LE GIORNATE DELLA MOSTRA 6° EDIZIONE 2010 LA SETTIMANA DELLA CRITICA a Treviso, Rovigo, Belluno, Padova, Vicenza e Verona

LA REGIONE DEL VENETO PER IL CINEMA DI QUALITÀ Iniziativa realizzata dalla FICE Tre Venezie con il contributo della Regione del Veneto, in collaborazione con Settimana Internazionale della Critica, SNCCI Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani, SNCCI Triveneto, AGIS Tre Venezie, Centro Padovano della Comunicazione Sociale Redazione: Giulia Lavarone, Monica Molena, Christian Mosele, Filippo Nalon, Da- vide Rampin, Marco Sartore Si ringraziano per la collaborazione: Goffredo De Pascale, Francesco Di Pace, Claudio Dondi, Giuseppe Ghigi, Anton Giulio Mancino, Cristiana Paternò, Elena Pol- lacchi, Angela Prudenzi, Samanta Telleri, Bruno Torri Fonti principali: Catalogo 25ª Settimana Internazionale della Critica Stampa: Nuova Grafotecnica – Casalserugo PD La 25ª Settimana Internazionale della Critica di Venezia è promossa e organizzata dal Sindacato nazionale critici cinematografici italiani con il contributo della Direzione generale cinema, Ministero per i beni e le attività culturali - Dipartimento dello spettacolo in collaborazione con la Biennale di Venezia Delegazione FICE Tre Venezie Piazza Insurrezione, 10 35139 Padova tel. 049 8750851 fax 049 8751440 e-mail: [email protected] sito web: www.fice.it Presidente: Filippo Nalon Segreteria: Monica Molena, Marco Sartore L’MPX-Multisala Pio X e il Multisala Astra di Padova aderiscono al circuito Europa Cinemas

Il Multisala Corso, il Multisala Cinergia, il Cinema Italia, il Multisala Astra, l’MPX-Multisala Pio X, il Cinema Odeon, il Cinema Leone XIII, il Cinema Pin- demonte, il Multisala Rivoli aderiscono alla FICE

Si ringrazia per il sostegno

> 2 La Regione del Veneto per il Cinema di Qualità Il decentramento dei film della Settimana Internazionale della Critica nelle città del Veneto La Regione del Veneto, anche quest’anno, conferma il proprio impegno per la promozione della cultura cinematografica e la conoscenza del cinema d’autore con l’iniziativa “La Regione del Veneto per il Cinema di Qualità”. Un impegno che la Regione condivide con il Sindacato dei Critici Cinematografici, il supporto della Federazione Italiana Cinema d’Essai e degli Enti locali che hanno aderito al progetto. L’iniziativa, avviata nel 2005, ha registrato anno dopo anno un interesse di pubblico sempre più numeroso, al quale viene offerta la possibilità di vedere una selezione di opere prime presentate nell’ambito della Settimana della Critica, una delle più importanti sezioni che compongono la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. L’interesse del cinema per la nostra Regione nasce da lontano, sia dal punto di vista produttivo con il paesaggio veneto e le città d’arte scelte come set dai grandi maestri del passato, sia sotto il profilo culturale attraverso un ricco tessuto di Istituzioni, Associazioni e Circoli cinematografici. Il progetto “La Regione del Veneto per il Cinema di Qua­lità” si inserisce a pieno titolo in una tradizione culturale e rappresenta un’occasione e un momento importante del vasto e articolato programma dedicato al cinema e all’audiovisivo, che vede il Governo regionale protagonista attivo di primo piano.

On. Marino Zorzato Vice Presidente - Assessore alla Cultura Regione del Veneto

> 3 Venticinque anni dopo

Con l’edizione 2010 la Settimana internazionale della critica compie venticinque anni (…). Purtroppo questo compleanno della Sic cade in un momento particolarmente difficile per la nostra cinematografia e per la cultura del nostro paese. In proposito non voglio dilungarmi, anche per non ripetere quanto già avevo scritto lo scor- so anno nel catalogo dell’edizione 2009. Devo solo registrare, rispetto ad allora, un ulteriore peggioramento, che si sta manifestando in una dissennata “politica dei tagli” e che sta incrementando l’asfissia della situazione generale, dove la cultura è considerata dal potere politico o un lusso superfluo, o un aspetto residuale della vita civile, o, ancor peggio, una voce dissonante, quindi da tacitare, rispetto alle tendenze socio-antropolo- giche oggi dominanti: il lassismo morale, l’arrivismo sfrenato, la volgarità ostentata, l’ignoranza compiaciuta, insomma tutto ciò che può essere rubricato anche come prodotto tipico e come tratto distintivo dell’incultura. Quell’incultura che ha da tempo stabilito con tanta parte della televisione, sia pubblica sia privata (ormai nel duopolio le differenze, se ci sono, sono inavvertibili), un sempre più stretto rapporto di causa-effetto. Il programma della Sic di quest’anno, nei suoi motivi ispiratori e nelle sue linee operative, conferma essenzial- mente le finalità di sempre della manifestazione. Che continua, pertanto, nel perseguimento del suo duplice obiettivo: quello di individuare nuovi talenti, ovvero di scoprire nuovi film in cui siano rintracciabili vocazione autoriale, responsabilità semantica, ricerca espressiva, apertura al nuovo anche sul piano tematico; e quello di valorizzare e promuovere, culturalmente e socialmente, opere siffatte, la cui presentazione a Venezia, nel conte- sto di istituzioni prestigiose quali sono la Biennale e la Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è già di per sé un primo importante riconoscimento e, al contempo, un richiamo d’attenzione potenzialmente molto fecondo, come precedenti esperienze hanno più volte dimostrato (…).

Bruno Torri Presidente SNCCI

> 4 Perdite, conflitti, migrazioni: è il cinema del presente Famiglie disfunzionali, rapporti conflittuali genitori/figli sullo sfondo di una crisi economica che mette a dura prova l’esistenza quotidiana delle giovani generazioni ma non solo di quelle; movimenti di migrazione miranti alla ridefinizione del proprio futuro ma anche alla rilettura del proprio passato; il suicidio, o l’omicidio, come impossibilità di accettare il presente e la perdita dei propri punti di riferimento. È il “film” della Settimana internazionale della critica di Venezia di quest’anno: un nastro unico che contiene in sé una visione frastagliata di un mondo in crisi, una visione concepita da una manciata di esordienti di identità anagrafica diversa, che ancora affidano al cinema, fortunatamente, un’esigenza espressiva primaria, e ai festival il compito di darle voce e spazio (…). Anche il compito della Settimana della critica è messo a dura prova, in anni come questi: (…) ci illudiamo di continuare a compiere le nostre scelte nell’esclusiva volontà di trovare segni di vitalità nel cinema che si compie per la prima volta nella codificata forma del “lungometraggio” (…). Intanto, partiamo da Mazzacurati: nel 1987 il suo Notte italiana dava il via, nell’ambito della nostra quarta Settimana, alla sua coerente carriera di cineasta appassionato, spesso appartato, ma soprattutto uno dei pochi, in questo trentennio, in grado di interpretare e narrare il territorio e la società italiana, le loro trasformazioni spesso traumatiche, il degrado morale, politico ed economico che si faceva strada e che ci avrebbe portato allo tsunami Mani Pulite prima, e alle preoccupanti derive istituzionali poi (…). In Angèle et Tony, primo film della giovane Alix Delaporte (…), l’affascinante Clotilde Hesme è una madre che cerca di farsi riaffidare il figlio attraverso un matrimonio combinato. Tuttavia Tony, il pescatore rozzo ma gentile che accetta il contratto si rivela molto più determinante nella vita di Angèle: e il film, un dramma leggero e commovente, si iscrive felicemente in quella corrente del cinema francese in grado di saldare l’osservazione del reale con l’analisi dei sentimenti. , la famosa attrice di Den goda viljan (Con le migliori intenzioni, 1982) di Bille August e di Det enda rationella (Una soluzione razionale) di Jörgen Bergmark (presentato l’anno scorso alla Settimana della critica), esordisce nella regia con un dramma familiare che oscilla temporalmente fra due periodi, i giorni nostri e gli anni settanta. Tratto dal romanzo di Susanna Alakoski, Svinalängorna vede protagonista (la della saga di Millennium) (…). Un film sincero e spesso disturbante, che si giova di ottime perfomance d’attore. (…) Sorprendenti saranno sicuramente il film greco e quello sloveno: Hòra proelèfsis (Terra madre) di Syllas Tzumèrkas è ancora un affresco familiare che copre trent’anni di storia greca, dagli anni del consolidamento della democrazia alle recenti manifestazioni di piazza scatenate dalla crisi economica. Un montaggio vertiginoso e un talento narrativo inusuale per un film che racconta il dramma di una famiglia con i suoi conflitti generazionali e i suoi punti oscuri ai limiti dell’incesto. Mentre al contrario Ocˇa (Papà) dello sloveno Vlado Škafar, fa della lentezza contemplativa e del poetico contrapporsi generazionale fra un padre assente e il figlio il suo punto di forza. Un piccolissimo film, di appena più di un’ora, fatto di immagini evocative, di dialoghi naturali e emozionanti, di alcuni momenti che sembrano cogliere la flagranza del reale nel fascino della sua messa in scena e nel notevole lavoro sugli attori. Settimana che completa la sua competizione con un film israeliano,Hitparzut X (…). Un noir molto classico, (…) un film elegante e misterioso, che si avvolge a spirale sullo spettatore (…). Francesco Di Pace Delegato generale SIC

> 5 Fice e Regione del Veneto per il Cinema di Qualità Anche quest’anno si rinnova la collaborazione della FICE (Federazione Italiana Cinema d’Essai, libera associazione di esercenti cinematografici impegnati nella promozione del cinema di qualità attraverso una rete di circa 800 sale) con la Regione del Veneto, il SNCCI e la Settimana Internazionale della Critica. L’obiettivo, come sempre, è di dare la possibilità al pubblico veneto di entrare in contatto e vedere in sala il cinema di qualità. Ecco quindi LE GIORNATE DELLA MOSTRA, iniziativa che inaugura al meglio la stagione d’essai della nostra regione, permettendo di vedere nuovi significativi esordi cinematografici che vanno ad aggiungersi ai tanti altri visti in questi anni. A partire però da un formidabile recupero: Notte italiana, anch’esso film d’esordio di un regista che, da quell’edizione della SIC 1987 a cui partecipò, di strada ne ha fatta molta. Un omaggio a Carlo Mazzacurati che tocca Padova, sua città natale, e Rovigo, capoluogo di quel Polesine che ha continuato ad essere, anche dopo questo suo primo lungometraggio, un fondamentale riferimento poetico del suo cinema. Un omaggio anche alla storia della Settimana Internazionale della Critica, che giunge quest’anno alla 25a edizione e a cui auguriamo di continuare a farci scoprire nuovi talenti ancora per tanti anni. Una sesta edizione che si segnala per il coinvolgimento della città di Treviso, che va ad aggiungersi a Padova, Verona, Vicenza, Rovigo e Belluno. Un decentramento dei film presentati al Festival di Venezia che quindi, partendo dalle prime edizioni che riguardavano solo poche province, giunge quest’anno a farsi davvero capillare e a toccare tutti i capoluoghi. Un segno tangibile del successo della manifestazione e del suo consolidamento, per dare nuove opportunità di crescita all’offerta culturale complessiva del territorio regionale. Un incoraggiamento ad andare avanti, potendo ora contare anche su una nuova legge regionale del cinema che premia iniziative di questo tipo e assicura loro una continuità e una solidità di cui, in questi tempi difficili per la cultura, hanno certamente bisogno.

Filippo Nalon Presidente Fice Tre Venezie

> 6 Foto: Alcide Boaretto

> 7 Notte italiana di Carlo Mazzacurati

Soggetto e sceneggiatura: Carlo Mazzacurati, Franco Bernini Fotografia: Agostino Castiglioni Musiche: Fiorenzo Carpi Scenografia: Giancarlo Basili, Leonardo Scarpa Costumi: Maria Rita Barbera Montaggio: Mirco Garrone Interpreti: Marco Messeri (Otello Morsiani), Giulia Boschi (Daria), Remo Remotti (Italo), Tino Carraro (Melandri), Memè Perlini (Checco), Mario Adorf (Tornova), Silvana De Santis (locandiera), Antonio Petrocelli (Paschero), I Gemelli Ruggeri (i due geometri), Roberto Citran Produzione: Nanni Moretti, Angelo Barbagallo, Sacher Film s.r.l. Co- produzioni: Rai-Radiotelevisione Italiana, Cecilia Valmarana, So.fin.a per Rai-Radiotelevisione Italiana Durata: 92’

SINOSSI L’avvocato Otello Morsiani accetta l’incarico dell’assessore padovano Melandri di stimare un patrimonio terriero sul Delta del Po. Morsiani scoprirà che in quel terreno si nasconde un mistero legato a un omicidio che risale a vent’anni prima. Spinto dalla sua onestà cocciuta e dall’amore per una ragazza, l’avvocato metterà a rischio la propria vita e le amicizie per scoprire la verità.

BIOFILMOGRAFIA CARLO MAZZACURATI Nato a Padova nel 1956, si laurea al Dams di Bologna. Nel 1979 dirige, in 16mm, Vagabondi. Si trasferisce a Roma dove collabora alla stesura di varie sceneggiature e scrive storie per la tv. Il suo primo film come regista,Notte Italiana, presentato alla Settimana internazionale della critica di Venezia, vince il Nastro d’argento e il Ciak d’oro nel 1987. Due anni dopo Il prete bello, tratto dal romanzo omonimo di Goffredo Parise, vince il primo premio al Festival di Annecy. Nel 1992, Un’altra vita viene presentato al Festival di Venezia. Il film successivo, Il toro, è premiato a Venezia con il Leone d’argento e la Coppa Volpi al miglior attore non protagonista (Roberto Citran). Nel 1996, sempre a Venezia, presenta in concorso Vesna va veloce; nel 1998 realizza L’estate di Davide e nel 1999 lavora, insieme Marco Paolini, a Ritratti, dialoghi con importanti personaggi della cultura veneta. La lingua del Santo è stato presentato ancora a Venezia nel 2000. Dopo A cavallo della tigre e L’amore ritrovato, il regista padovano realizza nel 2007 La giusta distanza, che si aggiudica il Nastro d’argento per il miglior soggetto.

LA PALUDE DEL PAESAGGIO ITALIANO di Francesco Di Pace Era il 1987: nel nostro paese di lì a pochi anni sarebbe partita l’operazione “Mani pulite”, svelando un sistema di corruzione, tangenti e finanziamenti occulti poi denominato Tangentopoli. Ma non è che nell’Italia di allora mancassero gli episodi di malaffare e clientelismo legati al mondo imprenditoriale, economico e politico:

> 8 eravamo alla fine dei favolosi, edonistici anni ottanta, il governo Craxi era appena caduto e il sogno, per chi ci aveva creduto, stava per sgretolarsi. Di questi episodi, di queste storie, di questi personaggi leggevamo sulle pagine dei giornali, venivamo informati in qualche sporadica inchiesta televisiva: quello che sembrava mancare era invece un cinema dotato di spirito interpretativo della realtà, mancavano giovani cineasti in grado di leggere il presente o di anticipare il futuro, e di farlo con un linguaggio che si fosse nutrito delle qualità migliori del nostro cinema di denuncia politica e civile. Mancava un cinema fatto di storie e di personaggi, insomma. Se scorriamo la lista dei film usciti in quei mesi, in quegli anni, c’è da avvilirsi: non me ne vogliano gli alfieri del cinema comico, allora fortemente in auge, e neppure i grandi autori adulti-vecchi, sempre attivi pur con qualche difficoltà, ma qual era il giovane cinema italiano di quegli anni? A meno di non dover considerare ancora giovani all’epoca Bellocchio, Bertolucci e Ferreri, l’unico non ancora splendido quarantenne italiano che realizza un film memorabile nell’86 è Nanni Moretti con La messa è finita. E non è un caso che proprio a Moretti e alla sua neonata società di produzione Sacher Film, fondata insieme ad Angelo Barbagallo, si devono due degli esordi più importanti per il nostro cinema e il suo futuro. Era il 1987, e l’appena trentenne Carlo Mazzacurati da Padova esordiva con Notte italiana (l’anno dopo sarebbe stata la volta di Daniele Luchetti con Domani accadrà). Il film, che veniva ospitato nella nostra quarta edizione della Settimana della critica di Venezia, rivisto a distanza di più di vent’anni, mostra ancora tutta la sua sorprendente modernità e testimonia proprio quello di cui all’epoca eravamo in cerca, e cioè la straordinaria capacità da parte del suo autore di diventare poi, nel corso di una filmografia coerente, interprete e narratore del territorio e della società italiana, visti nel loro processo di trasformazione spesso traumatico. Attingendo con passione dal racconto ottocentesco e insieme dal cinema classico, con esplicite citazioni da Antonioni, Visconti, Bertolucci, ma anche da una tradizione che definirei “eastern”, alla John Ford, dove al posto delle praterie c’è il paesaggio italiano del Nord Est, sorta di non-luogo vuoto, grigio e piovoso, ritratto con insolito gusto pittorico, Notte italiana è un film che ancora oggi sorprende per la sua perfetta mescolanza dei toni del noir e della commedia, ma soprattutto per la sua spietata analisi morale dei mali endemici dell’Italia, dello sfascio di una società, delle responsabilità personali e politiche sul degrado del nostro territorio. Mazzacurati utilizza quel territorio come scenario non solo delle avventure che il suo cinema, con candore, inizia a raccontare, ma soprattutto della Storia e della memoria: lo “straniero” che vi arriva, dolce e onesto fino alla naiveté, pervicacemente teso allo svelamento del marciume che si annida sotto il tappeto di quella palude che sta per sprofondare, ma anche pudico, perfino elusivo nei confronti di quello spettro del terrorismo e della lotta armata che aleggiava in quegli anni di dissociazione e insieme di omertà, incarna, con qualche variante che scaturisce dal mescolamento dei generi, lo spirito dell’uomo di frontiera tutto di un pezzo che in quella palude si immerge per uscirne più forte e trasformato nell’animo. Il miglior Marco Messeri di sempre, nei panni di questa sorta di Philip Marlowe del Polesine, armonizza attorno a sé un cast ricco di attori e caratteristi, da Remo Remotti che fa il benzinaio - meccanico dal comportamento più che ambiguo, al grande Tino Carraro, qui alla sua ultima interpretazione nel cinema, nei panni dell’assessore; da Mario Adorf che fa l’imprenditore Tornova (“il meglio dei polli e delle uova”), al cameo di Memè Perlini; fino alla giovane, ma all’epoca lanciatissima, Giulia Boschi nei panni di Daria, l’affascinante ragazza-madre di cui Otello si innamora, apparizione emblematica e sofferta di un passato politico che affonda le sue radici nell’autobiografia dell’autore.

> 9 Angèle et Tony di Alix Delaporte

Sceneggiatura: Alix Delaporte Fotografia: Claire Mathon Montaggio: Luise Decelle Musica: Mathieu Maestracci Suono: Pierre Tucat, Arnaud Rolland, Eric Tisserand Costumi: Bibiane Blondy, Dorothée Guiraud, Julie Couturier Scenografia: Hélène Ustaze Interpreti: Clotilde Hesme (Angèle), Grégory Gadebois (Tony), Evelyne Didi (Myriam), Jérôme Huguet (Ryan), Antoine Couleau (Yohan), Patrick Descamps (il nonno), Patrick Ligardes (l’avvocato), Lola Dueñas (Anabel), Elsa Bouchair (il giudice), Corinne Marienneau (la nonna) Produttore: Hélène Cases Produzione: Lionceau Films Durata: 85’

SINOSSI Normandia. Angèle è una giovane donna allo sbando: è appena uscita dal carcere perché ritenuta responsabile dell’incidente nel quale è morto il marito, e non può prendersi cura del figlio. Tony è un pescatore abituato ai sacrifici che vive con la madre vedova. Entrambi in cerca di un legame, si trovano grazie a un annuncio, ma il primo incontro non sarà dei più positivi…

BIOFILMOGRAFIA ALIX DELAPORTE Sceneggiatrice e regista, ha debuttato nel 2003 con il cortometraggio Le Piège. Ha firmato la sceneggiatura di due note serie televisive, Léa Parker (2003) e Plus belle la vie (2004). Come regista ha realizzato il documentario Zinedine Zidane, comme dans un rêve (2001). Nel 2006 il suo Comment on freine dans una descente? ha vinto il Leone d’oro per il miglior cortometraggio alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Angèle et Tony è il suo primo lungometraggio di finzione.

NOTE DI REGIA Volevo dirigere una storia d’amore. E filmarla fra la gente che conosco bene, i pescatori della Normandia, è stato logico per me. Se fossi nata negli Stati Uniti, avrei girato un film western. I pescatori come cowboy, il mare come le grandi pianure. La natura che impone sentimenti schietti. Poche parole, emozioni primarie, cioè quello che andavo cercando quando ho realizzato questo film.

METTERSI IN GIOCO, NONOSTANTE TUTTO di Angela Prudenzi Il paesaggio della Bassa Normandia fa da sfondo alle vicende di Angèle et Tony, debutto nel lungometraggio della regista Alix Delaporte, che nel 2006, a Venezia, aveva vinto il Leone d’oro per il miglior cortometraggio con Comment on freine dans une descente?. Un paesaggio forte come il mare che lo segna, aspro come

> 10 l’inizio della storia d’amore tra due esseri umani segnati dalla solitudine e dal dolore. Una storia fatta di attese, conflitti, separazioni e lenti riavvicinamenti. La ribelle Angèle cerca un marito per convincere il giudice del tribunale dei minori a restituirle il figlio, Tony una donna da amare veramente. Lei corre veloce, lui assapora il piacere di imparare a conoscersi. Il primo incontro rivela inequivocabili diversità. Il rude ma tenero pescatore guarda la ragazza bella e altera che gli siede accanto in auto e subito dichiara la propria inadeguatezza: “Tu hai bisogno di uno come te… di città. Ci vedi insieme?”. La risposta è un’occhiata ironica e sbilenca che suona come una conferma. In effetti Angèle e Tony sembrano lontani sotto molti aspetti, a cominciare dalla originaria diversità sociale che traspare dalle loro strutture fisiche, quella differenza colta appunto dall’uomo al primo sguardo. La figura della ragazza rivela origini borghesi, per quanto ammantata di abiti da due soldi e provata da lavori umili e faticosi. A separare anche i rispettivi caratteri chiusi e ombrosi, che portano spesso sull’orlo dello scontro verbale se non addirittura fisico. Eppure Angèle e Tony, nonostante la vita li abbia messi a dura prova, si rivelano inaspettatamente capaci di mettersi in gioco al di là delle iniziali intenzioni regalandosi il giusto tempo per rivelarsi i segreti più profondi dell’animo. Entrambi, del resto, sono lacerati da lutti e sensi di colpa – la lontananza del figlio e l’incidente che ha causato la morte del marito, la scomparsa inmare del padre – che cercano disperatamente di superare aggrappandosi l’uno all’altra. La regista cattura il loro avvicinamento rivelando piccoli gesti di apertura, improvvise timidezze, sorrisi appena accennati. E sono soprattutto questi ultimi lo specchio di un legame che nel corso della vicenda diventa sempre più intenso fino a diventare amore. Un’evoluzione che Clotilde Hesme, già vista in Les amants réguliers (2005) di Philippe Garrel, e Grégory Gadebois, attore della Comédie française oltre che di cinema e televisione, tratteggiano magnificamente evitando enfasi ed eccessi e puntando, al contrario, su una recitazione di tipo naturalistico. Ma Angèle et Tony non è solo il racconto di un amore, è anche il ritratto di una zona della Francia, quella Bassa Normandia economicamente legata alla pesca, che paga pesantemente la crisi che ha investito l’Europa e il mondo intero. Le esistenze quotidiane dei pescatori, il contesto sociale in cui si muovono, sono in questo senso parte integrante e non meno fondamentale della storia. E anche se il nodo narrativo centrale restano le dinamiche affettive ed esistenziali dei protagonisti, il film non dimentica di mostrare la disperazione dei pescatori costretti a rischiare la denuncia pur di portare avanti le lotte sindacali per l’aumento delle quote del pesce. Una realtà filmata con un linguaggio diretto ed essenziale che inserisce a pieno titoloAngèle et Tony in quella corrente del cinema francese in grado di saldare l’osservazione del reale con l’analisi dei sentimenti. Un filone che da anni dà ottimi frutti e che va da Ressources humaines (Risorse umane, 1999) di Laurent Cantet al recente Welcome (2009) di Philippe Lioret, per citare titoli noti anche in Italia. Lo sguardo di Delaporte, tuttavia, rispetto alle opere citate, non è mai totalmente disperato. Le relazioni tra tutti i personaggi, non solo Angèle e Tony, mostrano aperture impensabili ad esempio in Cantet. I pescatori lottano per i loro diritti, ma non l’uno contro l’altro. La madre di Tony all’inizio ostacola l’ingresso in casa di Angèle, però, appena scopre il suo dramma, è la prima a tentare una carezza che è già piena accettazione. E anche l’ex suocero, per quanto addolorato per la perdita del figlio, capisce quanto il nipote abbia bisogno della madre. Segni di speranza che fioriscono all’interno di una comunità socialmente coesa mentre, al contrario, realtà maggiormente conflittuali finiscono inevitabilmente per acuire gli scontri e dilatare le distanze anche personali.

> 11 Hitparzut X di Eitan Zur Naomi Sceneggiatura: Edna Mazaya, dal suo racconto “Hitparzut X” Fotografia: Shay Goldman Montaggio: Boaz Leon Musiche: Adrien Blaise Scenografia: Eytan Levy Interpreti: Yossi Pollak (Ilan Ben-Natan), Melanie Peres (Naomi Ben-Natan), Orna Porat (Kathy Ben-Natan), Suheil Haddad (Anton), Rami Heuberger (Oded Safra) Produttori: Eilon Ratzkovsky, Elie Meirovitz, Yossi Uzrad, Guy Jacoel, Yochanan Kredo Produzione: July August Productions (ISR) Co-produzione: EZ Films (FR) Durata: 102’

SINOSSI Ilan Ben-Natan, noto docente dell’Università di Haifa, ha sessant’anni ed è sposato con Naomi, un’avvenente ventottenne illustratrice di libri. Incline al sospetto, scopre di essere tradito ed affronta l’amante della moglie. Nella discussione, lo scienziato uccide il rivale e sotterra l’uomo in una fossa appena scavata al cimitero. Per una serie di casualità il cadavere viene però scoperto.

BIOFILMOGRAFIA EITAN ZUR Nato a Tel Aviv nel 1963, studia cinema e televisione all’Università di Tel Aviv; in breve tempo si affaccia nel mondo televisivo israeliano dove è tra i creatori, e regista, dello show comico satirico The Chamber Quintet. Il rapporto con la televisione continua sia in veste di ideatore che in quella di regista, prima con la serie drammatica The Bourgeoisies, poi con il programma satirico This Is Our Country e la serie TV Dovale Olam. Nel 2004 ha diretto il mediometraggio drammatico Ma Ata Sach? (You Don’t Say). Tra il 2006 e il 2007 è stato il regista di quattordici episodi della serie televisiva statunitense Be Tipul (da cui la Hbo ha ricavato In Treatment). Hitparzut X (2010) è il suo primo lungometraggio.

NOTE DI REGIA Non è stato semplice per me scegliere una storia di suspence psicologica, essenzialmente un tema universale, come base per il mio primo film. Al giorno d’oggi in Israele fare un film ispirato ad una certa tradizione cinematografica e letteraria, ma non direttamente collegato alla complessa realtà circostante, viene percepito, anche ai miei occhi, come un lusso. Ciò nonostante, quando mi sono imbattuto nella sceneggiatura di “An X-Ray Burst” (di Edna Mazya e basata sul suo libro), rimasi immediatamente catturato dall’intensità emotiva della storia da un lato, e dal suo sarcasmo intrinseco dall’altro, così come dai personaggi secondari e, più di tutto, dalla descrizione del viaggio di Ilan – l’eroe della storia, una persona “regolamentata” che viene catapultata in una situazione estrema – e del modo in cui questo scuote la sua vita pacifica ed organizzata. Ho realizzato presto che la sfida principale nel fare il film sarebbe stata la direzione degli attori. I dialoghi della coppia sono deliberatamente scarni, quasi insignificanti, parte di una relazione

> 12 che, nonostante l’amore, è basata su incomunicabilità, segreti, sospetti e silenzio. La maggior parte del tempo, la potenza delle emozioni è bloccata sotto la superficie. Ho scelto un cast e uno stile cinematografico che mi permettessero di concentrarmi sui personaggi. Il principale luogo delle riprese per me è stato il viso degli attori, specialmente quando non parlano. Durante le riprese, mi sono ritrovato a rinunciare alla maggior parte dei pochi movimenti di macchina che avevo pianificato e alla musica che era già stata scritta per alcune scene. Ho provato a realizzare un film che fosse caratterizzato da silenzio e limitazioni sulla superficie, nella speranza che a nessuno spettatore sfugga il terremoto che ha luogo sotto di essa. L’ASTROFISICA DEI SENTIMENTI UMANI di Goffredo De Pascale Ilan Ben-Natan conosce l’attrazione dei corpi celesti, sa come interagiscono due masse che ruotano intorno a un’altra, come si comporta una vecchia stella nei confronti di una giovane. Quello che lo scienziato sessantenne non ha invece ancora sperimentato è la tenuta del suo rapporto di coppia con la giovane moglie ventottenne, Naomi. (…) Sono sufficienti una serie di telefonate a vuoto al cellulare, un ritardato rientro a casa per insospettire il professore e indurlo, alla prima occasione, a pedinare la consorte, e a scoprire che effettivamente lei lo tradisce con un artista filmaker più giovane di lui. È l’istinto a muovere Ilan; per indole non ama affrontare direttamente i problemi e quindi finisce per cadere preda dell’irrazionalità, la stessa che lo porta inaspettatamente a eliminare il rivale. Come farla franca senza che l’amata ne venga mai a conoscenza è un plot standard per un noir, ma in Hitparzut X la trama si arricchisce di elementi psicologici che ruotano intorno a un mai evoluto rapporto figlio-madre e a un altro, quasi a specchio, tra marito-moglie in cui, per la grande differenza di età, l’uomo tende a fare da padre alla donna. Che la mamma nei popoli mediterranei, nella tradizione ebraica in particolare, abbia una forte influenza sulla prole si sa, ma quanto alcune siano disposte a fare in difesa dei propri eterni bambini ce lo farà scoprire questo film. In che modo esse agiscano è altrettanto interessante. L’ottantenne Kathy decide materialmente la sorte del figlio come fa la madre descritta da Pavese; ne è una variante, però, con la sua capacità di dominarlo anche con ironia (…). Quest’opera prima è costruita su sequenze molto limpide e raffinate, mai stilizzate. Le situazioni in cui Ilan si trova di fronte il rivale Oded, Zur le riprende con un sapiente gioco di campi e controcampi. Quando il professore, per esempio, fa irruzione nella casa del filmaker, i due si studiano, si stuzzicano, si affrontano in una scena girata come un duello western. Alla destrezza della regia si aggiunge la struttura del racconto basato sulle debolezze del protagonista maschile. La formazione logica dello scienziato non è sufficiente a contenere il naturale senso di colpa per l’omicidio compiuto né a frenare l’angoscia del rischio di vedere andare in frantumi l’apparente equilibrio matrimoniale. Lui è disposto a dimenticare il tradimento e ad accogliere il figlio che lei sta aspettando come il suo. D’altronde, “se non c’è il corpo non c’è il reato” e se non si viene a scoprire quanto è accaduto è facile addomesticare la realtà, per lui che preferisce far finta di nulla. Naomi, dal canto suo, non ha avuto il coraggio di lasciare il marito per andare a vivere con l’amante e quando sembra sul punto di capire chi è veramente l’uomo che ha sposato, scopre di essere rimasta incinta e teme a sua volta di essere abbandonata. Quindi tace. Con elementi che riecheggiano Unfaithful (L’amore infedele, 2002) di Adrian Lyne e Crimes and Misdemeanors (Crimini e misfatti, 1989) di Woody Allen, il film procede come una spirale capace di attanagliare il protagonista che sembra destinato a non avere alcuna via di scampo. E, con lui, serra l’attenzione dello spettatore (…).

> 13 Svinalängorna di Pernilla August Beyond Sceneggiatura: Pernilla August, Lolita Ray Fotografia: Erik Molberg-Hansen Montaggio: Asa Mossberg Musica: Magnus Jarlbo, Sebastian Öberg Suono: Bo Persson, Owe Svensson, Aleksander Karshikoff Scenografia: Anna Asp Interpreti: Noomi Rapace (Leena), Ola Rapace (Johan), Outi Mäenpää (Aili), Ville Virtanen (Kimmo), Tehilla Blad (Leena, da bambina) Produttori: Helena Danielsson, Ralf Karlsson Produzione: Hepp Film AB/Drakfilm AB (SV) Co-produzioni: Helle Ulsteen, Kamoli Films (DAN), Tero Kaukomaa, Blind spot Pictures (FI), Nordisk Film, Nordisk Film & Post production, Nordsvensk Filmunderhållning no7, Film i Skåne (SV) Durata: 94’

SINOSSI Una famiglia felice, una mattina di festa. All’improvviso la giovane madre, Leena, riceve una telefonata: sua madre è ricoverata in ospedale in gravissime condizioni. Contro la sua volontà, il marito decide di portarla, insieme alle figlie piccole, a trovare la donna. Per Leena inizia così un doloroso viaggio interiore che la costringe a rievocare il proprio difficile passato familiare.

BIOFILMOGRAFIA PERNILLA AUGUST Scoperta da Ingmar Bergman, che la volle tra gli interpeti di Fanny och Alexander (Fanny e Alexander) nel 1982, dieci anni dopo ha vinto il Premio per la migliore interpretazione femminile al Festival di Cannes per Den goda viljan (Con le migliori intenzioni), diretto da Bille August (suo secondo marito), film scritto dallo stesso Bergman. Tra i suoi lavori figurano Jerusalem (1996) sempre di Bille August, Enskilda samtal (Conversazioni private, 1996) per la regia di Liv Ullman. È stata Shmi Skywalker, la madre di Anakin Skywalker in due episodi della celebre saga di George Lucas, Star Wars. Tra le sue più recenti interpretazioni figura anche Det enda rationella (Una soluzione razionale) di Jörgen Bergmark, presentato alla Sic 2009 in competizione. Ha lavorato anche in televisione e soprattutto a teatro, vincendo anche un British Drama Magazine Award come miglior attrice non protagonista per Amleto. Ha recitato in molti grandi classici per il Teatro nazionale di Svezia. Nel 2005 ha diretto il cortometraggio Time-Bomb. NOTE DI REGIA Il nostro passato ci accompagnerà sempre. Quando ho cominciato a lavorare a questo film ho pensato che il tema sarebbe stato “crescere in una famiglia violenta”, una storia su quanto sia terribilmente difficile essere poveri, venire da un altro paese, non parlarne la lingua. Poi ho iniziato ad approfondire la sceneggiatura e ho pensato che sarebbe stato più interessante combinare la storia dell’infanzia di Leena con la storia della sua vita da adulta e raccontare una storia sul mentire a noi stessi e alle persone che ci circondano. Ho voluto raccontare come si arriva a prendere determinate decisioni e come si può andare avanti nella vita nonostante il proprio passato. Nel film i ricordi di Leena

> 14 adulta sono quasi fisici come nel film Dolores Claiborne (L’ultima eclissi, 1995) di Taylor Hackford, dove né noi, gli spettatori, né la madre (Kathy Bates), possiamo proteggere noi stessi dal passato. Quando lentamente sono entrata più a fondo nella storia, sono rimasta colpita dall’affinità con Ibsen, che amo e che ho interpretato tanto. Ho pensato alla signora Alving in Spettri e al suo autoinganno, al Greger Werle de L’anitra selvatica, dove la menzogna diventa evidente, distrugge la famiglia e sconvolge la vita di Hedwig. Ho capito che per me Svinalängorna è un testo sulla menzogna. Al contrario di quanto accade ai personaggi di Ibsen, il percorso di Leena la porta fuori dall’oscurità verso la verità e verso la salvezza. Il punto di vista narrativo del film è intimo e soggettivo, mi sono concentrata sui dettagli e sulle atmosfere usando la macchina da presa dal punto di vista di Leena, adulta e bambina.

PROVE DI IDENTITÀ SEPARATE di Cristiana Paternò Imparare una lingua straniera, una parola dopo l’altra, può essere un modo per salvarsi la vita quando si è stranieri e poveri e si cresce in una famiglia violenta, devastata dall’alcol, immersa nel caos. È un allenamento quotidiano, simile a quello di uno sportivo, che sviluppa muscoli e concentrazione giorno dopo giorno. Per Leena è così. La ragazzina dal buffo costume, diverso da quello delle altre, vince le gare di nuoto e annota in un quadernetto i significati delle parole, di tutte le parole, anche le più brutte e disturbanti. È così che mette ordine nella sua vita. È un lento riprendere il ritmo del respiro, un razionalizzare che la allontana dalla lingua materna, la lingua della sofferenza e dell’autodistruzione, e la avvicina a un nuovo idioma appreso, a una nuova se stessa appresa. Ma questo processo di salvezza, di autoguarigione, è contemporaneamente un processo di perdizione. Perché il passato ritorna, la lingua materna torna a risuonare, se non nella testa nel cuore. L’imprinting familiare è una vertigine che bisogna prima o poi affrontare. Un mare oscuro in cui la giovane e agile nuotatrice dovrà tuffarsi a rischio della vita. O della disperata follia. Pernilla August, la notevolissima attrice svedese scoperta da Ingmar Bergman e premiata a Cannes nel 1992 per Den goda viljan (Con le migliori intenzioni) dell’allora marito Bille August, (…) ha deciso di diventare regista, come prima di lei la collega Liv Ullman, con l’adattamento di un romanzo che in Svezia è diventato un best seller, Svinalängorna, dell’autrice di origine finlandese Susanna Alakoski. (…) La protagonista Leena è una giovane donna, madre di due figlie, che ha costruito la propria esistenza sulla negazione del dolore e del lutto. Sulla rimozione, come si dice in termini psicoanalitici. (…) Quando il marito (…) decide di portarla, insieme alle due figlie, a trovare la madre morente in un viaggio in auto, di notte, sotto la pioggia, un viaggio che lei affronta quasi per costrizione, il meccanismo della memoria si riaccende. Ma il film, con la sua struttura dettata dal cuore, non sembra procedere per meccanici flashback; piuttosto accosta liberamente, e in un flusso di coscienza che suona sincero e naturale, presente e passato, soggettività dei ricordi e nuova consapevolezza che via via si fa strada (…). Ecco dunque l’infanzia di Leena: i genitori sono due emigrati finlandesi, (…) il loro amore malato è stretto nelle tenebre dell’alcol, fatto di litigi e botte. Pernilla August ha una straordinaria capacità di lasciare in primo piano le emozioni dei bambini nella loro complessità: non c’è solo la paura, il terrore, l’angoscia, ma ci sono anche i momenti di gioia e le difese, le strategie di controllo messe in atto per sopravvivere in un mondo in cui i presunti adulti sono travolti da voraci pulsioni primarie, passioni cieche e devastanti, mentre altri adulti, i vicini di casa ad esempio, sembrano schiavi di un arido conformismo che non appare certo come una valida alternativa.

> 15 Hòra proèlefsis di Syllas Tzoumèrkas Terra madre Sceneggiatura: Youla Boùdali, Syllas Tzoumèrkas Fotografia: Pantelìs Mantzanàs Montaggio: Panos Voutsaràs Musica: Drog A Tek Scenografia: Mayoù Trikeriòti Costumi: Mayoù Trikeriòti Interpreti: Amalìa Moutoùssi (Stella), Thanos Samaràs (Stergios), Ioanna Tsirigoùli (Gena), Errìkos Lìtsis (Antonis), Youla Boùdali (Anna), Ierònimos Kaletsànos (Nikitas), Christos Passalìs (Thanos), Dèspina Georgakopoùlou (Maria), Marissa Triantafyllìdou (Tonia) Produttori: Maria Drandaki, Thanos Anastopoulos Produzione: Fantasia Ltd Co-produzioni: Greek Film Center, ERT SA, Pan Entertainment, Homemade Films, Danza Projekt Durata: 111’

SINOSSI Salonicco. Stergios, ragazzo ombroso, compie ventisette anni. La madre resta a casa, consumata dalla solitudine; il fratello ritorna in famiglia dopo molti anni; lo zio tiene una lezione d’arte all’università; la zia, che ha cresciuto Thanos, insegna letteratura ai ragazzi. Nell’arco della giornata, Stergios e i suoi parenti fanno i conti col proprio passato e con la recente storia greca.

BIOFILMOGRAFIA SYLLAS TZOUMÈRKAS Nato a Salonicco nel 1978, si diploma all’Università di Atene in studi teatrali, recitazione e regia cinematografica, studia alla Stavrakos Hellenic Cinema and Television School, e all’Instituut Media en Re/presentatie dell’Università di Utrecht e a New York. Ha diretto show ed episodi di serie televisive. Il suo primo cortometraggio, Ta matia pou trone (2000) ha partecipato alla Cinéfondation del Festival di Cannes del 2001 e ha vinto il Premio della giuria a Karlovy Vary; il secondo, Vrochi (2002) si è aggiudicato lo Short Film State Award.

NOTE DI REGIA La liberazione personale da un’eredità (familiare o nazionale) è un processo violento. Il nucleo della storia è un’adozione interna a una stessa famiglia; adozioni che erano comuni in Grecia fino ai primi anni ottanta e avvenivano in seguito a problemi finanziari o ad accuse di “inadeguatezza“ mosse alla madre. Gli studi hanno rivelato che in un gran numero di casi sono nati amori incestuosi fra i bambini coinvolti. I personaggi del film, iniqui e pieni di ragione, vittime e aggressori, si ritrovano intrappolati in un punto morto, nel quale non riescono a fuggire gli uni dagli altri né a sottrarsi da ciò che gli uni hanno fatto agli altri. Questo dramma familiare di inganni, mosse false e violenza, è il dramma di una nazione, dove nulla può essere salvato quando ormai è troppo tardi, un luogo senza troppa speranza, impoverito e corrotto.

LA GREVE EREDITÀ DEL PASSATO di Goffredo De Pascale Una giornata come le altre nella Grecia di oggi. Una famiglia inizia le proprie attività. A Salonicco, Stergios compie ventisette anni; la madre Gena, ossessionante, lo vuole festeggiare fin dal mattino, mentre la zia Stella

> 16 si prepara per andare a scuola dove insegna ai ragazzi, lo zio Nikitas terrà una lezione all’università, la cugina Anna raggiunge gli studi di un’emittente televisiva dove lavora. Ad Atene, intanto, Thanos, fratello di Stergios, si sta recando alla stazione per prendere un treno che lo porterà, dopo quasi sei mesi, a rivedere i suoi. C’è caos nella capitale, a causa di una manifestazione contro il governo per la crisi economica che strozza il Paese. Thanos, rimasto imbottigliato nel traffico assieme allo zio Antonis, decide di lasciare l’auto e proseguire a piedi. Sono i passi iniziali di Hora proelefsis, che via via si addentra nel tessuto sociale fino a svelare che la terra madre, come la propria famiglia, lascia spesso una pesante eredità alle nuove generazioni. La libertà, conquistata col sangue dell’indipendenza e delle rivolte contro la dittatura militare, va difesa anche in tempi di democrazia, privilegiando alla menzogna e al raggiro la verità e la trasparenza, alla corruzione la correttezza, alle ambiguità dei ruoli parentali la sincerità dei rapporti affettivi. In un serrato confronto tra la Grecia di oggi e quella costruita nell’arco degli ultimi tre decenni dopo la riconquista della democrazia, l’intenso film di Syllas Tzoumèrkas si snoda attraverso il racconto della famiglia di Stergios con i suoi conflitti generazionali. Punto dolente, comune alla vita privata e a quella pubblica, è il fenomeno dell’adozione di bambini all’interno di uno stesso gruppo di parenti, molto diffuso negli anni ottanta. È successo anche a Gena che, in seguito a una serie di difficoltà, seguendo i consigli dei fratelli, ha finito col cedere il piccolo Thanos alle cure degli zii Nikitas e Stella. Il bambino è così cresciuto assieme alla cuginetta Anna, di cui successivamente si è invaghito. Stergios, che è invece rimasto a vivere con la madre, pure ha un debole per Anna. Un’altra figura, apparentemente defilata ma altrettanto importante nel quadro famigliare, è quella del nonno. È a partire dalla sua generazione che spazia il film fino a giungere a quella dei nipoti. Il racconto non ha la circolarità di Po Dezju (Prima della pioggia, 1994) del macedone Milcˇo Mancˇevski, ma procede in modo lineare. Presente e passato si alternano in scene e sequenze che svelano continuamente particolari sui rapporti interpersonali, e riescono a restituire contemporaneamente un mosaico della società greca con i suoi cambiamenti, di speranza e dolenti. Un montaggio vertiginoso riesce nell’intento di realizzare un’opera compatta, senza mai creare una cesura narrativa, mentre la forza delle riprese si amalgama perfettamente alle immagini di repertorio. Perfino le fotografie di un tempo riescono a miscelarsi organicamente a scatti di un reportage contemporaneo. Ricorrente nel film è il senso della cultura, quella dei versi dell’Inno alla libertà del poeta risorgimentale Dionyssios Solomos che Stella spiega ai giovani allievi, quella pittorica della strage degli innocenti su cui si sofferma Nikitas con gli studenti universitari, quella musicale del verdiano La forza del destino interpretata da Maria Callas, che fa da sottofondo a gran parte degli avvenimenti, quella tragica dell’Orestea di Eschilo che celebra la fine degli Atridi. Hora proelefsis è un lavoro corale in cui tutti i personaggi si cercano e si respingono. Inesorabilmente, mentre Stergios insegue Anna, che non vede l’ora di riabbracciare Thanos, emergeranno le colpe dei padri abbattutesi su figli dalle spalle troppo deboli. Il destino può assumere il valore di un alibi per chi intende continuare a sottrarsi alle proprie responsabilità. Non ci sarà scampo né per le vittime né per gli aggressori in questo film che non dà tregua neanche allo spettatore, in un crescendo che si rivelerà tanto più tragico quanto più ci si è allontanati dalla realtà.

> 17 Ocˇa di Vlado Škafar Papà

Sceneggiatura: Vlado Škafar Fotografia: Marko Brdar Montaggio: Vlado Škafar, Jurij Moškon Suono: Julij Zornik Scenografia: Zoran Grabarac, Frenk Grdin, Tanja Vukovic´ Costumi: Emina Kaliman Interpreti: Miki Roš (Miki), Sandi Šalamon (Sandi), i lavoratori della fabbrica Mura Produttore: Frenk Celarc Produzione: Gustav Film Durata: 71’

SINOSSI Un padre e un figlio trascorrono un’intera giornata in un bosco. Pescano, dialogano, verificano lo stato del loro rapporto, seguito alla separazione dei genitori. L’adulto avverte nel figlio una lucidità di analisi che lo sorprende e lo rattrista. Il bambino ha reagito alla separazione legandosi molto alla madre, con cui vive, ma covando dentro di sé il dolore per l’assenza paterna.

BIOFILMOGRAFIA VLADO ŠKAFAR Regista, sceneggiatore, critico, drammaturgo e uomo di lettere, Vlado Škafar si occupa di diffusione della cultura cinematografica, essendo stato, tra le altre cose, co-fondatore della Slovenska Kinoteka (che ha diretto dal 1993 al 1999) e del festival internazionale Kino Otok-Isola Cinema. Come regista ha diretto cortometraggi e documentari quali Stari most (Il vecchio ponte, 1998), Peterka: leto odlocˇitve (Peterka: l’anno decisivo, 2003), Pod njihovo kožo (Sotto la nostra pelle, 2006), Nocˇni pogovori z Mojco (Conversazioni notturne con Mojca, 2008) e Otroci (Lettera ad un bambino, 2008), presentato al festival di Rotterdam nel 2009. Ocˇa è il suo primo lungometraggio di finzione.

NOTE DI REGIA Miki, il coproduttore locale, ci porta oltre il confine con l’Ungheria per un incontro. Ci racconta che gli sloveni che abitano in quella parte del paese non posseggono una parola per dire amore. Guardo i suoi occhi dallo specchietto retrovisore dell’automobile. Quando scende dico, Frenk, ok, questa parola può essere papà. Miki ci porta da Sandi. Ha una certa età, però ha la faccia, i capelli e gli occhi di un angelo, e gli angeli non hanno età. In un campo di calcio ci stiamo conoscendo l’un l’altro. Quando mostro tutto questo alla mia ragazza, trema e piange. Sarà un bel film. Poi noi tre giochiamo. Buttiamo piccoli sassi nei nostri pozzi (le nostre anime) e ascoltiamo gli echi. Più tardi la troupe si unisce al nostro gioco. È così che si recita nel nostro film. (Lasciamo che il cinema sia poesia. Lasciamo che i motori silenziosi guidino la storia).

TRANSIZIONI di Anton Giulio Mancino Che questo film d’esordio abbia un progetto d’autore, alto, promettente lo si capisce subito. L’assenza di sonoro, che accompagna le prime inquadrature, più che assomigliare a un espediente avanguardistico, un effetto di ricercatezza puramente sperimentale, un’eccentricità, trasmette – attraverso l’assenza – un valore. Quello non

> 18 naturalistico, non scontato, non automatico del suono, dei suoni inascoltati come inascoltati sono i moti del cuore. L’inizio di questo film, giocando sull’assenza di suoni allude al silenzio dei sentimenti, alla loro invisibilità, alla loro inaccessibilità. Una sinestesia, dunque, ci introduce nella dimensione sospesa, segreta, inviolabile di una storia che non si struttura secondo i canoni della narrazione classica. Questo film infatti non è raccontabile. O comunque, raccontandolo, lo si perde. Il suono sopraggiunge solo dopo alcune inquadrature, e in armonia con le immagini. Un’armonia che all’improvviso acquista un senso, altrimenti trascurato, creando un ambiente dove la natura si esprime nelle sue forme variegate. I protagonisti sono un padre e un figlio, a pesca insieme, e trascorre un tempo che stenta a trascorrere, poiché lo spazio – silenzioso – che li separa è tanto. (…) Il dialogo tra i due, che costituisce la ragion d’essere del film, per quasi tutta la sua durata, è un dialogo difficile, forzato, che trascende i termini dello scambio comunicativo per configurarsi come conflitto, dispiego pacato di barriere, confini, resistenze. (…) Il paesaggio naturale in cui i due si trovano iscritti è anche rappresentativo di un paesaggio umano intricato, mitico, inquietante. Un paesaggio dell’anima, scandito da lunghissime transizioni, ovvero da dissolvenze incrociate che smettono qui di assolvere alla tradizionale funzione di passaggi temporali e narrativi convenzionali, pressoché automatici nel cinema classico, per andare ben oltre l’interpunzione cinematografica. (…) Non c’è consequenzialità in queste dissolvenza, ma soltanto languore, horror vacui, senso di impotenza – da parte del padre – cui si contrappone – da parte del figlio – l’apparente lucidità e la solidità caratteriale che invece nasconde una commovente fragilità. In entrambi la paura o il malessere legato a un amore non corrisposto generano comportamenti di difesa, riflessioni complesse. Necessarie in realtà a schermirsi, a evitare di affrontare verità, su tutti e due i fronti, che potrebbero ferire. Un film di immagini suggestive, di suoni evocativi, di raccordi lirici e di segrete intermittenze del cuore che al valore simbolico di queste immagini, di questi suoni, di questi raccordi audiovisivi non sistematici, si richiamano implicitamente elaborando una trama che procede per stati d’animo, increspature relazionali, schermaglie dissimulate, confessioni aperte, gesti liberatori, giochi e lacrime. Manifestazioni tutte che si riflettono nello spazio naturale circostante. (…) Lo spazio ideale ove (…) la crisi si annulla nella distanza onnicomprensiva delle cose della natura. E trova in quest’opera prima di mirabile sensibilità poetica e assoluto rigore una perfetta messa «in scena» propedeutica alla messa «in quadro» che tuttavia trascende la scena con accenti di spiritualità degni dei capolavori di Tarkovskij e di Sokurov. (…) In questo film estremamente lontano dal materialismo, storico o dialettico, che non a caso riprende correnti di pensiero e scelte estetiche un tempo eretiche e condannate nei paesi dell’Est Europa di un tempo che fu. E lo fa in aperto dissenso con le scorciatoie di un realismo men che meno «socialista» incapace ormai di veicolare la propaganda politica e audiovisiva quanto di farsi interprete di spinte collettive, ma anche di descrivere le derive sociali e antropologiche contemporanee di una porzione di mondo andato in frantumi, imploso, le cui illusioni storiche e la trionfalistica «religione della Storia» non hanno infine condotto i personaggi alla felicità, privata né pubblica, individuale né di classe, collettiva né collettivistica. Lo fa ostentando l’impatto dello scenario naturale che con il suo tempo immobile, le sue sonorità ignote, rarefatte e inascoltate dalla Storia, consente ai due protagonisti di dare libero corso alle parole liberate dalla reticenza, al pianto scevro della durezza e del disagio malcelato dei volti (…).

> 19 CALENDARIO DELLE PROIEZIONI

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