RASSEGNA STAMPA di mercoledì 11 marzo 2015

SOMMARIO

La presenza della Chiesa sul territorio, le questioni del lavoro in un tempo di grandi cambiamenti, la situazione dei media ecclesiali nel Nordest: sono stati questi alcuni dei numerosi temi al centro dei lavori nel periodico incontro dei Vescovi del Trive neto che si sono ritrovati il 9 e 10 marzo a Verona, presso la Casa diocesana di spiritualità S. Fidenzio. Nell'ambito della riunione, infatti, i Vescovi hanno ripreso l’analisi di quanto emerso nella recente "due giorni" svoltasi lo scorso gennaio a Cavallino (Venezia) e che aveva affrontato le nuove forme di organizzazione, presenza e azione della Chiesa part icolare sul territorio, con tutte le relative opportunità e dinamiche; a tal proposito, nelle prossime settimane, una “sintesi” ordinata e condivisa dei lavori sarà disponibile sul sito della Conferenza Episcopale Triveneto (www.cet.chiesacattolica.it ). I Vescovi del Triveneto hanno, poi, stabilito di approntare una nota sul tema "Lavoro in tempo di cambiamenti. La Chiesa vicina" che uscirà nelle vicinanze della festa del Primo Maggio. L’intento sarà quello di “attirare l’attenzione su alcuni aspetti strutturali di questo cambio d’epoca, offrendo alcuni criteri per un discernimento etico ed antropologico sul tema del lavoro, fondati sulla parola del Vangelo e sulla dottrina sociale della Chiesa”. Proseguendo il permanente contatto, ascolto e dialogo con le varie Commissioni regionali, che operano nei diversi ambiti, i Vescovi hanno quindi incontrato alcuni rappresentanti della Commissione che si occupa di comunicazioni sociali e che ha illustrato un quadro complessivo ed aggiornato sulla realtà dei media ecclesiali attivi nel Nordest. E' stato rilevato dai membri della Commissione che la presenza dei media, gestiti direttamente dalle Diocesi o ad esse collegati, è "ancora particolarmente vivace in Triveneto, nonostante tutte le difficoltà legate alla loro gestione". Si è fatto così il punto della situazione su tv, radio, cinema, sale parrocchiali, internet (rilevando, tra l'altro, la qualità "medio- alta" dei siti diocesani) ecc. Molto positivo è stato giudicato l'incontro triveneto di tutti gli operatori delle comunicazioni sociali tenutosi nell'ottobre scorso e che ha permesso un primo e proficuo confronto tra tutti i soggetti direttamente interessati e coinvolti; proprio in quell'occasione è stato messo on line la nuova versione del sito della Conferenza Episcopale Triveneto ( www.cet.chiesacattolica.it ), reso più immediato e di agile fruizione. Sempre a partire da quell'incontro è stata anche attivata una sezione speciale dedicata al convegno ecclesiale di Firenze 2015, in stretto collegamento tra tutte le Diocesi del Nordest, e che sta generando un'apposita newsletter quindicinale. Una specifica relazione ha riguardato lo stato dei settimanali diocesani dell'intera area: sono state evidenziate le "sofferenze" esistenti in parecchie realtà - a causa soprattutto della diminuzione di pubblicità, vendite, abbonamenti e contributi pubblici più i ritardi nei recapiti postali e in un contesto generale di crisi e difficoltà per tutto il mondo dell'editoria - ma non si è mancato di rilevare che le 114.500 copie diffuse settimanalmente (in media) dalle 18 testate del Triveneto, con un insieme complessivo di quasi mezzo milione di lettori, "rappresentano un patrimonio da non trascurare: sono un'importante voce delle Chiese locali e un importante strumento di collegamento, condivisione di esperienze, di costruzione di un cammino di Chiesa e di opinione", oltretutto con una generale buona risonanza in campo civile e sugli altri media. Al termine del dibattito che ne è seguito, i Vescovi del Triveneto hanno sollecitato la Commissione regionale per le comunicazioni sociali ad elaborare - con grande realismo ma senza perdere di vista ed anzi rinnovando orizzonti ideali e "mission" - alcune precise linee progettuali e di "strategia" con l’obiettivo di indicare strade e ipotesi di lavoro percorribili per il rilancio complessivo dei media ecclesiali ed una loro azione più incisiva, in base alle quali continuare la riflessione comune e favorire così scelte e decisioni in tale ambito.

3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Il punto di vista di Magellano Una parrocchia di periferia intervista il Papa

Pag 8 Porta aperta Messa a Santa Marta

CORRIERE DELLA SERA Pag 23 “La Cina pretende dal Vaticano una resa incondizionata” di Guido Santevecchi Il cardinale di Hong Kong Zen Ze-kiun: in Curia non conoscono il regime

Pag 23 Francesco intervistato dal giornale delle favelas. Le domande dei fedeli raccolte con i bigliettini di G.G.V. L’annuncio del Papa: “In Argentina nel 2016”

IL RESTO DEL CARLINO “Padre, devo confessarmi”. Ma ora ci vuole l'appuntamento di Laura Alari

IL FOGLIO Pag 2 Porporati tedeschi agli stracci: "Quelle di Marx sono chiacchiere da bar" di Matteo Matzuzzi

LA NUOVA Pag 11 Messaggio sul lavoro dai vescovi triveneti Sarà pronto per il Primo Maggio. A Verona due giorni dedicati anche ai media ecclesiali: “Da rilanciare”

WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT L'ora dell'Africa di Sandro Magister Ha il più alto numero di con vertiti alla fede cattolica. E ha anche il più alto numero di martiri. Come agli albori del cristianesimo. Passato e presente di un continente che ha sempre più peso nella Chiesa mondiale

8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO Pagg 2 – 3 Salvini caccia Tosi dalla Lega di Marco Bonet, Alessio Corazza e Angela Pederiva Ultimatum, lettere, riunioni. Una giornata surreale tra voci e smentite ufficiali. “Matteo come Caino, il peggio della politica”. E la Moretti ne approfitta per attaccare Zaia su tutto

Pag 8 Il parroco difende la moschea e viene attaccato dai “fedeli” di Enrico Presuzzi In un paesino del Veronese l’omelia scatena polemiche

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il potere senza contrappesi di Michele Ainis

Pag 6 Il premier vince facilitato dalle divisioni degli avversari di Massimo Franco

Pag 16 Noi ragazze del campo-prigione di Sara Gandolfi Reportage dalla Siria, 4 anni di guerra

LA REPUBBLICA Pag 3 Le mosse sterili della minoranza e la trincea finale in casa Renzi di Stefano Folli

LA STAMPA Berlusconi assolto. E ora si riapre il fronte della legge Severino di Marcello Sorgi

La confusione del fronte anti-premier di Federico Geremicca

AVVENIRE Pag 1 Strategia contro di Carlo Cardia Il pressing in Europa su vita e famiglia

Pag 3 La responsabilità come sfida dell’Expo di Leonardo Becchetti Un’occasione da non perdere, per cambiare

Pag 10 “Dalla A ma senza la Z. Perché noi siamo eterni” di Lucia Bellaspiga Gian, 20 anni di saggezza. “Spaccato in due”, il libro che spopola sui social network

Pag 28 Anche nell’Islam c’è spazio per la critica di Chiara Zappa Intervista alla teologa musulmana Housmand, docente alla Gregoriana

IL GAZZETTINO Pag 1 Il premier che avanza e l’opposizione senza progetto di Alessandro Campi

Pag 17 In Italia il matrimonio è un istituto giuridico tra coppie eterosessuali di Ennio Fortuna

LA NUOVA Pag 1 Il realismo esasperato della fiction di Ferdinando Camon

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3 – VITA DELLA CHIESA

L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Il punto di vista di Magellano Una parrocchia di periferia intervista il Papa

La rivista di una bidonville argentina intervista il Papa, e lui risponde. Si tratta di Villa La Cárcova, nel dipartimento di León Suárez, un agglomerato sorto mezzo secolo fa attorno all’ultima stazione della ferrovia che portava nella grande Buenos Aires. Nel gennaio scorso, al termine di una processione religiosa col suo seguito di festa popolare, è stata lanciata la proposta di intervistare il Papa per «La Cárcova News», una rivista scritta dai ragazzi della villa. Le domande raccolte fra la gente sono state portate a José María Di Paola, meglio conosciuto come padre Pepe, direttamente al Papa, che lo ha ricevuto lo scorso 7 febbraio a Santa Marta. Francesco rispose subito e «a padre Pepe — spiega Alver Metalli nel suo sito www.terredamerica.com — non restò che accendere un piccolo registratore e l’intervista era fatta».

Lei parla molto di periferia. Questa parola gliel’abbiamo sentita usare tante volte. A che cosa e a chi pensa quando parla di periferie? A noi gente delle villas? Quando parlo di periferia parlo di confini. Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso scopriamo più cose, e quando guardiamo al centro da queste nuove cose che abbiamo scoperto, da nuovi posti, da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa. Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato. Un esempio: l’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa. La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro. Compresa la realtà di una persona, la periferia esistenziale, o la realtà del suo pensiero; tu puoi avere un pensiero molto strutturato ma quando ti confronti con qualcuno che non la pensa come te, in qualche modo devi cercare ragioni per sostenere questo tuo pensiero; incomincia il dibattito, e la periferia del pensiero dell’altro ti arricchisce. I nostri problemi li conosce. La droga avanza e non si arresta, entra nelle villas e attacca i nostri giovani. Chi ci deve difendere? E noi come possiamo difenderci? È vero, la droga avanza e non si ferma. Ci sono Paesi che ormai sono schiavi della droga. Quello che mi preoccupa di più è il trionfalismo dei trafficanti. Questa gente canta vittoria, sente che ha vinto, che ha trionfato. E questa è una realtà. Ci sono Paesi, o zone, in cui tutto è sottomesso alla droga. Riguardo all’Argentina posso dire questo: fino a venticinque anni fa era ancora un Paese di passaggio, oggi è un Paese di consumo. E, non lo so con certezza, ma credo che si produca anche. Qual è la cosa più importante che dobbiamo dare ai nostri figli? L’appartenenza. L’appartenenza a un focolare. L’appartenenza si dà con l’amore, con l’affetto, con il tempo, prendendoli per mano, accompagnandoli, giocando con loro, dandogli quello di cui hanno bisogno in ogni momento per la loro crescita. Soprattutto dandogli spazi in cui possano esprimersi. Se non giochi con i tuoi figli li stai privando della dimensione della gratuità. Se non gli permetti di dire quello che sentono in modo che possano anche discutere con te e sentirsi liberi, non li stai lasciando crescere. Ma la cosa ancora più importante è la fede. Mi addolora molto incontrare un bambino che non sa fare il segno della croce. Vuol dire che al piccolo non è stata data la cosa più importante che un padre e una madre possono dargli: la fede. Lei vede sempre una possibilità di cambiamento, sia in storie difficili, di persone che sono provate dalla vita, sia in situazioni sociali o internazionali che sono causa di grandi sofferenze per le popolazioni. Cosa le dà questo ottimismo, anche quando ci sarebbe da disperarsi? Tutte le persone possono cambiare. Anche le persone molto provate, tutti. Ne conosco alcune che si erano lasciate andare, che stavano buttando la loro vita e oggi si sono sposate, hanno una loro famiglia. Questo non è ottimismo. È certezza in due cose: primo nell’uomo, nella persona. La persona è immagine di Dio e Dio non disprezza la propria immagine, in qualche modo la riscatta, trova sempre il modo di recuperarla quando è offuscata; e, secondo, è la forza dello stesso Spirito Santo che va cambiando la coscienza. Non è ottimismo, è fede nella persona, che è figlia di Dio, e Dio non abbandona i suoi figli. Mi piace ripetere che noi figli di Dio ne combiniamo di tutti i colori, sbagliamo a ogni piè sospinto, pecchiamo, ma quando chiediamo perdono Lui sempre ci perdona. Non si stanca di perdonare; siamo noi che, quando crediamo di saperla lunga, ci stanchiamo di chiedere perdono. Come si può arrivare a essere sicuri e costanti nella fede? Noi attraversiamo alti e bassi, in certi momenti siamo coscienti della presenza di Dio, che Dio è un compagno di cammino, in altri ce ne dimentichiamo. Si può aspirare a una stabilità in una materia come quella della fede? Sì, è vero, ci sono alti e bassi. In alcuni momenti siamo coscienti della presenza di Dio, altre volte ce ne dimentichiamo. La Bibbia dice che la vita dell’uomo sulla terra è un combattimento, una lotta; vuol dire che tu devi essere in pace e lottare. Preparato per non venir meno, per non abbassare la guardia, e allo stesso tempo godendo delle cose belle che Dio ti dà nella vita. Bisogna stare in guardia, senza essere né disfattisti né pessimisti. Come essere costanti nella fede? Se non ti rifiuti di sentirla, la troverai molto vicina, dentro al tuo cuore. Poi, un giorno potrà capitare che tu non senta un bel niente. Eppure la fede c’è, è lì, no? Occorre abituarsi al fatto che la fede non è un sentimento. A volte il Signore ci dà la grazia di sentirla, ma la fede è qualcosa di più. La fede è il mio rapporto con Gesù Cristo, io credo che Lui mi ha salvato. Questa è la vera questione riguardo alla fede. Mettiti a cercare tu quei momenti della tua vita dove sei stato male, dove eri perso, dove non ne azzeccavi una, e osserva come Cristo ti ha salvato. Afferrati a questo, questa è la radice della tua fede. Quando ti dimentichi, quando non senti niente, afferrati a questo, perché è questa la base della tua fede. E sempre con il Vangelo in mano. Portati sempre in tasca un piccolo Vangelo. Tienilo in casa tua. Quella è la Parola di Dio. È da lì che la fede prende il suo nutrimento. Dopotutto la fede è un regalo, non è un atteggiamento psicologico. Se ti fanno un regalo ti tocca riceverlo, no? Allora, ricevi il regalo del Vangelo, e leggilo. Leggilo e ascolta la Parola di Dio. La sua vita è stata intensa, ricca. Anche noi vogliamo vivere una vita piena, intensa. Como si fa a non vivere inutilmente? E come fa uno a sapere che non vive inutilmente? Beh, io ho vissuto molto tempo inutilmente, eh? In quei momenti la vita non è stata tanto intensa e tanto ricca. Io sono un peccatore come qualunque altro. Solamente che il Signore mi fa fare cose che si vedono; ma quante volte c’è gente che fa il bene, tanto bene, e non si vede. L’intensità non è direttamente proporzionale a quello che vede la gente. L’intensità si vive dentro. E si vive alimentando la stessa fede. Come? Facendo opere feconde, opere d’amore per il bene della gente. Forse il peggiore dei peccati contro l’amore è quello di disconoscere una persona. C’è una persona che ti ama e tu la rinneghi, la tratti come se non la conoscessi. Lei ti sta amando e tu la respingi. Chi ci ama più di tutti è Dio. Rinnegare Dio è uno dei peggiori peccati che ci siano. San Pietro commise proprio questo peccato, rinnegò Gesù Cristo… e lo fecero Papa! Allora io cosa posso dire?! Niente! Per cui, avanti! Lei ha attorno a sé persone che non sono d’accordo con quello che fa e che dice? Sì, certo. Come si comporta con loro? Ascoltare le persone, a me, non ha mai fatto male. Ogni volta che le ho ascoltate, mi è sempre andata bene. Le volte che non le ho ascoltate mi è andata male. Perché anche se non sei d’accordo con loro, sempre - sempre! - ti danno qualcosa o ti mettono in una situazione che ti spinge a ripensare le tue posizioni. E questo ti arricchisce. È il modo di comportarsi con quelli con cui non siamo d’accordo. Ora, se io non sono d’accordo con qualcuno, smetto di salutarlo, gli chiudo la porta in faccia, non lo lascio parlare, e non gli domando le ragioni del disaccordo, evidentemente mi impoverisco da solo. Dialogando, ascoltando, ci si arricchisce. La moda di oggi spinge i ragazzi verso rapporti virtuali. Anche nella villa è così. Come fare perché escano dal loro mondo di fantasia? Come aiutarli a vivere la realtà e i rapporti veri? Io distinguerei il mondo della fantasia dalle relazioni virtuali. A volte i rapporti virtuali non sono di fantasia, sono concreti, sono di cose reali e molto concrete. Ma evidentemente la cosa desiderabile è il rapporto non virtuale, cioè il rapporto fisico, affettivo, il rapporto nel tempo e nel contatto con le persone. Io credo che il pericolo che corriamo ai nostri giorni è dato dal fatto che disponiamo di una capacità molto grande di riunire informazioni, dal fatto insomma di poterci muovere in una serie di cose virtualmente, ed esse ci possono trasformare in “giovani-museo”. Un “giovane-museo” è molto ben informato, ma cosa se ne fa di tutto quello che sa? La fecondità, nella vita, non passa per l’accumulo di informazioni o solamente per la strada della comunicazione virtuale, ma nel cambiare la concretezza dell’esistenza. Ultimamente vuol dire amare. Tu puoi amare una persona, ma se non le stringi la mano, o non le dai un abbraccio, non è amore; se ami qualcuno al punto di volerlo sposare, vale a dire, se vuoi consegnarti completamente, e non lo abbracci, non gli dai un bacio, non è vero amore. L’amore virtuale non esiste. Esiste la dichiarazione di amore virtuale, ma il vero amore prevede il contatto fisico, concreto. Andiamo all’essenziale della vita, e l’essenziale è questo. Dunque, non “giovani-museo” informati solo virtualmente delle cose, ma giovani che sentano e che con le mani - e qui sta il concreto - portino avanti le cose della loro vita... Mi piace parlare dei tre linguaggi: il linguaggio della testa, il linguaggio del cuore e il linguaggio delle mani. Ci deve essere armonia tra i tre. In modo tale che tu pensi quello che senti e quello che fai, senti quello che pensi e quello che fai, e fai quello che senti e quello che pensi. Questo è il concreto. Restare solamente nel piano virtuale è come vivere in una testa senza corpo. C’è qualcosa che vuol suggerire ai governanti argentini in un anno di elezioni? Primo, che propongano una piattaforma elettorale chiara. Che ognuno dica: noi, se andremo al governo, faremo questo e quest’altro. Molto concreto! La piattaforma elettorale è qualcosa di molto sano; aiuta la gente a vedere quello che ognuno pensa. C’è un aneddoto raccontato da dei giornalisti furbetti che si riferisce ad una delle elezioni di molti anni fa. Più o meno alla stessa ora questi giornalisti si sono incontrati con tre candidati. Non ricordo bene se erano candidati a deputati o a sindaci. E chiesero a ognuno di loro: lei cosa pensa riguardo a questa cosa? Ciascuno ha detto quello che pensava e ad uno di loro un giornalista disse: «Ma quello che lei pensa non è la stessa cosa che pensa il partito che lei rappresenta! Guardi la piattaforma elettorale del suo partito». Per dire che a volte gli stessi candidati non conoscono la piattaforma elettorale del proprio raggruppamento. Un candidato deve presentarsi alla società con una piattaforma elettorale chiara, ben pensata. Dicendo «Se io verrò eletto deputato, sindaco, governatore, farò “questo”, perché penso che “questo” è quello che deve essere fatto». Secondo, onestà nella presentazione della propria posizione. Terzo - è una delle cose che dobbiamo raggiungere, speriamo che ci si riesca - una campagna elettorale di tipo gratuito, non finanziata. Perché nel finanziamento della campagna elettorale entrano in gioco molti interessi che poi ti chiedono il conto. Quindi essere indipendenti da chiunque mi possa finanziare la campagna elettorale. Evidentemente è un ideale, perché sempre c’è bisogno di soldi per i manifesti, per la televisione… In ogni caso che il finanziamento sia pubblico. Io, come cittadino, so che finanzio questo candidato con questa precisa somma di denaro. Che tutto sia trasparente e pulito. Quando verrà in Argentina? In linea di massima, nel 2016, ma non c’è ancora niente di sicuro perché bisogna trovare l’incastro con altri viaggi in altri Paesi. Per televisione sentiamo notizie che ci preoccupano e ci addolorano; che ci sono fanatici che la vogliono uccidere. Non ha paura? E noi che le vogliamo bene che cosa possiamo fare? Guarda, la vita è nelle mani di Dio. Io ho detto al Signore: Tu prenditi cura di me. Ma se la tua volontà è che io muoia o che mi facciano qualcosa, ti chiedo un solo favore: che non mi faccia male. Perché io sono molto fifone per il dolore fisico.

Pag 8 Porta aperta Messa a Santa Marta

«Chiedere perdono non è un semplice chiedere scusa». E non è facile, così come «non è facile ricevere il perdono di Dio: non perché lui non voglia darcelo, ma perché noi chiudiamo la porta non perdonando» gli altri. Nell’omelia della messa a Santa Marta di martedì 10 marzo, Papa Francesco ha aggiunto un tassello alla riflessione sul cammino penitenziale che caratterizza la quaresima: il tema del perdono. La riflessione è partita dal brano della prima lettura, tratto dal libro del profeta Daniele (3, 25.34-43), nel quale si legge del profeta Azaria che «era nella prova e ricordò la prova del suo popolo, che era schiavo». Ma, ha puntualizzato il Pontefice, il popolo «non era schiavo per caso: era schiavo perché aveva abbandonato la legge del Signore, perché aveva peccato». Perciò Azaria prega così: «Non ci abbandonare fino in fondo, per amore del tuo nome! Non ritirare da noi la tua misericordia! Noi siamo diventati più piccoli, abbiamo peccato. Oggi siamo umiliati. Oggi chiediamo misericordia». Azaria, cioè, «si pente. Chiede perdono del peccato del suo popolo». Il profeta, quindi, «nella prova non si lamenta davanti a Dio», non dice: «Ma tu sei ingiusto con noi, guarda cosa ci accade adesso...». Egli afferma invece: «Abbiamo peccato e noi meritiamo questo». Ecco il dettaglio fondamentale: Azaria «aveva il senso del peccato». Il Papa ha poi fatto notare anche che Azaria non dice al Signore: «Scusa, abbiamo sbagliato». Infatti «chiedere perdono è un’altra cosa, è un’altra cosa che chiedere scusa». Si tratta di due atteggiamenti differenti: il primo si limita alla richiesta di scuse, il secondo implica il riconoscimento di aver peccato. Il peccato infatti «non è un semplice sbaglio. Il peccato è idolatria», è adorare i «tanti idoli che noi abbiamo»: l’orgoglio, la vanità, il denaro, il «me stesso», il benessere. Ecco perché Azaria non chiede semplicemente scusa, ma «chiede perdono». Il brano liturgico del Vangelo di Matteo (18, 21-35) ha quindi portato Francesco ad affrontare l’altra faccia del perdono: dal perdono chiesto a Dio al perdono dato ai fratelli. Pietro pone una domanda a Gesù: «Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?». Nel Vangelo «non sono tanti i momenti in cui una persona chiede perdono» ha spiegato il Papa, ricordando alcuni di questi episodi. C’è, ad esempio, «la peccatrice che piange sui piedi di Gesù e bagna i piedi con le sue lacrime, li asciuga con i suoi capelli»: in quel caso, ha detto il Pontefice, «quella donna ha peccato molto, ha amato molto e chiede perdono». Poi si potrebbe ricordare l’episodio in cui Pietro, «dopo la pesca miracolosa, dice a Gesù: “Allontanati da me, ché io sono un peccatore”»: lì però lui «si accorge che non ha sbagliato, che c’è un’altra cosa dentro di lui». Ancora, si può ripensare a «quando Pietro piange, la notte del giovedì santo, quando Gesù lo guarda». In ogni caso, sono «pochi i momenti in cui si chiede perdono». Ma nel brano proposto dalla liturgia Pietro chiede al Signore quale deve essere la misura del nostro perdono: «Sette volte, soltanto?». All’apostolo «Gesù risponde con un gioco di parole che significa “sempre”: settanta volte sette, cioè tu devi perdonare sempre». Qui, ha sottolineato Francesco, si parla di «perdonare», non semplicemente di una richiesta di scuse per uno sbaglio: perdonare «a quello che mi ha offeso, che mi ha fatto del male, a quello che con la sua malvagità ha ferito la mia vita, il mio cuore». Ecco allora la domanda per ciascuno di noi: «Qual è la misura del mio perdono?». La risposta può venire dalla parabola raccontata da Gesù, quella dell’uomo «al quale è stato perdonato tanto, tanto, tanto, tanti soldi, tanti, milioni», e che poi, ben «contento» del suo perdono, esce e «trova un compagno che forse aveva un debito di 5 euro e lo manda in carcere». L’esempio è chiaro: «Se io non sono capace di perdonare, non sono capace di chiedere perdono». Perciò «Gesù ci insegna a pregare così, il Padre: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”». Che cosa significa in concreto? Papa Francesco ha risposto immaginando il dialogo con un penitente: «Ma, padre, io mi confesso, vado a confessarmi... - E che fai, prima di confessarti? - Ma, io penso alle cose che ho fatto male - Va bene -. Poi chiedo perdono al Signore e prometto di non farne più... - Bene. E poi vai dal sacerdote?». Ma prima «ti manca una cosa: hai perdonato a quelli che ti hanno fatto del male?». Se la preghiera che ci è stata suggerita è: «Rimetti i nostri debiti come noi li rimettiamo agli altri», sappiamo che «il perdono che Dio ti darà» richiede «il perdono che tu dai agli altri». In conclusione Francesco ha così riassunto la meditazione: innanzitutto, «chiedere perdono non è un semplice chiedere scusa» ma «è essere consapevoli del peccato, dell’idolatria che io ho fatto, delle tante idolatrie»; in secondo luogo, «Dio sempre perdona, sempre», ma richiede anche che io perdoni, perché «se io non perdono», in un certo senso è come se chiudessi «la porta al perdono di Dio». Una porta invece che dobbiamo mantenere aperta: lasciamo entrare il perdono di Dio affinché possiamo perdonare gli altri.

CORRIERE DELLA SERA Pag 23 “La Cina pretende dal Vaticano una resa incondizionata” di Guido Santevecchi Il cardinale di Hong Kong Zen Ze-kiun: in Curia non conoscono il regime

Hong Kong. Ha 83 anni il cardinale emerito di Hong Kong Joseph Zen Ze-kiun, ma all’appuntamento arriva a passo spedito, in anticipo: «Vengo dal carcere, sa io sono anche cappellano dei detenuti». Va subito dritto al punto: i contatti tra governo di Pechino e Santa Sede, che non hanno relazioni diplomatiche dal 1951. Come ha rivelato ieri il Corriere, la Segreteria di Stato ha ricevuto «un rilancio», dopo le aperture del Papa. L’architetto di questa nuova fase è il Segretario di Stato Pietro Parolin. Joseph Zen è contrario: «In Vaticano non capiscono e non ascoltano». Che cosa non capiscono a Roma? «In Curia gli italiani non conoscono la dittatura cinese perché non hanno mai provato che cosa è il regime comunista. Avevo sempre avuto fiducia in Parolin, fino a quando non ho saputo che anche lui era a favore di un accordo che in questa fase sarebbe solo una resa incondizionata». Ma negli ultimi mesi la Cina ha segnalato una nuova disponibilità, si è parlato di un’offerta sul nodo della nomina dei vescovi. «A Pechino non c’è volontà di dialogo, mi risulta che nei colloqui i loro delegati mettano sul tavolo un documento da firmare e i nostri non abbiano la possibilità e la forza di fare proposte diverse. Vogliamo sacrificare la nomina e la consacrazione dei vescovi per un dialogo fasullo». La proposta fatta filtrare dai cinesi sarebbe di dare alla Santa Sede la facoltà di scegliere il vescovo fra due candidati proposti dall’Amministrazione statale per gli affari religiosi di Pechino. «In Cina ci sono ancora due vescovi in carcere, molto anziani, uno forse è morto dopo anni di detenzione e non lo dicono, lasciano anche la sua famiglia nel dubbio. Parlo del vescovo Shi Enxiang, imprigionato per la sua fedeltà alla Santa Sede. Avrebbe 93 anni monsignor Shi. A febbraio il capo comunista del suo villaggio è andato a chiedere alla famiglia se avevano ricevuto il corpo, poi altri invece sono venuti a dire che quel funzionario era ubriaco e che del vescovo non si sapeva nulla». Quindi che cosa si dovrebbe fare? «Bisognerebbe battere i pugni sul tavolo, rafforzare la nostra Chiesa cattolica e il nostro clero in Cina, perché quando i nostri stanno uniti i funzionari del regime hanno paura, sono terrorizzati dalla prospettiva di avere problemi con i loro superiori, perché ogni capo politico in Cina è al tempo stesso imperatore e schiavo: può schiacciare chi gli sta sotto ma teme chi gli sta sopra». Ma il dialogo è meglio dello scontro senza sbocchi. «Quelli che discutono per conto della Curia non sanno nemmeno bene chi sono i rappresentanti cinesi di fronte a loro: uomini del vecchio presidente Jiang Zemin o scelti da Xi Jinping? Non è un fattore secondario, tra le due fazioni a Pechino è in corso una lotta mortale. Comunque i delegati cinesi sono come un grammofono: ripetono sempre la stessa lezione e chiedono di firmare. Ma poi, in Vaticano c’è la Commissione per la Chiesa cattolica in Cina, inutilizzata ormai da più di un anno. È morta? Se non ci dicono niente è mancanza di rispetto». Ha parlato con il Papa? «L’ho incontrato per tre quarti d’ora faccia a faccia. Sa come mi ha accolto? “Ah, Zen, quello che combatte con una fionda”. Ha detto cose molto belle e con me ha mostrato fiducia completa. Il Papa non è un ingenuo, in queste condizioni non cederà». Ma se invece ora il Papa le chiedesse di tacere? «Risponderei ricordandogli che lui a Buenos Aires diceva messa in piazza, faceva comizi sul marciapiede, era formidabile». Per non rovinare i nuovi contatti con Pechino il Papa non ha ricevuto il Dalai Lama. «Gli hanno fatto fare un grosso errore che non serve a niente, dimostra solo paura e i comunisti quando vedono che hai paura ti schiacciano. Invece bisogna incoraggiarli a essere coraggiosi i nostri perseguitati in Cina. Quelli che a Roma hanno l’ansia di riuscire a ogni costo vanno verso un compromesso che è una resa incondizionata, quello che vuole Pechino».

Pag 23 Francesco intervistato dal giornale delle favelas. Le domande dei fedeli raccolte con i bigliettini di G.G.V. L’annuncio del Papa: “In Argentina nel 2016”

Città del Vaticano. La prospettiva di Magellano. «Una cosa è osservare la realtà dal centro e un’altra è guardarla dall’ultimo posto dove tu sei arrivato. Un esempio: l’Europa vista da Madrid nel XVI secolo era una cosa, però quando Magellano arriva alla fine del continente americano, guarda all’Europa dal nuovo punto raggiunto e capisce un’altra cosa. La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro». Il Papa venuto «quasi dalla fine del mondo», a due anni dall’elezione, ha concesso una intervista ai ragazzi della rivista La Cárcova news: scelta significativa, perché La Cárcova è una delle villas miserias nei sobborghi della Grande Buenos Aires, una bidonville nata cinquant’anni fa intorno all’ultima stazione della ferrovia. È stato José María Di Paola, «padre Pepe», discepolo di Bergoglio che fu minacciato di morte da narcotrafficanti, a portare il mese scorso a Francesco le domande raccolte tra la gente della baraccopoli e a registrarne le risposte. Un’idea nata a gennaio alla fine di una processione religiosa, durante la festa popolare. «C’è di mezzo anche qualche bicchiere di vino, a volerla dire tutta, che nella giusta misura stimola le idee ardite», racconta su terredamerica.com il giornalista Alver Metalli, ispiratore del «giornale di strada». A gennaio la parrocchia organizza i campeggi estivi, bambini e adulti scrivono e raccolgono le domande, «di bigliettini ne sono arrivati un buon numero». Questioni che guardano alle urgenze del quotidiano. Come quando, in piena campagna elettorale, chiedono al Papa suggerimenti per i governanti: «Primo, che propongano una piattaforma elettorale chiara. Che ognuno dica: noi, se andremo al governo, faremo questo e quest’altro. Molto concreto!», spiega Francesco. Ci vuole «onestà nella presentazione della propria posizione». E soprattutto «una campagna elettorale di tipo gratuito, non finanziata», aggiunge: «Nel finanziamento della campagna entrano in gioco molti interessi che poi ti chiedono il conto. Quindi essere indipendenti da chiunque mi possa finanziare la campagna elettorale. Evidentemente è un ideale, perché sempre c’è bisogno di soldi per i manifesti, la televisione... In ogni caso che il finanziamento sia pubblico. Io, come cittadino, so che finanzio questo candidato con questa precisa somma di denaro. Che tutto sia trasparente e pulito». Bergoglio parla anche di droga: «Ci sono Paesi che ormai ne sono schiavi. Quello che mi preoccupa di più è il trionfalismo dei trafficanti». La cosa più importante da dare ai figli? «L’appartenenza a un focolare. L’appartenenza si dà con l’amore, l’affetto, il tempo, prendendoli per mano, giocando...». Poi ripete: «Mi addolora molto incontrare un bimbo che non sa fare il segno della croce. Vuol dire che non gli è stata data la cosa più importante: la fede». Bergoglio andrà in Argentina «in linea di massima nel 2016» anche se «non c’è ancora niente di sicuro». Alla fine gli domandano se non tema che dei fanatici lo uccidano. «Guarda, la vita è nelle mani di Dio», dice. «Io ho detto al Signore: Tu prenditi cura di me. Ma se la tua volontà è che io muoia o che mi facciano qualcosa, ti chiedo un solo favore: che non mi faccia male. Perc hé io sono molto fifone per il dolore fisico».

IL RESTO DEL CARLINO “Padre, devo confessarmi”. Ma ora ci vuole l'appuntamento di Laura Alari

Hai bisogno di confessarti? Ci vuole l'appuntamento. Desideri ricevere la benedizione pasquale della tua casa? Occorre prenotare. Vuoi sposarti o far battezzare il tuo bambino? Ogni sacramento ha la sua tariffa, basta informarsi. È la Chiesa moderna, ben diversa rispetto a quella che molti di noi frequentavano da ragazzi. A quei tempi il rapporto con la parrocchia incuteva quasi timore, per quanto aperto e amichevole si manifestasse il sacerdote. Confessarsi con regolarità rientrava fra i doveri elencati in preparazione alla prima comunione e per le cerimonie di ogni tipo, dal matrimonio al funerale, era gradita un' offerta ma nessun prete avrebbe mai osato stabilire la cifra. L'arrivo del parroco in casa con l'acquasanta, poi, si viveva come un evento tanto impegnativo quanto emozionante. Si cominciava con le pulizie straordinarie, non a caso dette pasquali, e il giorno stabilito guai a chi non si faceva trovare vicino alla porta d'ingresso (unico esentato il capofamiglia per motivi di lavoro). Tutti in fila, puliti, pettinati e con il vestito buono, in atteggiamento rispettoso e a mani giunte per recitare le preghiere mentre la mamma faceva scivolare nella tasca del chierichetto la busta con l'obolo. Oggi, per confessarsi, la maggior parte delle parrocchie fissa giorni e orari prestabiliti. E spesso, anche in quei giorni e in quegli orari, devi rincorrere il curato in casa o in sacrestia. Senza contare che se in contemporanea si svolge un funerale o un matrimonio, inevitabilmente si va al turno della settimana successiva. Certo, di fronte a un'urgenza basta telefonare e fissare un appuntamento: bene o male la Chiesa resta pur sempre il pronto soccorso dell'anima. È cambiato solo il concetto di accoglienza, nei tempi e nei modi. «Cambiato in meglio, secondo me, compatibilmente con i nostri impegni che rispetto a dieci o vent'anni fa si sono moltiplicati» osserva don Aldo Calanchi, parroco del Corpus Domini a Bologna. «Ormai solo nei santuari o nelle cattedrali si trovano sacerdoti sempre pronti all' ascolto, nelle parrocchie comuni non è più possibile perché la confessione è una cosa seria che non si può fare in cinque minuti, ci vogliono tempo e molta attenzione. Invece di star lì ad aspettare tutti i sabati pomeriggio e poi magari non arriva nessuno, noi abbiamo stabilito sei giorni all' anno, in corrispondenza degli eventi più importanti, con tre sacerdoti a disposizione dalla mattina alla sera. Ma se qualcuno sente l'esigenza forte di confessarsi subito, basta che mi telefoni e ci incontriamo prima possibile». Incontro, appunto. Non si parla più inginocchiati al confessionale ma seduti uno di fronte all'altro e se questo ha un significato preciso, talvolta può creare imbarazzo soprattutto ai fedeli delle vecchie generazioni. «Io la trovo una cosa bellissima perché si stabilisce una comunicazione più diretta e meno anonima, un'atmosfera più intima. E chi si sente a disagio può chiedere tranquillamente di tornare al metodo tradizionale, i confessionali con la grata sono sempre al loro posto» ride don Aldo. Anche la benedizione di Pasqua ultimamente è diventata un'optional. Nella parrocchia di Sant'Ambrogio, a Firenze, don Carlo ha appeso il calendario in fondo alla chiesa ma chi desidera la sua visita deve richiederla compilando un apposito modulo. Altri consegnano la bottiglietta con l'acquasanta perché ognuno benedica da solo la propria casa. Altri ancora la impartiscono solo ogni due anni. Come don Massimiliano Gabbricci, parroco dell'Immacolata con San Martino a Montughi a Firenze: «Abbiamo 11mila parrocchiani e un'area vastissima che comprende strade difficilmente percorribili, l'unico modo per garantire a tutti la benedizione era dividerli a metà». Sì, perché lui parte ogni volta con l'intenzione di raggiungere ogni famiglia: «Suoniamo alla porta sulla strada e poi, salendo ai piani, entriamo solo dove ci aprono. Così ci mettiamo a disposizione ma ognuno è libero di scegliere». Nella sua chiesa anche le offerte sono sempre libere, ma abbondano i casi opposti. Il più clamoroso in provincia di Pistoia dove un anno fa il parroco aveva imposto richieste economiche in occasione di matrimoni, battesimi e funerali. I fedeli si ribellarono scrivendo in Vaticano e il tariffario sparì dopo l'intervento del Papa. Il primo di una lunga serie, se non proprio a gamba tesa poco ci manca.

IL FOGLIO Pag 2 Porporati tedeschi agli stracci: "Quelle di Marx sono chiacchiere da bar" di Matteo Matzuzzi

Roma. "Il cardinale Marx ha dichiarato lapidario: 'Non siamo una filiale di Roma. Ogni conferenza episcopale è responsabile per la pastorale all'interno della propria sfera culturale e ha il compito peculiare di annunciare il Vangelo'. Da persona che si occupa di etica sociale, il cardinale Marx s'intende di indipendenza delle filiali delle grandi aziende. Ma nel contesto della chiesa, dichiarazioni di questo tipo appartengono piuttosto a discorsi da bar". A parlare così è un cardinale di santa romana chiesa, Paul Josef Cordes, presidente emerito del Pontificio consiglio Cor Unum. Tedesco come Marx, ha preso carta e penna e ha inviato al giornale Tagespost una lunga lettera in cui contesta "le dichiarazioni non confermate ma neppure smentite della Conferenza episcopale tedesca". Si riferisce, Cordes, alle frasi dell'arcivescovo di Monaco e Frisinga sulle aspettative della chiesa di Germania riguardo il prossimo Sinodo ordinario di ottobre. Marx aveva chiarito che, qualunque fosse stato l'esito dell'assise convocata dal Papa, i vescovi tedeschi sarebbero andati avanti nell'aprire le porte dell'eucaristia a divorziati e risposati e a rivoluzionare la teologia del matrimonio: "La frase 'non possiamo aspettare fino a quando un Sinodo ci dirà come dobbiamo organizzare, qui, una pastorale sul matrimonio o sulla famiglia' non è ispirata dallo spirito ecclesiastico della comunione. L'eccitazione antiromana - aggiunge il prelato - non è un'invenzione a tavolino, bensì una realtà con forza centrifuga alle latitudini settentrionali. Per l'unità della fede, essa è comunque altamente distruttiva". Reinhard Marx, nel suo intervento, aveva spiegato che in Germania si attendono risultati concreti e importanti dal Sinodo: "Già questo è sorprendente", ribatte Cordes, che ha aggiunto: "In un sondaggio della Fondazione Bertelsmann è risultato che solo il 16,2 per cento dei cattolici della Germania occidentale crede in Dio. Tutti gli altri equiparano Dio a una Provvidenza senza volto, a un destino anonimo, a una forza primordiale. O semplicemente lo negano. Insomma, non abbiamo alcun motivo di metterci in mostra per la nostra fede di fronte alle chiese degli altri paesi". Non sorprendono - ha detto ancora il cardinale - "soltanto le particolari attestazioni di valore che all'interno del mondo cattolico sembrerebbero essere riservate alla chiesa tedesca. Ancora di più irritano le indeterminatezze e le dichiarazioni teologiche del presidente della conferenza episcopale". Ma cosa vorrà mai intendere, Marx, con "la competenza per la pastorale all'interno della propria sfera culturale?", si domanda Cordes. "Su questioni come una nuova edizione del Gotteslob (il libro comune di inni e preghiere in uso nelle diocesi cattoliche di lingua tedesca, ndt) o su decisioni che riguardano il tracciato del pellegrinaggio ad Altötting, è già riconosciuta la competenza della presidenza della Conferenza episcopale tedesca. Pare diverso, invece, per quel che riguarda il dibattito sui problemi dei divorziati risposati. Questa materia è legata al cuore della teologia". E qui "neanche un cardinale può separare, con un colpo di mano, la pastorale dalla dottrina. Sarebbe come volersi porre al di là del vincolante significato delle fede della parola di Gesù e delle altrettanto vincolanti dichiarazioni del Concilio di Trento". Il problema, chiarisce il presidente emerito di Cor Unum, "è che Marx non è solo. Il presidente della commissione pastorale della conferenza, mons. Franz- Josef Bode, gli è corso in aiuto con la pretesa che pastorale e dottrina debbano stimolarsi a vicenda. Si tratta di una visione 'di importanza storica', che lui stesso definisce addirittura come 'un cambio di paradigma'. Per dire ciò, scomoda persino la costituzione pastorale del Concilio Gaudium et spes, in cui s'afferma che 'non c'è nulla di veramente umano che non abbia eco nel suo cuore (di Cristo)'. Da queste premesse prosegue: 'Non soltanto il messaggio cristiano deve trovare risonanza negli uomini, ma gli uomini devono trovare risonanza presso di noi. In che rapporto la dottrina della chiesa sta ancora oggi con la vita quotidiana degli uomini? Includiamo a sufficienza nella dottrina l' esperienza concreta degli uomini?'. Ma il tentativo di trarre contenuti di fede dall' esperienza di vita degli uomini non è così nuovo come qui viene fatto credere e non può neppure reclamare il termine 'cambio di paradigma'".

LA NUOVA Pag 11 Messaggio sul lavoro dai vescovi triveneti Sarà pronto per il Primo Maggio. A Verona due giorni dedicati anche ai media ecclesiali: “Da rilanciare”

Verona. La presenza della Chiesa sul territorio, le questioni del lavoro in un tempo di grandi cambiamenti, la situazione dei media ecclesiali nel Nordest: sono stati questi alcuni dei numerosi temi al centro dei lavori nel periodico incontro dei vescovi del Triveneto che si sono ritrovati lunedì e ieri a Verona, come informa un comunicato diffuso dagli stessi vescovi. Nell'ambito della riunione, infatti, i vescovi hanno ripreso l’analisi di quanto emerso nella recente "due giorni" svoltasi lo scorso gennaio a Cavallino e che aveva affrontato le nuove forme di organizzazione, presenza e azione della Chiesa particolare sul territorio, con tutte le relative opportunità e dinamiche. I vescovi del Triveneto hanno, poi, stabilito di approntare una nota sul tema “Lavoro in tempo di cambiamenti. La Chiesa vicina” che uscirà intorno al Primo Maggio. L’intento sarà quello di «attirare l’attenzione su alcuni aspetti strutturali di questo cambio d’epoca, offrendo alcuni criteri per un discernimento etico ed antropologico sul tema del lavoro, fondati sulla parola del Vangelo e sulla dottrina sociale della Chiesa». Proseguendo il permanente contatto, ascolto e dialogo con le varie Commissioni regionali, che operano nei diversi ambiti, i vescovi hanno quindi incontrato alcuni rappresentanti della commissione che si occupa di comunicazioni sociali e che ha illustrato un quadro complessivo ed aggiornato sulla realtà dei media ecclesiali attivi nel Nordest. È stato rilevato dai membri della commissione che la presenza dei media, gestiti direttamente dalle diocesi o ad esse collegati, è «ancora particolarmente vivace in Triveneto, nonostante tutte le difficoltà legate alla loro gestione». Si è fatto così il punto della situazione su tv, radio, cinema, sale parrocchiali, internet (rilevando, tra l'altro, la qualità definita «medio-alta» dei siti diocesani). Una specifica relazione ha riguardato lo stato dei settimanali diocesani dell'intera area: sono state evidenziate le «sofferenze» esistenti in parecchie realtà a causa soprattutto della diminuzione di pubblicità, vendite, abbonamenti e contributi pubblici più i ritardi nei recapiti postali e in un contesto generale di crisi e difficoltà per tutto il mondo dell'editoria. Ma non si è mancato di rilevare che le 114.500 copie diffuse settimanalmente (in media) dalle 18 testate del Triveneto, con un insieme complessivo di quasi mezzo milione di lettori «rappresentano – dice la nota – un patrimonio da non trascurare: sono un'importante voce delle Chiese locali e un importante strumento di collegamento, condivisione di esperienze, di costruzione di un cammino di Chiesa e di opinione». Al termine del dibattito che ne è seguito, i vescovi del Triveneto hanno sollecitato la Commissione regionale per le comunicazioni sociali ad elaborare alcune precise linee progettuali e di “strategia” con l’obiettivo di indicare strade e ipotesi di lavoro percorribili «per il rilancio complessivo dei media ecclesiali ed una loro azione più incisiva – conclude il comunicato dei vescovi del Triveneto – in base alle quali continuare la riflessione comune e favorire così scelte e decisioni in tale ambito».

WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT L'ora dell'Africa di Sandro Magister Ha il più alto numero di convertiti alla fede cattolica. E ha anche il più alto numero di martiri. Come agli albori del cristianesimo. Passato e presente di un continente che ha sempre più peso nella Chiesa mondiale

È il continente con il più alto numero di convertiti e di martiri. Eppure è anche il più trascurato e sottovalutato, da parte della vecchia cristianità occidentale. O almeno, lo era fino a una stagione fa. Perché da quando la spada dell'islam si è fatta più feroce e non solo miete vittime in Africa, sopra e sotto il Sahara, ma estende la minaccia alla sponda nord del Mediterraneo, l'attenzione al cattolicesimo africano si è fatta ovunque più acuta e angosciata. Non solo. L'Africa è la grande sorpresa anche negli equilibri mondiali della gerarchia cattolica. Il sinodo dello scorso ottobre ne è stata la prova clamorosa. Partito con marcata impronta eurocentrica, in primo luogo tedesca, si è trovato la strada sbarrata dall'inattesa resistenza dei vescovi africani a qualsiasi cambiamento della dottrina e della prassi in materia di matrimonio indissolubile e di omosessualità. E ancor più agguerrita si prevede questa resistenza nella prossima tornata del sinodo, a giudicare da quanto anticipato da un loro cardinale dei più autorevoli, il guineano Robert Sarah, prefetto della congregazione per il culto divino, nel libro-intervista "Dieu ou rien", curato da Nicolas Diat e pubblicato in Francia dalle edizioni Fayard: "L’idea di mettere il magistero in una graziosa scatola separandolo dalla pratica pastorale – la quale può evolvere a seconda delle circostanze, delle mode e delle passioni – è una forma di eresia, di patologica schizofrenia. Io affermo solennemente che la Chiesa d’Africa si opporrà a ogni forma di ribellione contro il magistero di Cristo e della Chiesa". E ancora: "Come accettare che dei pastori cattolici mettano ai voti la dottrina, la legge di Dio e l'insegnamento della Chiesa sull'omosessualità, sui divorziati risposati, come se la Parola di Dio e il magistero dovessero essere ratificati, approvati con il voto di una maggioranza? […] Nessuno, neanche il papa, può distruggere o cambiare l'insegnamento di Cristo. Nessuno, neanche il papa, può opporre la pastorale alla dottrina. Significherebbe ribellarsi contro Gesù Cristo e il suo insegnamento". Il cattolicesimo africano è considerato giovane – e quindi acerbo, immaturo – perché cresciuto solo nell'ultimo secolo, da un milione che erano i cattolici all'inizio del Novecento ai quasi duecento milioni di oggi. Eppure basta il sangue dei martiri a smentire questa sua presunta immaturità, non ultimi i ventuno cristiani copti decapitati "in odium fidei" da musulmani sulle rive libiche del Mediterraneo (San Milad Saber e i suoi venti compagni). Ma poi c'è il fatto che le radici cristiane dell'Africa sono antiche, antichissime. La sponda africana del Mediterraneo e la valle del Nilo fino all'Etiopia sono state tra le prime direttrici d'espansione del cristianesimo. Erano africani i primi martiri di cui si sono narrate le storie. Erano africani – come Agostino – alcuni tra i più grandi padri e dottori della Chiesa dei primi secoli. L'articolo che segue – uscito su "Il Foglio" del 7 marzo – aiuta a capire il cattolicesimo africano di oggi inquadrandolo nel suo sfondo storico reale.

UNA CHIESA GIOVANE E ANTICHISSIMA di Matteo Matzuzzi

Farebbe tanto bene “ai cristiani d’Europa prendere coscienza che una parte notevole delle loro radici cristiane latine si trova nel sud del Mediterraneo”, avvertiva quasi profeticamente al principio del terzo millennio l’allora vescovo di Algeri, Henri Teissier. Anche perché, scriveva lo storico francese Claude Lepelley, scomparso un mese fa, “il cristianesimo occidentale non è nato in Europa, ma nel sud del Mediterraneo”. Pare strano a chi pensa che tutto abbia avuto origine con san Benedetto e la sua regola; e che prima di Montecassino e Cluny ci fossero solo i cristiani dati in pasto ai leoni nelle arene dai romani pagani, dopo essere stati sorpresi a pregare il Dio fattosi uomo. Eppure, questa è storia. Dopotutto, le più antiche opere di teologia cristiana composte in latino provengono da Cartagine, non dall’Italia. All’epoca di Tertulliano, infatti, i cristiani della costa settentrionale dell’Africa scrivevano in greco e non in latino. Sarebbe stato proprio lui ad abbandonare la "koiné" di Aristotele per passare alla lingua di Virgilio, sì da raggiungere un pubblico più vasto come si fa oggi con i libretti tascabili a prezzi scontati immessi a getto continuo sul mercato. Un’opera monumentale e complessa, tanto che Tertulliano stesso già sulla Genesi si bloccò, incerto com’era sulla traduzione di "logos": non era convinto che "sermo" fosse termine abbastanza esaustivo. E dall’Africa attraversavano il mare anche le più antiche versioni latine della Bibbia, ben prima che Girolamo la traducesse nella forma tramandata nei secoli e giunta pressoché uguale fin quasi al Vaticano II. Il benedettino Pierre-Maurice Bogaert, cattedra a Lovanio in studi biblici, ne era convinto: “Quando si cominciò a sentirne la necessità, sicuramente dalla metà del II secolo nell’Africa romana, la Bibbia venne tradotta dal greco al latino. Fino a prova contraria, sono per l’origine africana delle traduzioni piuttosto che romana o italiana”. E poi sant’Agostino, il vescovo di Ippona grazie al quale, diceva ancora il vescovo Teissier, “L’occidente latino ha conquistato la sua indipendenza teologica e con ciò anche la sua propria personalità cristiana”. Taluni, aggiungeva, “potrebbero disapprovare questa evoluzione, e preferire la lettura del cristianesimo proposta dai Padri greci. Ma tutti devono riconoscere che l’occidente latino deve soprattutto ad Agostino la sua propria lettura del messaggio biblico”. E anche il monachesimo, in fin dei conti, trova in Africa la sua prima sedimentazione. Sarebbe stato sempre Agostino a organizzare i primi luoghi di vita monastica, a Tagaste, dopo aver scoperto nella biografia di sant’Antonio abate messa a punto da Atanasio lo stile di vita di diversi anacoreti convertiti alla vita ascetica. Meta ideale è il deserto egiziano, “la regione popolata da coloro che per primi avevano messo in atto la rinuncia definitiva alla vita mondana”, ha scritto l’archeologa Francesca Severini: “Qui più che altrove il pellegrino poteva entrare in contatto con quella fede autentica che aveva chiamato Paolo di Tebe, Antonio il Grande, Pacomio e molti altri a ritirarsi in solitudine nel deserto, veri e propri modelli di vita ascetica volta al superamento della dimensione terrena attraverso lo studio delle Sacre Scritture, la preghiera, il digiuno e la penitenza”. Di quegli insediamenti ne sopravvivono ancora molti, compreso il monastero di Santa Caterina, costruito nel VI secolo da Giustiniano nel Sinai meridionale, che pure un generale in pensione egiziano vorrebbe far radere al suolo perché “minaccia la sicurezza nazionale” a causa della presenza di “venticinque monaci ortodossi” tra le sue mura. Quel modo di vivere, inizialmente unica speranza di salvarsi dalle persecuzioni anti cristiane, diventa poi un modello. “Nel corso del IV secolo, personalità di spicco dell’oriente cristiano si recano in occidente diffondendo con le parole e gli scritti i modelli del monachesimo egiziano e incoraggiandone l’imitazione”, aggiunge Severini. “Non c’è da stupirsi dunque se i modelli improntati sul rigoroso ascetismo orientale vengano accolti e assimilati a tal punto da modificare e forgiare le aspirazioni monastiche in occidente”. Un cristianesimo vivace e fecondo, quello delle origini. Al tempo del Concilio di Cartagine, verso l’anno 200, si contano settanta vescovi nell’Africa romana. In Italia, tre. Nel secondo concilio di Cartagine, i vescovi africani sono novanta, mentre a Roma, al sinodo convocato da papa Cornelio, ne erano presenti solo sessanta. Prima, già nel 189, la rilevanza del cristianesimo africano era acclarata dall’elezione a pontefice di Vittore, probabilmente un berbero. Quali fattezze assuma poi il serpente che avrebbe distrutto questa specie di Eden, di cristianesimo vivace e fecondo, è facilmente spiegabile, dicono gli storici più affermati: le dispute dogmatiche, battaglie dai connotati ben poco cristiani su cui la travolgente novità musulmana, poi, avrebbe avuto gioco facile a imporsi. Alla fine del VII secolo, gli Omayyadi compiranno la grande conquista di tutto il nord Africa: l’islam trionfante sul cristianesimo delle Chiese nordafricane divise da sospetti, lotte intestine e reciproche accuse d’eresia. Il seguito è poi una storia di continua lotta per la sopravvivenza, di paria, di dhimmi tollerati nella grande umma rivelata dal profeta Maometto. Una situazione pressoché cristallizzata: “Le nostre Chiese sono modeste e fragili; la partenza di alcune comunità religiose presenti da molto tempo nel Maghreb e la mobilità sempre più rapida dei membri delle parrocchie ci obbligano a contare sempre di più sulla solidarietà delle altre Chiese, soprattutto in termini di preti 'fidei donum' o di congregazioni in particolare africane”, scrivevano nel 2012 i vescovi della conferenza episcopale della regione del nord Africa. Il fatto è, chiosava Teissier, che "noi non facciamo numero. Facciamo segno. Segno dell’amore universale di Dio per tutti gli uomini”. E come segno e presenza vitale bisogna rimanere lì. Lo sa bene il vescovo di Tripoli, Giovanni Martinelli, giunto lì all’indomani della rivoluzione che portò al potere Muammar Gheddafi e che di scappare dall’inferno della capitale libica non ne vuole proprio sapere, anche se ormai è l’unico italiano rimasto: “Resto, devo restare. Bisogna farsi coraggio. In questo momento non ho paura, ma so che arriverà quel momento”. Forse, il vescovo rimasto nella capitale libica con trecento lavoratori filippini ricorda cosa accadde nel 1908 al sacerdote francescano Giustino Pacini, superiore della missione di Derna. Ucciso a pugnalate, da tempo era in conflitto con la comunità musulmana locale perché rivendicava il diritto di difendere la propria attività missionaria. Se necessario, andando fino davanti al sultano di Istanbul. Il cardinale nigeriano Anthony Okogie, settantottenne arcivescovo emerito di Lagos, aveva pronunciato parole simili a quelle del vescovo Martinelli poco dopo le prime stragi di Boko Haram: “Non scapperemo. Difenderemo le nostre chiese e le nostre case. Se servirà sacrificare la vita, lo faremo”. Un refrain, triste, che da un capo all’altro del continente viene scandito da decenni. L’Algeria, con la sua lunga guerra civile ne rappresenta l’esempio più lampante: in quel conflitto ha perso il dieci per cento dei religiosi che erano rimasti lì. Nel 1996 l’arcivescovo di Orano, Pierre-Lucien Claverie, fu freddato da una raffica di mitra, pochi mesi dopo l’eccidio dei sette monaci trappisti di Tibhirine: sequestrati, finirono sotto la mannaia del boia. Le loro teste furono appese a un albero, dei corpi non si seppe più nulla. “Bisogna viverlo come qualcosa di molto bello, di molto grande. Bisogna esserne degni. E la messa che celebreremo per loro non sarà in nero. Sarà in rosso”, disse frère Jean-Pierre, uno dei due superstiti di quella strage, quando un confratello in lacrime venne a riferirgli che i suoi compagni erano tutti morti. “Li abbiamo visti subito come martiri. Il martirio era il compimento di tutto quello che avevamo preparato da molto tempo nelle nostre vite. Eravamo pronti, tutti”, disse qualche anno fa in un’intervista data a Jean-Marie Guénois per "Le Figaro". È la croce del continente, che si trascina fin dai primi secoli dopo la venuta di Cristo. Non a caso, ricordano i vescovi del luogo, i più antichi testi sui martiri cristiani, gli "Acta Martyrum Scillitanorum", sono africani. Si tratta della trascrizione in latino degli atti del processo e della condanna dei membri appartenenti a una comunità cristiana di una città di cui non si sa più nulla avvenuto nell’anno 180. Si tratta dei più antichi documenti di questo genere nella storia della letteratura cristiana. Fu proprio il vescovo Claverie, quasi presentendo il compimento tragico della sua esistenza terrena, a spiegare il senso della fiammella cristiana in terre ostili: “La Chiesa adempie alla sua vocazione e alla sua missione quando è presente nelle divisioni che crocifiggono l’umanità nella sua carne e nella sua unità. Gesù è morto diviso tra il cielo e la terra, con le braccia distese per riunire i figli di Dio dispersi dal peccato che li separa, li isola e li mette gli uni contro gli altri e contro Dio stesso”. Chiesa di minoranza e perseguitata, ma viva. Neppure un anno fa l’Annuario pontificio certificava la crescita esponenziale della presenza cattolica nel continente della speranza. Duecento milioni di fedeli, ritmo inversamente proporzionale al lento e inarrestabile declino dell’Europa cristiana, ma superiore anche all’eterna sfida asiatica, missione di papa Francesco e antico nervo scoperto della Santa Sede. Una Chiesa giovane, quella africana, come ha detto il 2 marzo l’arcivescovo di Rabat e presidente delle conferenze episcopali nordafricane, in visita "ad limina" a Roma: “Sì, siamo per lo più stranieri, spesso di passaggio, ma le nostre chiese sono molto giovani. In Marocco la popolazione conta trentamila persone, ma l’età media dei fedeli è di trentacinque anni”. Già a metà del decennio scorso, la vivacità della chiesa africana aveva investito come un ciclone il Vaticano. Dieci anni fa, si faceva notare come in ventisei anni lì i fedeli fossero triplicati, i sacerdoti aumentati dell’85 per cento, i seminaristi quadruplicati, i vescovi aumentati del 45 per cento. Tanto che si parlò di esportare il clero verso l’Europa sempre più secolarizzata e con le vocazioni al lumicino, quasi un’opera di rievangelizzazione del continente. Un grande cardinale come il già decano emerito del collegio cardinalizio, Bernardin Gantin, primo africano chiamato a ricoprire incarichi di vertice in curia (sarà Paolo VI ad affidargli la segreteria dell’evangelizzazione dei popoli, prima di promuoverlo alla presidenza di Giustizia e pace e di "Cor Unum". Giovanni Paolo II lo nominò successivamente prefetto della congregazione per i vescovi), parlò non a caso di “sacerdoti e religiosi f'idei donum' al contrario. È la bontà della Chiesa in Africa, la missione è un dovere universale”, disse in un’intervista al mensile "30 Giorni" due anni prima della morte, avvenuta nel 2008. Lui che – come rivelò qualche tempo fa il cardinale nigeriano Francis Arinze – quando nel 2002 decise di lasciare l’Urbe alla volta del suo Benin disse che ci tornava “da missionario romano”. Gantin, profeta che aveva vissuto in prima persona i drammi del colonialismo e della delicata decolonizzazione, suggeriva che i giovani e determinati preti usciti dai seminari africani non s’allontanassero troppo dalla madrepatria: “Poi, se il loro vescovo acconsentirà, potrebbero di nuovo tornare in occidente. Quello che bisogna evitare è che i sacerdoti africani, senza il consenso dei propri vescovi, vaghino per le diocesi del mondo occidentale più alla ricerca di un proprio benessere materiale che per un autentico zelo pastorale”. Inoltre, ammoniva le congregazioni religiose “europee agonizzanti o minacciate di estinzione” a “non andare a rinvigorirsi a buon prezzo tra le giovani chiese in Asia o Africa”. Certo, c’è il problema delle liturgie, spesso travolte dallo spirito festoso e allegro di tante realtà sub-sahariane. Ma i primi a porre gli argini sono proprio loro, i vescovi africani, che a differenza di tanti sacerdoti delle parrocchie dell'occidente – soliti gestire le liturgie come farebbe un animatore turistico in un villaggio estivo – al culto del mistero ci tengono. Diceva Gantin: “Non bisogna mai staccarsi dal magistero della chiesa universale. E le nostre messe non devono essere troppo particolare. Non devono essere comprese solo da noi africani. Un qualsiasi cattolico che partecipa a una nostra funzione religiosa deve poterla riconoscere, deve potersi trovare a casa sua. Il cattolicesimo non è protestantesimo”. Accanto alla Chiesa giovane e dinamica, in Africa c’è anche quella antichissima che affonda le radici nell’immediato dopo Cristo. Ci sono i milioni di copti egiziani che da secoli vivono da minoranza più o meno tollerata nel paese arabo più popolato al mondo, custodi della chiesa fondata da San Marco evangelista che ad Alessandria pose le basi della sua predicazione, prima di essere martirizzato con una corda stretta attorno al collo. Centinaia di chilometri più a sud, nell’Etiopia scampata all’invasione islamica, s’annidano ancora vecchi monasteri dislocati qua e là tra gli altipiani. “La mia Chiesa è la più antica del mondo e la sua fondazione risale direttamente al tempo di Gesù, attorno all’anno 35, subito dopo la sua morte e resurrezione”, raccontava a "Jesus" abuna Paulos, patriarca della chiesa ortodossa etiope, scomparso tre anni fa. Chiesa antica ma viva: “Abbiamo cinquantamila e più chiese in tutto il paese. I nostri giovani vengono regolarmente a messa, con presenze pari al settanta per cento. In tutto, considerata la costanza con cui le fasce adulte e anziane vengono al culto, sfioriamo l’ottante per cento di popolo a messa ogni domenica”. Come per l’Egitto, anche in Etiopia è fondamentale la presenza dei monasteri, eremi che hanno resistito alle traversie della storia: “Sempre più giovani chiedono di diventare monaci. Abbiamo milleduecento monasteri in tutto il paese e circa cinquecentomila religiosi. Abbiamo quarantacinque milioni di fedeli, se si calcolano i tantissimi cristiani etiopici che vivono all’estero”. Il mese scorso, Papa Francesco ha voluto riconoscere il valore della Chiesa cattolica locale che, seppur piccola e minoritaria, rappresenta uno di quei “segni” di cui aveva parlato il vescovo Teissier. L’arcieparca di Addis Abeba, Berhaneyesus Demerew Souraphiel, è stato creato cardinale. Il secondo nella storia dell’Etiopia, dopo Paulos Tzadua. Ed è stato proprio il nuovo porporato a spiegare a Radio Vaticana la fede profonda del suo paese: “La gente prende la sua fede sul serio: la fede è un dono di Dio. E vivono così. Affrontano le cose vedendo che se Dio vuole, le cose possono cambiare. Non perdono la speranza. Per questo amano la vita, dal concepimento fino alla morte. E questo è importante”. L’Africa continente della speranza, serbatoio di fede per l’avvenire che progressivamente vedrà l’Europa inaridita e le sue chiese sempre più vuote. “Mentre si tende a descrivere l’Africa in modo riduttivo e spesso umiliante, come il continente dei conflitti e dei problemi infiniti e insolubili”, al contrario “essa è per la chiesa il continente della speranza, il continente del futuro”, disse Benedetto XVI nel discorso ai membri della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel, ricevuti in udienza nel febbraio del 2012. Non a caso, i vescovi africani si sentono il baluardo contro tutto ciò che possa svilire o appannare il messaggio cristiano così come tramandato nei secoli. Lo si è visto bene al recente sinodo straordinario sulla famiglia, dove loro hanno fatto da capofila allo schieramento avverso allo "Zeitgeist", lo spirito del tempo che tanto di moda va migliaia di chilometri più a nord, dove le Chiese hanno le casse piene e le navate vuote. “L’Africa propone all’occidente i suoi valori sulla famiglia, l’accoglienza, il rispetto della vita. Gli ultimi papi hanno avuto grande fiducia nella chiesa d’Africa e questo è un invito a fare la nostra parte”, ha di recente scritto il cardinale guineano Robert Sarah, prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, nel libro “Dieu ou Rien” edito in Francia da Fayard. “Affermo solennemente – prosegue il porporato – che la chiesa d’Africa si opporrà fermamente a ogni ribellione contro l’insegnamento di Gesù e del magistero”. Una Chiesa piagata dalle persecuzioni ma tutt’altro che in ginocchio, come ha ricordato solo qualche settimana fa nel duomo di Milano il cardinale John Onaiyekan, arcivescovo di Abuja, in Nigeria. Lui, che ogni giorno conta i morti per mano di Boko Haram, ha dato un messaggio di fiducia a quell’occidente che passa le giornate a rimuovere presepi e a far tacere campane perché disturbano le coscienze e violano la sacra laicità razionale: “Sono stato nella basilica di Sant’Ambrogio, sulla tomba del grande vescovo che ha battezzato l’africano Agostino: segno di una eredità che risale sino ai primi che seguirono Gesù. Non è possibile che una Chiesa con questo fondamento non viva”.

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8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO Pagg 2 – 3 Salvini caccia Tosi dalla Lega di Marco Bonet, Alessio Corazza e Angela Pederiva Ultimatum, lettere, riunioni. Una giornata surreale tra voci e smentite ufficiali. “Matteo come Caino, il peggio della politica”. E la Moretti ne approfitta per attaccare Zaia su tutto

Venezia. Il verdetto, annunciato sin dal pomeriggio a mezze labbra dai colonnelli di e Luca Zaia, è arrivato a tarda sera dalla viva voce del segretario federale, con una nota alle agenzie: «Dispiace che da settimane Flavio Tosi abbia scelto di mettere in difficoltà la Lega e il governatore di una delle regioni più efficienti d’Europa. Ho provato mediazioni di ogni tipo - ha detto Salvini - ma purtroppo, ricevendo solo dei no, sono costretto a prendere atto delle decisioni di Tosi e quindi della sua decadenza da militante e da segretario della - . Se insisterà nel volersi candidare contro Zaia, magari insieme ad Alfano e a Passera, per aiutare la sinistra, penso che ben pochi lo seguiranno». Quindi ha proseguito: «Non si può lavorare per un partito alternativo alla Lega, non si possono alimentare beghe, correnti o fazioni. Da domani basta chiacchiere, e si lavora con tutte le sezioni e tutti i gli iscritti, che contiamo di raddoppiare in fretta per riconfermare il buon governo di Luca Zaia - conclude Salvini -. Ovviamente le liste per il Veneto saranno fatte solo dai Veneti, dal commissario Gianpaolo Dozzo, uno dei padri della Liga Veneta, iscritto dal 1983, e da tutti i segretari del territorio veneto. Senza rancore e facendo gli auguri a Flavio, saranno i Veneti a decidere». Finisce dunque così la storia tra Tosi e il Carroccio, una storia durata 25 anni che certo ha visto momenti epocali per il veronese, dalla doppia vittoria come sindaco nella sua città alla battaglia contro Bossi e il «cerchio magico» culminata nella celeberrima «notte delle scope», fino alla conquista della segreteria nathional della Liga, nel congresso di tre anni fa. Col senno di poi, forse l’inizio della fine. «Finalmente potrà coronare il suo sogno di candidarsi contro Luca» commentano amari gli uomini del governatore, mentre quelli del sindaco si tengono la testa tra le mani: «Voi non vi rendete conto di quel che accadrà adesso, sarà un massacro». Che il rischio di una guerra fratricida sia alto, altissimo, lo conferma la mediazione a oltranza proseguita per tutta la giornata di ieri, nonostante l’ultimatum lanciato lunedì al sindaco dal Comitato di disciplina e garanzia scadesse alle 14 («Tosi decida se vuol stare nella Lega oppure nella sua fondazione»). Va detto che, tecnicamente, quella di ieri sera non è un’espulsione, come ha rimarcato Salvini «prendendo atto della decadenza», bensì una sorta di automatica cancellazione dalle liste dei militanti conseguente alla denunciata incompatibilità tra i due ruoli di segretario nathional del Carroccio e leader dei «fari» da parte del consiglio federale, cui è seguita la mancata scelta da parte di Tosi. Ma il significato politico, quello al di là dei tecnicismi è inequivocabile. A nulla sono valse le ultime, disperate ambasciate dei pontieri, in particolare del potentissimo che anche ieri è stato destinatario di una e-mail con cui «il ribelle» Tosi ha provato a lanciare una sua controproposta, pur non cedendo mai sui punti cardine della sua battaglia, e cioè la revoca del commissario Gianpaolo Dozzo e il diritto a mantenere in vita la fondazione. Raccontano che avrebbe solo aperto sul fronte delle liste, proponendo l’azzeramento della lista Tosi e della lista Zaia e la creazione di un’unica civica divisa fifty-fifty col governatore. Proposta definita «una vera e propria provocazione» dai salviniani e certo inaccettabile per lo stesso Zaia e quindi respinta. Con le conseguenze che si sono poi viste poche ore più tardi.

Venezia. Una giornata surreale, trascorsa tra ultimatum e penultimatum, retroscena e ricostruzioni più o meno campate per aria, bisbigli sussurrati e smentite ufficiali. Le ultime ore dell’avventura di Flavio Tosi sotto il vessillo della Lega sono state travagliate e sofferte, in un’altalena in continua oscillazione tra il pessimismo cosmico («E’ finita») e qualche flebile speranza («Si stanno parlando»), come d’altronde non può che essere quando si mette fine ad una storia durata 25 anni. Il punto di partenza è stata la decisione presa lunedì pomeriggio dal Comitato di disciplina e garanzia del partito, che ha intimato al sindaco di Verona di scegliere entro le 14 di ieri tra la Lega e la sua fondazione, dopo che già il consiglio federale lunedì scorso gli aveva dato una settimana per chiarirsi le idee. Al mattino qualche tosiano, come il vicepresidente del consiglio regionale Matteo Toscani, ancora ci crede: «Matteo, Flavio e Luca facciano tutti un passo indietro». L’ottimismo è il profumo della vita. Salvini è a Strasburgo, Zaia nella sua Conegliano, Tosi a Roma e subito si rincorrono indiscrezioni su un ennesimo incontro tra lui e Angelino Alfano. «Macché a Conegliano, Luca ha annullato tutti gli appuntamenti ed è corso in via Bellerio per un ultimo tentativo di conciliazione» dice qualche parlamentare. Non è vero. «A Milano è in corso un nuovo Comitato di disciplina presieduto da Bossi». Non è vero neanche questo: l’unico veneto che ne fa parte, Marino Finozzi, è seduto in consiglio regionale a Venezia. L’ex presidente della Provincia di Belluno, Gianpaolo Bottacin, scrive sul suo profilo Facebook : «Fuori! Game Over». E’ l’impazzimento generale. Chi glielo avrà detto? Come l’avrà saputo? La Lega smentisce con nota ufficiale: ««La notizia dell’espulsione di Tosi non ha alcun fondamento». Si parla di una fantomatica lettera, spedita da Tosi a Salvini in un estremo gesto di pacificazione: «Respinge il commissariamento ma cede sulle liste e la fondazione» raccontano. Tosi dice di averla mai mandata, Salvini di non averla mai ricevuta. Da Verona parlano di «disinformatia» ma in assenza di comunicazioni ufficiali (che non siano smentite) il quadro si fa sempre più confuso e c’è chi sostiene che il partito, su input dello stesso Salvini, sarebbe disponibile a concedere al sindaco altre 24 ore. L’ennesimo penultimatum. Si va avanti così fino a sera, tra lo sconcerto dei militanti, fino alla resa dei conti a distanza, con Tosi in studio a Otto e mezzo , ospite di Lilli Gruber, e Salvini davanti all’immancabile iPad, pronto a scrivere il messaggio alle agenzie che ha detto la parola fine di questa travagliata e sofferta storia (d’amore?).

Verona. «Salvini mente sapendo di mentire, mai avrei pensato di vedere in Lega il peggio della peggior politica, con Caino che si traveste da Abele. Resta e resterà sempre la stima, l’amicizie e l’affetto per i tanti veri leghisti». È questo il primo commento di Flavio Tosi da ex leghista. Qualche decina di minuti prima, aveva fatto un ultimo appello a Salvini: «Se prevale il buon senso, una soluzione ragionevole per tenere insieme tutte le sensibilità, si trova». Tosi si era congedato con queste parole dalla trasmissione «Otto e mezzo» su La 7, al termine di una giornata di sussurri e grida (altrui), rumori di fondo e voci incontrollate. La verità è che il tempo è già finito. Con l’ultimatum per decidere tra la Lega Nord e la sua fondazione Ricostruiamo il Paese in scadenza alle 14, in mattinata è stata tentata l’ultima, disperata mediazione. «Ho passato in Lega 25 dei miei 45 anni, tutti gli affetti sono lì. C’è qualcuno che mi vuole bene che tenta di trovare una soluzione. Un pontiere», ha spiegato Tosi alla Gruber. Si tratta di Giancarlo Giorgetti, storico dirigente della Lega Nord, l’uomo che di più - assieme a - ha tentato di sbrogliare la matassa. Non pervenuto, invece , con cui pure il sindaco di Verona non ha mai interrotto i contatti. Tosi ha mandato una mail in mattinata a Giorgetti proponendo un nuovo «lodo»: una rinuncia a presentare la Lista Tosi, a patto che non ci sia nemmeno una lista Zaia. Semmai, liste civiche «spersonalizzate». Fermi gli altri punti: nessuna rinuncia alla sua fondazione. E la lista della Lega Nord la decide il consiglio della Liga Veneta senza il commissario imposto da Milano, Giampaolo Dozzo. Questo è il vero punto fermo, dove nessuna negoziazione è possibile. «Altrimenti per una questione di dignità mi dimetterei da segretario nazionale della Liga Veneta - ha detto Tosi - E a quel punto ci starebbe pure una mia candidatura». Con questa mossa, Tosi ha inteso rispedire la palla nel campo di Salvini. Il segretario federale, ha spiegato il sindaco di Verona, «ha l’autorità per trovare una soluzione. Se si toglie il commissariamento e si accetta la fondazione, sulle liste una soluzione la si trova. Basta che si trovino delle soluzioni che tolgono dei paletti irricevibili». Ma la verità è che Salvini non ha nemmeno preso in considerazione l’ultima offerta. Si è chiusa così, nel modo più traumatico, a pochi mesi dalle elezioni regionali, la lunga militanza di Tosi nel Carroccio. «Ormai ero uno dei militanti più vecchi», diceva ieri. Iscritto dai primi anni ‘90, un lungo cursus honorum di consigli di circoscrizione, consigli comunali, provinciali, la Regione, fino all’approdo a sindaco di Verona. Proprio una volta indossata la fascia tricolore, Tosi ha iniziato a sentirsi stretto nella Lega, a cercare di ampliare il suo consenso fuori dai rigidi confini del partito, a rivedere certe sue posizioni mettendo in discussione dogmi (padani) indiscutibili. Un tira e molla che già l’aveva portato vicino all’espulsione, ai tempi di Bossi, di cui per primo aveva osato contestare l’autorità. Poi, con l’avvento di Maroni, sembrava essere arrivato il suo momento e, con Roberto Maroni in sella, era di fatto il numero due, con la Lega veneta nelle sue mani. Ma le cose in politica cambiano in fretta: sulla scena irrompe Salvini e la convivenza con il sindaco di Verona, da problematica, si fa via via sempre più insostenibile. Fino alla rottura di ieri: è la maledizione dei segretari della Liga veneta, visto che Tosi fa la stessa fine di Fabrizio Comencini e di prima di lui. E ora liberi tutti. Libero, in particolare, Flavio Tosi, di sfidare Zaia. «Quanto valgo in termini di consenso? Spero un po’ più del 10 per cento. Ma se vincerà la Moretti, la responsabilità non sarà mia, ma di chi ha creato queste tensioni e di chi ha voluto cambiare le regole». Addio Lega.

Venezia. «La buona notizia è che è stata messa la parola fine a beghe e polemiche incomprensibili che sono durate fin troppo. Resta l’amarezza per come è andata a finire, ma ora si deve voltare pagina». Dopo settimane di silenzio o di risposte date malvolentieri ieri sera il governatore (e finalmente candidato unico della Lega Nord alle prossime elezioni) Luca Zaia ha deciso di intervenire sulle tensioni che hanno dilaniato il Carroccio. «Il mio impegno - prosegue Zaia - sarà ora quello di continuare a governare questa Regione e di dire ai veneti quanto di buono è stato fatto in questi anni e quanto ho ancora voglia di fare per loro. Sono convinto che tutti i nostri militanti, sostenitori e simpatizzanti sapranno essere al mio fianco in questa battaglia per il buon governo della Regione».

Padova. Nel giorno più lungo della Lega Nord, arriva la mossa a sorpresa di Alessandra Moretti. Mentre il suo sfidante Luca Zaia (e l’altro possibile avversario Flavio Tosi) attendevano con ansia di conoscere il futuro del Carroccio in Veneto, la candidata del centrosinistra interveniva in diretta Radio Padova, menando in scioltezza fendenti contro il centro destra. Particolarmente duro il colpo sui temi sanitari: «Chi dice che siamo ancora secondi nella classifica nazionale, e non quinti dietro alle Marche, racconta frottole perché vuole dare della sanità un’immagine che non corrisponde più al vero». L’esponente del Partito Democratico ha indicato la sua priorità, cogliendo l’occasione per attaccare gli altri contendenti: «Uscire dall’isolamento. Dopo un ventennio di governo Galan-Zaia, il Veneto è stato per troppo tempo isolato rispetto all’Europa e al governo centrale». Poi la raffica di stilettate. Sulla sanità: «Bisogna distinguere tra la propaganda e i fatti. Sono appena stati pubblicati i Livelli essenziali di assistenza (Lea) e la nostra regione in un solo anno è stata declassata di tre posizioni, quindi vuole dire che assistiamo a liste di attesa molto lunghe anche per patologie estremamente gravi, 34 giorni contro i 14 della media nazionale per tumore ai polmoni». Sulla sicurezza: «Nonostante lo slogan paroni a casa nostra siamo più insicuri di una volta. Smettiamola di fare bollettini di guerra ogni giorno e chiediamoci piuttosto perché è stato azzerato il fondo della sicurezza, rimpinguato solo adesso a due mesi dalle elezioni». Sullo scandalo Mose: «Galan-Zaia è stata una continuità». Al che, incalzata dall’intervistatore Berry Mason, la vicentina ha affondato la lama: «Che cosa vorrebbe dire che Zaia ha messo i bastoni fra le ruote? Confermare Chisso alle Infrastrutture vuol dire mettere i bastoni fra le ruote?».

Pag 8 Il parroco difende la moschea e viene attaccato dai “fedeli” di Enrico Presuzzi In un paesino del Veronese l’omelia scatena polemiche

Monteforte. La sua omelia di domenica ha scatenato un vespaio di polemiche. Ma il parroco di Brognoligo, monsignor Mario Costalunga, non è certo tipo da lasciarsi intimidire: «Se noi che predichiamo stiamo zitti e non nascono critiche di questo genere, significa che abbiamo narcotizzato anche il Vangelo». Il sacerdote, nella predica, aveva difeso l’apertura del centro islamico di Monteforte, richiamandosi al Vangelo e all’articolo 19 della Costituzione che tutela il diritto di professare liberamente la proprie fede religiosa. Parole che non sono piaciute a chi, da mesi, si oppone al progetto come gli attivisti di Progetto Nazionale, della Lega Nord e ai tradizionalisti del Circolo cattolico Christus Rex. «Le affermazioni sciocche e ignoranti di monsignor Costalunga dimostrano una certa arroganza e superbia da parte di chi, invece di insegnare correttamente la dottrina cattolica, si preoccupa di dare lezioni di diritto costituzionale» commenta Vito Comencini, il coordinatore del Movimento Giovani Padani pronto a regalare una copia della Costituzione al sacerdote. «L’articolo 8 sostiene che le confessioni religiose diverse dalla cattolica regolano i rapporti con lo Stato sulla base di intese con le relative rappresentanze - attacca Comencini -, ma l’Unione delle Comunità Islamiche non ha mai stipulato alcuna intesa con lo Stato italiano perché evidentemente non riconosce né la laicità né la libertà di culto delle altre religioni. Invitiamo monsignor Costalunga a dimostrare rispetto per tutti i cristiani perseguitati nel mondo dal fondamentalismo islamico: se ha il coraggio si proponga come volontario per andare in Libia o in Iraq ad aiutare i cristiani là». Gli fa eco Matteo Castagna, responsabile del circolo Christus Rex: «A Monteforte la chiesa è occupata da un imam? - domanda provocatoriamente -. Il nemico è in casa nostra, no alla moschea. Il Circolo sta preparando un’ulteriore, pubblica ed eclatante contestazione, coinvolgendo anche la gente del posto, che ci ha contattato scandalizzata dal sermone di domenica scorsa». Monsignor Costalunga non si scompone. «Non pensavo di scatenare una reazione del genere, ma è interessante perché obbliga a riflettere. E fino a quando noi non riflettiamo, c’è qualcuno che pensa al posto nostro per difendere i propri interessi - commenta il sacerdote-. Mi regaleranno una copia della Costituzione? È un piacere perché va ricordato che quella Carta è stata il frutto del lavoro di uomini che hanno pagato prezzi altissimi per la libertà e che hanno saputo mettere al centro della discussione il bene comune, pur partendo da ideologie molto diverse tra loro».

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il potere senza contrappesi di Michele Ainis

Non c’è due senza tre. Dopo il voto estivo da parte del Senato, dopo il voto invernale ieri alla Camera, il ping pong della riforma rimbalzerà di nuovo sul Senato. E a quel punto la pallina dovrà saltare un altro paio di volte fra le nostre assemblee legislative, per la seconda approvazione. Non è finita, insomma. Eppure, in qualche misura, è già finita. Perché adesso il Senato può intervenire esclusivamente sulle parti emendate dalla Camera, non sull’universo mondo. Perché dopo d’allora il timbro finale di deputati e senatori sarà un lascia o raddoppia, senza più correggere una virgola. E perché diventerà un prendere o lasciare anche il nostro voto al referendum, quando ce lo chiederanno. Che bello: per una volta, noi e loro torniamo a essere uguali. Ci è consentito dire o sì o no, come Bernabò. Però possiamo anche pensare, nessuno ce lo vieta. Benché di certi atteggiamenti non si sappia proprio che pensare. Forza Italia che al Senato approva, alla Camera disapprova. La minoranza del Pd che promette un voto negativo sullo stesso testo che ha appena ricevuto il suo voto positivo. Il Movimento 5 Stelle che paragona Renzi a Mussolini, senza accorgersi che magari s’offenderanno entrambi. E intanto una pioggia di 68 ordini del giorno che creano soltanto disordine, tanto nessun governo se li è mai filati. Insomma, troppe voci, e anche un po’ sguaiate. E troppe parole inoculate in gola alla nostra vecchia Carta. Per dirne una, l’articolo 70 - che regola la funzione legislativa - s’esprime con 9 parolette; dopo quest’iniezione ri- costituente ne ospiterà 430. Una grande, grandissima riforma, non c’è che dire. Non per nulla riscrive 47 articoli della Costituzione. Però sarebbe ingiusto obiettare che questa riforma non sia anche necessaria. È necessaria, invece, e per almeno due ragioni. In primo luogo per un’istanza di legalità, benché nessuno ci faccia troppo caso. Ma sta di fatto che la legalità costituzionale rimane ostaggio ormai da lungo tempo della contesa fra due Costituzioni, quella formale e quella «materiale». Urge riallinearle, in un modo o nell’altro. Non possiamo andare avanti con un parlamentarismo scritto e un presidenzialismo immaginato. Anche perché la garanzia di regole incerte diventa fatalmente una garanzia incerta. E perché nessuno prenderà mai troppo sul serio le leggi e le leggine, se la legge più alta non è una cosa seria. In secondo luogo, è altrettanto necessaria una cura di semplicità, per la politica e per le stesse istituzioni. C’è un che d’eccessivo nell’arsenale di strumenti e di tormenti che la riforma del 2001 aveva trasferito alle Regioni: almeno in questo caso, per andare avanti bisognerà tornare indietro. C’è un eccesso nella doppia fiducia di cui ogni esecutivo deve armarsi per scendere in battaglia, restando il più delle volte disarmato. E infatti abbiamo fin qui sperimentato un bipolarismo imperfetto con un bicameralismo perfetto; meglio invertire gli aggettivi. In ultimo, è eccessiva l’officina delle leggi: troppi meccanici, troppe catene di montaggio. Ma i guai s’addensano quando dai principi filosofici si passa alle regole concrete. Così, la riforma elenca 22 categorie di leggi bicamerali. Sulle altre il Senato può intervenire su richiesta d’un terzo dei suoi membri, e in seguito approvare modifiche che la Camera può disattendere a maggioranza semplice, ma in un caso a maggioranza assoluta. Insomma, non è affatto vero che la riforma renda meno complicato l’ iter legis . E dunque non è vero che semplifichi la vita del nostro Parlamento. Però semplifica fin troppo la vita del governo, l’unico pugile che resta davvero in piedi sul ring delle istituzioni. Perché insieme al Parlamento barcolla il capo dello Stato: con un esecutivo stabile, perderà il suo ruolo di commissario delle crisi di governo, nonché - di fatto - il potere di decidere l’interruzione anticipata della legislatura. Da qui la preoccupazione che s’accompagna alla riforma. Servirebbero maggiori contrappesi, più contropoteri. Qualcosa c’è (come i cenni a uno statuto delle opposizioni, l’argine ai decreti, il ricorso preventivo alla Consulta sulle leggi elettorali), però non basta. Nonostante la logorrea dei riformatori, qualche parolina in più non guasterebbe. Ma loro non ne hanno più da spendere, noi siamo muti come pesci. Vorremmo rafforzare il tribunale costituzionale, spalancando il suo portone all’accesso diretto di ogni cittadino (succede in Germania e in Spagna). Vorremmo rafforzare il capo dello Stato, magari concedendogli il potere d’appellarsi a un referendum, quando ravvisi in una legge o in un decreto pericoli per la democrazia (succede in Francia). E in conclusione vorremmo che l’elettore non fosse trattato come un ospite nella casa delle istituzioni. Ma al referendum prossimo venturo l’ospite potrà solo decidere se entrarvi oppure uscirvi, senza spostare nemmeno un soprammobile. Intanto sta sull’uscio, guardando dal buco della serratura.

Pag 6 Il premier vince facilitato dalle divisioni degli avversari di Massimo Franco

I tre tronconi in cui è diviso il Parlamento sono usciti formalmente indenni dal voto sulla riforma costituzionale: almeno nel senso che non ci sono state scissioni né dissociazioni clamorose. Ma il saldo è diverso per Pd, FI e M5S. Il governo di Matteo Renzi riemerge rafforzato dal «sì» netto della Camera; e potenzialmente in grado di attrarre pezzi dell’opposizione. D’altronde, la minoranza del Pd si conferma divisa perfino sulle proposte alternative a quelle di Palazzo Chigi. E FI si ritrova con diciotto deputati che avvertono Silvio Berlusconi di non essere d’accordo sul «no» alle riforme: avanguardie di un’attrazione forse fatale per Renzi, e di un malessere più profondo dei numeri ufficiali. Quanto al Movimento 5 Stelle, è rimasto fuori dall’Aula, confermando la sua vocazione antisistema. Verrebbe da dire che Palazzo Chigi è circondato da un nugolo di avversari che però non sono in grado di contrastarlo né di insidiarlo seriamente. E, di forzatura in forzatura, come gli rimproverano le opposizioni, sta ottenendo quello che voleva. Nessuno pensa che la guerriglia sia finita ieri. I numeri del Senato si presentano meno rassicuranti per il governo di quelli della Camera. È anche vero, però, che quando si voterà lì le elezioni regionali saranno già alle spalle. E i «no» berlusconiani e la compattezza di facciata di FI potrebbero sgretolarsi d’incanto. L’ex premier ha cercato di valorizzare la tenuta del suo partito, evocando una presunta centralità tra «nuova destra populista» e «falso riformismo della sinistra». La sua analisi, in realtà, finisce per dare corpo alla tenaglia della Lega di Matteo Salvini, peraltro sua alleata, e di Renzi, che gli toglie spazio e ossigeno politico. Renzi ieri ha assegnato al vicesegretario Lorenzo Guerini il compito di spiegare il motivo di una riforma costituzionale approvata a maggioranza. E non gli è stato difficile additare le contraddizioni di FI, che al Senato aveva contribuito al «sì»: le stesse evidenziate da una dissidenza berlusconiana inquieta. Il problema è che accadrà di qui a giugno. Dipenderà molto da FI. Se dopo le Regionali il centrodestra e Berlusconi riusciranno a contenere la diaspora, per il governo il Senato potrebbe diventare una trappola. Soprattutto sulla riforma dell ’Italicum, gli avversari di Renzi nel Pd sanno di giocarsi la sopravvivenza come candidati alle elezioni. Ma il calcolo e la speranza di Palazzo Chigi sono altri. Il premier confida che emerga un’area grigia di deputati e senatori d’opposizione, pronti ad appoggiare i suoi provvedimenti anche contro Berlusconi. Un po’ perché temono che altrimenti si sciolgano le Camere. Un po’ perché tendono a considerare chiusa la parabola dell’ex Cavaliere e vedono in Renzi un leader con valori che condividono: gli stessi che invece nel Pd fanno covare una scissione.

Pag 16 Noi ragazze del campo-prigione di Sara Gandolfi Reportage dalla Siria, 4 anni di guerra

Shatha alza il mento, lo sguardo perso in qualche infinito lassù. Sopra i libri un po’ stinti che le ha dato il governo giordano, sopra le ciabatte di due misure più corte che lasciano scoperto il tallone, oltre il limbo di polvere e fango in cui vive. «Voglio fare il soldato». Non sei stanca di guerra? No, mi piace. Una risata e vola via, con le amiche che sognano, solo, di diventare dottore e avvocato. Neanche il tempo di chiederle contro chi o per cosa combatterà. Dalla scuola modello del campo, regalo del Qatar, escono teenager e bambine; nel pomeriggio tocca ai maschi. Le alunne si rincorrono, sfiorando i camion che passano con i carichi d’acqua per le cisterne. A Zaatari, uno dei campi profughi più grandi al mondo, non ti aspetti di vedere così tanti sorrisi. Domenica saranno quattro anni da quando è scoppiata la rivolta a Dara’a, in Siria, l’11 marzo 2011. Da Zaatari, con il fossato di cinta e i tank militari all’ingresso, molti se ne sono andati. Sono usciti tentando la fortuna in case d’affitto – l’80% degli oltre 600.000 profughi in Giordania vive di stenti nelle «host communities» - o pagando a caro prezzo la traversata del Mediterraneo. Altri, alla spicciolata, stanno tornando in Siria, perché non sopportano più l’esilio o per combattere. Ne restano 85.000, imprigionati nel limbo. E Zaatari ha sbarrato le porte. Gli ultimi arrivati - pochi, le frontiere sono di fatto chiuse da tempo - finiscono nel nuovo campo di Azraq, in mezzo al deserto. E chi è rimasto qui non può più uscire se non con permessi giornalieri difficili da conquistare. Perché i siriani, in Giordania, non possono lavorare («il Paese ha già troppi disoccupati» spiegano i funzionari ad Amman) ed è pure meglio che non si facciano vedere tanto in giro. «Io non voglio restare» assicura Muhammad, 34 anni, che s’è appena trasferito in una delle nuovissime case-container del campo, con tanto di toilette inserita. «Possono anche metterci in un castello ma non sarà mai casa nostra». Viene da Al Tadamu, quello che era un quartiere elegante della periferia sud di Damasco ed ora è solo macerie. «Assad ha bombardato tutto, non ho potuto far altro che andarmene, con i miei due bimbi e la moglie». Lei non parla né si fa fotografare. Ci guarda andare via in silenzio, dalla soglia di quella casa di lamiera, lo sguardo implorante. Poco più in là, ci sono i bagni comuni costruiti dall’organizzazione internazionale non governativa Oxfam. Da una parte quelli per gli uomini, dall’altra quelli per le donne. Quattordici latrine per 55 famiglie. E pure le docce, ma quelle sono sempre vuote: i mariti non si fidano. Paura delle violenze improvvise, che non sono poi così rare nel campo, ma non solo. «In Siria avevano il bagno in casa, l’acqua corrente, la tv satellitare, il wifi. Difficile per loro abituarsi alla vita da profugo» spiega Andy Bosco, responsabile Oxfam al campo. «Si attaccavano alle tubature comuni e portavano l’acqua ai container. Ora costruiremo una rete idrica capillare. Costerà 12 milioni di dollari. Sul lungo periodo meno dei camion cisterna». Le ong ormai lo hanno capito: la crisi non sarà breve, il campo è già una città stabile che ha bisogno di infrastrutture. Città prigione, dove la gente soffre e i bambini ridono, dove le «abitazioni» messe a disposizione dall’Unhcr si rivendono e passano di mano secondo un mercato immobiliare consolidato, 100 dinari le tende, pari a 130 euro, fino a 250 i container. Inferno che funziona come un orologio svizzero, grazie ai capitribù siriani, gli Abou, che garantiscono la pace nei dodici distretti del campo. Dove tutti odiano Assad e non si possono fare domande sull’Isis. Circolano troppi uomini giovani, nullafacenti e dalle facce scure. E molte donne, spesso sole, a volte maltrattate perché «quando c’è solo tempo libero e noia, la violenza aumenta», avverte la responsabile dell’oasi di UnWomen. E poi ci sono i ragazzi. Più di un profugo su due ha meno di diciassette anni. Selma ne ha 13 e oggi non è andata a scuola. Mamma l’ha spedita a fare la spesa al magazzino del World Food Programme, armata del voucher per il cibo, 20 dinari a testa al mese. Spalanca gli occhi blu e apre il sacchetto di plastica, fegatini, formaggio, latte, 7 dinari. Poi scappa via. L’ordine è non stare in giro troppo, da sola. «Le ragazze sono spesso vittime di molestie, molti genitori non le mandano neppure a scuola per paura, altri le sposano appena possono» dice la preside di una delle sei scuole gestite dall’Unicef con i fondi dell’Unione europea. Alle elementari si accalcano in 100 per aula, poi via via il numero cala. Al dodicesimo anno, quello del Tawjihi , la maturità, non sono più di trenta. Le ragazze portano il velo, l’insegnante di Islamic studies il niqab che lascia scoperti solo gli occhi. Riham ha 16 anni, è una delle allieve più promettenti. «Sono arrivata qui da Damasco tre anni fa, con la mamma e i fratelli. Papà è rimasto in Siria. Il mio mondo è tutto cambiato».Vuoi continuare? « Akeed…Taba’an, certo! Voglio finire le superiori e poi studiare informatica. Ma l’università costa, ci sono pochissime borse di studio». Ti manca la Siria? «Là c’era il verde, qua è solo deserto». I tre sciuscià con la sigaretta in bocca non sono in classe. Mohammed, Ayed, Yusef non fanno trent’anni in tre, «in Siria ci andavamo, ma qui...». Si arrabattano a tirar su qualche soldo, dove e come possono. Gran parte delle famiglie di Zaatari dipende da quello che racimolano i figli. Se la polizia li piglia a lavorare in nero, dentro o fuori dal campo, loro in fondo non rischiano molto. Naela e Nagam, 6 e 7 anni, studiano al mattino, lavorano al pomeriggio. Vendono lunghi vestiti neri bordati d’oro in un negozio di Champs Elisée. È la lunga strada di fango che taglia Zaatari in due, dall’entrata dove pascolano le pecore alla fine del distretto 12. È il bazar all’aperto che vende cibo, abiti, utensili per la casa, canarini in gabbia, il miglior shawarma (o kebab) nel raggio di chilometri e un arcobaleno di altra mercanzia. Sono oltre 2500 i negozi a Zaatari, un giro d’affari da 10 milioni al mese. C’è pure la «boutique» di intimo. Vende baby doll rosso fuoco, giarrettiere, mutandine velate col fiocco. Il pezzo più osé, made in China, costa 6 dinari, «ma fuori lo paghi 15». Le promesse spose qui fanno incetta di tutto quello che servirà, poi finiscono in uno dei tanti coiffeur-container del campo. Come il Sirian Princess di So’ad che prende 7 dinari per taglio e meche . Alcune spose, annuisce, non arrivano ai tredici anni. Nelle campagne siriane è normale ma qui i matrimoni precoci si sono moltiplicati, per la dote che i genitori incassano (fino a 1000 dinari) e perché pensano che le figlie siano più al sicuro. Lo ammette fra i denti l’imam del distretto 8, 53 anni e nove figli alle spalle. Celebra 15-20 matrimoni a settimana, «ma nessun minorenne, sono altri gli imam che li autorizzano». Gli sfugge un nome: Abu Fadi. Basta il suo sì per sposare una bambina. Poi il giudice giordano, però, quei matrimoni non li convalida. Così la sposa è una non sposa e i suoi figli saranno illegittimi. Samar ha 22 anni, viene da Al Ghouta, il sobborgo di Damasco finito sotto attacco chimico. «Il mio fidanzato era un soldato. Ha disertato, ci siamo sposati nel quartiere assediato, ho partorito mentre bombardavano. Io sono fuggita in auto. Lui, che era ricercato, per i campi. Ma era un campo di mine ed è saltato per aria». Samar non ha potuto registrare il matrimonio, la sua bambina, Rimas, che ha poco più di un anno, risulta figlia di suo fratello. Ti risposerai? «No, sarebbe un tradimento. Lo amavo». Nella maternità del distretto 5 nascono 15-20 bambini al giorno, in tre container affiancati. Il primo è la sala delle doglie, sei letti di dolore. Il secondo ha due poltrone affiancate per il parto. Nel terzo le puerpere si fermano cinque-sei ore al massimo. Quasi una catena di montaggio, ma animata dalla passione di ostetriche e dottoresse, e dai sorrisi stanchi delle neomamme. Come quello di Manar, 28 anni, laureanda in legge, che ha mollato gli studi e Damasco per fuggire con il marito. Parla un inglese perfetto e abbraccia forte al seno la sua piccola. «Alla mia Rand auguro una vita felice, lontano da qui» sussurra. Nel cortile incrociamo Um Yassin e Um Haitham, velate dalla testa ai piedi, con gli occhi che ridono. La prima racconta: «Siamo arrivate due anni fa dal villaggio di Inkhel Dara. Io ho quattro figli, ma a mio marito non bastava. Ha sposato altre tre mogli, poi ha divorziato da me per sposarne una quarta. Eccola qui, è lei (e indica Um Haitham). Mia nuora ha appena partorito mio nipote, Hussein. Ma non può registrarlo, aiutateci». Perché non può? «Ha quasi 15 anni...».

LA REPUBBLICA Pag 3 Le mosse sterili della minoranza e la trincea finale in casa Renzi di Stefano Folli

«Ho votato sì per l'ultima volta» dice Bersani dopo aver dato il suo consenso alla riforma del Senato. In realtà l'ex segretario del Pd, oggi figura di riferimento della minoranza anti-Renzi, racchiude in sé tutte le contraddizioni di un fronte che un passo dopo l'altro sta perdendo la guerra. Del resto, non c'è nulla che alimenti il successo come il successo medesimo. Renzi si è costruito la fama del vincitore, una specie di «veni, vidi, vici» moderno. Finché la sorte lo assiste, è difficile credere che la minoranza del suo partito riesca a rovesciare il tavolo. Certo, l'argomento di Bersani e dei suoi amici non è irrilevante. In sostanza, si ritiene che la legge elettorale - l'Italicum - sia inadeguata per via dei numerosi deputati «nominati» dalle segreterie e non realmente eletti in un confronto nei collegi. Soprattutto il combinato disposto dell'Italicum e di un sistema monocamerale, prodotto dalla riforma che trasforma il Senato in un'assemblea di «secondo grado», cioè non eletta dal popolo, appare agli occhi degli oppositori un vulnus democratico. Un tema molto vicino alla posizione espressa dai vendoliani di Sel. Il problema è che la minoranza non ha la forza e nemmeno una linea coerente per tentare di vincere la battaglia. Quando la riforma costituzionale era a Palazzo Madama in prima lettura, gli anti-Renzi del Pd - salvo alcune eccezioni - non seppero o non vollero impegnarsi all' unisono per bloccarla. Lasciarono intendere che il vero scontro sarebbe stato a Montecitorio, dove peraltro i numeri sono molto più favorevoli al premier- segretario. In realtà, come si è visto, alla Camera Bersani e quasi tutti i suoi hanno votato secondo la disciplina interna, sia pure «per l'ultima volta». A questo punto la riforma è a due passi dalla sua definitiva approvazione ed è davvero arduo immaginare che possa essere insabbiata, nonostante l' esiguo margine di voti al Senato. Inoltre, come è noto, la linea del Pd è storicamente favorevole al sistema monocamerale e ciò spiega perché l'attenzione della minoranza si è già spostata verso la legge elettorale. L' obiettivo minimo è modificare lo schema delle liste bloccate, ma anche il premio alla lista anziché alla coalizione non piace. Questa volontà di concentrare tutti gli sforzi sull'Italicum, in vista di ottenere modifiche significative all'impianto della legge, è in sé legittima, ma non si sfugge all' impressione che si tratti di una scaramuccia di retroguardia. Qualcosa a cui forse non tutti credono negli stessi ranghi della minoranza del Pd. Vale per la legge elettorale quello che si è detto per la riforma costituzionale: perché non c'è stato un maggiore impegno quando forse era possibile spuntare un risultato? Anche l’Italicum è già passato sotto le forche caudine del Senato ed è stato approvato. Eravamo in gennaio, prima che le Camere si riunissero per eleggere il capo dello Stato, e Renzi giocò abilmente sia Berlusconi sia la sua minoranza interna, ottenendo il «sì» alla riforma. Anche allora i bersaniani annunciarono lotta senza quartiere, ma solo pochi di loro tennero fede ai propositi e alla fine furono comunque sconfitti dai numeri. Gli altri, per varie ragioni, si defilarono. Adesso l'Italicum si sta avviando verso Montecitorio per la seconda e definitiva lettura. Bersani chiede di non perdere l'ultima occasione di modificarne la sostanza ed è andato anche da Mattarella per illustrargli il suo punto di vista. Ma se è una battaglia per la rappresentanza democratica, il «pathos» è purtroppo assente. E di nuovo il terreno scelto - l'assemblea di Montecitorio - è il meno propizio per ribaltare i rapporti di forza con i renziani. Peraltro il presidente del Consiglio già da tempo è dedito a dividere l'opposizione interna, portando dalla sua spezzoni più o meno consistenti. E lasciando intendere, invece, che per gli intransigenti non ci sarà futuro nelle liste elettorali dell' Italicum. I bersaniani ortodossi, più che vincere un braccio di ferro tardivo, non dovranno sembrare interessati solo a salvare il seggio in Parlamento.

LA STAMPA Berlusconi assolto. E ora si riapre il fronte della legge Severino di Marcello Sorgi

La conferma da parte della Cassazione dell’assoluzione già ricevuta dai giudici d’appello di Milano per il “caso Ruby” chiude (anche se non del tutto, pendente c’è un terzo processo) per Berlusconi il capitolo più infamante delle sue traversie giudiziarie e quello che senza dubbi ha più contribuito al suo declino politico. Sul piano giudiziario, si tratta di un indubbio alleggerimento della sua condizione di superimputato, che resta tuttavia prigioniero di un pesante contenzioso in cui le cosiddette “feste eleganti”, accantonate a Milano, riappaiono a Bari, anche se l’indirizzo emerso dalla decisione della Cassazione avrà il suo peso su altre accuse dello stesso genere. Berlusconi, che aveva atteso la sentenza in uno stato di prostrazione, senza dare grande importanza alla gran confusione e alle divisioni con cui il suo partito ha affrontato il voto sulla riforma del Senato alla Camera, sarà portato a riprendere in mano il filo del suo impegno politico, partecipando con più passione alla campagna elettorale per le elezioni regionali, e in particolare a quella per la Campania. La quale è l’unica amministrazione ancora guidata da un governatore del suo partito, Caldoro, che potrebbe pure essere riconfermato, visto l’handicap di partenza del suo avversario De Luca, il sindaco di Salerno uscito a sorpresa dalle primarie del Pd, che a causa della sua condanna e successiva sospensione per la legge Severino, in caso di vittoria potrebbe non potersi insediare alla guida della regione. Nell’immediato, la battaglia per la cancellazione, o almeno la trasformazione della legge Severino (che a questo punto, via De Luca, riguarda anche il Pd), rimane l’impegno prevalente per l’ex-Cavaliere, il suo “primum vivere”, dato che a questo sono legate le sue residue speranze di riabilitazione politica. Il secondo obiettivo resterà la durata della legislatura fino al termine naturale del 2018 o almeno fino alla data più prossima a quella scadenza, ciò che Berlusconi, a dispetto delle divisioni del suo partito, o forse approfittandone e perfino favorendole, come ha fatto finora, cercherà di perseguire, in attesa di riallacciare il filo del patto con Renzi che delinea l’unico equilibrio possibile, al di là di quelli occasionali, di un Parlamento nato sciancato.

La confusione del fronte anti-premier di Federico Geremicca

Come un panzer che avanza tra le macerie, gli errori e i piani di guerra sbagliati dei nemici. Oppure, più pacificamente, come quell’impresa sportiva passata poi alla storia: «Un uomo solo è al comando: la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi...» (radiocronaca della Cuneo-Pinerolo, tappa del Giro del 1949 vinta dal Campionissimo dopo una fuga solitaria di 192 chilometri). Qualunque immagine si preferisca, le cose stanno comunque così: Matteo Renzi segna un altro punto a suo favore. Ma se avanza come un panzer o stravince come Coppi, non è certo solo per merito suo. La riforma del bicameralismo perfetto, infatti, ieri ha ottenuto il secondo sì a Montecitorio a fronte di un atteggiamento delle opposizioni che si può definire, per usare un paio di eufemismi, variegato e fantasioso. Il Movimento Cinque Stelle ha lasciato l’aula; Forza Italia ha votato no, ma 17 deputati hanno messo nero su bianco che era meglio votare sì; Sel ha sventolato la Costituzione; la Lega ha annunciato la morte della democrazia e l’opposizione più coerente al governo, costituita dalla minoranza Pd, o non ha partecipato al voto oppure ha detto sì annunciando che però a maggio dirà no alla riforma della legge elettorale se non sarà modificata... è vero: alla Camera il governo ha i numeri dalla sua (a prescindere dalle scelte delle forze di opposizione) mentre al Senato potrebbe essere un’altra storia. Ma con linee e comportamenti così schizofrenici, sarà difficile anche lì fermare il cammino del panzer. Valga un esempio per tutti: la via crucis che ha dovuto percorrere Forza Italia per passare dal sì al no alla riforma. In una nota a commento del voto, Berlusconi ha prima ringraziato Brunetta – capogruppo alla Camera – per essersi opposto alla legge, e poi ha fatto i complimenti a Romani – capogruppo al Senato – per aver contribuito ad elaborarla. Niente male. Resta solo da chiedersi cosa avranno mai capito gli elettori – non a caso in diminuzione – del partito dell’ex Cavaliere... Comprensibilmente, ieri Silvio Berlusconi aveva altro per la testa: e cioè la sentenza della Cassazione chiamata a confermare o annullare l’assoluzione da lui ottenuta in appello nel processo per il caso Ruby. Ma la giravolta – dal sì al no – su un testo che aveva concordato punto per punto è comunque difficile da far digerire (e infatti molti in Forza Italia non l’hanno digerita, votando contro la riforma solo «per affetto» nei confronti del leader...). Delle due, infatti, l’una: o il testo è inaccettabile, e allora i precedenti voti favorevoli si spiegano solo con l’esistenza di una qualche «contropartita» poi non arrivata; oppure la riforma è una buona riforma, e dunque è difficile intendere le ragioni del brusco dietrofront e del voto contrario. In fondo, se si guarda alla coerenza dei comportamenti, un discorso non molto diverso può valere anche per la minoranza Pd, che fino ad oggi ha mostrato di non apprezzare – con varia intensità – alcuno dei provvedimenti del governo, però votandoli o permettendone l’approvazione. Perfino Pippo Civati – forse il più giurato oppositore di Renzi – ieri ha irriso i suoi compagni di strada: per la minoranza del Pd, ha detto, la battaglia da fare è sempre la prossima... E non c’è da meravigliarsi, dunque, se a fronte di tali contorsioni il semplice andare avanti del premier cominci a somigliare sempre più ad una marcia trionfale o al cammino, appunto, di un carroarmato tra spianate di macerie. Ciò dovrebbe far riflettere soprattutto quanti – a proposito di riforma del Senato e di Italicum – vanno denunciando da settimane la morte della democrazia, la svolta autoritaria e l’avvento del fascismo... Parlando di quel che potrebbe accadere, avvertono: «Troppo potere nelle mani di un uomo solo». Come se oggi quell’uomo ne avesse poco... E troppo spesso – questo è il punto – anche grazie agli errori e alle contraddizioni di chi dovrebbe avversarne le proposte sbagliate e le riforme dannose per il Paese.

AVVENIRE Pag 1 Strategia contro di Carlo Cardia Il pressing in Europa su vita e famiglia

Più volte, con una strategia avvolgente e pervasiva, sono stati fatti tentativi a livello nazionale ed europeo, per far approvare documenti che affermino l’esistenza di un «diritto all’aborto», come diritto della persona, con le conseguenze che ne derivano. A volte sono tentativi decisi e chiari nella scelta pro-aborto, altre volte sono ambigui e sfuggenti nell’uso delle parole e dei concetti. Per limitarci ai fatti essenziali, basta ricordare che nel 2010 viene proposto alla competente Commissione del Consiglio d’Europa di revocare per una serie di casi l’obiezione di coscienza, e imporre l’obbligo del personale sanitario di partecipare alle pratiche abortive. Il progetto è respinto, e la Commissione conferma, anzi, il valore dell’obiezione, espressa dal singolo o da strutture idealmente orientate. Più sfumato, ma analogo nel merito, un recente documento approvato dal Consiglio dei diritti dell’uomo dell’Onu, per il quale ogni piano nazionale deve garantire l’accesso a interventi essenziali per la salute, come i Servizi di pianificazione familiare, la gestione delle gravidanze inattese, compreso l’accesso a servizi di aborto. Ancora nel 2013 il Parlamento europeo boccia la risoluzione presentata da Edite Estrela tesa a promuovere negli Stati membri dell’Ue le pratiche di fecondazione artificiale, contraccezione, aborto e teorie del gender. Infine, nel dicembre 2014 il Parlamento francese approva una Risoluzione che menziona direttamente il diritto di aborto. Si può quasi parlare d’un assedio contro la vita, contro le Carte dei diritti umani che pongono il rispetto della vita a base di ogni altro diritto. Oggi il relatore belga Marc Tarabella ha fatto approvare dal Parlamento europeo un Rapporto che ripropone la sostanza del documento Estrela. Esso auspica, per le donne, «il controllo dei diritti sessuali e riproduttivi, segnatamente attraverso un accesso agevole alla contraccezione e all’aborto», e propone che siano «sostenute le misure e le azioni volte a migliorare l’accesso delle donne ai servizi di salute sessuali e riproduttivi». Il linguaggio è più sfumato, ma la sostanza è identica, la definizione del diritto di aborto con i corollari sanitari e sociali propri di un diritto della persona. La strategia a favore dell’aborto si nutre di tante cose. Di un lessico appena più cauto per evitare opposizioni da parte di chi considera l’aborto di un figlio nel novero dei drammi vissuti dalle donne; di tattiche parlamentari che cercano di far leva sulla disciplina di partiti e movimenti 'di sinistra', compreso il Pd italiano; di una riproposizione continua di testi appena modificati nelle parole, ma con lo stesso obiettivo. Questa strategia fa riflettere sulla vera posta in gioco, che consiste in una svolta regressiva nella concezione dei diritti umani, e nel tentativo di colpire l’obiezione di coscienza, tutelata da documenti internazionali, ma insidiata in alcuni Paesi, a livello amministrativo o giurisprudenziale. Sarebbe una svolta senza ritorno, che si riempirebbe di contenuti sempre più ampi. Tutto ciò che alcune legislazioni nazionali introducono in materia di sessualità e procreazione come possibilità individuali, diverrebbe previsione generale a livello europeo, con l’aggiunta di una sanzione valoriale che porterebbe a introdurre le innovazioni nei programmi d’insegnamento scolastico, come già è avvenuto in Spagna e altri Paesi. Non a caso, nonostante il principio di sussidiarietà in queste materie, il Parlamento europeo è stato chiamato anche a 'condannare' il referendum in Croazia per confermare il matrimonio tra coppie eterosessuali. Si esalterebbe l’aborto come diritto della persona, meritevole d’essere tutelato e promosso nelle scuole e negli istituti di educazione, e d’essere sostenuto dallo Stato e dalle strutture sociali come evento positivo per la donna. Infine, si giungerebbe a declassare l’obiezione di coscienza attraverso meccanismi già conosciuti, prima di restrizione, poi di disconoscimento valoriale (perché contrasterebbe un diritto), infine come oggetto di un vero divieto che porrebbe la coscienza individuale di fronte a drammatici conflitti. Si aprirebbe la strada a stravolgimenti di altri diritti umani che già oggi sono posti a rischio di limitazioni e restrizioni: il diritto di educazione dei genitori in materia sessuale, l’obiezione di coscienza rispetto all’affidamento di bambini a coppie non eterosessuali, il diritto della donna di essere difesa da sfruttamento per la maternità surrogata, e altro ancora. Possiamo riassumere tutto nell’orizzonte di una 'ideologia di Stato' che eleva a unico criterio valido la scelta individuale, con la negazione del diritto degli altri, di chi sta per nascere, di chi non vuole partecipare alle pratiche abortive, di chi intende seguire orientamenti diversi. Una volta potevamo considerare questa conclusione esagerata, frutto di interpretazione anch’essa ideologica della realtà. Oggi purtroppo va tenuta presente perché l’elevazione dell’aborto a diritto della persona, oltre a svilire il valore della vita umana, costituisce come la caduta di un limite che apre la strada a uno scenario in cui la vita, il matrimonio, l’educazione sessuale, sono visti in un’ottica puramente materiale, spogliati di ogni senso di responsabilità che spetta all’essere umano nei confronti di sé stesso e degli altri.

Pag 3 La responsabilità come sfida dell’Expo di Leonardo Becchetti Un’occasione da non perdere, per cambiare

In questi giorni siamo invasi da una melassa pubblicitaria sull’Expo che è effettivamente una grande occasione per il nostro Paese. L’Expo 2015 ha l’ambizione di aver scelto un tema impegnativo come quello del cibo e della sostenibilità sociale. Il tema poi però bisogna svolgerlo e il Papa con un messaggio che più stringato di così non poteva essere ha messo tutti alle strette sulla questione essenziale. Nel mondo oggi c’è cibo per tutti, ma molti non mangiano. È la sintesi dei pregi e dei difetti del nostro sistema economico dove il problema non è la creazione di beni e servizi, ma la loro distribuzione. In questo nostro sistema dal 2000 a oggi è stato prodotto quasi un quarto di tutti i beni apparsi sulla faccia della terra dalla nascita di Cristo. In esso 85 super ricchi hanno un patrimonio pari a quello dei 3 miliardi dei meno abbienti, e l’1% dei più ricchi arriverà entro il 2016 a possedere tutto quello che ha il restante 99%. Eppure, come detto argutamente da un vignettista, «è prematuro per alcuni parlare di redistribuzione, bisogna aspettare – prima – che uno solo abbia tutto». L’economia civile ha già le soluzioni pronte. Passare da un sistema 'a due mani' (mercato e istituzioni) a un sistema 'a quattro mani' dove un ruolo chiave complemenetare a quello di mercato e istituzioni è giocato da cittadini responsabili che 'votano col portafoglio' e imprese civili che non hanno come unico obiettivo la massimizzazione del profitto. Non sono parole vuote, ma realtà che esistono e stanno crescendo. Lo scorso anno le vendite dei prodotti equosolidali sono cresciute del 33% in Germania, del 26% in Olanda del 16% nel Regno Unito e mediamente più del 20% in Europa. Il 'voto col portafoglio' dei cittadini responsabili che hanno acquistato questi prodotti ha contagiato grandi aziende multinazionali che hanno parzialmente iniziato ad adottare tali pratiche. In finanza, i fondi etici che 'votano col portafoglio' selezionando anche sulla base della responsabilità sociale e ambientale sono ormai a una quota pari al 41% in Europa (6.900 miliardi di euro) secondo i dati Eurosif, anche se i filtri sono ancora troppo blandi. Per rendere più facile l’azione dei cittadini responsabili, Oxfam ha lanciato la grande campagna 'scopri il marchio' proprio nel settore del cibo. Ci ricorda che nel mondo ci sono ancora 840 milioni di persone che soffrono la fame a fronte di più di un miliardo di persone sovrappeso, che il cambiamento climatico minaccia i raccolti e l’offerta di acqua potabile e che la lotta per la terra rischia di essere foriera di gravi conflitti negli anni futuri. Osserva che le 10 'grandi sorelle' del cibo hanno ricavi uguali al Pil combinato di tutti i Paesi a basso reddito del mondo e pubblica le pagelle dei loro comportamenti in materia di uso di terra e acqua potabile nonché di diritti del lavoro lungo la filiera sulla base di una batteria di indicatori pubblicati e verificabili. Chiede, infine, ai cittadini di inviare messaggi in rete alle aziende per stimolarle a far meglio. Dall’inizio della campagna sono arrivati più di 700mila messaggi, e 32 maggiori fondi d’investimento con un patrimonio attorno a 1,5 trilioni di dollari si sono uniti a Oxfam nella campagna di pressione. Il risultato è stato che nove aziende su dieci hanno modificato le loro politiche sul cibo. La campagna è in divenire e i suoi progressi sono verificabili online su www.oxfamitalia.org. Il mondo sta cambiando velocemente e può farlo ancora di più. Abbiamo bisogno di 'enzimi', ovvero di partiti, sindacati, enti intermedi, organizzazioni influenti di buona volontà che aggreghino e rendano più forte e visibile il 'voto col portafoglio' (o col mouse) di queste coalizioni di volenterosi che già oggi si stanno impegnando. Abbiamo bisogno di 'Primi Maggio' che non siano sterili rimpatriate per ascoltare concerti in piazza, ma manifestazioni di folla per rendere visibile il voto col portafoglio proprio come nella campagna slotmob sull’azzardo. In un’economia globale la battaglia contro la svalutazione salariale, contro la corsa al ribasso su diritti del lavoro e tutela dell’ambiente non si può più fare in un solo Paese, ma va condotta a livello globale usando questi strumenti. Le stesse aziende aspettano la mobilitazione dei cittadini e rispondono con piacere quando osservano che le loro iniziative di responsabilità sociale e ambientale possono essere premiate dai consumatori e dai risparmiatori. I tempi sono maturi e se qualche 'enzima' inizierà a lavorare in modo serio per questo cambiamento l’anno dell’Expo sarà veramente un anno memorabile e non un’inutile melassa retorica.

Pag 10 “Dalla A ma senza la Z. Perché noi siamo eterni” di Lucia Bellaspiga Gian, 20 anni di saggezza. “Spaccato in due”, il libro che spopola sui social network

In questo libro si parla spesso degli occhi di Gianluca, bellissimo ragazzo di vent’anni, occhi che ti trapassano, che ti chiamano in causa e non ti lasciano in pace nemmeno un istante. 'Spaccato in due' (ed. San Paolo), scritto a quattro mani dallo stesso Gianluca Firetti e don Marco D’Agostino, è in ventuno capitoli, uno per lettera dell’alfabeto. Così nella prefazione Gianluca, che da pochi giorni non c’è più, può darci ancora il suo consiglio, di 'meditare questo testo lettera per lettera', e aggiungere che se non troviamo la Z non dobbiamo allarmarci, 'noi siamo fatti per il cielo. Per sempre. Per l’eternità. Per questo non ho voluto che don Marco scrivesse l’ultima lettera dell’alfabeto...'. È il sacerdote a snocciolare l’alfabeto di Gianluca dalla A di 'Adesso' a quella Z che è una pagina bianca. Per mesi ogni giorno, mentre l’osteosarcoma condannava il suo giovane amico, don Marco decideva con lui gli argomenti del loro libro. La sua era, tra i tantissimi amici, la visita più attesa, perché quello da scrivere non era semplicemente un libro, era la preghiera di Gianluca per ciascuno di noi, il suo accorato modo per dirci 'tu che ancora puoi, tu che hai tempo, scopri il vero senso della vita e non sprecarla'. Lo capivano, e ne restavano sconvolti, tutti coloro che lo incontravano, dagli amici ai medici, dal personale dell’hospice agli infermieri: conoscere quel ragazzo bello e forte, perito agrario, terzino destro della sua squadra di calcio a Cremona, poi da un giorno all’altro messo al tappeto dalla malattia, eppure dalla malattia portato a vivere con gioia e intensità mai conosciute prima, cambiava le persone. La fede di Gianluca annichilisce persino il sacerdote. 'Gian è scioccante', annota alla C di 'Carrello'. È il giorno di Natale, don Marco gli chiede che regalo desideri, 'fare la comunione', risponde sicuro. Il fatto è che a venti anni non ha tempo da perdere, il suo lo ha quasi esaurito, così punta dritto all’essenziale, sa e capisce tutto, sfronda rami secchi e pensieri inutili, è attratto solo dal vero. 'È arrivato a una sintesi della sua vita', scrive don Marco. 'Un ragazzo che, per Natale, desidera il Regalo più bello e più vero che ci sia: Gesù'. Lo ha spiazzato ancora una volta, così gli viene un’idea, celebrare la Messa di Natale in casa sua, accanto al suo letto. E l’altare? L’essenziale è di nuovo visibile solo agli occhi di Gian, «usiamo questo», dice del carrello delle medicine, quello che usano gli infermieri per cambiargli gli aghi della morfina, i genitori e il fratello per dargli l’acqua, 'il carrellino che serve anche per i bisogni fisici, ma Gesù non si scandalizza', anzi. Le medicine sotto, il Farmaco dell’immortalità sopra. Una pagina di alta teologia scritta da un ragazzo malato con una fede d’acciaio. Morirà il 30 gennaio. L’8 dicembre 2014, giorno dell’Immacolata Concezione, decide di scrivere al Papa. A Roma tanti disabili sono andati a ricevere la sua carezza, lui che non ha potuto gli chiede la certezza della sua preghiera: 'Così sarà come stringerti la mano perché tutti e due ci siamo pensati'. Lo spazio, come il tempo, non contano più. Persino l’hospice diventa, per i tanti amici che passano per la sua stanza, 'un piccolo santuario dove si prega', dove il malato contagia gli altri con la sua speranza certa e la gioia di una consapevolezza misteriosa. Quando non ce la fa più, al Signore non chiede di guarire, «se puoi, smezzami la croce. Spaccala a metà, perché per me è troppo pesante ». Come il Cireneo. Sereno perché sicuro di essere ascoltato. Alla O di osteosarcoma, sappiamo che la malattia è sconfitta, perché abbattendosi sul corpo 'ha reso il suo spirito così libero e puro' da convertire chiunque. 'Voleva aggredirlo, invece ha liberato il meglio di Gian'. Che è mancato proprio il giorno in cui il libro nasceva. Il gruppo di amici, da lui uniti su Facebook (Fili di speranza) e in Whatsapp, continuano ad esserci e a recitare l’alfabeto di Gianluca, contagiati nella forza della vita.

Pag 28 Anche nell’Islam c’è spazio per la critica di Chiara Zappa Intervista alla teologa musulmana Housmand, docente alla Gregoriana

«Stiamo attraversando un momento buio, affrontiamo eventi che ci spiazzano, eppure il Corano ci ricorda che – sempre – laddove c’è una difficoltà, proprio lì si annida una 'facilità', ossia la possibilità di un’evoluzione positiva. Allora dobbiamo chiederci: come possiamo allargare lo sguardo su ciò che avviene intorno a noi, per scorgere le opportunità di miglioramento che questo momento ci offre?». Shahrzad Houshmand parla dei fatti di attualità che in queste settimane – dalla Nigeria di Boko Haram, dal Medio Oriente sconvolto dal sedicente Stato islamico e persino dal cuore dell’Europa, ferita dal terrorismo – non cessano di irrompere nelle nostre vite, portando con sé domande e inquietudini su quanto una fede, strumentalizzata e piegata agli scopi di folli opportunisti, possa rappresentare una minaccia per tutti. Per Houshmand, nata e formatasi in Iran, da anni in Italia dove è docente di studi islamici alla Pontificia Università Gregoriana di Roma, cercare una via a partire da ciò che il Testo sacro suggerisce è naturale. E il suo sguardo è particolarmente interessante, perché questa teologa musulmana, come tante sue colleghe in tutto il mondo, è insieme una negazione vivente della presunta subalternità della donna nella religione islamica e una protagonista di quell’opera di rilettura del Corano che, a partire dallo sguardo femminile sulla fede e sul mondo, punta ad attualizzare i precetti e le tradizioni dei Testi sacri alla luce delle sfide del presente. Professoressa Houshmand, concorda sul fatto che in molti contesti islamici questa attualizzazione non è compiuta adeguatamente, e che ancora oggi certe letture del Corano prestano il fianco all’accettazione della violenza come misura estrema? «Se analizziamo gli episodi di violenza nella storia dell’umanità, ci rendiamo conto di una costante, e cioè che le guerre si combattono sempre in nome di qualcosa di bello: un ideale, un modello di società giudicata buona, una fede. Sebbene in origine nessuna religione, filosofia o ideologia ponga come obiettivo il male, tuttavia nessuna è stata immune da questa strumentalizzazione. Così è successo e succede con l’islam. Tra gli oltre seimila versetti del Corano, quelli che possono essere interpretati come una giustificazione alla violenza non arrivano a dieci. Eppure c’è chi, approfittando dell’ignoranza dei fedeli, manipola proprio queste poche righe per convincerli a operare il male. Le faccio un esempio molto concreto, che riguarda un contesto caldo come quello del Pakistan: il Paese della giovane premio Nobel Malala Yousafzai e delle sue lotte per il diritto allo studio. Ebbene, qui il governo ha tolto le risorse all’istruzione pubblica aprendo le porte alle scuole private, che spesso sono scuole coraniche finanziate dall’estero (e dovremmo andare a vedere chi le finanzia…) dove si punta solo alla memorizzazione del Corano, senza una lettura consapevole e responsabile, anche perché gli allievi non sono di madrelingua araba. In questo modo, l’interpretazione dei versetti sarà appannaggio di pochi, mentre le masse potranno essere manipolate facilmente». Secondo molti studiosi, tuttavia, il problema è che l’islam non avrebbe ancora accettato l’idea di una cultura critica: è così? «Nel Corano, la creazione dell’essere umano è narrata in una scena allegorica in cui questa nuova creatura, Adamo, viene presentata agli angeli, che ricevono dal Signore l’ordine di inchinarsi davanti a lui. Quando loro chiedono il perché, la risposta è che l’uomo 'è in grado di capire e conoscere'. Il Testo sacro, dunque, afferma che il criterio principale che determina la supremazia dell’essere umano è la conoscenza. Una religione di questo tipo non può non contemplare la critica! E lo testimonia anche la storia della civiltà islamica: dalla Penisola arabica, in molti ebbero il coraggio di andare in terre lontane - Persia, Grecia, India - soprattutto per conoscere altre culture, religioni, filosofie, le scienze stesse, fino a crearne di nuove. Pensiamo al ruolo di Avicenna per la medicina, ma anche ai contributi islamici nel campo della matematica, dell’astronomia, dell’agricoltura… Dimenticare questo atteggiamento fa entrare nel buio i popoli, le scienze, le relazione tra culture e danneggia dall’interno l’islam stesso. Ma oggi, a fianco di contesti di oscurantismo, esistono anche molti esempi di pensatori che, nel mondo islamico, elaborano criticamente la dottrina ». In questa rilettura della religione, in prima linea ci sono molte teologhe accomunate dall’idea che l’islam, lungi dall’essere maschilista in sé, sarebbe stato manipolato per secoli, in funzione della sottomissione femminile, dai detentori del potere politico e religioso. Che ne pensa? «Oggi sono numerose le teologhe che si autodefiniscono 'femministe musulmane', dall’Iran al Marocco, dalla Tunisia all’Indonesia, fino all’Europa. Ma già la vita del profeta Muhammad fu inondata dalla presenza femminile. La prima persona che credette in lui fu Khadija, che sarebbe poi diventata sua moglie anche se era una vedova quarantenne, mentre lui aveva 25 anni. Per Muhammad divenne una sorta di protettrice, anche nei momenti più difficili della sua vita sociale, e una direttrice spirituale. Poi c’è Fatima, figlia di Khadija e unica erede del profeta, che le garantì assoluta libertà e le diede il soprannome di 'Ummi abih', 'madre del proprio padre'. Infine Aisha, la sola vergine che fu sposa di Muhammad, che avrebbe assunto un ruolo fondamentale della trasmissione della tradizione». E che cosa è andato storto nei secoli successivi? «Si è verificato lo stesso meccanismo che osserviamo anche in altre religioni, compresa quella cristiana: l’interpretazione del Testo finisce nelle mani degli uomini e si arriva all’emarginazione delle donne, in varie forme e gradi diversi. Invece, basta leggere il Corano per osservare come Dio sia in un certo senso più 'madre' che 'padre': i due nomi di Dio ripetuti all’inizio di ogni capitolo sono 'Rahman' e 'Rahim', 'Clemente' e 'Misericordioso', che hanno la stessa radice di 'rahem', ossia l’utero materno… ». Questa esegesi operata dalle teologhe quanto pesa nel contesto della teologia islamica globale? «La madre stessa della spiritualità musulmana è una donna: Rabia al-Adawiyah, che visse in Iraq nel primo secolo del calendario islamico. Ma anche il mistico andaluso Ibn Arabi, vissuto nel XIII secolo, ebbe soprattutto maestre donne, così come ragazze furono in maggioranza le sue discepole. Una tendenza che riscontriamo un po’ ovunque, dall’India, alla Persia, alla Turchia. Purtroppo, negli ultimi secoli la voce delle musulmane è stata abbassata con forza. Eppure, oggi, le teologhe islamiche stanno tornando sulla scena. E il loro lavoro comincia ad avere un peso». Lei vive in Europa, come 16 milioni di musulmani: si tratta di un contesto favorevole al confronto dell’islam con la modernità? «Come accennavo, le teologhe musulmane stanno lavorando molto bene anche in Marocco, Tunisia, Egitto… Siamo in movimento, fisicamente e intellettualmente, e siamo in comunicazione. È questo mischiarsi ad essere positivo e proficuo: le donne, che fanno riferimento a contesti molteplici e molto diversi, costituiscono delle 'finestre' che danno più luce al pensiero collettivo. Così, ognuna di noi ha molte più possibilità per conoscere, leggere, comprendere, crescere. Anche in quei Paesi o contesti in cui la libertà è limitata». E il non essere di madrelingua araba è un limite per l’autorevolezza di chi fa teologia? «Non dobbiamo dimenticare che meno del 20% dei musulmani, al mondo, è arabo madrelingua! Se, per un teologo islamico, la conoscenza dell’arabo è essenziale per una corretta interpretazione dei Testi sacri, la divulgazione della dottrina può essere compiuta in qualunque lingua». Le divisioni nell’islam, in particolare tra sunnismo e sciismo, sono sotto gli occhi di tutti: è possibile parlare di una 'teologia islamica' tout court? «C’è un detto del profeta che afferma: 'Nelle differenze del mio popolo c’è la misericordia e l’amore'. La diversità, se è letta bene, può assolutamente essere positiva e non sfociare appunto nelle divisioni. Se le fonti del Corano sono uniche, nella tradizione invece solo una parte dei Testi è comune, mentre c’è un’altra parte che viene presa in considerazione diversamente dal mondo sunnita e da quello sciita. Ma la differenza è prevista nel disegno di Dio, e non può in alcun modo giustificare scontri né tantomeno guerre». Di fronte alla violenza che strumentalizza la religione, le donne musulmane possono rappresentare un’avanguardia del dialogo? «È una sfida importantissima ed entusiasmante. Insieme ad alcune amiche, nel nostro piccolo, abbiamo messo in piedi l’associazione 'Donne per la dignità', di cui sono presidente, che vuole appunto servire la dignità dell’essere umano a partire dal carisma femminile. Ma a livello globale sono molti i segnali che dimostrano quanto le donne dell’islam possano contribuire alla crescita e allo sviluppo umano della società. Pensiamo solo alla premiazione, negli ultimi anni, di ben tre attiviste musulmane con il Nobel per la pace: prima l’iraniana Shirin Ebadi, poi la yemenita Tawakkol Karman e infine, pochi mesi fa, la pakistana Malala Yousafzai. Donne provenienti da contesti geografici e culturali diversissimi, eppure accomunate dall’impegno per rinnovare le proprie società. Segno che lo Spirito ci porta ad agire per il bene comune. Quindi sì, mi auguro che il cambiamento possa partire dalle donne».

IL GAZZETTINO Pag 1 Il premier che avanza e l’opposizione senza progetto di Alessandro Campi

L’intreccio tra politica e giustizia è da vent’anni il tratto caratterizzante della nostra vita pubblica, al punto da averne scandito i passaggi storici e istituzionali più delicati, ivi compresi appuntamenti elettorali e crisi di governo. Si tratta di una anomalia o maledizione alla quale gli italiani si sono persino rassegnati, sino a mostrarsi in maggioranza indifferenti alle molte circostanze in cui esso si è riproposto con un tempismo che i garantisti hanno sempre definito sospetto o strumentale e i giustizialisti frutto solo della casualità e di coincidenze tanto maligne quanto fortuite. Quell’intreccio si è riproposto ieri ancora una volta ed è parso quasi ovvio o scontato, se esso non fosse invece il segnale di un Paese lacerato e che non trova pace. Mentre alla Camera dei deputati si votava la riforma costituzionale voluta da Renzi, e sino all’altro ieri appoggiata anche da Silvio Berlusconi, poco più in là, nella sede della Cassazione (VI sezione penale), si decideva sulla sorte giudiziaria di quest’ultimo, con riferimento ad uno dei tanti procedimenti che in questi anni lo hanno avuto per imputato, quello relativo al “caso Ruby”. La giornata si è svolta nel clima contraddittorio e drammatico che più volte in Italia abbiamo vissuto, proprio per via di questo mescolarsi simbolico tra i palazzi del potere e quelli dove si esercita la giustizia. Ma ha messo in luce anche la drammatica asimmetria sulla quale oggi si regge la democrazia italiana. Si è infatti certificato che Renzi procede senza avere avversari o oppositori che possano frenarne i piani di riforma e le ambizioni. Quelli interni al suo partito, la cosiddetta sinistra del Pd, sono una pattuglia sempre più residuale, che sembrano battersi soprattutto per non vedere cancellata la propria identità e il proprio residuo prestigio. Quelli esterni – dal M5S a Forza Italia, dai leghisti a quel che resta della destra post-missina – sono invece divisi tra loro e nei rispettivi ranghi, privi di una strategia comune e senza chiari obiettivi, quindi innocui o facile da manovrare. La serata è invece trascorsa nell’attesa nervosa del pronunciamento, dal valore a sua volta più politico che giudiziario o personale, su Berlusconi. Il caos nel centrodestra, con Forza Italia ai minimi storici nei consensi e ormai in pezzi come partito, per divisioni politiche cui si sono sommati antichi rancori personali, nasce infatti – al netto delle disavventure giudiziarie di Berlusconi - dal non aver risposto tempestivamente alla sfida rappresentata dalla comparsa di Renzi sulla scena politica nazionale. Mentre il centrosinistra rigenerava se stesso intorno a un nuovo leader e a un nuovo gruppo dirigente, il centrodestra si è illuso di poter riproporre agli elettori il suo antico organigramma, a partire da un Berlusconi padre nobile, novello federatore o pur sempre soggetto trainante di quell’area. Mentre il Pd renziano apriva al centro moderato e faceva propri i cavalli battaglia di quest’ultimo, accettando di pagare un prezzo alla sua sinistra, il centrodestra si è ritrovato improvvisamente afasico e privo di progetti o slogan, che non fossero quelli mutuati dalla sua ala più radicale in materia di sicurezza, immigrazione e antieuropeismo, col risultato di vedere crescere la Lega nei sondaggi e di doverne subire la crescente egemonia sul piano dell’immagine. La stessa idea di una collaborazione con Renzi nel segno della responsabilità istituzionale, oltre a produrre un accordo svantaggioso per l’intero centrodestra come quello sulla legge elettorale e un crescente disorientamento nell’opinione pubblica moderata, ha a sua volta dato spesso l’impressione di essere stata dettata più dal bisogno di salvaguardare interessi personali propri di Berlusconi che da una ragione politica generale. E come se non bastasse dall’accordo con Renzi a tutto campo, comunque motivato, si è repentinamente passati allo scontro frontale col centrosinistra senza troppe spiegazioni pubbliche che non fosse l’accusa al Presidente del consiglio di essere stato scorretto al momento di scegliere il nuovo Capo dello Stato: un atto di resipiscenza, il passaggio di Forza Italia all’opposizione, che comunque è parso denotare, agli occhi degli elettori, una grande incertezza tattica e un atteggiamento pericolosamente ondivago. E che in ogni caso non sembra sufficiente per ricompattare l’area moderata e per renderla nuovamente competitiva. La verità è che Renzi nell’arco di due soli anni ha scombussolato l’agenda politica, le alleanze parlamentari e sociali, le modalità della comunicazione politica, le dinamiche istituzionali. Ma al centrodestra, e in particolare a colui che è stato il più grade innovatore, nel bene e nel male, della politica italiana dell’ultimo ventennio, tutto ciò è semplicemente sfuggito o è parso irrilevante. Non ha stimolato alcun cambiamento, nelle idee e negli uomini, e l’irrilevanza odierna di quel mondo ne è la logica conseguenza.

Pag 17 In Italia il matrimonio è un istituto giuridico tra coppie eterosessuali di Ennio Fortuna

Tra i tanti inconvenienti dei ritardi della politica c’è anche questo: il rischio crescente che il giudice si sostituisca al legislatore, dettando regole e divieti. Personalmente ritenevo inutile e oziosa un’altra pronuncia della Cassazione in materia. Più volte la Corte lo aveva già detto, e inoltre anche la Corte Costituzionale si era pronunciata nello stesso senso: nell’ordinamento italiano il matrimonio è un istituto riservato esclusivamente a coppie di sesso diverso, il che non esclude il riconoscimento giuridico di unioni civili tra omosessuali, a patto però che non si parli di matrimonio vero e proprio. Senza ripercorrere le tappe di un iter ormai millenario è facile ricordare che il matrimonio è, come si è già detto, un istituto giuridico aperto solo a coppie eterosessuali. Lo dice inequivocabilmente il codice civile, lo ribadisce solennemente il diritto canonico che fa riferimento anche al bene della prole, ma lo esigono anche la Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Non avrebbe senso infatti il comma secondo dell’art. 29 della Carta che stabilisce il principio dell’uguaglianza giuridica dei coniugi. Se i coniugi fossero o potessero essere dello stesso sesso, il testo costituzionale non avrebbe avvertito il bisogno di proteggere formalmente quello più debole, specie all’epoca della promulgazione della legge fondamentale, e quindi la donna che si unisce all’uomo in matrimonio dando vita a quella che secondo la definizione accolta dai costituenti è una società naturale titolare di diritti fondamentali nel consorzio civile. E sotto il profilo internazionale forse non vale neppure la pena di ricordare che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo fissa solennemente il principio che ”a partire dall’età maritale, l’uomo e la donna hanno il diritto di sposarsi e di formare una famiglia, secondo le leggi nazionali (e quindi anche e soprattutto secondo il nostro ordinamento civile e canonico) che regolano l’esercizio di questo diritto”. Posso ovviamente sbagliare, ma mi sembra evidente e assolutamente incontestabile, il riconoscimento della legittimità della scelta delle nostre leggi e il valido fondamento della nostra tradizione e cultura. Il tentativo dei ricorrenti, respinto dalla Cassazione, si basava sulla norma della Carta di Nizza (art.9) secondo cui il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti, ma la Corte non ha avuto difficoltà a replicare che si tratta di un diritto da esercitare ”secondo le leggi nazionali che lo disciplinano” e si è già detto che da noi il matrimonio è consentito solo tra persone di sesso diverso. Insomma non c’è da aspettarsi novità, il matrimonio è e resta un istituto riservato a coppie di sesso diverso, altrimenti, come riconosce la giurisprudenza, il negozio sarebbe tecnicamente inesistente. Si può forse aggiungere che la pronuncia pone in grave crisi la prassi che si va instaurando nei comuni italiani, e che prevede la possibilità della trascrizione negli appositi registri dei matrimoni tra omosessuali contratti all’estero. Sulla scia della sentenza è facile prevedere anche la dichiarazione di illegittimità della trascrizione, visto che si trascrive un negozio da noi tecnicamente nullo, e anzi inesistente, nonché contra legem. Non a caso il Tar di Roma ha detto che la trascrizione è un atto nullo, perché contro la legge, anche se la relativa declaratoria è riservata esclusivamente al giudice, e interdetta ai Prefetti. L’altro aspetto della sentenza si riferisce al riconoscimento delle unioni civili tra omosessuali. Anche qui Cassazione e Corte Costituzionale ribadiscono il loro punto di vista favorevole. Le unioni civili sono lecite e socialmente doverose, a patto di non scambiarle o di parificarle a un matrimonio. Si tratta ancora di un avvertimento e di una sollecitazione alle prerogativa del Parlamento. C’è da sperare che almeno questa volta la politica stia bene attenta, anche a evitare imprevedibili ma sempre possibili iniziative giudiziarie in sostituzione di quelle riservate alle Camere, ma ormai attese invano da anni.

LA NUOVA Pag 1 Il realismo esasperato della fiction di Ferdinando Camon

Il reality è un genere televisivo costellato di tragedie. La più grave è successa ieri. Dieci morti nello scontro di due elicotteri, in Argentina, e poiché i più illustri di quei morti sono francesi, tutta la Francia è in lutto. La più conosciuta delle vittime è la medaglia d’oro olimpionica di nuoto Camille Muffat, grande rivale di Federica Pellegrini. Federica ha diffuso un messaggio in francese (per parlare nella sua lingua all’amica che non c’è più): «Parfois la vie n’est pas juste», a volte la vita è ingiusta. Parfois, Federica? Perché non dici sempre, toujours? Come dice un poeta francese, il destino “rotola” nella stessa rovina le formiche e le generazioni umane. Con Camille erano una velista, un pugile, e altri, erano all’apice della vita, della salute, della forza e del successo: se la morte è niente, sono passati dal tutto al niente. Così pensano tutti coloro che li ammirano e li conoscono. Che conoscono il loro sport, il loro lavoro o il loro spettacolo. Perché questi erano in Argentina per realizzare una puntata di uno spettacolo televisivo, un reality, una sfida di sopravvivenza tipo la nostra “Isola dei famosi”, un prodotto svedese diffuso in Francia, che ha un trailer dal tono sinistramente profetico. Si vedono i protagonisti, a coppie, a gruppi, in paesaggi diversi, monti, boschi, e didascalie in rapida successione che garantiscono: “Niente cibo”, e cioè bisogna procurarselo, altrimenti muori di fame; “Niente mappe”, ti devi orientare da solo, altrimenti sei perduto; “Niente aiuto”, ti devi salvare da te, se no addio. Gli attori che interpretavano reality come questo, sono morti per colpa del reality? Si può dire che questi dieci personaggi sono morti di reality? Poiché fare un reality vuol dire lavorare per noi, sono morti per noi? Rispondiamo: Sì. Questi reality non sono finzioni, sono realtà. La serie che si stava realizzando adesso, in Argentina, era la ripresa di una precedente, interrotta per la morte di un attore. Anche in quell’occasione l’équipe aveva un medico con sé, per legge, perché son lavori pericolosi e non c’è assistenza nei paraggi. Dopo la morte dell’attore, il medico si suicidò. Segno che aveva coscienza di un eccesso di pericolo e un’insufficiente protezione, e si sentiva in qualche modo colpevole. Ci sono reality in cui i protagonisti devono superare prove inaudite di coraggio, affrontare bestie selvagge, lasciarsi coprire di insetti muniti di pungiglione, fermarsi in mezzo al fuoco... Gli attori “devono” tremare e rabbrividire. E perché? Perché il tremito e il brivido degli attori sono necessari per ottenere il tremito e il brivido degli spettatori. Gli spettatori “sentono” se una scena terrificante è vera o falsa. Se è falsa, non si emozionano, e invece di spaventarsi sghignazzano. Ci vuole realismo, per fare bene un reality. Ci vuole sangue. Vomito. Crisi. Svenimenti. Ricoveri. L’interesse del pubblico crea l’Affare, e l’Affare è un dio: gli attori che muoiono interpretando reality sovraccarichi di realismo, sono le vittime scagliate in bocca al dio-moloch del successo, per placarlo. Non sappiamo perché c’è stato questo incidente tra elicotteri, ma sappiamo che tutti i passeggeri a bordo erano bendati, lo dice la stampa locale. Le prove che bisogna superare hanno “sempre” qualcosa di extra, di inventato apposta, che le rende uniche. Il pubblico le guarda per questo. Non sono lo specchio della nostra vita pericolosa, sono uno specchio deformante che la rende più pericolosa. Il pubblico ormai ha i nervi ottusi dalle troppe emozioni, ha bisogno di superemozioni, le chiede e le paga. Perciò, quando succedono disgrazie come questa, il pubblico che ama questi spettacoli non è del tutto innocente.

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