Ritorno alla vita Sui di Di Gregorio Samsa Tratto da “Pink Floyd – Volume secondo”

Soldi, che sballo! Prendi su a piene mani e metti via

Per anni è stato fin troppo facile spiegare la reunion dei Pink Floyd con quest'aureo motto scolpito nel fumo-e-sogno di DARK SIDE OF THE MOON, anno di grazia 1973. Ma i rintocchi della Division bell, all'inizio del 1994, sembrano suonare anche un'altra musica. Orgoglio, mettiamola così, voglia di segnare per quanto possibile gli anni '90 dopo avere unghiato a fondo i tre decenni precedenti: o puntigliosa vendetta, anche e soprattutto, smania di dimostrare che , il convitato di pietra, il mai citato onnipresente Nemico, si era sbagliato quando aveva sprezzantemente chiuso la partita – “non ce la farete mai senza di me”. Per tutto questo, e altro ancora che i Floyd non dicono (hanno scelto di tacere, dopo anni di torrenziali polemiche e spieghe), THE DIVISION BELL suona come il disco più accurato e scrupoloso da chissà quanto, forse dal originale, 1979. Lo dice se non altro il tempo impiegato a registrare - un anno e anche di più - secondo le vecchie abitudini. Lo conferma la scelta di reintegrare Rick Wright in pianta stabile e non soltanto, com'era accaduto con imbarazzo le ultime volte, come uno stipendiato de luxe. Proprio quando tutti erano pronti a consegnarli agli archivi e a dimenticarseli, insomma, i Pink Floyd tornano a essere un vero complesso e a progettare il futuro. II 2000 non è così lontano e un Gilmour a quel punto cinquantaseienne potrebbe anche salutarlo sciabolando la sua chitarra in sella a un maiale volante. THE DIVISION BELL nasce dalla produzione di e , come già il precedente MOMENTARY LAPSE OF REASON: la grafica è ancora una volta affidata all'hipgnotico Storm Thorgerson. La conferma di quel team vincente è il segno, e non poteva essere altrimenti, che il gruppo

Pagina 1 intende muoversi nella continuità rispetto al passato, senza arrischiare una sola unghia di veramente nuovo. L'errore di Roger Waters non era forse stato quello di disconoscere i Floyd come tabù, di immaginarli come un guscio che solo i singoli membri (e massimo lui) potevano animare? I Pink Floyd esistono, invece, immutabili al di là di tutto e di tutti, monolito più suggestivo e inquietante di quello scelto per la copertina. Gilmour, Mason, Wright non possono far altro che assecondare quel mito, continuando a disegnare vaporosi archi sonori che non portano da nessuna parte, a concentrare la luce su pungenti assoli dietro cui c'è il vuoto, a stimolare l'attenzione con immagini suggestive e superficiali, enigmatiche e vane - ieri le mucche nel prato di , oggi le pietre da Isola di Pasqua nella campagna inglese e i misteriosi segni braille sul bordo del CD. E tale il desiderio di replicare modelli già provati, che l'effetto è a tratti imbarazzante. Siamo sicuri che l'inizio di non fosse pronto da almeno dieci anni, con quella chitarra - gabbiano che si lamenta nel vuoto dei sogni di primo mattino? E What Do You Want From Me, con la sua placida andatura che s'interrompe amara e brusca, non è forse un outtake di THE WALL, registrata lo stesso giorno di Hey You? E come se un enorme computer Floyd - onnisciente avesse catalogato tutti gli assoli, tutti i rhythmpatterns, tutti gli effetti speciali e le inflessioni vocali di una vicenda ormai trentennale e ora venisse usato da Gilmour e i suoi per una ricombinazione, una fra i miliardi di quelle possibili. Echi di , di DARK SIDE OF THE MOON, di ANIMALS rimbalzano così nell'orecchio e si mescolano ad altri piccoli campionamenti non Floyd: la chitarra The Edge di (“un sub-Simple Minds non del tutto U2”), l'andatura dylan-nashvilliana di , la citazione sprinsgteeniana di Lost For Words (il “furto d'autore” riguarda Indipendence Day) e il pop da ore piccole di Wearing The Inside Out, dove Richard Wright riemerge con la sua voce titubante ventun anni dopo l'ultimo lead vocals — per la storia, era Time, su DARK SIDE OF THE MOON. Anche gli spettri, immancabili in simili castelli

Pagina 2 Ritorno alla vita del passato, anche loro sono ben noti, o almeno così pare: è Barrett il golden boy catturato nella nostalgica tela di e Waters il nemico a cui Gilmour apre invano la sua porta in Lost For Words, una canzone che il grafico non a caso ha decorato con la foto di due guanti da boxe. Impossibile negare fascino a queste pagine, se non altro perché tipiche, perché accuratamente simili ad altre passate fascinazioni. Che poi non accada nulla di veramente significativo, che sia tutto un glorioso e retorico già-ascoltato, è cosa nota e forse anzi l'elemento chiave del gioco. Ai fans piacciono proprio queste abluzioni nell'abitudine, questi placidi refoli di “psichedelia rassicurante”, com'è stato scritto bene, di “esperimenti senza sperimentazione”. Due parole sui collaboratori. La novità è Polly Samson, giornalista del Sunday Times e compagna di vita di Gilmour, che con il suo uomo spartisce buona parte dei testi. Altri contributi vengono da Laird-Clowes e da quell' vent'anni fa impegnato su più interessanti fronti con gli Slapp Happy - suoi i versi di Wearíng The Inside Out, su musica di Wright. I passaggi orchestrali sono diretti da Michael Kamen, già noto per le sue “armi letali” con Eric Clapton. Gli strumentisti che accompagnano i Floyd sono gli stessi di DELICATE SOUND OF THUNDER, con l'importante eccezione di al posto di Scott Page al sax. Parry è una figura di culto del mondo Floyd dai tempi di DARK SIDE OF THE MOON e Shine On You Crazy Diamond. A suo tempo si era ritirato dalla scene e conduceva una vita randagia, vivendo su una roulotte per le strade di Cambridge. Si è rifatto vivo con i vecchi compagni l'autunno scorso chiedendo se c'era qualcosa di nuovo e loro, per tutta risposta, l'hanno ingaggiato per disco e tour. II tour, per l'appunto, ecco dove si verifica subito l'impegno dei vecchi/nuovi Floyd. Senza por tempo in mezzo, il gruppo lo allestisce già nella primavera 1994, in coincidenza con il lancio americano di THE DIVISION BELL. Quindici giorni di prove a marzo nel sorprendente scenario di una base aerea di Palm Springs, California, lontano da occhi indiscreti: poi il debutto senza rete già il 30 marzo, al Joe Robbie Stadium di

La scoperta del pianeta rosa Pagina 3 Miami, davanti a una folla entusiasta (e fradicia, per la pioggia torrenziale) di 55.000 persone. II programma del tour prevede 54 date in tutto: in America fino al 18 luglio (East Rutherford, New Jersey) e poi in Europa, da Lisbona (22 luglio) alla maratona conclusiva di Londra (dal 12 al 29 ottobre), passando per cinque date italiane a Torino, Udine, Modena e Roma. Numeri giganti, come sempre: 200 uomini al seguito, 8 bus, 49 camion e un aereo privato, 700 tonnellate d'acciaio per le strutture, montabili in non meno di tre giorni, pasti caldi ogni sera per 220 persone, fra addetti ai lavori e ospiti. Come in studio, anche in scena a prevalere è la voglia di collegarsi al passato, di essere parte di una storia ormai consolidata che dalle luci stroboscopiche dell'UFO Club porta ai combattimenti aerei sul palco di “The Wall Tour” e agli enormi letti volanti dei concerti '88. Per questo il nuovo show può deludere i fans “hollywoodiani”, per come rinuncia a inseguire gli U2 di “Zooropa” sul terreno del più nuovo-più spettacolare-mai visto, preferendo un attento montaggio di vecchie trovate sempre efficaci. Ecco dunque gli ormai leggendari maiali volanti, il grande schermo circolare su cui si proiettano vecchi e nuovi clips, la miriade di raggi laser colorati e la sfera di specchi, grande peraltro come non è mai stata e programmata per aprirsi e trasformarsi in fiore. I Floyd suonano in un palco semicircolare lungo 57 metri e alto 18, con un disegno che ricorda quello dell'Hollywood Bowl. I roadies impiegano diciotto ore per montarlo; accanto a quella struttura, viene sistemato un enorme dirigibile lungo 55 metri. Lo spettacolo dura due ore e mezzo ed è un accorto viaggio nella storia Floyd. Comincia con una Astronomy Dominé eseguita con bello scrupolo filologico (la versione di Miami si può ascoltare nel mini CD di Take it Back appena edito) e prosegue poi con citazioni dal repertorio più recente, MOMENTARY LAPSE OF REASON e buona parte di DIVISION BELL. Dopo Keep Talking inizia una lunga serie dei greatest hits, a zig zag nel tempo, interrotta solo dalla nuova High Hopes giusto al principio della seconda parte. Sono brani che ogni appassionato di fede floydiana sa di

Pagina 4 Ritorno alla vita aspettarsi, i più celebri e collaudati: da Shine On You Crazy Diamond, Another Brick in The Wall, da Wish You Were Here a Money e , con arrangiamenti che apportano solo minime variazioni alle versioni live già conosciute. Dopo una ventina di brani, chiude il concerto, mentre il cielo è solcato da fuochi d'artificio. Ultime parole (per il momento):

David Gilmour:

«Quando siamo tornati sulle scene, con MOMENTARY LAPSE OF REASON, il piglio era quello di chi strillava: “Guardate, siamo ancora qui!”. Era un album chiassoso. II nuovo disco è molto più riflessivo e delicato, e per questo lo preferisco a qualsiasi altra cosa abbiamo fatto dopo WISH You WERE HERE.»

Nick Mason:

«II ritorno sulle scene mi ha reso di nuovo giovane, e credo che Roger ne sia in parte l'artefice. Ho avuto l'impressione che, se non fossi stato pronto a rischiare tutto, allora c'era qualcosa che non andava, e sarebbe stato meglio se avessi fatto l'architetto.»

Luglio 1994

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