the Secretary-General: A regional-global security partnership: challenges and opportunities, A/61/204-S/2006/590, 28 July 2006. United Nations, Report of the Secretary-General on the work of the Organization, Supplement to an Agenda for Peace, Position paper of the Secretary-General on the occasion of the 50th Anniversary of the United Nations, A/50/60 - S/1995/234, 13 January 1995 General Assembly, An Agenda for Development: Report of the Secretary-General, 6 May 1994, A/48/935 (Pubblicato in seguito come Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Development, New York, United Nations, 1995); Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Democratization, New York, United Nations, 1996. Boutros Boutros-Ghali, An Agenda for Peace: Preventive Diplomacy, Peacemaking and Peacekeeping, New York, United Nations,, 1992; Politically Speaking, Bullettin of the United Nations Department for Political Affairs, Spring 2010; Politically Speaking, Bullettin of the United Nations Department for Political Affairs, Winter 2010;

196 Politically Speaking, Bullettin of the United Nations Department for Political Affairs, Autumn 2009 Politically Speaking, Bullettin of the United Nations Department for Political Affairs, Spring 2009; United Nations, Report of the Secretary-General on the United Nations Office for West Africa, S/2010/324, 21 June 2010; United Nations, Report of the Secretary-General: The Causes of Conflict and the Promotion of Sustainable Development in Africa, 13 April 1998, A/52/871-S/1998/318. United Nations, Report of the Security Council Mission to Central Africa, 21 to 25 November 2004, S/2004/934, 30 November 2004. United Nations, Report of the Security Council, 1 August 2004-31 July 2005, 1 September 2006 United Nations, General Assembly, World Summit Outcome Document, A/60/L.1, 16 September 2005. United Nations, Report of the High-Level Panel on Threats, Challenges and Change, A more Secure World: Our Shared Repsonsibility: Report of the Secretary-General’s High Level Panel on Threats, Challenges and Change, United Nations, 2004; Kofi Annan, In A Larger Freedom: Towards Development, Security and Human Rights for All, New York, United Nations, 2005 United Nations, Report of the Secretary-General, Revised estimates relating to the proposed programme budget for the biennium 2008-2009 under section 1, Overall policymaking, direction and coordination, section 3, Political affairs, section 28D, Office of Central Support Services, and section 35, Staff assessment, related to the strengthening of the Department of Political Affairs, A/62/521, 2 November 2007 United Nations, Report of the Secretary-General, Early Warning Assessment and Responsibility to Protect, 14 July 2010 United Nations, Report of the Secretary-General, Implementing the Responsibility to Protect, A/63/677, 12 January 2009 United Nations, Security Council, Concept Paper on the relationship between the United Nations and regional organization, in particular the African Union, in the maintenance of international peace and security, in Letter dated1from the Permanent Representative of South African to the UN to the Secretary-General, 4 March 2007, S/2007/148, 14 March 2007. United Nations, Security Council, Concept Paper: The Role of regional and sub-regional organizations in the maintenance of International peace and security, in Letter dated 29 October

197 2007 from the Permanent Representative of Indonesia to the United Nations addressed to the Secretary-General, 30 October 2007, S/2007/640 United Nations, Report of the Secretary-General on the relationship between the United Nations and regional organizations, in particular the African Union, in the maintenance of international peace and security, 7 April 2008, S/2008/186. United Nations, Report of the Secretary General, Relations between the United Nations and Regional and other organizations, A/63/228; S/2008/531, 8 August, 2008 United Nations, Report of the Secretary-General, Support to African Union peacekeeping operations authorized by the United Nations, A/64/359-S/2009/470, 18 September 2009. United Nations, Department of Political Affairs, Multi-Year Appeal, New York, 23 November 2010; United Nations, Human Rights Commission, Report on the situation in Myanmar, E/CN.4/1999/129, 22 March 1999l United Nations, Human Rights Council, Progress Report of the Special Rapporteur on the situation in Myanmar, 13th Session, 10 March 2010 A/HRC/13/48; United Nations, Security Council, A Comprehensive Review of the Situation in Kosovo, Annex, in Letter dated 7 October 2005 from the Secretary-General addressed to the President of the Security Council S/2005/635, 7 October 2005; United Nations, Security Council, Report of the Security Council Mission in Kosovo, 4 May 2007, S/2007/256. United Nations, Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, 15 July 2008, S/2008/458. United Nations, Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, S/2010/169, 6 April 2010. United Nations, General Assembly, Advisory opinion of the International Court of Justice on the accordance with international law of the unilateral declaration of independence in respect of Kosovo, 22 July 2010, A/64/881. United Nations, Security Council, Report of the Secretary-General on the United Nations Interim Administration Mission in Kosovo, S/2010/562, 20 October 2010.

II Documenti delle Organizzazioni Regionali

1. Unione Africana-OUA- RECs

198 African Union, Protocol related to the Establishment of the Peace and Security Council of the AU. Adopted by the 1st Ordinary Session of the Assembly of the African Union, Durban, 9 July 2002. African Union. Charter on Democracy, Elections and Governance. Addis Ababa, 30 January 2007. African Union, Policy on post-conflict reconstruction and development, Banjul, The Gambia, 2007. African Union. Report of the Chairperson of the Commission on the Prevention of Unconstitutional Change of Government and Strengthening the Capacities of the African Union to Manage such Situations, EX.CL/566 (VIV), January 2010, 25-29. African Union. Decision on the prevention of unconstitutional change of government and strengthening the capacities of the African Union to manage such situations. AU Assembly, 14th Ordinary Session, Addis Ababa, Ethiopia, 31 January to 2 February 2010. Communauté Economique des Etats de l’Afrique de l’Ouest (CEDEAO). Protocole Relatif au Mécanisme de Prévention, de Gestion, de Règlement des Conflicts, de Mantien de la Paix et de la Sécurité, Decembre 1999. ECOWAS, Protocol on Democracy and Good Governance Supplementary to the Mechanism for Conflict Prevention Management, Resolution, Peacekeeping and Security, Dakar, Senegal, 21 December 2001 Organisation of African Unity. Declaration on the framework for an OAU response to unconstitutional changes of government (the Lomé Declaration). Adopted at the 36th Ordinary Session of the Assembly of Heads of States, Lomé, Togo, 12 July 2000. Union Africaine, Conseil de paix et de security, cadre d’Ezulwini pourt le renforecement de la mise en ouvre des disposition de l’Union Africaine dans les situation des changement anticonstitutionel de gouvernment en Afrique, PSC/PR/ (CCXIII), 213eme Réunion, 27 Janvier 2010, Addis Ababa, Ethiopie. Framework for the Operalization of the Continental Early Warning System, Meeting of governmental experts on early warning and conflict prevention, 17-19 December 2006, in African Union: Meeting the Challenge of Conflict Prevention in Africa, Towards the Operalization of the Continental Early Warning System, edited by the Conflict Management Division of the Continental Early Warning System, 2008. United Nations-African Union, Framework for cooperation: Ten-Year Capacity Building Program for the African Union and RECs, 23 October 2006.

199 African Union, Assembly of the African Union, Decision on the Prevention of Unconstitutional Changes of Government and Strengthening the Capacities of the African Union to Manage Such Situations, Doc. Assembly/AU/4(XVI), Fourteenth Ordinary Session, 31 January-2 February 2010, Addis Ababa, Ethiopia.

2. ASEAN

Treaty of Amity and Cooperation in Southeast Asia (TAC), Denpasar, Bali, Indonesia, 27 febbraio 1976, consultabile sul sito: http://www.aseansec.org/1217.htm , ultimo accesso 28 novembre 2010; Zone of Peace, Freedom, and the Neutrality Declaration, Kuala Lumpur, Malaysia, 27 November 1971, consultabile su: http://www.aseansec.org/1215.htm , ultimo accesso 28 novembre 2010; Asean Regional Forum, internal document, Concept Paper, Brunei, 18 March, 1995 ASEAN Regional Forum, Concept and Definition of Preventive Diplomacy, 25th July 2001, Singapore. The ASEAN Charter, Jakarta, Indonesia, December 2007 ASEAN, Political-Security Blue Print, Jakarta, June 2009, First United Nations-ASEAN Conference on Conflict Prevention, Conflict Resolution and Peacebuilding in Southeast Asia, Bangkok, January 2001; Second United Nations-ASEAN Conference on Conflict Prevention, Conflict Resolution and Peacebuilding in Southeast Asia, Manila, February 2002; Third United Nations-ASEAN Conference on Conflict Prevention, Conflict Resolution and Peacebuilding in Southeast Asia, Singapore on 17-19 February 2003; Fourth United Nations-ASEAN Conference on Conflict Prevention, Conflict Resolution and Peacebuilding in Southeast Asia, Jakarta, 23-25 February 2004 (sono liberamente consultabili sul sito http://www.aseansec.org/15451.htm, ultimo accesso 28 novembre 2010)

3. OAS Charter of the Organization of American States, Bogotà, 1948 American Treaty on Pacific Settlement (“Pact of Bogotá”), Bogotà, 1948; The American Declaration on the Rights and Duties of Man, Bogotà, 1948;

200 The American Convention on Human Rights (“Pact of San José,” Costa Rica), in 1969 Declaration on the Security in the Americas, Organization of American States, Special Conference on Security, Mexico, 2003; Inter-American Democratic Charter, Lima, 11 September 2001; Protocol of Amendment to the Charter of the Organization of American States, b-31, Protocol of Buenos Aires,27 febbraio 1967. Organization of American States, General Assembly, Thirty-seven Special Session, Resolution on the Political Crisis in Honduras, AG/RES 1 , XXXVII-E/O9, 1 July 2009.

4. Unione Europea European Union, Annual report from the High Representative of the Union for Foreign Affairs and Security Policy to the European Parliament on the main aspects and basic choices of the CFSP, July 2010; European Union, Presidency Conclusions, Gothenborg, Sweden, 15 and 16 June 2001; Commission of the European Union, One Year On: The Commission’s Conflict Prevention Policy, March 2002. Background note: The Role of the EU in Conflict Prevention, Parliamentary Meeting, The Future of Europe: from reflection to action, 4-5 December 2006, Brussels. European Union, Development Council Conclusions on Countries in Conflict, May 2002. European Union, Civilian Capabilities Improvement Conference - Ministerial Declaration, Brussels, 21 November 2005. Civilian Capabilities Improvement Conference - Ministerial Declaration, Brussels, 13 November 2006. Council of the European Union, Joint Action 2004/523/CFSP of 28 June 2004 on the European Union Rule of Law Mission in Georgia, EUJUST THEMIS, EU document 2004/523/CFSP, 28 June 2004; European Union, Council Common Position Concerning Conflict Prevention, Management and Resolution in Africa and Repealing Common Position, 2001/374/CFSP”, 26 January 2004; The Africa-EU Strategic Partnership: A Joint Africa-EU Partnership, Brussels, 2007. European Union, Communcation from the Commission to the Council, the European Parliament, The European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions, Brussels, 25 October 2007, COM (2007), 643 final.

201 Council of the European Union, Concept on Strengthening EU Mediation and Dialogue Capacities Capacities, Brussels, 10 November 2009, 15779/09 European Union, A Secure Europe in a Better World: European Security Strategy, 2003, European Union, A Human Security Doctrine for Europe, Barcellona, 15 September 2004, United Nations-Brussels, Improving Lives: Results of the partnership between the United Nations and the European Union in 2009, Results of the partnership between the United Nations and the European Union in 2009, June 2010. European Union, Council Joint Action, 2008/124/CFSP of 4 February 2008 on the European Union Rule of Law Mission in Kosovo, EULEX KOSOVO, in Official Journal of the European Union 16.2.2008. European Union, Council conclusions on enlargement/stabilization and association process, 3060th General Affairs, Council meeting, Bruxelles, 14 December 2010

III. Volumi

B. Conforti, Le Nazioni Unite, Padova, 1996 Chinmaya R. Gharekhan – Boutros Boutros Ghali, The Horseshoe Table: An Inside View of the UN Security Council, Dehli, Longman, 2006. General Philippe Morillon, Paroles de soldat, Balland, Paris, 1996 A Glossary of Terms and Concepts in Peace and Conflict Studies, University for Peace, Africa Program, 2005. Franck-Nolte, The Good Offices Functions of the UN Secretary General, in United Nations, in Divided World. The UN roles in International Relations, a cura di Rivlin- Gordernker,, Oxford, 1992, pag. 161 ss. Kai Falkman, To Speak for the World: Speech and Statements by Dag Hammarskjöld, Stockholm, Atlantis,2005 Jacob Bercovitch, Resolving International Conflicts: The Theory and Practice of Mediation, Lynne Rienner, 1996 Leon Gordernker, The UN Secretay-General and the Secretariat, London, Routledge, 2005, Preventive Diplomacy: Stopping Wars before They start, ed. Kevin M. Cahill, New York, Basic Books, 1996

202 Sergio Marchisio, ONU, il Mulino, Bologna, 1998. David Malone, The UN Security Council, ed., Boulder, Colo, Lynne Rienner, 2004 Leon Ramcharan, Preventive Diplomacy at the UN, , United Nations Intellectual History Project Series, New York, 2008 Angela King, Internal Conflict Prevention: the UN Observer Mission to South Africa, in Conflict Prevention in Practice, ed Betrand G. Ramcharan, Leiden, Netherlands, Martinus Njihoff, 2005, pag. 151-156. The Evolution of the Doctrine and Practice of Early Warning and Conflict Prevention in the UN system, in Conflict Prevention in Practice: Essays in Honour of Jim Sutterlin, ed Bertrand G. Ramcharan, Leiden, Netherlands, 2005, pag. 45-60. Stephen Schwebel, The Secretary-General of the United Nations: His Political Powers and Practice, Cambridge University Press, 1952 Brian Urquarth, Hammarskjöld, New York, Alfred A. Knopf, 1972 EU Conflict Prevention and Crisis Management: Roles, Institutions, and Policies, Routledge/UACES Contemporary European Studies, Brussels, 2004. Smouts, Secretary-General, in United Nations: Law, Policies and Practice, a cura di Wolfrum, Dordrecht-London Boston, 1995, vol. II, pag.1145. United States Institute for Peace, Burundi on the Brink, 1993-1995: a UN Special Envoy Reflects on Preventive Diplomacy, Washington DC, 2000.

IV. ARTICOLI E SAGGI

Articoli di carattere generale sulla prevenzione e risoluzioni dei conflitti Condorelli, La Corte Internazionale di Giustizia e gli organi politici delle Nazioni Unite, in Rivista di diritto internazionale, 1994, pag. 897 ss; M.V. Kerley, The power of investigation of the UN Security Council, in American Journal of International Law, 1961, pag. 892-898; Morelli, Nozioni di diritto internazionale, Padova, 1967; Tomuschat, Chapter VI. Pacific Settlment of Disputes, in the Charter of the United Nations: a Commentary, New York, 1994, pag. 505-565; Stein-Richter, Article 37, in The Charter of the United Nations, cit., pag. 559; C.Smouts, The inherent powers of the Secretary-General in the Political Sphere: A Legal Analysis, in Netherlands International Law Journal, 1990, pag. 641-667;

203 Government of the Netherlands, A UN Rapid Deployment Brigade: A Preliminary Study, revised version, April 1995; Howard Peter Langille, Conclict Prevention: Options for Rapid Deployment and UN Standing Forces, in Peacekeeping and Conflict Resolution, ed Tom Woodhouse, and Oliver Ramsbotham, pag. 219-253, London, Frank Cass, 2000; Government of Canada, Towards a Rapid Reaction Capability for the United Nations, Ottawa, Department of Foreign Affairs and International Trade – Department of National Defence, 1995; Valerio Bosco, Le Nazioni Unite verso il secondo anno dell’era Ban Ki-Moon, in Osservatorio Strategico, dicembre 2007; Valerio Bosco, L’apertura dei lavori della 63esima Assemblea Generale e la presidenza burkinabé del CdS, in Osservatorio Strategico, settembre 2008; Valerio Bosco, Il lavoro del palazzo di vetro tra disarmo, crisi africane e peacekeeping, in Osservatorio Strategico, ottobre 2008; Valerio Bosco, UN Peacekeeping in 2010: Reform and Consolidation, in CeMiSS- Quarterly, Autumn 2010; Valerio Bosco, Peacebuilding e R2P tra Consiglio di Sicurezza e Assemblea Generale, in Osservatorio Strategico, luglio 2009; Valerio Bosco , 2009: UN Pecekeeping Under Review, Quarterly-CeMiSS, Summer 2009; Valerio Bosco, La missione del Consiglio di Sicurezza in Africa, in Osservatorio Strategico, maggio 2009; Valerio Bosco, Dal Prodi report al rapporto del 18 settembre, in Osservatorio Strategico, ottobre 2009. Valerio Bosco, La missione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU in Africa, in Osservatorio Strategico, maggio 2009.

Articoli sulla prevenzione e risoluzione dei conflitti in Africa e al case-study esaminato

Baboucarr Blaise I. Jagne-Valerio Bosco, UN-AU-RECs cooperation in conflict prevention and mediation, in Africa Security Threats 2020, Institute for Security Studies, Addis Ababa, November 2010, in corso di pubblicazione.

204 Valerio Bosco, Africa: I colpi di stato tra passato e presente, consultabile sul sito: www.diario21.net/index.php ultimo accesso 12 dicembre 2010 Center for Conflict Resolution, United Nations Experience in Mediation in Africa, Policy Advisory Group, 16-17 October 2006, Cape Town, South Africa John Dzimba, A common sub-regional agenda for peace, human security and conflict prevention: a view from SADC, in Institute of Security Studies−UNESCO , Peace, human security and conflict prevention in Africa, Pretoria: Security, 2001, 23-36 International Crisis Group, Europe Report n. 182, No Good Alternatives to the Athisaari Plan, 14 May 2007. International Crisis Group, Europe Report n. 196: Kosovo’s Fragile Transition, 25 September 2008 International Crisis Group, Europe Report n. 204: The Rule of Law in Independent Kosovo, 19 May 2010. International Crisis Group, Europe Report n. 206, Kosovo and Serbia After ICJ Opinion, 26 August 2010. Institute for Security Studies, ISS, Mauritania: What Way Out of the Political Crisis in the Country, 16 March 2009; Koning, Kwesi, Confronting complex threats, coping with crisis. IPA Working Paper Series, New York: International Peace Academy, Kristiana Powell- Thomas Tieky, The African Union’s New Security Agenda, Is Africa Closer to a Pax-Panafrican, in International Journal, Vol. 60, No. 4, Africa: Towards Durable Peace (Autumn, 2005), pp. 937-952 Pat McGowan- Thomas H. Jonhson, African Military Coups d’Etat and Underdevelopment: a Quantitative Historical Analysis, Journal of Modern African Studies, 22, December 1984, pag. 633-666. Mskolisi Nkosi, Analysis of OAU/AU Response to Unconstitutional Change of Government in Africa, University of Pretoria, South Africa, 2010 Tim Murithi, The African Union Transition: from Non-Intervention to Non-Indifference. An Ad Hoc Approach to the Responsibility to Protect, Institute for Security Studies, ISS, Issue Paper 3, 13 October 2008. Corinne A. A. Packer and Donald Rukare , The New African Union and Its Constitutive Act, in The American Journal of International Law, Vol. 96, No. 2 (Apr., 2002), pp. 365-379 Issaka Toure, The AU and the challenges of unconstitutional changes of government in Africa, Institute For Security Studies, ISS Paper 197, August 2009.

205 Issaka Toure, Civil Wars and Coups d’État in West Africa: An Attempt to Understand the Roots and Prescribe Possible Solutions, Lanhamn, University Press of America, 2006 Julia Maxted-Abebe Zegeye, Human stability and conflict in the Horn of Africa, in Institute of Security Studies−UNESCO, Peace, Human Security and Conflict Prevention in Africa , Pretoria, Security, 200. 45-54. Max A Sesay: Civil War and Collective Intervention in Liberia, Review of African Political Economy, n. 67, pag. 35-52,1996. Mark Malan, The OAU and African Sub-Regional Organisations: a Closer Look at the Peace Pyramid, Institute of Security Studies, ISS, Occasional Paper, n.36, January 1996. Ci Obi, Economic Community of West African States on the ground: comparing peacekeeping in Liberia, Sierra Leon, Guinea and Cote d’Ivoire, African Security Review, 2, 2009, 119-135. Monde Muyangwa and Margaret A Vogt, An Assessment of the OAU Mechanism for Conflict Prevention, Management and Resolution, 1993-2000, New York: International Peace Academy, November 2000.

Articoli sulla prevenzione e risoluzione dei conflitti nel Sud-est Asiatico e al case-study esaminato Ayako Acharya, A New Regional Order in South-East Asia: ASEAN in the Post-Cold War Era, Adelphi Paper 279, International Insititute of Strategic Studies, London, 1999 Amitav Acharya, Ideas, Identity and Institution Building: From the ASEAN Way to the Asia-Pacific Way, IN Pacific Review, n.10, pag. 329-335; Ayako Acharya, The Association of Southeast Asian Nations: “Security Community or Defence Community?” , in Pacific Affairs, Summer 1991, pag. 159-177. Vejai Balasubramaniam, ASEAN Co-operation: Reconsidering Non-Involvement, in Economic and Political Weekly, Vol. 34, No. 3/4, Money, Banking and Finance (Jan. 16-29, 1999), pag. 89-91. Leszek Buszynski, ASEAN's New Challenges Pacific Affairs , in Pacific Affairs, Vol. 70, No. 4 (Winter, 1997-1998), pag. 555-577; Council for Security Cooperation in the Asia Pacific, CSCAP, Review of the Preventive diplomacy Activities in the Asia-Pacific Region, in The Next Stage: Preventive Diplomacy and Security Cooperation in the Asia Pacific Region, edited by Desmdond Ball-Amitav Acharya, Canberra, Australian National University, 1999, pag. 293-294.

206 Thalif Deen, UN Doubts Credibility of Burmese Polls, in Inter Press Service, Terraviva online, 12 November 2010 Hiro Katsumata, Why Is Asean Diplomacy Changing? From "Non-Interference" to "Open and Frank Discussions", Asian Survey, Vol. 44, No. 2 (Mar. - Apr., 2004), pag. 237-254. Thanat Khoman, ASEAN Conception and Evolution, in The ASEAN Reader, Institute of Southeast Asian Studies, 2001 S Ramses Amer, Conflict Management and Constructive Engagement in ASEAN's Expansion, in Third World Quarterly, Vol. 20, No. 5, New Regionalisms in the New Millennium (Oct., 1999), pag. 1031-1048, Singapore, 1992. Robini Ramcharan, Southeast Asian Security: Pitfalls of the Regional Approach, PSIS Occasional Paper n. 1, Geneva, Programme for Strategic and International Studies, 1998. S. Rajaratnam, ASEAN: The Way Ahead in The ASEAN Reader, Institute of Southeast Asian Studies, Singapore, 2000. S. P. Seth, ASEAN and Regional Security, in Economic and Political Weekly, Vol. 34, No. 33 (Aug. 14-20, 1999). Takeshi Yuzawa, The Evolution of Preventive Diplomacy in the ASEAN Regional Forum: Problems and Prospect, in Asian Survey, vol. 46, n. 5, September-October 2006, pag. 785-804. Takeshi Yuzawa, The Evolution of Preventive Diplomacy in the ASEAN Regional Forum: Problems and Prospects, in Asian Survey, Vol. 46, No. 5 (Sep. - Oct., 2006), pag. 785-804 W. Pfennig, Workshops on ASEAN-UN Cooperation for Peace and Preventive Diplomacy, in International Asienforum, 1993, pag. 3-4. Bertil Lintner, Politics of Heroin in South East Asia, New York, Harper and Row, 1992; Surakiart Sathirathai, Forward Engagement: Thailand's Foreign Policy: A Collection of Speeches, Bangkok, Ministry of Foreign Affairs of Thailand, 2003. Jean-Louis Margolin, Singapore: New Regional Influence, New World Outlook? Contemporary Southeast Asia 20:3, December 1998. Tanvi Pate, Crisis in Thailand: Analysing ASEAN, US, UN and EU responses, in Institute of Peace and Conflict Studies, 22 June 2010, consultabile su http://www.ipcs.org/article/southeast-asia/crisis-in-thailand-iv-analysing-asean-us-un-and-eu- 3163.html Suthipand Chirathivat - Corrado Molteni, EU-ASEAN Economic Relations: The Impact of Asian Crisis on the European Economy and Long-term Potential, Baden Baden, Nomos, 2000. Marwaan Macan-Markar, After 20 Years, Burmese Junta Picks November Poll Date, IPS Terraviva Online,16 August 2010

207

Articoli sulla prevenzione e risoluzione dei conflitti con riferimento all’OAS e al case- study esaminato

Richard Bloomfield, Making the Western Emisphere Safe for Democracy? The OAS Defense-of-Democracy Regime, Washington Quarterly, 1994, vol. 17, n.2, pag. 157-169 James Byron, Regional Security in Latina America and Africa: the OAS and the OAU in light of contemporary security issues, PSIS Occasional Papers, n. 1/84, Geneva 1984; Andrew Cooper – Thomas Legler, The OAS Democratic Solidarity Paradigm: Questions of Collective and National Leadership, Latin American Politics and Society, vol. 43, Spring 2001, pag. 103-126 Acevedo Domingo, The Organization of American States and the Protection of Democracy, in Beyond Soverignity : Collectively Defending Democracy in the Americas, Baltimore, 1996, John Hopkins University Press, pag. 132-149 Andrés Serbin, The Organization of American States and Conflict Prevention, November 2008, Center on International Cooperation. Osvaldo Kreimer, Conflict Prevention in the Americas, in David Camet – Albrecht Schanbel, Conflict Prevention: Path to Peace or Grand Illusion, New York, United Nations University Press, 2007. Milet Paz Véronica, El Rol de l’OEA. El difficil caminp de la prevención y resolución de conflictos a nivel regional, in Piensamento Proprio, Buenos Aires, n. 19, January-June 2004. Stephen Schnably, Constitutionalism and Democratic Governance in the Inter-American System, in Democratic Governance and International Law, ed. Gregory Fox and Brad Roth, New York, Cambridge University Press, pag. 155-198 Soto Yadira, The Role of the Organization of American States in Conflict Prevention, in Albrecht Schable- David Carment, Conflict Prevention from Rethoric to Reality, Lanham, Lexinton Books, 205. Acevedo Domingo, The Haitian Crisis and the OAS Response: a Test of Effectiveness in Protecting Democracy, in Enforcing Restraint : Collective Intervention in Internal Conflicts, ed Lori Damrosch, New York, Council of Foreing Relations Press, pag. 119-156; Arturo Valenzuela, 1997: Paraguay: The Coup that did not Happen, Journal of Democracy, n. 8, 1997, pag. 43-55; Andrew Cooper, The OAS in Peru: A Model for Future? Journal of Democracy, n. 12, 4 October 2001, pag. 123-136.

208 Thomas Legler, The Inter-American Democratic Charter: From Peru to Venezuela and Beyond, Paper Presented at the 2003 Annual Conference of the International Studies Association, Portland, Oregon, 25 February – 1 March 2003. Barry S. Levitt, A Desultory Defense of Democracy: OAS Resolution 1080 and the Inter- American Democratic Charter, Latin American Politics and Society, vol. 48, n.3, Autumn 2006, pag. 93-123. Edward Clearly, Mobilizing for Human Rights in Latin America, Kumarian Press, Bloomfield, 2007. Elizabet Jelin – Eric Hershberg, Constructing Democracy, Human Rights, Ciitzenship and Society in Latin America, Boulder, Westview Press, 1996 Heralzo Munoz, The Future of the Organization of American States, New York, Twentieth Century Press, 1999. Siriam Chandra Lekha, Refining Conflict Prevention – Sharing Best Practices and Improving Partnering, in Sharing Best Practices on Conflict Prevention: the UN, Regional and Subregional Organizations, National and Local Actors, IPA, Policy Report, New York, International Peace Academy, 2005 Oscar Menjivas, Consenso Hémisperhicos y seguridad dura en los tiempos del 11-5, in Jospeh Tulchin –Raul Benitez, El Rompecabezas: Conformando la séguridad hémisferica en el siglo XXI, Buenos Aires, Prometeo Libros, 2006.

Steve Ellner – Fred Rosen, Crisis in Venezuela, The Remarkable Fall and Rise of Hugo Chávez: Coup, Chaos, or Misunderstanding, NACLA, Report on the Americas, n. 36, July- August , 2002. John Pevehouse, Democracy form the Outside In? in International Organizations and Democratization, in International Organnizations, n.56, Summer, 2003, oag. 515-549 Paris Randall – Mark Peceny, Kantian Liberalims and the Collective Defense of Democracy in Latin America, in Journal of Peace Research, n. 38, pag. 229-250

Articoli e saggi sulla prevenzione e risoluzione dei conflitti con riferimento all’Unione Europea e al case-study esaminato

Sarah Bayne, Conflict Preventuion and the EU: from rethoric to reality, International Alert and Saferworld, 2004, London;

209 Fraser Cameroon, The European Union and Conflict Prevention, United Nations Institute Disarmament Research, Bruxelles, 2003; Mary Ellen O'Connell, The UN, NATO, and International Law after Kosovo, in Human Rights Quarterly, Vol. 22, No. 1 (Feb., 2000), pag. 57- 69. From St. Malo to Nice, European Defence: Core Documents, compiled by Maartje Rutten in the series: Chaillot Paper, ISS, n. 47, May 2001; John V. A. Fine, Kosovo, in World Policy Journal, Vol. 16, No. 3 (Fall, 1999), pag. 125- 126; Nikolas K. Gvosdev, Kosovo and Its Discontents, in Foreign Affairs, Vol. 85, No. 1 (Jan. - Feb., 2006), pag. 169-170; Nikolas K. Gvosdev, Comprehensive Peace in the Balkans: The Kosovo Question, in Human Rights Quarterly, Vol. 18, No. 4 (Nov., 1996), pag. 821-836; International Crisis Group, Europe Report n. 182, No Good Alternatives to the Athisaari Plan, 14 May 2007. International Crisis Group, Europe Report n. 196: Kosovo’s Fragile Transition, 25 September 2008 International Crisis Group, Europe Report n. 204: The Rule of Law in Independent Kosovo, 19 May 2010. International Crisis Group, Europe Report n. 206, Kosovo and Serbia After ICJ Opinion, 26 August 2010. Roland Dannreuther, European Union foreign and security policy: towards a neighbourhood strategy, Amsterdam, 2006; Vincent Kronenberger The European Union and Conflict Prevention: Policy and Legal Aspect, Jan Wouters, London, 2003; Carole Rogel Kosovo: Were It All Began, Source: International Journal of Politics, Culture, and Society, Vol. 17, No. 1, Studies in the Social History of Destruction: The Case of Yugoslavia (Fall, 2003), pp. 167-182; Thomas M. Franck, Lessons of Kosovo, in The American Journal of International Law, Vol. 93, No. 4 (Oct., 1999), pag. 857-860 Marc Weller, The Rambouillet Conference on Kosovo, in International Affairs (Royal Institute of International Affairs 1944-), Vol. 75, No. 2 (Apr., 1999), pag. 211-253. Peter W. Rodman, The Fallout from Kosovo, in Foreign Affairs, Vol. 78, No. 4 (Jul. - Aug., 1999), pag. 45-51,

210 Jef Huysmans, Shape-Shifting NATO: Humanitarian Action and the Kosovo Refugee Crisis, in Review of International Studies, Vol. 28, No. 3 (Jul., 2002), pag. 599-618; Nicoletta Pirozzi, The EU’s contribution to the Effectiveness of the UN Security Council: Representation, Coordination and Outreach, in Istituto Affari Internazionali, Documenti IAI 14- 10, July 2010; Paolo Quercia, Kosovo: ultimo capitolo a primavera, in Osservatorio Strategico, marzo 2007; Paolo Quercia, Kosovo, La Serbia chiede un nuovo negoziato, la Russia alza la posta, l’ONU prende tempo, in Osservatorio Strategico, Aprile 2007; Paolo Quercia, Kosovo, gli ultimi colloqui prima del buio, in Osservatorio Strategico, settembre 2007; Paolo Quercia, Il Kosovo sospeso tra il voto di Pristina e quello di New York, in Osservatorio Strategico, novembre 2007; Paolo Quercia, L’indipendenza del Kosovo tra riconoscimenti, conseguenze e ripercussioni, in Osservatorio Strategico, Febbraio 2008; Paolo Quercia, Kosovo e Bosnia Erzegovina. Le Spine dei Balcani nel soft power europeo, in gennaio 2010; Paolo Quercia, I Balcani restano il cuore irrisolto dei problemi della sicurezza europea, in Osservatorio Strategico, settembre 2009. G. Quille and J. Mawdsley, The EU Security Strategy: A New Framework for ESDP and Equipping the Rapid Reaction Force, International Security Information Service, 2003; Michaela Racovita, The European Union's Conflict Prevention Strategies: optimal configurations of methods for achieving success, Paper presented at the annual meeting of the Midwest Political Science Association 67th Annual National Conference, Chicago, Illinois, consultabile sul sito: www.allacademic.com/meta/p363632_index.html, ultimo accesso 4 dicembre 2010.

V. PUBBLICAZIONI ONLINE

International Crisis Group

International Crisis Group, Europe Report n. 182, No Good Alternatives to the Athisaari Plan, 14 May 2007.

211 International Crisis Group, Europe Report n. 196: Kosovo’s Fragile Transition, 25 September 2008 International Crisis Group, Europe Report n. 204: The Rule of Law in Independent Kosovo, 19 May 2010. International Crisis Group, Europe Report n. 206, Kosovo and Serbia After ICJ Opinion, 26 August 2010. International Crisis Group, Europe Report n. 182, No Good Alternatives to the Athisaari Plan, 14 May 2007. International Crisis Group, Europe Report n. 196: Kosovo’s Fragile Transition, 25 September 2008 International Crisis Group, Europe Report n. 204: The Rule of Law in Independent Kosovo, 19 May 2010. International Crisis Group, Europe Report n. 206, Kosovo and Serbia After ICJ Opinion, 26 August 2010.

Security Council Report (www.securitycouncilreport.org)

Thematic report

Resurgence of Coups d'état in Africa (15 April 2009) West Africa (UNOWA) (December 2010 Monthly Forecast); UN Office for West Africa (July 2010 Monthly Forecast) West Africa Regional Issues (UNOWA) (January 2009 Monthly Forecast Report) UN Office for West Africa (June 2008 Monthly Forecast Report) Conflict Prevention and Resolution in Africa (24 August 2007 Update Report) Cross-Border Issues in West Africa (15 March 2007 Update Report) Security Council Mission to Africa (AU, Rwanda, DRC, Liberia) (27 May 2009 Update Report) Update Report on the Security Council Visiting Mission (22 May 2008 Update Report) Security Council Summit on Africa (19 September 2007 Update Report) Council Visiting Mission to central Africa (November 2005 Monthly Forecast Report)

Monthly Forecast

212

December 2010, Conflict Prevention and Resolution in Africa November 2010, Conflict Prevention: Horizon Scanning September 2010, High-Level Meeting on International Peace and Security 14 July 2010, Monthly Forecast Preventive Diplomacy and Conflict Prevention December 2009, Conflict Prevention and Resolution in Africa

March 2009, UN Support for Regional Organisations

14 April 2008, Update Report UN Cooperation with Regional and Sub-regional Organisations and Conflict Prevention

April 2008, Cooperation with Regional Organisations/Conflict Prevention

February 2008, Conflict Prevention

November 2007, Prevention of Armed Conflict

24 August 2007, Conflict Prevention and Resolution in Africa

13 April 2009, Mediation and Settlement of Disputes

March 2009, UN Support for Peacekeeping by Regional Organisations

22 May 2008, Security Council Visiting Mission

April 2008, Cooperation with Regional Organisations/Conflict Prevention

December 2007, United Nations Office in West Africa

November 2007, Prevention of Armed Conflict

15 March 2007, Cross-Border Issues in West Africa

8 August 2006, Peace Consolidation in West Africa

24 January 2006, Great Lakes

January 2006, Great Lakes Initiative

October 2010, UN Support for Regional Peacekeeping

July 2010, Meeting Between the Security Council and the AU Peace and Security Council

Update Report Guinea

17 November 2010; 4 March 2010; 11 January 2010.

213

Update Report Myanmar

26 May 2006, n. 6; n.1, 1 June 2007; n. 4, 1 November 2007; n.2, 18 March 2007; n.4 , 14 May 2008; n.3, 23 March 2010; n. 3, 17 November 2010; n. 1, 3 December 2010.

Update Report, Kosovo

February 2005; October 2007; November 2007; January 2008; February 2008; March 2008; April 2008; May 2008; June 2008; August 2008; December 2008 June 2009; December 2009; January 2010; March 2010; July 2010; August 2010; September 2010; November 2010.

214