I CORIMBI 72 © Copyright 2012 by Avagliano Editore Srl Viale dell’Esperanto 71 • 00144 Roma www.avaglianoeditore.it

ISBN 978-88-8309-366-1

Prima edizione: novembre 2012

Hanno collaborato alla realizzazione di questo libro:

Gianni Bonfiglio (Direttore)

Daniela D’Angelo (Editing)

Michela Boccalini (Copertina e impaginazione)

Global Print S.r.l. - Gorgonzola (MI) (Stampa)

Questa storia è opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti e a persone è da ritenersi puramente casuale.

In copertina: l’Editore si rende disponibile agli aventi diritto. Serena Frediani Memorie dall’innocenza

A Federico e Riccardo, con amore e a coloro che hanno perso qualcosa di importante

Se l’oblio mi avesse purificato se avessi avuto un sasso nel petto se fosse stato l’acciaio a palpitare nel mio cuore avrei dimenticato e strappato le pagine nere.

M. al-Faytūrī

PRIMA PARTE

Il giorno in cui la mia vita cambiò era il 17 ottobre 2006. La metro affollata tagliava la mattina, portandosi dietro i grandi spostamenti umani di uffici e affari. Quella mattina avevo allungato il tragitto per ve - dere un fornitore e dopo l’incontro tornavo indietro, ad aprire il mio negozio. Seduta in treno, Song to the siren nelle cuffie e lo sguardo distrattamente deposto sulla mia mano, ab - bandonata sul ginocchio. Ad un tratto una scossa violenta. Visualizzavo an - cora la mano vibrare assieme alle mie gambe, dopo una frazione di secondo scrosciò un rumore metallico, infernale. Sollevai lo sguardo: i passeggeri in piedi precipitavano gli uni sugli altri, alle note di Tim Buc - kley si erano sovrapposte grida e, immediatamente dopo, cadevo a terra anche io. Il treno successivo, alla fermata di piazza Vittorio, si era schiantato contro il convoglio sul quale mi tro - vavo. In quell’incidente una donna morì, io e altre cen - tinaia di persone fummo ferite. Tra loro c’era il mio destino, era lì, di fianco a me, riverso sul pavimento di una corsa sfortunata.

11 “Se non mi dici che mi sposi giuro che mi butto!” Questo è Tommy. In piedi sopra tre metri di vuoto, sguardo che si impone intimidatorio su un visetto pro - piziante, ciondola, in attesa della risposta di Daria. In questo momento ha nove anni ed è più grande di lei di tre mesi: abitano nello stesso palazzo, da sempre, e ogni giorno, da sempre, giocano nel cortile alla ri - cerca di tesori e segreti. A volte Tommaso vuole impressionarla portandole qualche lucertola, ma lei urla e scappa, lui la insegue mentre sghignazza e giura che non lo farà più. Da un po’ di tempo le dice di volerle bene e che vuole fidanzarsi con lei, ma Daria, figuriamoci, non ci pensa proprio. È testardo e non si arrende. Prima ha provato a convincerla con bigliettini, disegni e fiori colti in giardino, ha persino comprato un peluche con i risparmi del salvadanaio. Non ottenendo nessun cam - biamento con le buone, è passato alle cattive. Ha ini - ziato coi dispetti, e questa fase è durata per qualche giorno. Le parla con toni sgradevoli, le tira i capelli, le scaglia addosso il brecciolino con la cerbottana. Col ri - sultato di averla soltanto infastidita. Allora ha cambiato tattica: ha smesso di farsi trovare in giardino e, dopo una settimana di assenza, quel giorno è ricomparso così, con l’espressione accentata da un sorriso di sfida, a guardarla dall’alto - troppo alto - in piedi, con le brac - cia dondolanti e le gambe perennemente sbucciate, sulla costruzione che ospita la caldaia condominiale.

12 “Se non mi dici che mi sposi giuro che mi butto!” “Smettila e scendi!” lo implora, e dalla paura le si mozza il fiato. “Non stai promettendo quello che ti chiedo! E al - lora… - interrompe la frase e cambia posizione, ac - cenna una genuflessione e fa roteare le braccia, poi prosegue - …mi butto!” “No! - grida la ragazzina, mentre vede che sta per staccare un piede dal cornicione - E va bene, ti sposo, ti sposo!” gli urla disperata. Si immobilizza, e a quel punto sgancia un sorriso vincente. “Lo giuri?” “Sì, sì!” “Bene, allora siamo intesi!” “Ora scendi!” E, mentre tutto contento fa per prendere la scaletta, si calpesta i lacci della scarpa, inciampa, e, nonostante abbia estorto la promessa di matrimonio, vola, atter - rando due metri e mezzo più in basso.

Eccolo lì, Tommy, rimboccato nel materasso 5, ha la caviglia sinistra ingessata, una fasciatura dal collo fino al braccio sinistro, e una benda sulla fronte. Tutti e due non sanno nulla di ospedali, e quella è la prima volta che ci entrano. Daria ha voluto subito andare a trovarlo, e mentre attraversa il corridoio fino al reparto di traumatologia, le sembra una costruzione enorme, serissima e impregnata di uno strano odore. Quando Tommy la vede entrare tira fuori uno sguardo da campione. Lei gli si avvicina, vergognandosi come fosse col - pevole, nota su di lui qualche abrasione ancora vermi - glia e la sua fronte si corruga per la pena.

13 “Come stai, Tommy? Ti fa male?” chiede, e gli fa una carezza alla mano. Tommy solleva la spalla destra e storce i lati della bocca per dire di no. Poi le dice, tutto soddisfatto: “Ti ho visto che piangevi prima, allora vedi che mi vuoi bene anche tu?” Lei lo guarda ancora con gli occhi sgranati, senza aggiungere altro. “E guarda che ormai hai promesso che mi sposi!”

14 Era trascorso un mese dall’incidente alla metro. Stavo bene: ne ero uscita con la sola distorsione del braccio destro, ora in via di totale guarigione. Non avevo subìto traumi cranici. Tuttavia sotto terra quel giorno mi era accaduto qualcosa. Una spac - catura d’insieme che non aveva radice fisica, ma che da quell’episodio aveva trovato la scusa per saltar fuori dal suo starsene lì, acquattata e silenziosa, a bru - care zone dell’anima che avevo reso fino ad allora in - sensibili. Uscii da quell’incidente con un braccio ingessato e la genesi di un’ineluttabile ribellione ce - rebrale, dichiarata da un quid , che, per cambiare la mia vita, iniziava sottraendomene un pezzo.

Me ne andavo dall’ospedale ricordando solo il mo - mento dell’impatto e gli istanti seguenti, ma nulla del resto, eccetto frammenti sfocati. Non mi ero resa conto immediatamente di questa amnesia. Era come se quella frattura, una volta prodotta la crepa, si fosse addormentata un’ultima volta. Per le prime settimane avevo avuto qualche episodio di pa - nico notturno, e provavo una grande ansia ogni volta che scendevo in metropolitana. Tolto questo, il lato lu - cido dell’esperienza non ospitava altro che la pena per coloro che erano con me quella mattina ed erano stati meno fortunati. L’altro lato, fratturato e invisibile, si stava svegliando.

15 Il giorno del risveglio ero in negozio, avevo appena ritirato le stampe e le conteggiavo, e dovevo esporre in vetrina gli accessori appena arrivati tra le forniture. La mia situazione finanziaria era in discesa da mesi e non accennava recuperi. Stavo pensando seriamente di lasciare l’attività perché le spese erano maggiori del guadagno. Erano sorti altri due negozi di fotografia e ottica in linea d’aria vicino alla mia attività, lungo la via Appia Nuova, ed erano quindi più visibili rispetto al mio, che si trovava in una strada secondaria. Erano, inoltre, di impronta molto più commerciale mentre il mio manteneva un taglio più elitario, per appassionati e affezionati. A conti fatti e rifatti, la dura verità era da accettare e ingoiare amaramente. Mi mancava tuttavia il distacco, o forse il coraggio di avviare le procedure per cedere o vendere il negozio. L’attività mi era stata lasciata da mio nonno Antonio. Pensavo sempre a lui, era stato con me per venti - cinque anni e quello era il suo laboratorio fotografico; l’unica cosa che mi rimaneva di lui. Nonno era un genio, credeva fermamente nel po - tere delle immagini, nell’interezza della realtà che esi - ste in un solo scatto di visione parziale, al punto di essere un rivoluzionario in questo. Una sua fotografia della guerra fu pubblicata su un numero del Life, e da quello scatto la sua passione ebbe consistenti gratifi - cazioni e conferme. Le mostruosità vanno documentate e non nascoste, diceva. Nonno aveva iniziato subito a collaborare con l’Ansa e con alcuni quotidiani che usavano la sua pro - fessionalità per accompagnare con immagini gli arti - coli di denuncia. Dopo qualche anno trascorso a lavorare per giornali e riviste, e quindi spesso in giro

16 per il mondo, si era innamorato, e in breve tempo aveva deciso di mettere nuove radici alla sua vita. Si sposò con mia nonna e avviò il laboratorio fotografico, decidendo che avrebbe reso servizio anche alla bel - lezza e alla dignità del quotidiano. Tra gli anni ’50 e ’70 aveva raccolto centinaia di foto meravigliose, da lui personalmente scattate e svi - luppate. Affermava che dopo aver visto quello che si vede in guerra, tutto il bello che c’è al mondo andasse espresso e immortalato, come per riscattare certe be - stialità umane e scolpire un monito imperituro: la ca - pacità di poter fare anche il bene. Mia nonna custodiva tutti i suoi lavori, lui si ado - perava totalmente negli scatti ma non aveva alcuna de - dizione nel conservarli, e grazie a lei ora erano tutti ben archiviati in due grandi faldoni riposti nell’arma - dio. Li ho trovati una volta, la prima volta, che avevo tredici anni: alcuni ritagli provenivano da millenni fa, pagine ingiallite, così diverse dalla rappresentazione attuale della realtà, pagine macchiate, dall’odore acre ma accogliente come un vecchio e dolcissimo ricordo. Sfogliarlo e rimanere attratta e incantata, appassiona - tamente rivolta alla comprensione, alla conoscenza del meccanismo dell’immagine, mi mise immediatamente in contatto con un ardore che non conoscevo, e chie - dendogli di insegnarmi a usare la sua Canon A-1 com - presi che avevo ereditato quella passione da lui.

17 La porta si aprì. “Salve.” “Buongiorno!” Lo avevo riconosciuto. L’uomo ferito accanto a me il giorno dell’incidente ora era in piedi nel mio negozio. Ero stupita di aver messo di colpo a fuoco: avevo can - cellato tutto dell’incidente, pensavo che per qualche ra - gione quel file fosse stato espulso in modo permanente dalla mia memoria, invece, alla sola vista di quella per - sona riuscii a collocarla perfettamente al suo posto negli eventi. Fui sorpresa di rivederlo, e non intuivo se fosse capitato per caso nel mio negozio o se fosse venuto a cercarmi intenzionalmente. Me lo disse un attimo dopo. “Ho pensato spesso di venirti a trovare. Volevo ri - darti questo.” Si avvicinò alla mia mano e la riempì con il mio lettore mp3. “Ah! Grazie! Credevo di averlo perso…” “Invece l’ho trovato tra i miei oggetti all’uscita dell’ospedale.” “Ti eri ferito allora?!” “Sì - mi guarda esitante - non ricordi?” “No, mi dispiace, non ricordo nulla.” “Ma di me ti ricordi!” “Sì, è strano. Ho rimosso qualunque volto, qualsiasi immagine. Soltanto di te mi sono ricordata.” Mi guarda, e sembra pensieroso. “Ricordo solo il tuo viso: so che eravamo vicini du - rante l’incidente e in ospedale. Non ricordo nulla di più.”

18 Sembra deluso, dispiaciuto. “Come hai fatto a rintracciarmi? - gli chiedo - Non conosci nemmeno il mio nome, voglio dire…” Si avvicina di nuovo alla mia mano e indica l’ade - sivo pubblicitario del negozio, incollato nel retro dell’iPod. “Ah!” esclamo. Fa un simpatico cenno con il capo. “Be’, come stai?” gli chiedo allora. “Bene. Tu, sei guarita?” “Sì, grazie. Sto bene anche io.” Rimaniamo qualche istante senza dirci nulla, senza per questo provare imbarazzo. Da subito si è distratto per via delle foto attaccate alla parete, e ora le guarda attentamente. Le guarda con un’accuratezza più che professionale. “Sono molto belle.” “Grazie, è mio nonno che le ha scattate.” Si sofferma su un ingrandimento, sviluppato sia a colori che in bianco e nero, posto al lato della cassa. È uno scatto meraviglioso sulla vetrina di un fornaio, nel 1959. “Si intitola Pane ” gli dico. E mentre lo dico penso a quante volte nonno mi ha ripetuto quella frase… “Sai qual era il mio sogno in guerra, durante la prigionia? Di fare abbuffate di pane…” Mi viene spontaneo sorridere, perché mi riappare negli occhi l’immagine di quante volte l’Alzheimer lo trascinasse a ripetere le cose, a rivivere i ricordi più antichi come fossero freschi, e come certe epoche con - tinuassero a essere presenti nelle nostre vite grazie alla sua crudelissima malattia, che dolcemente accudiva

19 fotografie in bianco e nero selezionate nella sua me - moria, eliminandone molte altre a colori.

Io mi sono persa in questo ricordo, ma lui lascia proseguire lo sguardo dalle foto direttamente ai miei occhi e mi riprende nella realtà. Sembra che voglia continuare a cercare, a guardare. Mi dice: “Io sapevo dove trovarti.” Rimango invischiata tra quelle parole e il suo sguardo, la mia naturale durezza non sa opporre resi - stenza al calmo magnetismo che da lui nasce, sponta - neamente mi attraversa e che mi sembra di aver già ospitato in un’altra era, come un déjà vu. “Io conosco il tuo nome - continua - e tu conosci il mio.”

Chiudo gli occhi, davanti a lui. Mi porto indietro…

Mano sinistra sul ginocchio, mano sinistra che trema, rumore infernale, cado a terra, lui è accanto a me sul pavimento. Poi più niente…

Buio, non riesco a rintracciare il momento successivo.

Il mio sforzo mnemonico viene interrotto dalla porta, che si apre per due volte di seguito, portando di fronte a me due clienti. Lui fa spazio e si avvicina all’uscita, gli dico non preoccuparti, puoi rimanere, e lui no, sta’ tranquilla, torno domani, e mi saluta con il suo movimento lunato del capo.

20 Indietro. Mano sinistra sul ginocchio, mano sinistra che trema, rumore infernale, cado a terra, accanto a me c’è lui, supino, sul pavimento. Buio. “Ti puoi muovere?” mi chiede. “Penso di sì. Tu puoi muoverti?” “Non lo so, credo di avere qualcosa alla gamba.” Abbasso lo sguardo verso le sue gambe, e mi rendo conto che la destra è rimasta incastrata sotto una fila di sedili. Non si vede quasi nulla, le luci sono intermittenti, si solleva un fascio di urla e non si capisce cosa stia succedendo. Alla mia sinistra ci sono due ragazzi che si danno una mano per rialzarsi, sento qualcuno piangere non lontano da me, ma non vedo… Non capisco da dove provenga il lamento, che si confonde con altre grida, altri suoni ferrosi. Lui però lo vedo bene in viso. Ha folti capelli, scuri come gli occhi, la sua bocca sottile si sbilancia verso destra. “Come ti chiami?” “Jean.” Le urla, i pianti e il disordine metallico sono tutti intorno a noi. Non sappiamo se quello che è appena accaduto sia finito o se ci inghiottirà di nuovo. Non mi importa. La mia reazione ha risucchiato via qual - siasi altro dato, mi concentro sulla realtà, umana e vi - cina a me.

21 “Che bel nome. Sei francese?” “A metà! Mio padre era francese, mia madre italiana.” “Piacere Jean - stringo la sua mano - io sono Daria, e ora ti aiuto.” Altro rumore, tremore del pavimento. Grida. Di nuovo buio. Buio.

22 “Jean!” lo accolgo appena entra e immediatamente vengo travolta da un lascito emotivo intenso. “Ciao Daria” la sua espressione di sorpresa rimarca i nostri nomi, spuntati da una memoria riaffiorata pro - digiosamente. “Vieni, accomodati. Oggi è una mattina molto fiacca.” Gli preparo una sedia a fianco alla mia, dal mio lato del banco. Non capisco il motivo, ma sono scossa e la tachicardia ne è la dimostrazione. Sono sicura che se Jean è ora davanti a me ed è tor - nato a cercarmi per due volte non è per cortesia, ma deve esserci una ragione, che per lui, che chiaramente vede tutti gli elementi, deve essere trasparente. La ni - tidezza dell’insieme per me invece è invisibile, ancora mi sfugge. Una raffica di domande sta per tuffarsi dalla punta della gola. Le trattengo tutte, non sapendo quale sia quella giusta tra tante che si accodano al trampolino. Chiedo solo: “Come va la tua gamba?” “Ehi, quante cose ti sei ricordata!” “Sì, è incredibile! Avevo provato tante volte, dopo l’incidente, a ricostruire i passaggi. Sono stata in terapia per questo motivo, ma senza nessun risultato. Invece ieri mentre te ne andavi ho rivissuto qualcosa, all’im - provviso. Non vedo ancora tutto, ma solo una parte molto piccola, i primi momenti successivi allo scontro.” “Poco per volta ricorderai.”

23 “Tu ricordi tutto?” “Io sì.” Mi guarda dritto negli occhi, sembra voler travasare dentro di me il ricordo di ciò che abbiamo vissuto. “Hai voglia di un caffè?” Glielo preparo con la macchinetta dell’espresso. Lo prende amaro. È un uomo di buone maniere, ecco la sua prima qualità. Salta all’occhio perché la sua non è soltanto educazione, possiede piuttosto una gentilezza sincera, un garbo pulito e aperto che emerge più palesemente per quanto questo tipo di compostezza sia raro. “Fumi?” gli domando. “No, non sono mai stato capace.” “Uh! Che fortuna che hai - gli dico, strizzando un occhio e tiro fuori il mio pacchetto dalla borsa - Mi fai compagnia per il tempo di una sigaretta?” Usciamo e ci sediamo sulla panchina, sul marcia - piedi di fronte al negozio. Non fa troppo freddo e la luce è quella giusta. “Lo so che lavoro fai?” Risponde subito di sì, e dal suo sorriso intuisco che la mia domanda deve essergli sembrata molto buffa. “Dimmelo ancora” chiedo, mentre accendo e mando giù il primo tiro. “Sono giornalista.” “Per quale giornale lavori?” “Scrivo per L’Express. ” Lo guardo con profonda perplessità. “Ma… non è un giornale francese?” “Sì. Ho abitato a Parigi per dodici anni, sono tor - nato da pochi giorni a Roma. Fino alla fine di novem - bre sono ancora dipendente di quel giornale.”

24 Cerco di sforzare il ricordo, ma nulla. “Quel giorno avevo un colloquio per un lavoro qui.” “E lo hai perso…” “Sì, ma ho avuto occasione di rimandarlo. È andato bene.” “E di cosa scrivi? Economia? Politica?” “Mi occupo di politica estera. Sono inviato di guerra.” “Complimenti, che lavoro coraggioso ti sei scelto.” Lo guardo con profonda ammirazione. “Sono tornato dal Sudan da poco.” “Sei stato nel Darfur?” “Sì, sia lì sia a sud del Paese. Diverse volte negli anni.” “E… com’è?” gli domando, presa da troppe volontà di conoscere, ma pentendomi immediatamente di una domanda così ridicola. “È sempre peggio…” Il suo sguardo sbiadisce dietro un’avaria di fram - menti acuminati. Prende il portafogli dalla tasca, lo apre ed estrae due fotografie. “Guarda” mi dice, mostrandomene una. Ossa ferocemente esposte di una bambina dalla bel - lezza struggente, con addosso un abito giallo e uno sguardo ferito, tuttavia fiducioso. “Lei si chiama Lubna, è una ragazzina dinka. I ge - nitori sono spariti dopo una delle tante sanguinose ri - volte. Qualcuno dice che il padre sia entrato nell’eser - cito popolare per la liberazione del Sudan, altri pensano che siano morti entrambi, per altri ancora sono diventati schiavi. Forse hanno cercato rifugio ai confini. Chissà. Lei, intanto, da più di due anni è ri - masta sola con suo fratello.” Non mi sforzo neppure di trovare parole da ag - giungere.

25 “Lui… non so come si chiama” mi dice, mostran - domi l’altra foto: un ragazzino, non maggiore di dieci anni, che tiene in spalla un kalashnikov, o un’arma si - mile. Mi guarda, e cogliendo la mia pena, mette subito fine all’argomento. “Ora basta però, sono stanco di vedere tutto quello che si vede.” “Vedere quello che si vede - ripeto - È quello che diceva mio nonno quando parlava delle tragedie e della guerra.”

Mi chiede di mio nonno e gliene parlo. Gli mostro una foto, sorride alla vista dei suoi baffi: aveva un gran bel paio di baffi! Gli dico che aveva anche un carattere spigoloso eppure io e lui eravamo uniti dalle stesse corde, mi leggeva l’anima. Era nato povero, da una famiglia di contadini, era l’ultimo di undici figli. Aveva lavorato sempre, anche quando andava a scuola, aveva solo diciassette anni quando era scoppiata la guerra, aveva vissuto quattro anni in prigionia dapprima in Africa, dove aveva la - vorato al porto di Tripoli, poi in Francia, a Marsiglia. Era sopravvissuto alla fame, al peso infinito della tra - gedia armata. Dopo la guerra, aveva costruito solo con le sue forze il piccolo palazzo di tre appartamenti nel quar - tiere Trionfale, dove con mia nonna e la nostra fami - glia abbiamo vissuto insieme, e dove ora, da quando i miei nonni sono morti, vivono i miei genitori e mia sorella con la sua famiglia. Aveva scelto di mettere in piedi un’attività per de - dicarsi alla passione della fotografia, comprando da un caro amico il piccolo negozio a San Giovanni, e

26 trasfor mandolo in laboratorio fotografico. Ha lasciato a me quell’eredità assieme alla piccola casa dove ora abito, a Largo dei Colli Albani, che era appartenuta a Maria, una delle ultime sorelle rimaste in vita. Jean mi ascolta. Mi dice che abitiamo nella stessa zona. Getto la cicca e mi alzo in piedi. Lui rimane seduto e mi guarda. Affonda gli artigli del suo sguardo sul mio volto. Poi lo sguardo scende, per un attimo fruga sotto il mio cardigan. Mi ha guardato di nuovo in viso, e infine ha abbassato gli occhi. Non ho provato alcun imbarazzo, ma lui evidente - mente sì. “Devo tornare dentro, ora, a far finta di avere un’azienda con dei clienti.” Sorrido. Entra con me, prende la sua giacca. “Ora me ne devo andare.” Rovista in una tasca ed estrae il suo biglietto. Lo lascia sul banco. “Ecco - dice - così mi puoi rintracciare… se ti viene in mente il resto, se hai bisogno di un supporto.” “E se non mi ricordassi più niente?” È già arrivato alla porta, ha già afferrato la mani - glia, si volta verso di me. “Mi ricorderò io.”

La sera, tra la rivista di fotografia digitale e la ti - sana, tra le mie dita correva il suo biglietto. E il suo nome. Jean Arcand.

27 Tommaso ha 11 anni. È in prima media, è in classe con Daria. Non sie - dono allo stesso banco perché le ragazze, si sa, vo - gliono stare vicine tra loro. Ma lui è appagato: può guardarla e parlarle quando vuole. Un giorno arriva a casa e gli dicono: “Tommy, è nato tuo fratello Gabriele.” Il ragazzino sale a casa di Daria prima di andare in ospedale. Un fratello è l’evento più grande che gli sia capitato e lui senza Daria non sa viverlo. “Vieni con me, in ospedale? Non voglio vederlo da solo.” “Ma che dici, è tuo fratello!” “La fai facile! Quando tu sei nata, Giorgia c’era già da un bel pezzo e mica hai dovuto vedere pannolini e sentire urla e puzza di latte tutto il giorno!” “Ma certo che sei strano forte! - gli risponde infi - landosi il cappottino - Nemmeno tu sai che vuol dire avere un fratello, ancora, e già sai tutto!” Mentre arrivano al reparto, Tommy si volta verso Daria, che nasconde un imbarazzo dolce, per la timi - dezza di trovarsi protagonista in una circostanza non famigliare, e lui invece sorride, con il suo sguardo da campione. La prima volta che vedrà una vita appena esposta al mondo sarà quella, e al suo fianco ci sarà la sua amica, che ama più di tutto ciò che conosce. “È lui, lì, al letto 16.”

28 Il padre di Tommaso, in preda a una commovente euforia, indica, in mezzo alla nursery, proprio quel bambino che strepita più di tutti. Daria rimane a bocca aperta. “Com’è carino!” Tommy le prende una mano e avvicinandosi al suo orecchio le dice: “Cominciamo bene!” E mentre lei inizia a ridere, lui resta in contempla - zione, un po’ di suo fratello, e un po’ della ragazzina che gli è accanto.

29 “Come ti chiami?” “Jean.” “Che bel nome. Sei francese?” “A metà! Mio padre era francese, mia madre è ita - liana.” “Piacere Jean - stringo la sua mano - Io sono Daria, e ora ti aiuto.” Altro rumore, tremore del pavimento. Grida. “Ti fa male?” “No, non sento quasi dolore.” “Ce la fai ad alzarti?” “Ci provo.” Lo aiuto a tirarsi in piedi. Le grida si diradano, le mie orecchie sono concentrate solo sulle sue parole. Intravedo, mentre si solleva, la sua smorfia di sforzo e dolore. Poi più voci mi giungono da una pluralità di sor - genti: È un attacco! Sono terroristi? Che succede? Io assurdamente non mi sono posta nessuna do - manda, ho creduto che fosse arrivata la fine, forse, o forse nemmeno quello. Non provo nulla, ecco, se non la convinzione di concentrarmi sull’oggetto: credo in quello che ho davanti agli occhi, Jean in dif - ficoltà, devo aiutare lui, il resto è fuori fuoco, non mi interessa. Quella mattina indosso gli stivali con un cenno di tacco. Lui è appena più alto di me, lo lascio appog - giare alle mie spalle, lo sostengo con un braccio. L’al - tro è penzoloni, intorpidito. Non provo alcun dolore

30 ma mi sembra di patire il suo corpo. Sensazioni fallaci e beffarde. Tira fuori dal taschino la pochette, e l’accosta al mio naso. “Stai iniziando a sanguinare” mi dice con un filo di voce. Ha una voce tagliente e rauca. “Ah, non è niente.” Lo guardo dal buio innaturale di un giorno sotto terra. “Ti stai sforzando a stare in piedi. Guarda, lì c’é un posto a sedere!” “Non preoccuparti, ecco, appoggiamoci qui!” mi dice, spostando il suo peso sulla parete e tirando un lungo sospiro. Mi trascina vicino a sé. Sento do - lore alla spalla, ma non mi concentro su di esso e mi porto il fazzoletto al naso. Mi accorgo che l’altro braccio lo sta cingendo ancora. Con quella mano lo sfioro sul fianco, le dita sono l’unico insieme sen - sibile in quell’attimo, e vogliono toccare l’oggetto della realtà. C’è un frastuono che proviene dall’esterno e final - mente delle luci. Ecco, stanno aprendo le porte, ci portano fuori, al sicuro. Tutti si spostano verso l’uscita. Lui si muove a fatica. “Jean, non ti lascio.”

31 Mi sveglio di soprassalto. È domenica. Ho dormito sul divano. Sono stanca, ma è già mat - tino inoltrato. Il pranzo della domenica ha sempre l’in - vito valido in famiglia. Mentre mi infilo sotto la doccia calda decido di andare, e poco dopo mi immetto sulla tangenziale. Solo di domenica riesco a guidare fino a casa dei miei, la mia vecchia casa, perché non c’è traffico e la distanza non si amplifica assurdamente. Fa freddo, tremo quando mi fermo a prendere una crostata in pasticceria. Sono felice di stare a casa, ne ho bisogno puro; ma quando arrivo di fronte al portone, scorgo il giardino, gli spiazzi e l’ingresso di mattonato, il sangue si ritira e se non mi concentro mi vengono le convulsioni. Nessuno lo sa, e io ho dimenticato ormai che è un’ag - ghiacciante anomalia, tanto lontano è il tempo in cui è iniziata questa reazione di fronte a un carissimo nu - mero civico. Entro in apnea e ne esco quando mio padre apre la porta, con già in mano una bottiglia di Cannellino, mi stringe con forza e mi versa un dolce complimento nell’orecchio. Il cane e il gatto mi travolgono con feste e fusa, e al seguito Emma, la figlia di mia sorella Gior - gia, che ha appena imparato a camminare e già nes - suno sa più fermarla. Da quando ho avuto l’incidente mi abbracciano più forte di prima, mi circondano di attenzioni. “Come stai?” mi chiedono in coro Giorgia e suo marito.

32 “Bene, grazie!” Giorgia mi viene più vicina. Le leggo addosso lo sguardo da sorella maggiore, che si preoccupa. Non sa nascondere il bisogno di contatto. Mi deve abbracciare altrimenti soffre, io lo so, e le offro il collo. Mi abbraccia, mi accarezza i capelli. Poi ritorna di fronte a me e mi chiede: “Al braccio non hai avuto più fastidi?” “No, ho fatto anche un po’ di fisioterapia. Total - mente guarita.” “Perfetto! E la memoria?” “Meglio - mento, sedendomi a tavola - ho ricordato quasi tutto.” “Ah, vedi, lo avevano detto i dottori, infatti. Que - stione di tempo e pazienza” esclama mia madre, e sol - levata, si china verso di me e mi bacia sulla fronte. “Sto bene, e ho fame!” sbraito, affilando un sorriso dei miei, mentre inizio ad arrotolare gli spaghetti in - torno alla forchetta. A tavola, allacciata da tanto calore, mi trovo im - mersa in una vasca vaporosa di aromi benefici, mi perdo fino a non sapere dove sono andata a finire. Mio padre e mio cognato sono in soggiorno a scambiarsi i quotidiani, mia madre prepara il caffè. Giorgia mi ri - porta indietro. “Se vuoi posso darti una mano col negozio. Certo, ca - pisci che se continua proprio in caduta libera forse…” La interrompo: “Grazie sorella, magari ne parliamo con calma, ora non ne ho voglia e non saprei neanche cosa proporti.” Mi alzo e taglio la crostata a fette. La mia porzione la mangio in piedi, davanti alla finestra, guardando la panchina fuori, attraverso i vetri.

33 Freddo o caldo che sia il cielo, quel muretto di tufo in cortile è la loro panchina. Prima di entrare in casa si siedono sempre a chiac - chierare lì fuori, a volte per qualche minuto, altre volte per ore. “Sei troppo buona Daria, grazie.” “Non sono buona, è che mi piace prenderlo in braccio!” “Ah, ecco: quindi mi aiuti con l’algebra perché al - meno puoi giocare con Gabriele?” “Un po’ sì.” Le risponde con una linguaccia. “Sei lento a fare gli esercizi! Almeno mentre tu risolvi l’equazione io mi rendo utile e faccio la baby sitter, no?” “Sempre a pensare a quello strillone di mio fratello, che noia che sei.” “Ehi!” lo rimprovera. “Ma non sarà che per caso ti piacciono quelli più giovani?” “Stupido!” raccoglie il suo zaino e si solleva in un attimo. “E dai, scherzavo! Non te ne andare!” ha lo sguardo da cucciolo furbo, e cattura la sua mano. “Vado a pranzo che mia madre mi aspetta, poi scendo da te per l’algebra.” E quando arriva in ingresso, prima di sparire dalla sua vista si volta e urla sorridendo: “E per tuo fratello!”

34 L’incidente in sé per sé era superato, il trauma e la paura erano in gestione da un mio metabolismo emo - tivo che li aveva riassorbiti bene. Ma il mio assillo consisteva nel rintracciare il ri - cordo di quei passaggi a vuoto che Jean testimoniava e che, ero certa, dovevano essere ricordati. C’era solo un flash che appariva nei miei occhi: un bagliore infinitesimale che imprimeva la mia figura nel consegnare qualcosa nelle mani di Jean. Ero sicura che fossero le sue mani, anche se in quel lampo non arrivavo a distinguere il volto di nessuno. Qual era però l’oggetto della consegna? E potevo dire con certezza che si trattava di un ricordo e non magari di un sogno? In ogni modo, erano già tre giorni che il flusso di memorie si era interrotto in un corto circuito che pro - duceva a intermittenza quell’unica immagine fulminea.

Sono in negozio e quella scena continua a piom - barmi nella mente scaricando sempre lo stesso foto - gramma, quando due clienti entrano per dei rullini e uno per farsi fare una fototessera, e io non riesco a concentrarmi su nessuna di queste due semplici ope - razioni. Devo chiedere aiuto. Manca poco all’ora di pranzo, e lo chiamo. “Jean?” “Buongiorno, Daria.” “Ti disturbo? Ti sento in movimento.” “Sono in macchina, ma non disturbi. Come stai?” “Eh… Bene, più o meno.”

35 “È successo qualcosa?” “Sì. No. Scusami sono confusa. Non capisco… Mi torna continuamente in testa una scena in cui ti metto qualcosa nelle mani. Però non capisco di cosa si tratti, e soprattutto, non riesco a vedere se sia un ricordo o un’allucinazione.” “È un ricordo” risponde, con bianchezza immediata. Rimango di ghiaccio: ho paura di quello che non vedo, e soprattutto se si tratta di una mia ombra, an - cora di più se qualcun altro l’ha vista e la può guardare chiaramente prima di me. Io, invece, di quell’ombra non riesco a intuire neanche la forma e la misura. “Daria, ascolta. Non sono molto lontano. Ho un paio d’ore libere e stavo andando a pranzo. Se vuoi vengo da te e mangiamo insieme, così ne parliamo.” Venti minuti dopo siamo seduti alla tavola calda vi - cino al negozio. Prendiamo la quattro formaggi, ma io non riesco neanche a simulare un boccone. “Sta’ tranquilla, ti prego” mi dice, perché percepi - sce la mia agitazione. Sorrido fievolmente, sforzandomi di controllare il disagio. Non ci riesco, e butto fuori: “Non me lo ricordo bene, ma so che in ospedale siamo rimasti per ore. C’erano tanti feriti da soccor - rere, e abbiamo atteso a lungo il nostro turno. Tu eri con me, tutto il tempo?” “Sì, a parte durante le visite, sono stato con te pra - ticamente sempre.” “Io non ricordo nulla di quel lasso di tempo però lo so che nascosta in quelle ore c’è una cosa da ricordare!” Jean cerca di trovare i miei occhi inabissati in un fondale sgomento, cerca di afferrarli, di placcarli con

36 un movimento mite dei suoi per riportarli a riva, ma non glielo lascio fare, tanto convulsamente le mie pu - pille si dimenano e continuano ad andare a fondo, alla ricerca di un frammento. Esterrefatta, non sto la - sciando più spazio a nulla, se non a questa rabbia im - potente ma divoratrice. “Ho con me quello che ricordi di avermi dato” dice allora, facendosi poi scorrere il tovagliolo sulla bocca. Riemergo per un attimo, di nuovo agghiacciata, sperando e al contempo temendo che lui possa aiu - tarmi in modo diretto. “Ora tu sei agitata e lo capisco. Sei seduta di fronte a un perfetto sconosciuto che ti dice di sapere qualcosa sul tuo conto, che tu hai rimosso. Il buio fa paura, lo so.” “Abbastanza” dico, e mi scappa da ridere per la tensione. Lui non ci fa volutamente caso. “Oddio Jean… ma cosa mi è successo…” “Non è niente di grave.” “E allora perché sono ossessionata? E poi, tu… tu cosa c’entri?” Abbassa lo sguardo che finisce nel piatto. “No, scusami, non volevo essere scortese, non in - tendevo dire che sei un intruso.” Inizio a mangiare per il nervosismo, forzo lo sto - maco serrato per non parlare più, finalmente. Non ci diciamo infatti quasi niente, lui tace, chiuso nel cenno ammorbidito di una bocca curva, orientata al sorriso. Il suo non è un silenzio offeso ma scelto per discrezione, credo. Sto cercando di frenare l’assurdità di tante domande venute a galla. “Non ti ho raccontato nulla perché non ti farebbe bene, così. Sei tu che devi ritrovare il ricordo, e forse capire come mai lo hai abbandonato.”

37 “Ma è lui che ha abbandonato me!” “Sì - sorride - ma poi ha sguinzagliato un giornali - sta, francese a metà, per aiutarti a trovarlo.” Mi sfugge una mezza luna tra le labbra, e lo guardo con una riconoscenza sterminata e vera, che trova lo - gica in logiche che fanno a meno di me. Lui è attraversato da un’onda scarlatta, indietreggia con le spalle a toccare lo schienale della sedia, e solo al - lora rilascia i muscoli del volto a sdebitarsi di un sorriso. “Quanti anni hai, Jean?” “Quarantadue. Ma perché?” “Io ventisette. Ti sembravo più grande?” “No, e davanti a me sembri ancora più piccola.” Fa fatica a guardarmi, infatti lo vedo arrossire di nuovo, appena. Dopo aver attraversato in pochi minuti la in - tera delle emozioni di panico sono tornata in me, calma, poi, di fronte ai suoi occhi ho iniziato di nuovo a esitare, ho evitato di torturarmi le unghie, e l’ho subissato di domande per riempire un tempo in corsa che si strozza su un inevitabile strapiombo. “Scusami. Non so se mi farà bene sapere, non so se poi è tanto importante andare avanti.” “Perché hai tanta paura, adesso?” “Perché sento che da me stessa posso aspettarmi di tutto.” Ancora quel movimento con la testa, mi guarda aguzzando lo sguardo e poi si morde un labbro. “Tu sai che con questa risposta sei diventata in as - soluto la persona più complessa che abbia conosciuto negli ultimi dieci anni?” “Ah sì? - mordo di nuovo l’unghia - e prima di me, chi era?”

38 “Bah - abbozza un sospiro per far mente locale - sai che devo pensarci troppo per ricordarmelo?” Fa segno alla cameriera di portarci due caffè. Arri - vano in un tempo minimo, che occupa guardandomi con un misto di apprensione e premura. “Vieni, coraggio” mi dice, alzandosi e lasciando i soldi del conto sul tavolo. Lo seguo fuori. Fa freddo. Mi dice che la cosa è in macchina. Mi dice che ha parcheggiato poco più avanti. Prima che apra la portiera gli chiedo di poter fu - mare una sigaretta, temporeggio, e per la prima volta avverto che siamo a disagio. Entriamo nell’auto. Per galanteria mi fa accomodare sul sedile ante - riore, al posto di guida. Ma io sento che posso e che voglio fidarmi di lui, fosse solo perché sono aggrap - pata al senso della sua presenza. So che non mi farà precipitare. Respiro profondamente, lui non si muove, è girato verso di me, ogni sua futura azione sembra collegata alle mie. Chiudo gli occhi e sprofondo nel sedile. “Pensi che vedere mi scioccherà? Forse non sono pronta…” “Sei vicina alla verità ed è normale che tu abbia un po’ di paura, ma è solo per questo che ora sei re - calcitrante.” “Che belle parole che usi, sai? Anche nei momenti di panico…” “Be’, per fortuna! Io lavoro con le parole, e anche col panico.” “Forza! - butto fuori con un sospiro - Vediamo il malloppo.”

39 Apre il cruscotto. Prima di estrarre il contenuto mi guarda con intensità, e mi tranquillizza, mi dice: “Con calma. Sta’ tranquilla.” Ho il cuore in gola perché so da un bel pezzo che qualcosa non va. Ora ci siamo. Tira fuori un fascicolo di fotografie. Inizio a masticarmi un polpastrello e con esso ma - stico dubbi, cercando di ritrovare il gusto chiaro della mia sagoma integra. “Non posso averti dato questo. Da quella scheggia che mi balena nella testa ricordo che si trattava di qual - cosa di piccolo. Era una cosa che entrava nel tuo pugno e tu potevi richiuderlo.” “È così, infatti: tu mi hai consegnato due rullini. Io ne ho sviluppato uno, questo.” “Ma…” chiudo gli occhi e mi precipita addosso una valanga di torpore e fuoco. “Una cosa alla volta, va bene?” mi dice, metten - domi una mano su una spalla e spingendomi ad ag - ganciarmi alla realtà del suo tocco, del suo sguardo, per non farmi perdere di nuovo nel mio vuoto irrego - lare di bagliori e di oscurità. “Tu le hai guardate? Sai cosa sono e perché te le ho consegnate?” “Le ho viste - dice abbassando lo sguardo - e so perché in quel momento hai ritenuto opportuno far - mene custode.” Mi chiedo, nonostante la concitazione del momento, come faccia a mantenere l’eleganza di uno stile verbale perfetto. Ma quell’interrogativo dura un attimo e si tra - sforma nello strappo con cui tiro via il fascicolo dalle sue mani in un impeto di frenetica impazienza. Lui lo avverte e si ritrae, eppure senza irrigidirsi. Tengo tra le mani il raccoglitore, e non mi decido ad aprirlo.

40 “Vuoi ri manere da sola?” chiede, e non rispondo. “Vuoi guardarle dopo?” insiste. “Vorrei essere sola, giuro - dico, non curante del tono sostenuto che mi è venuto fuori - ma ho paura di avere bisogno di una spiegazione che da sola non sa - prei trovare.” “Allora prenditi il tempo che ti serve.” Senza respirare né pensare più a come cambierà la mia vita, a cosa accadrà da un momento più in là in poi, a che cosa mi sto nascondendo… Guardo soltanto.

Foto in bianco e nero. Sequenza in strada. In obbiet - tivo c’è una folla qualunque di persone, e sempre la stessa folla. Poi un vicolo che non conosco ma a colpo d’occhio mi ricorda la zona San Pietro, piazza Risorgi - mento forse… e un portone che non mi sembra affatto familiare. Foto da lontano. Poi, cambio di genere. Altre foto. Autoscatti in luogo chiuso. Casa mia… Molti scatti. Di me stessa, senza vestiti. Io truccata, pet - tinata e aggeggiata come la più maliziosa e serpentina delle donne, rivolta dritta in camera, e paga. Io il lupo, e l’obbiettivo la preda tra le prede.

Credo di aver soltanto balbettato grugniti di ribrezzo. Sono annichilita. Mi sto ispezionando; trasecolata, sono davanti ai miei occhi senza trovarmi: mi guardo attraverso una fantasmagoria di specchi, supplicando la mia mente di ritrovare il punto oltre il quale mi sono persa. “Penso seriamente di stare impazzendo” dico ner - vosa e concitata, cercando le sigarette in tasca. “Posso?” chiedo mentre sto già per accenderne una nell’auto.

41 Mi accorda il permesso con il suo cenno ormai noto. “Ho fatto io queste foto?” “Mi hai detto così, mentre mi davi i rullini.” Mi viene da piangere e sento che a quel punto Jean vorrebbe abbracciarmi e concedermi di essere confor - tata dal suo aiuto, ma resta immobile, lasciandomi se - guire il mio flusso senza interromperlo. “Ma… - continuo - io non mi ricordo di averle scattate!” Sputo fuori il fumo e gli chiedo: “Quando ti ho dato questi rullini? Dimmi il mo - mento esatto.” “In ospedale. Un attimo prima che ti dimettessero.” “E l’altro rullino? Perché non lo hai sviluppato?” “Dopo questo non me la sono sentita, ho capito che aveva un senso vedere insieme. Dovevi guardare anche tu.” Mi brandisce di colpo un senso atroce di vergogna, unito alla consapevolezza della lontananza della mia persona da quella che credevo di essere, conoscere e controllare. “Ma… - mi passo il palmo di una mano sulle pal - pebre - che cosa ti ho detto mentre ti infilavo queste due bombe nelle mani?” Sorride. “Mi hai detto: svegliami! Io non ho capito cosa vo - lessi dire, tu hai aggiunto: voglio che mi guardi bene” e a quel punto ancora viene colto dal rossore sulle guance. Ho mille domande, più verso me stessa che verso di lui. A lui chiedo solamente: “E aveva un senso farti una richiesta del genere?” “Sì, lo aveva, temo.” Vorrei chiedergli la ragione, mi scorre dentro un fiume furioso di rifiuto, che esonda e non contiene la

42 piena. Allora “Basta!” mi irrigidisco, nervosamente raccolgo le foto e scendo dalla sua auto tirandomi die - tro la portiera. “Grazie Jean, ma basta così!” Lui scende assieme a me, mi guarda farneticare e non fa nulla, nulla. Mi guarda, mi tiene con gli occhi, sempre con quella partecipazione che è tutta sua. Mi di - sorienta, ma di più sono io stessa a spiazzarmi, da sola. “Basta così! - frano - Non so cosa sia successo, mi aspetto il peggio. Non voglio saperlo!”

Sono stata offensiva, ma non mi importa di dispia - cermene; perché, soprattutto, la cosa va ben oltre l’in - cidente e non riguarda lui. Ora sono cosciente e consapevole, e dico a me stessa che tutto questo non lo può includere. Ora, in questa dimensione, Jean non ha alcun senso. Senza voltarmi me ne vado, mi chiama senza gri - dare, ma io corro, senza capire perché mi ritrovo a scappare, corro, col viso inondato di lacrime, corro, fino al riparo del mio negozio.

43 Tommaso e Daria, 12 anni. “Ma tu che vuoi fare al liceo?” “Lo scientifico, è naturale.” “Io non lo so ancora. Secondo te in cosa sono più bravo?” “In ginnastica!” “Uhm!” “Tommy, manca quasi un anno intero. Hai il tempo per pensarci con calma, non credi?” “Be’, io di sicuro lo scientifico non lo posso fare. La matematica mi uccide.” “E tu non farlo, scegli una scuola diversa!” “Allora decidiamone una che faccia per tutti e due, per rimanere in classe insieme.” Mentre lui lo dice sorride, ma Daria sa che Tommy vorrebbe davvero che andasse così. “Intanto studia e cerca di passare gli esami di li - cenza media!” “Sei una maestrina antipatica.” Lei storce la bocca e abbassa la testa sul libro di storia. Sua madre entra in quel momento con due mousse di cioccolata e biscotti, Tommaso sorride e ringrazia, non perdendo un attimo per gettarsi sulla merenda. “Facciamo ricreazione, maestra?” le dice, accomo - dandosi sulla poltroncina della camera di lei. “Smettila di dire così!” “Le tue amiche non ti dicono che studi troppo e che sei noiosa?”

44 “No!” risponde seccata e offesa. “Allora non ti conoscono bene come me.” Lei chiude il libro e afferra la sua coppetta. “Se sono tanto noiosa - dice, con il cucchiaino ap - poggiato sulla bocca - perché ci tieni tanto a venire a studiare da me e addirittura a fare il mio stesso liceo?” “Facile. Per copiare i compiti da te!”

45 Non pensavo ad altro, e questo mi impediva di ra - gionare, di vedere in un modo sereno, di capire. Non ero in me, sia per le cose passate che per quelle pre - senti. Quella sera ebbi un fortissimo attacco d’ansia poco prima di chiudere il negozio. Come era possibile? Non si trattava soltanto di aver perso le tracce di qualche ora di un giorno, non dovevo risolvere solo un trauma a causa di un incidente. Dietro a quell’amnesia c’era un vuoto inatteso ed enorme, tanto da nascondere un’altra persona. E quella ero io. Una persona scono - sciuta, che scattava foto ricorrenti a posti di cui ignorava geografia e senso, e che, ancora peggio, immortalava se stessa, un’intimità artificiosa del suo corpo e poi, di - menticandosene, di tutto ciò aveva dato libero accesso a un estraneo. Al buio, quella sera cercavo disperatamente il sonno. Avevo bisogno di dormire, di staccare gli occhi da un’ombra inammissibile ed entrare in uno stato privo di ragionamento. Qualche ora prima avrei pagato oro per avere delle immagini che mi aiutassero a ricostruire i passaggi mancanti. Adesso, invece, considerato ciò che avevo visto, avrei voluto dimenticare per sempre e vivere igno - rando l’abissale opacità che mi lasciava sfuggire du - ramente la mia stessa memoria. Genera terrore puro realizzare di essere fuori con - trollo, comprendere che ti difettino pezzi interi e af - fatto trascurabili della tua vita.

46 Avevo inghiottito un blando calmante e per fortuna iniziava a fare effetto. La mente si raffreddava e poi lentamente la sentivo spegnersi. Ecco perché prima avevo avuto tanta premura di sapere, pensavo addormentandomi. Era un impulso a ordinarmi di andare a cercare, eppure mi scherniva, nascondendomi gli indizi e ponendo sulla mia strada qualche irrisorio inganno e sgradevoli sorprese.

47 Tommaso ha deciso che quel giorno è quello giusto. Ormai è impossibile rimandare l’evento atteso da una vita, le medie stanno per concludersi, ci saranno presto gli esami; tra qualche settimana Daria partirà per le vacanze con la sua famiglia e al ritorno, come era previsto, ognuno prenderà la sua strada nelle scuole superiori. Sale a casa sua, nel pomeriggio, con due cremini in mano. Le dice di andare a mangiarli giù, al “posticino”. Qualche anno fa hanno scoperto un pezzetto di cortile, sul lato interno del loro palazzo. Uno spazio di tre metri per due, chiuso e privo di un visibile ac - cesso. Era lì, confinante con la proprietà dei vicini, come se fosse stato prima una specie di piccolo ma - gazzino e poi se ne fosse persa la chiave e la memoria. Se ne stava silenzioso e invisibile, delimitato da una porta dello stesso colore della ringhiera di contorno, chiusa da un lucchetto arrugginito. Un pomeriggio per sbaglio vi avevano lanciato la palla, solo allora si erano accorti cosa ci fosse dietro alla ringhiera. Hanno aperto la porta e dentro c’era uno spiazzo, cir - condato da un muretto, blocchetti di tufo e mattoni accantonati da una parte, una vecchia bicicletta e un rastrello dall’altra. Non hanno mai visto nessuno en - trarvi, e a quel punto hanno deciso che quello sarebbe stato il loro po sticino; sì, un piccolo rifugio per quando la panchina in giardino fosse troppo esposta al mondo. A dire il vero, vi avevano trascorso più

48 tempo da piccoli, quando avevano tutta la voglia di scoprire avventure e di avere dei segreti. D’inverno lo frequentavano poco, spesso la pioggia sporcava il mu - retto e il terriccio diventava fango. Mentre giocavano lì dentro, Tommy voleva che fossero in una nave pirata, Daria dentro un’astronave. Alla fine il posticino fu entrambe le cose, per tutto il periodo che dura una novità. Come accade, venne len - tamente dimenticato e tornò allo stato di abbandono.

Ora, dopo lunga assenza vi tornano in quell’occa - sione, a mangiare il gelato. Se ne stanno là, Tommy è inquieto e Daria se ne accorge. Ha divorato il suo ge - lato, invece lei lo gusta con calma, seduta sull’abituale angolo di muretto. “Ma che hai?” gli chiede. “Perché?” le risponde lui, con il suo solito sguardo trionfante, anche se adesso un po’ intimorito. “Be’, guarda come sei agitato!” e indica il movi - mento nervoso che sta ripetendo da quando gli ha aperto la porta. “No, è solo che devo fare una cosa e finché non la faccio…” “E che devi fare?” A quel punto si dice: fallo e basta. Lei ha ancora mezzo cremino in mano, e prima che si porti un altro morso alla bocca le ferma le labbra con le sue.

49 Non so se sia un pregio o un difetto, di certo è un fatto: sono una persona pratica. Dunque, al mio risve - glio avevo davanti agli occhi le immagini acquisite, de - lineate e appese come la pellicola lasciata a tirare l’immagine: ora rimanevano da chiarire tutti i passaggi saltati fuori dal mio tempo. Non ricordavo più, ma le prime carte erano in tavola e il mio jolly era Jean. Mi vergognavo profondamente di cercarlo per come lo avevo trattato nell’ultima fatale occasione, ri - velatrice di bieche scomodità tuttora incomprese, ma ero soprattutto in imbarazzo per quello che aveva già visto, e per i segreti che lui, forse, custodiva ancora e che non ero ancora andata a guardare. Perché avevo coinvolto proprio lui? E perché lo avevo fatto in un modo così intima - mente scorretto anche verso me stessa? Era solo mercoledì, avevo davanti a me più di metà settimana lavorativa da affrontare e avrei voluto in - vece essere molto lontana. La mattina trascorse come le altre, ma ero mortal - mente stanca e disperata. Arrancai fino a pranzo, tra qualche visita di fornitori e una manciata di clienti. Presi un panino qualunque, e lo consumai automaticamente senza assaporarlo, così che mi facesse compagnia mentre attraversavo il traf - fico di via Appia Nuova. Svoltai alla traversa vicina alla fermata della metro, e terminai la passeggiata poco più avanti, seduta su una panchina di marmo che spesso per la pausa an davo a

50 cercare. Mi concessi la mia sigaretta. Mi sentii per poco al sicuro, proprio lì, in mezzo a tanti passanti, tra clacson ed esalazioni, protetta da una coltre nebbiosa di rumore. Mi accucciai su me stessa, sporgendo il busto in avanti, e sorreggendomi la testa con la mano. Dondo - lando in un riparo rassicurante, chiusi gli occhi e per un momento scesi in uno stato vicino al sonno. Ed ebbi il tempo di sognare, o ricordare.

51 Dopo la visita di accoglienza, rimaniamo ad aspet - tare il nostro turno in sala d’attesa. Quando arrivo, Jean è seduto a fianco ad alcune sedie libere. Mi saluta con un sorriso aperto, e mi siedo vicino a lui. “Ti fa male?” chiedo, sfiorandogli con delicatezza il ginocchio. “Un po’. E a te?” “Sì, sento un torpore dalle spalle fino alla mano si - nistra.” “Se ci fosse qualcosa di rotto ci farebbe molto più male. Poi a questo punto i dottori ci avrebbero già detto qualcosa.” “Non lo so, non mi sono mai rotta niente. Anzi, a dire il vero non sono mai stata in ospedale!” “Ah! Io nemmeno. Siamo stati fortunati, fino a oggi.” “Eh, pare di sì. E in effetti anche oggi lo siamo stati.” Intorno a noi il pronto soccorso del San Giovanni Addolorata contiene un viavai perpetuo. Sentiamo scambi continui di esclamazioni: “Com’è potuto succedere?” Qualcuno impreca, costanti sono le espressioni di incredulità per l’accaduto. Un signore sta raccontando di quando da giovane guidava gli autobus, dice: “Io non ho mai fatto un incidente nella mia vita e ora proprio questo disastro mi è capitato!” Un ragazzo gli risponde, con rabbia: “Infatti è impensabile!”

52 Una signora dice: “Grazie a Dio siamo ancora qui!” E molti sostengono quel senso di gratitudine. Si aprono e chiudono dibattiti, più o meno accorati, in continuazione, ma io e lui non partecipiamo. “Io pensavo che fosse una bomba, un attentato!” dice una ragazza e un uomo la sostiene. “Anche io, ho pensato che saremmo saltati in aria!” Jean, a voce bassissima mi dice: “Sai, mi è capitato spesso di trovarmi in mezzo a bombe, attentati e cose del genere. Per lavoro.” Tiro fuori la massima sorpresa. “Dai! Che lavoro fai?” Me lo racconta in poche parole, mi dice che aveva sempre sognato di fare il reporter, di farlo dove c’era più bisogno di informazione. Di aver trovato in Fran - cia, subito dopo un master, le condizioni più auspicabili per poterlo fare, andando nel mondo, a documentare realtà estreme. Mi dice che proprio oggi era diretto verso la reda - zione di una rivista, aveva un colloquio per un lavoro, presso un marchio editoriale dove avrebbe dovuto cu - rare delle rubriche sulle notizie dal mondo. “Più volte mi è capitato, da cronista, di entrare negli ospedali dei luoghi più lontani, più abbandonati; in campi d’emergenza, dove si allestivano ricoveri e soccorsi per i feriti di guerra. Che strano essere qui adesso, in un ospedale con tutti i crismi, da ferito.” Sono ammirata e piena di stima verso di lui. Vorrei chiedergli altro, vorrei dirgli qualcosa, è così calmo, così pacato in quella situazione. “Ecco perché non hai avuto paura, oggi.” Provo a spostare il braccio, articolo piccoli movi - menti. I muscoli delle spalle tirano, così ritorno alla

53 posizione malagevole di prima. Lui mi guarda e si ac - corge che sto soffrendo. “C’è molto da aspettare, temo. Se vuoi stare più comoda puoi sdraiarti lì davanti, ci sono tre sedie li - bere.” “No, Jean. Te l’ho detto, non mi muovo.” Deve sembrargli certamente un atteggiamento inu - sitato il mio, col mio voler partecipare in un modo quasi accanito al corso della sua degenza. “Allora puoi appoggiarti, non mi fai male. Almeno distendi il braccio e il collo.” Tutti i rumori, i suoni, le voci di un ospedale in emergenza sono lì. Chiudo gli occhi e cerco il modo di abbassare il vo - lume di ciò che ho intorno. Non vorrei farlo, non vor - rei avvicinarmi troppo e dargli fastidio, ma cedo, la testa si appoggia spontaneamente alla sua spalla. Re - spiro a fondo e non sento più quasi niente. E con mia sorpresa immensa inizio a piangere.

54 Il marmo è freddo, adesso. E mi sveglio, tormentata da un’acredine pungente. Cosa ho, adesso, in più? Adesso so di aver pianto con Jean. Io non riesco a piangere nemmeno da sola e la mag - gior parte delle volte mi impedisco di farlo, ed è que - sto a sorprendermi di quel ricordo. È ancora presto, prendo un caffè, fumo di nuovo. Rientro in negozio, ma senza aprire al pubblico. Guardo le foto appese, quelle di mio nonno. Foto di una Fiat 8 V, scattata al porto di Genova nel ’59. Foto di casa, prima che venisse terminata la costru - zione. È un prodigio di comunicazione visiva deri - vante dai dettagli: la polvere in aria, i muratori in movimento, gli strumenti da lavoro, l’idea del caldo. Poi Giorgia e io, una foto a colori, in giardino, quando non avevo ancora compiuto cinque anni. Mi guardo lì. Nella foto indosso una camicetta bianca. Guardo dritto in camera con timidezza e un sorriso imbarazzato. Ho tra due dita una margherita, e faccio il gesto di offrirla all’obbiettivo. Mia sorella mi guarda e mi tiene per mano.

Mi avvicino per osservare meglio. Quel sorriso in - nocente, tanto lontano da non sembrare affatto mio. Non sto guardando me stessa da piccola, ma un’al - tra bambina. Mi soffermo sul rossore che ho in viso,

55 comparso di certo perché in soggezione dal centrare il grandangolo. Apro il cassetto. Ho di nuovo il coraggio di guar - dare quegli scatti, quelli che avevo consegnato a Jean assieme alla mia memoria.

56 Daria ignorava cosa significassero sentimenti densi di trepidazione, furore e tormento fino a che non aveva provato la gelosia. Pur essendo generosa e attenta alla cura dei suoi af - fetti, si manteneva molto distaccata dalle persone. Per sfondo genetico era domatrice delle sue emozioni, più precisamente ne governava il manifestarsi e ciò acca - deva in modo del tutto naturale e inconsapevole. La sua era una forma di misura, di discreta compo - stezza. Così, dopo il bacio di Tommy, il suo senso di rite - gno la valicò spingendola a riprendere la sua dimen - sione di accortezza e contegno. Quell’estate, inaspettatamente, porre delle distanze tra lei e Tommaso, amico e certezza di sempre, le causò uno sforzo di non poco conto. Pensò a lui tutti i giorni, ricordandosi di quel bacio e di quel ragazzino che dalle elementari le chiedeva di sposarlo.

Quando Daria lo rivide era una sera della fine di agosto. Era ritornata proprio quel giorno dalla vacanza in montagna con i nonni, l’ultima di quella estate. Stava sul dondolo in terrazzo, mentre Giorgia dalla stanza le raccontava della sua settimana a casa di un’amica al mare. Poi sentì una voce dalla strada, riconobbe la risata e si levò in piedi per accertarsi, col cuore in gola, che fosse proprio lui. Prima di quell’ultimo incontro al

57 po sticino, nella stessa situazione si sarebbe affacciata e lo avrebbe chiamato, salutato e sarebbe scesa in cor - tile. Ora invece il riserbo e la prudenza la incatenavano trattenendola immobile, a guardarlo, nascosta in un an - golino di terrazzo, ripiegata sulle sue ginocchia, senza farsi vedere. Era in compagnia di una ragazzina, stavano scher - zando. Avevano entrambi in spalla la sacca sportiva. Rimasero qualche minuto davanti al cancello. Lei aveva i capelli chiari e una risata squillante. Daria aveva una morsa allo stomaco mentre li os - servava, fino a che li vide salutarsi, Tommaso chiuse il portone e attraversò il vialetto del cortile. Allora, spontaneamente, si sollevò dalla posizione da trincea e si affacciò. Tommy, lei lo sapeva, per abitudine guardava sem - pre in alto prima di sparire dietro l’ingresso interno: era un movimento incondizionato per cercarla, un’azione naturale che piaceva a tutti e due. Quella volta lui non lo fece, tirò dritto ed entrò. Daria strozzò un sospiro che sembrò tagliarle la gola, e si sentì di nuovo attraversare lo stomaco da quella stretta violenta. Abbassò allora la testa, rilasciandola libera sul collo e abbandonandola in avanti, e proprio in quell’istante un punteruolo le affondò in mezzo al petto. Giorgia continuava a parlarle della sua va - canza, ma lei non ascoltava più. Allora lo vide. A passo di gambero era tornato in - dietro, e si era fermato proprio sotto il terrazzo, col suo solito sorriso da campione. Per la sorpresa Daria di nuovo soffocò un gemito, ma poi, senza potersi controllare, sfoderò un sorriso abba gliante.

58 “Scendi?” le disse lui, col suo fare irresistibile. “Mah, non so se posso. Tra poco è ora di cena” ri - spose, cercando di riappropriarsi di quel distacco così confortevole e suo. “Uhm. Va bene, sempre la solita, eh? Allora ciao!” Rispose con un cenno stizzito della mano, e subito dopo, quando lo vide di nuovo sparire, si morse la lingua. Subito dopo sentì bussare alla porta di casa. Come un cavallo da corsa si precipitò ad aprire, sperava che fosse lui, non lo sapeva ma avrebbe voluto avere la certezza di non sbagliarsi. Non sbagliò. “Ti devi fare sempre pregare?” “Io?” rispose, cercando di mantenere quel fare in - differente, smentito dal tremore della sua voce. “Lo sai che siamo al liceo insieme?” le dice, come se avesse calato le carte vincenti. “No… non lo sapevo!” Era sorpresa sul serio, si sentiva sollevata da quella notizia, gli chiese: “In che sezione sei?” “In F, la sperimentale.” “Ah, io in E.” “Be’, Daria, quante ne devo fare? Ho scelto il tuo liceo, almeno dal latino e da un po’ di matematica mi dovevo pur salvare!” “Ma sì, ma sì, non fare il lagnoso, hai fatto bene!” Lui alzò gli occhi al cielo, e lei si mise a ridere, dandogli un colpetto affettuoso sulla spalla. La madre la chiamò dall’interno, era pronta la cena. “Devo entrare…”

59 Tommy le sorrise e le si avvicinò, lasciandole un bacio sulle labbra. “Ben tornata” disse, e scappò giù per le scale. E di nuovo Daria sospirò, questa volta senza sentire dolori e pungiglioni dentro.

60 “Che succede?” Si è accorto che il mio respiro è più affannoso, e che furtivamente mi asciugo il viso con la manica della maglia. Non riesco a rispondere. Le lacrime mi ovattano la gola. “Perché stai piangendo?” “Scusami… è… l’ospedale che…” non riesco a formulare la frase per intero. Lui mi soccorre, toglien - domi dall’impaccio. “Non devi scusarti nel modo più assoluto .” Mi lascia piangere, in pace. Le infermiere si muovono intorno a noi, nel grande trambusto dove si compone una sequenza di immagini continue nelle quali l’emergenza è visibile. C’è una ra - gazza su una barella che ha iniziato un lamento dirotto, ha chiazze di sangue sui pantaloni, e trema convulsa - mente. Un signore anziano, ferito a un polso, è seduto vicino a lei, e chiama un’infermiera perché la possano visitare al più presto. La portano via dopo poco, e il suo grido lascia un’eco. Esce un infermiere e chiama. Si alza una signora e lo segue, fino alla porta di Radiologia. Decine di persone si muovono intorno a me. Ma io sono ferma, immobile, staccata da ogni re - altà. Sono planata su una superficie impalpabile dove l’unica dimensione è il tempo, e lo spazio coincide con la massa occupata dal mio corpo e da quello di Jean, che lo delimita.

61 Ecco. Rappresento nella mente questi concetti teorici di tempo e spazio, e mi domando cosa sarebbe ora di me se avessi continuato il sentiero della fisica, laurean - domi, e proseguendo in quel senso. Cosa starei fa - cendo ora? E cosa dovrei fare? Il fatto è che il mio cuore l’ho messo nel negozio, l’ho messo dov’era mio nonno, l’ho messo nella passione per la fotografia. Chiedo a Jean: “Perché stai cercando un lavoro nuovo? Non vuoi più fare il reporter?” “È una storia lunga.” “Il tempo qui non manca.” Sembra che abbia voglia di parlarmi ma esita e penso sia così perché teme che ascoltarlo mi procuri un ulteriore disagio. Allora lo invito di nuovo: “Non hai idea di quanto mi manchi parlare con mio nonno, ascoltare i racconti e le testimonianze dalla crudezza della cronaca. Mi interessa sul serio il tuo lavoro. Se ti va di parlarne, certo.” Le sue labbra slacciano un sorriso, che scioglie l’involto dubbioso che prima le stringeva.

62 Tommaso e Daria, 15 anni. Tommy e Daria sono una coppia piuttosto celebre tra gli studenti. Lui è un idolo assoluto: bello come una giornata di sole, tra le ragazze è il più gettonato. Ha un grande talento sportivo, gioca da campione a pallavolo, a calcio, ed è eccezionale come nuotatore. Si è classificato primo in diverse competizioni spor - tive locali, in più sa fare squadra e quindi risulta sim - patico a tutti, e in tanti lo considerano un amico. Lei è tra le più carine della scuola, e questo si nota con maggiore sorpresa perché rientra anche tra le stu - dentesse modello. Le sue amiche, che combattono coi primi tormenti del cuore, la invidiano perché per lei è già tutto sem - plice e non deve stare sul filo di lana che oscilla nel l’incertezza tra le possibilità di un rifiuto e i batti - cuori infiniti. Lei, dal canto suo, si metteva costantemente in dub - bio per via delle ragazze che ruotavano attorno a Tom - maso. Ognuna di loro era in possesso di qualità inne - gabili e stimabili in gradevolezza estetica e simpatia e, soprattutto, molte tra loro possedevano il punto in co - mune con Tommy costituito dalla passione per lo sport. Daria spesso si faceva brandire lo stesso dalle insi - curezze dell’età e dal suo modo di essere molto rifles - sivo e cerebrale, e a volte si risentiva per nulla. Provava quella sensazione di schiavitù, non riusciva a liberarsi della sua personalità contenuta e priva di scioltezza, che sembrava invece appartenere a molte

63 altre coetanee. Loro avevano grande facilità e risolu - zione nella voglia di apparire ed emergere dalla massa, lei invece cercava di eccellere più come esemplare che come leader. Tommy l’aveva dentro per come era, e le altre, tanto diverse da lei, non erano altro che accessori pia - cevoli alle sue amicizie, alle sue attività. Non lasciava mai trapelare alcun dubbio sul fatto che la sua unica storia possibile fosse quella che aveva, da sempre, con Daria Sebastiani. “Gabriele, lo vedi lì?” disse lei, rivolgendosi al fra - tello di Tommaso. Indicava il tetto della piccola costru - zione dentro la quale c’era la caldaia, in giardino. “Sì!” rispose il bambino, che era sempre curiosis - simo dei racconti e delle indicazioni degli adulti. “Ecco, lì tuo fratello mi ha fatto capire per prima cosa che era pazzo e poi mi ha chiesto se volevo spo - sarlo! Ah ah ah!” “Veramente? E perché era pazzo? E vi siete sposati?”

Il giorno di San Valentino lui le fece una sorpresa. Le disse di tenersi pronta per quel pomeriggio, passò a chiamarla e le legò una benda rossa intorno agli occhi. La portò in motorino per un breve tratto, impe - dendole di liberarsi dal bendaggio fino a quando lui non decise che era arrivato il momento. L’aveva portata alla Pineta Sacchetti, dove aveva preparato un murales, i loro nomi erano lì, su un enorme pezzo di muro del parco. “Ma… tu sei matto!” gli aveva detto, sgranando gli occhi e rimanendo a bocca aperta. Lo abbracciò, lo baciò a lungo. “Avevo paura, questi giorni, che altri lo coprissero con le loro scritte!”

64 “Io ti amo” disse lei, con timidezza; ma era troppa la felicità per soffocare e governare quelle parole così coraggiose. Poi tirò fuori dal suo zaino una confezione di cioccolatini. Lui le diede un pacchetto piccolo. An - cora commossa, con le mani tremanti, lo aprì. C’era una catenina d’oro, con un ciondolo a forma di cuore. “Ti amo anche io” le disse lui, mentre lei indossava il monile che rimase ogni giorno al suo collo, per anni.

65 Alla metro quel mattino mi piomba di nuovo ad - dosso un’angoscia tagliente. La sento precisamente, e non è paura di rivivere un tragico scontro tra treni. È il terrore dell’ignoto che invischia questa storia. Ho paura di affrontare le poche fermate che com - pongono il mio viaggio in metropolitana solo perché è stata quella l’occasione in cui si è snodata da me una parte buia, contro ogni mia volontà. Questo spasmo d’ansia cresce insieme al fremito della necessità di sapere e, mentre il terrore si attenua dopo essere scesa a San Giovanni, quella smania non mi abbandona più. Neanche quarantotto ore dopo aver visto le foto - grafie decido di sviluppare da sola l’altro rullino. In negozio ho tutto ciò che mi serve. In tanti anni non ho mai modificato gli spazi che nonno aveva destinato allo sviluppo delle foto, alle - stisco la camera oscura, le vaschette, la tank, l’ingran - ditore e i prodotti per la stampa. Amo sviluppare i negativi, è una cosa che faccio spesso per i miei scatti. Durante l’orario di chiusura, a pranzo, non esco, ri - mango a sviluppare il secondo rullino. Resto lì, nel buio della camera, sola, e in questa oscurità finalmente mi trovo a essere sgombra di ogni emozione ostile, e sono rimasta sola con l’unico sen - timento dell’attesa, senza altro pensiero o immagine. Nessuna congettura, nessuna preoccupazione. Sono alla solidificazione, glaciale, come se le forme che stanno per mostrarsi in pellicola non mi

66 ap partenessero. Non resta che aspettare di vederle, senza dover annettere altre emozioni. E così, il tempo, scorrendo, imprime quello che non ricordo.

Respiro a fondo e guardo. Tutto sembra ripetersi. Ancora autoscatti con me, ammiccante, nuda e cor - rotta, davanti all’obbiettivo. Sono solo tre foto così, e ne sono disgustata. E poi, le ultime. Foto esterne, di nuovo, come le precedenti. La folla sembra più piccola, adesso, si con - centra su un gruppo minore. Solo questo: immagini che sembrano scattate in momenti diversi, in posti di - versi sicuramente. Mi soffermo su una, cerco di capire dove posso averla fatta. Cerco un collegamento, una traccia. Un indizio. Poi ne guardo un’altra. Inizio a sfogliarle insieme come fossero pagine di un libro. Poi un dettaglio - non è possibile - Sgrano gli occhi - non può essere - Confronto di nuovo. “Oh mio dio!” E le foto mi cadono dalle mani.

67

SECONDA PARTE

La memoria è quello che siamo e ciò che di più caro abbiamo per noi stessi. Eppure, nel momento in cui agiamo, non pensiamo che quel gesto di oggi sarà un ricordo per domani. Anche io, pur leggendo la vita in questa chiave, una volta di troppo ho trasformato un’azione in errore in - cancellabile e ho desiderato di voler tornare indietro. O dimenticare tutto. Non potendo tornare indietro, ho dimenticato.

71 Dopo tante domeniche di gelati, nascondino, scherzi sul muretto e baci rubati al posticino segreto, arrivò una domenica pomeriggio del tutto nuova. Arrivò con una gara di pattinaggio di Giorgia, fuori città. La famiglia intera l’accompagnò e rimase a farle da spettatrice, e in quell’occasione fortuita Daria restò in casa da sola perché doveva studiare. Allora è questo che vuol dire fare l’amore! Pensava sorridendo, sfuggendo, sotto le lenzuola, alla contem - plazione di Tommaso ancora nudo nel suo letto. Daria aveva capito che per lei fosse complicato esprimersi, trovarsi a scoprire la sua persona, lasciare che le sue misure di contegno si esponessero al rischio della troppa vicinanza ad altri. Lei stessa temeva che, facendosi troppo vicina, avrebbe potuto non saper parlare lo stesso linguaggio di un altro, né capirlo. Non venire decifrata era un ri - schio troppo forte per lei, per la sua volontà di emo - zioni lineari e non turbolente. Non voleva poi risultare indiscreta e spontaneamente evitava parole e gesti che fossero troppo affettuosi. Tommaso era tutto diverso. Lui era rosso, pieno di istinto e calore: era la capacità di mantenere un fuoco alto, di trasformarlo, ma non in pericoloso incendio o in misero fuoco di paglia. No. Semmai era la certezza di un camino sempre acceso, di un riparo caldo tra le mura care. Fu Tommy che sconfisse le paure di Daria, e non lei stessa, smantellando roccaforti e lasciando che a

72 guidarla fosse quella sensazione di agio e volontà, di desiderio e necessità di unione che iniziò a provare fin dal loro primo bacio. Così, dopo i primi giochi sulla loro pelle nuda, senza trucchi a frapporsi tra i loro corpi, lei si scopriva d’un tratto totalmente leggera a galleggiare senza sforzi, senza alcuna fatica, nelle acque fervidamente ondeggianti dei primi desideri.

73 “Sono stato per tre volte nel sud del Sudan. Lavo - ravo a un reportage sulla ricostruzione della seconda guerra civile. Quella volta, due anni fa, sono partito da Parigi, insieme a un mio caro amico italiano, vo - lontario con una ONG di soccorso umanitario. Ab - biamo fatto base insieme, lui aveva dei contatti con medici e volontari che operavano nella regione meri - dionale, a Juba, Pibor e Malakal. Quella volta sono stato più a fianco delle persone che della notizia. Ne ho viste tante di tragedie, tante guerre, disastri. Tutte sono atrocemente uguali, e ognuna è diversa. Malakal mi ha lasciato una ferita più grande.” Mi affascina. Parla in modo caldo, avvolgente ma essenziale, la sua voce è l’invito a oltrepassare l’in - gresso della sua casa come ospite gradito, come per - sona di famiglia, e a fermarmi, a prendere la sedia più comoda e rimanere. “Eravamo spesso ospiti a casa di una famiglia originaria di Malakal. Joshua, di sette anni, era scomparso come altri bambini della città; era pos - sibile che fosse stato rapito e probabilmente sotto - posto all’arruolamento forzato, anche lui, tra i bam - bini soldato. I genitori, Marwa e Kuol, si erano resi attivi nelle associazioni internazionali di soccorso per le emergenze, insieme alla figlia Samah, spe - rando che i punti di raccolta fossero anche volti ad azioni di ricongiungimento dei famigliari ai bambini soldato. Avevano sentito dire che alcune squadre di soccorso operavano per riportare a casa i bambini

74 dispersi, finiti orfani ai confini oppure reclutati e ob - bligati alla guerra. Il capofamiglia, Kuol, nel febbraio del 2002 era andato ad Akuem, presso un centro uma - nitario per la distribuzione degli aiuti alimentari. Cer - cava disperatamente di ritrovare suo figlio, ma morì lì, in seguito a un bombardamento aereo.” “E il figlio, poi, è stato ritrovato?” Fa cenno di no. “Samah era una ragazzina bellissima, la prima volta che l’ho incontrata aveva dieci anni. Vivevano insieme a suo zio, fratello della madre, e io ero sempre a contatto con loro. Erano diventati un riferimento im - portante per tutta la comunità di soccorso. Lo erano, in realtà, fin da prima che nascesse Joshua. Marwa aveva frequentato i gruppi missionari, quando erano arrivati nel villaggio vicino, insieme a Kuol aveva col - laborato all’aiuto di tante famiglie con le forze inter - nazionali, prima con le associazioni cattoliche e poi con le ONG. Io e Francesco, che era nei soccorsi umanitari e conosceva bene e da tempo i riferimenti, e quindi anche la famiglia di Marwa, eravamo spesso invitati a cena da loro. Samah sapeva cucinare delle buonissime walwal, polpette di farina fritta, e portava al campo caraffe di tabrihana . Ci aveva conquistati tutti con la sua dolcezza. Samah… Si è messa subito in mezzo al mio cuore. Lei era il simulacro dell’inno - cenza, e insieme anche la forza di una famiglia, l’estratto più forte, più profondo della fiducia che un essere umano ripone in un altro nonostante gli uomini abbiano tanto ferito e tanto tradito. Nel tempo aveva imparato a parlare un po’ di francese, di inglese e di italiano, mi aveva accompagnato da Emmanuel, un giovanissimo ragazzo di etnia Nuer, rimasto orfano e

75 vissuto in una comunità sorta a opera cattolica qual - che anno prima. Emmanuel mi faceva da guida quando dovevo spostarmi negli ospedali, nei centri dove fluiva il flusso informativo, andammo insieme a Juba, a Khartoum, a Rumbek. Ogni volta che rien - travo, Samah mi aspettava, in un angolo, nascosta, di - screta come un’ombra, mi guardava finché non mi accorgevo di avere i suoi occhi puntati addosso, poi ritraeva lo sguardo e mi veniva timidamente incontro. Sapevo perché il suo volto contenesse tutto il suo cuore: era in attesa di una mia notizia, in attesa che un giorno di quelli potessi tornare da lei dicendole di aver trovato suo fratello. E questo non accadde mai. Nel tempo di bambini soldato ne ho visti troppi, specie passando per il Darfur. Ho cercato notizie di Joshua fino alla disperazione, ho smosso qualunque ente o istituzione che ritenessi in grado di fornirmi una pista da poter seguire. Riuscii a conoscere i punti meno battuti dalle ricerche, sono stato nelle aree di azione degli eserciti armati. Ma nulla. Non ho mai più saputo nulla di lui. Mai.” “Oh, Jean! Un’esperienza incredibile… Legarsi a vite così lontane, in condizioni talmente ostili alla vita!” “L’ultima volta che sono stato a Malakal, sono tor - nato da Samah con una speranza. Ero prima stato in Uganda, in un villaggio di emergenza umanitaria. Ho visto lì un bambino che sembrava proprio Joshua! Gli ho scattato una foto. Quando sono tornato a Malakal, Samah mi è corsa incontro piena di speranze, le ho mostrato la foto. Lei ha guardato, con le lacrime agli occhi mi ha detto di no, non era Joshua.” “Mi stanno venendo i brividi…”

76 Lui mi sorride dolcemente. Gli prendo una mano. “…È che non ho potuto fare nulla, nemmeno per un bambino solo, neanche per una sola famiglia. Se una persona, in qualche modo, ti mette in mano la sua vita, tu ne sei responsabile. E io mi sento responsabile. Anzi: ti confido che mi sento colpevole.” “Signor Arcand” lo chiamano in visita. Lo aiuto ad alzarsi, ma sono in difficoltà, vacillo perché vorrei trattenerlo e trasferirgli di getto il carico di sostegno che si è accresciuto nel mio cuore a ogni sua parola, e vorrei dargli io la certezza di compren - sione; io so bene che posso assolverlo, e so che potrò essergli presente. Eppure non so parlare. So solo dire, con la voce rotta: “Ma tu non sei colpevole, Jean!” Mi guarda amorevolmente e si allontana, claudi - cante. “Io ti aspetto qui, Jean” gli dico, alzando un po’ il mio volume e di corsa, finché è ancora vicino. “Sei un tesoro.”

77 Daria ha 18 anni. Lo guarda uscire dal portone insieme alla sua fa - miglia, lo vede lì, allontanarsi verso la macchina, lo guarda impilare nel portabagagli borse, scatole e vali - gie, in pochi minuti riporre in un piccolo spazio tutta una vita senza lasciare nemmeno uno spiraglio attra - verso il quale poterla riguardare. La famiglia di Tommaso era stata affittuaria dell’ap - partamento al primo piano fin da prima che Daria na - scesse. Ora se ne vanno. Il giorno prima aveva visto arrivare il camion dei traslochi, parcheggiarsi davanti al loro cancello fino a che era stato caricato di tutta la loro roba. Uno a uno avevano stipato i mobili e gli elementi d’arredo di quella casa che lei conosceva bene. Poi lo aveva visto andare via. A Daria era mancato il respiro. Quel giorno non erano solo i mobili e i bagagli a seguire un nuovo destino, Daria pianse a dirotto. Pianse, rimase nascosta dietro la ringhiera del suo terrazzo, accovacciata tra le lacrime e le ginocchia, ri - mase a guardare Tommy sparire dalla sua vita, col gesto di chi sale in una macchina senza voltarsi, nep - pure per un attimo, senza lasciare nemmeno per l’er - rore di un istante che lo sguardo si posasse sulla finestra di lei, come era sempre stato per tutta la loro vita, a ogni arrivo e a ogni partenza. Pianse e restò a guardarlo andare via.

78 Da quando Jean mi ha riconsegnato il lettore mp3, non l’ho più utilizzato fino a oggi. Esco dal negozio, stanchissima, ma voglio fare qualche passo in più prima di rientrare in casa. Ascolto le mie canzoni, ad un tratto mi fermo a piazza Santa Croce in Gerusalemme. Intorno a me il traffico, e io mi fermo. A quel punto della play list trovo l’inserimento di Bach, le Varia - zioni Goldberg BWV 988. Le gambe si sono fermate, una profonda commozione nasce dentro me, all’im - provviso ascolto la pace, la bellezza e la profondità as - soluta di questa verità a cui anela il mio animo, che vuole smettere di farsi la guerra e liberarsi. La grazia che ascolto nelle orecchie è ciò che vorrei avere in cuore, e Jean me lo ha concesso, inserendo quell’aria magnifica nel mio lettore. Davanti agli occhi ho l’Ospedale San Giovanni; dietro di me, come un’ombra benevola, c’è lui. In tutta questa storia. Jean. Non lo vedo né lo cerco da giorni. Mi ha lasciato un messaggio. L’ho mandato a me - moria, dice così: Daria, come stai? Scusami, non vo - glio essere inopportuno, veramente, vorrei soltanto sapere se è tutto a posto. Ascolto di nuovo l ’Aria da capo , ora lasciandomi alle spalle la città, sparendo, tornando inghiottita dal sottosuolo della metropolitana, ho voglia di liberarmi da tutte le catene della mia vita, della mia anima, del mio passato. Ho telefonato alla mia amica Valentina, e abbiamo deciso di passare la serata in un locale, a prenderci un

79 bicchiere di Malvasia. È venerdì, c’è tanta gente in giro, pronta a divertirsi. Tutti sembrano così a loro agio, avvezzi a questo genere di rotazione quotidiana. Tutti lo sono sempre, anche questa sera. Quando lo guardo indossato dagli altri, ogni presente, ogni circo - stanza sembra splendente, sensatissima così come è. Le cose, in mano alle persone sembrano meccanica - mente messe a punto da un ingegno supremo che guida e illumina ogni motivazione. Forse è così che mi sono illusa di poter vivere anche io, cercando di farmi luce attraverso una facciata singola, di volta in volta, vivere di compartimenti stagni, senza vedere un legame tra i miei fotogrammi e senza voler sapere dove e quando arriva la fine del film. Ecco, di fronte a un mondo che ti prova l’esistenza di tutte le gamme di gioia possibile, quanto possiamo sentirci soli, vuoti! Come un guscio disabitato. Il tempo non passa mai, anche se le intenzioni erano tutt’altre: sono uscita quella sera per evitare di macerarmi, di restare appesa ai miei mille strumenti di tortura. Ma non riesco a sentirmi diversa da una sfu - matura inconsistente. Mi ritrovo in un pensiero. È il suo pensiero. Penso a lui che ha in sé qualcosa di entrambi, lui e una nostra congiunzione indeclinabile, lui che mi cerca, che mi concede tempo e spazio, lui che mi porta a dismettere la mia evanescenza inquieta e mi riveste di una volontà nuova. Il pensiero di Jean.

80 Daria, 21 anni. Come accade nelle grandi città, due persone pos - sono non trovarsi mai, né imbattersi per due volte una nell’altra; oppure possono incrociarsi nei modi e nei momenti più inattesi. Daria non si trovò mai più a guardarlo negli occhi, né a parlarci, nemmeno un minuto, mai più. Eppure conosceva ogni cosa di Tommaso, si teneva informata su di lui dal confine minato della distanza. Sapeva che era studente di Giurisprudenza, e che intanto era un atleta a livello agonistico nel nuoto. E sapeva anche che era rimasto il bellissimo ragazzo di sempre pur avendo perso quella luce negli occhi, quella forma di guerriglia briosa che dichiarava a chiunque avesse da - vanti, per riuscire a conquistarlo. Da quel giorno lui aveva chiuso con certi lussi, aveva chiuso con la fiducia verso la vita, verso gli altri, aveva chiuso con l’allegria e soprattutto aveva chiuso con Daria. Da quel giorno, non aveva più voluto vederla, né par - larle mai più, dopo quel fatto non aveva più voglia, né cura, né amore per lei, e neanche una parola da dirle. Poi era stato più facile voltare le spalle a tutto quello che avesse un senso e un significato, a lei, al mondo intero, era stato semplice andar via da quella strada, da quel piccolo condominio, da quei ricordi di scuola, di infanzia, di quartiere. Viveva in zona Prati, adesso. Queste sole telegrafiche informazioni erano ciò che rimaneva a Daria di Tommaso.

81 Avere dei dati di una persona, averne solo dei riferi - menti asettici, è come possedere un mucchio d’ossa, come portare con sé le ceneri di chi prima, un tempo, è stato nostro, ed era tutto fuorché un indirizzo, un’infor - mazione o il resoconto di una riga. Tutti quelli che hanno avuto e poi hanno perso il loro amore vorrebbero trattenere quello che è possi - bile, non arrendersi a vederlo sfiorire, o sparire, an - darsene bruscamente. Daria preferì a lungo vivere con quel surrogato, come accade a molti, piuttosto che perdere la certezza del presente si tenne stretto un riflesso di passato. Abbrancare il suo amore per Tommy voleva dire anche tenersi stretto l’imprescindibile dolore di non averlo più, di sapere che nel cuore di Tommy verso di lei ci fosse solo rancore. Daria finì per spaccarsi in due parti, e per cadere in guerra con se stessa. Consapevolezza e colpevolezza.

Come accade qualche volta, un giorno qualunque, dopo tanto tempo, Daria lo rivide. Lui passava, ina - spettatamente, davanti all’ingresso dell’Università. Camminava col suo passo sicuro, si lasciava alle spalle Piazzale Aldo Moro e arrivava in Facoltà, par - lottando con un gruppo di studenti. Passava davanti a lei, senza vederla, con lo sguardo rivolto verso il basso, mantenendo un sorriso che, anche se sbiadito, ricordava quello di un tempo, fulgido e aperto. Lei in un colpo morì e tornò in vita. Quando si accertò che Tommaso fosse abbastanza lontano per poterla vedere, ritornò lucida. Senza deci - derlo, lo seguì fino all’aula dove c’era una lezione di Diritto Costituzionale.

82 Aspettò, girando nella città universitaria come un’anima del purgatorio, rivivendo sotto la pelle un ri - cordo mai cancellato e ancora più vivido. Dopo due ore la lezione era finita. Si nascose, spalle contro il muro di fronte, facendo capolino, aspettando di ve - derlo uscire. Segnò l’orario della lezione, e controllò nei pro - grammi il calendario dei giorni previsti per le successive. E così, senza deciderlo, iniziò a pedinarlo con re - golarità.

83 Quando Jean tornò in sala d’aspetto, io ero appena entrata in Traumatologia. Ci trovammo dopo poco più di una ventina di mi - nuti, ragguagliandoci su quanto avessimo potuto in - tuire dai tecnici di laboratorio che ci avevano sottoposto alle radiografie. Dovevamo ancora attendere i risultati, e fare, forse, altre indagini. “Jean - gli dissi - riguardo a quello che mi hai con - fidato, ecco, tu non hai nessuna colpa per quello che è successo a Joshua.” “Grazie. Sei gentile a dirmelo.” “Non è gentilezza, è davvero così: tu hai fatto tutto il possibile. Ma anche se non lo avessi fatto, la colpa non sarebbe stata tua. Non è a causa tua se in tanti paesi ci sono le guerre e i bambini soldato.” Lui mi sorride e mi dice: “Certo, ma non è semplice convincersi di non aver avuto responsabilità nei confronti di Samah e di Marwa.” “Tu hai preso un impegno e lo hai mantenuto… hai fatto il possibile per loro…” “Non lo so Daria, visto il risultato!” Resto in silenzio. Nella gola si rincorrono precipi - tosamente le corde vocali pronte a esprimergli piena comprensione. Eppure la lingua è bloccata. “Io lo so che vuol dire” dico soltanto. “Cosa?” “Che vuol dire vivere con la colpa nel cuore. Avere davvero una colpa dentro. Una macchia di

84 reale re sponsabilità… Ma tu non hai motivo di flagel - larti così, non hai nessuna colpa, Jean, anzi… sappi che da oggi sei un eroe per me!” Lui mi sorride, scuote la testa e gli viene sponta - neo muovere una traccia di carezza sul dorso della mia mano sinistra, che ho fiaccamente dimenticato sul ginocchio. La ritraggo dopo pochi istanti, quando lui mi chiede: “Anche tu senti di vivere da colpevole?” “Io? No… io no …” balbetto. “Ah! - esclama - Be’… perdonami allora, ho frain - teso il significato delle tue parole …” Gli si disegna sul viso un’increspatura di coster - nazione perch é crede di essere stato poco discreto. “Non ti preoccupare… È colpa mia se sono così difficile da capire, è perché sono distante da tutto. Sono in guerra con me e contro me stessa.” Lo guardo dritto negli occhi, non sa che signifi - cato dare alle mie parole ma vedo che cerca il loro senso, cerca il senso che hanno per me. Raccoglie i pensieri per un attimo, mentre io mi chiedo chissà quanto deve credermi bambina, vedendomi arroc - cata come sono a un’apparenza di riguardoso as - setto, nel tentare discorsi di condivisione autentica, partendo dal basso pulpito di una esiguità che gli tengo ben nascosta. “E perché non ti arrendi?” mi chiede, invece. “Se lo fai anche tu, prometto che ci provo. Alzo la bandiera bianca.”

Un’infermiera si avvicina e chiama il mio nome, mi alzo in piedi, e lei mi comunica che possono fa - sciarmi il bracc io.

85 Mentre la seguo, sento pronunciare il nome di Jean, mi volto e anche lui sta per essere medicato, mi fa cenno che ci troviamo dopo.

86 Daria, 23 anni. Tutto in bianco e nero. Tommaso, che attraversa Viale Regina Margherita e scende alla metropolitana. Tommaso, che taglia il traffico, in motorino. Tommaso, che vince una gara di nuoto. Tommaso, che mangia un gelato da Old Bridge con una ragazza. Quante foto si possono scattare a distanza, senza essere scoperti dall’oggetto in obbiettivo. E quanti tumulti dietro a ogni scatto.

87 Mi ricordo, sì, l’indirizzo è via Botero. Sono già sulla porta di casa mia e controllo, dal bi - glietto, che la mia reminiscenza sia corretta. La sua strada è a meno di un chilometro da casa mia, ma ho aspettato troppo a prendere quella dire - zione al punto che ora ogni passo è di insofferenza. Eccomi, ed ecco lui, che mi apre la porta con tutta la sorpresa di vedermi. “Ciao! Vieni!” mi dice, e mi lascia entrare accom - pagnando con le braccia un segno di invito. “Caspita! - dico, vedendo che ha in mano delle scartoffie, e indossa gli occhiali da vista - Solo ora mi viene il dubbio di poterti disturbare.” “Ma che dici Daria… hai fatto bene a passare.” “Ho pensato che di domenica non si dovrebbe la - vorare, ma se per i giornalisti non vale ritorno un’altra volta!” Sono al mio posto, con il mio tono di voce di sban - dierata inespressività, le mie braccia conserte, la mia schiena posta indietro rispetto all’asse, il mio sorriso plastico, sono al mio posto; ecco sono composta, niente può scompormi, nulla della sua intensità mi può scal - fire… Ma ora che il ricordo è chiaro, ora che conosco la tenerezza e la cura che quest’uomo, totalmente estra - neo, si è caricato sulle spalle per me, io vorrei lasciarlo entrare di nuovo nella profondità dell’abisso che mi abita. Vorrei abbracciarlo, in silenzio. Ma mi proteggo da tanta condivisione, ancora tengo stretto a me quel distacco rassicurante. So da cosa mi

88 potrà salvare, quella distanza. Non da lui, ma da quel ricordo che ora non posso più fingere fantasma.

Mi chiede se mi piaccia il tè, rispondo di sì, e mi fa accomodare in cucina. Mi muoiono in bocca le parole: Caro Jean. Ripeterei a lungo così : Caro Jean. Caro al mio cuore sei tu, caro al mio cuore il tuo nome. La casa è piccola ma ha i suoi giusti spazi, perfet - tamente curati per adoperarsi all’occorrenza anche a studio. Ha tuttavia un suo calore, nonostante si veda che sia la buccia di un uomo e non di una famiglia. Questa casa, penso, è il suo negativo: lo riflette, e inoltre parla di lui, contiene il suo odore, oltre che i suoi fotogrammi. Riluce la sua persona. Dalla mia sedia guardo il salotto, proprio davanti a me si stende una grande libreria, con ai piedi un paio di scatoloni. Si accorge che sto guardando proprio quell’angolo e mi dice: “Vedo che mi hai scoperto subito! Sono rimasti lì solo quei due mucchietti di libri da sistemare, il resto del trasloco è fatto.” Versa il tè in due mug. “Non sai quanto fossi in pensiero per te” dice fa - cendosi improvvisamente serio, spostando il tono dalla lancetta del convenevole a quella dell’intimità. “Non devi Jean, è tutto a posto. Stavolta non è per me che sono venuta qui, davanti a te.” Forse preoccupato, aspetta che io concluda. “Non ho il coraggio nemmeno di chiedertelo, ma qualche giorno fa ho letto tra le notizie estere di una serie di scontri a Malakal! Parlavano di trecento vit - time… e… volevo sapere se… Marwa e Samah…”

89 Spalanca un sorriso dolcissimo. “Se mi fai questa domanda, allora ti sei ricordata tutto!” Devo rispondere, e quindi, sì, annuisco. E in un at - timo il mio schermo cade, immergo il viso nella tazza fumante. Lui sa adesso che ha davanti una persona completamente cosciente, ma non sa quanto quella persona sia vulnerabile per il fatto di condividere ora consapevolmente con lui le sue ombre. “Stanno bene, Daria. Ho contattato il mio amico Francesco, non era in Sudan nei giorni scorsi, ma mi ha saputo informare su tutto. Mi ha rassicurato sul fatto che il campo di soccorso era stato evacuato, e anche Marwa e Samah si sono spostate e sono al si - curo, nei pressi di Juba.” “Ah, che sollievo…” “Mi dispiace che tu ti sia preoccupata. Ti ringrazio.” Si alza e prende una bottiglia d’acqua. Ho timore che adesso voglia affrontare l’altro di - scorso. Sarebbe giusto e legittimo da parte sua, e no - nostante questo passo mi spaventi, anche io ho bisogno di farlo con lucidità. Mi devo ricollegare alla realtà, mi voglio ricostruire. Ma questo è un altro momento, è una forza incoer - cibile che mi spinge a sollevarmi di colpo dalla sedia, stendere le braccia e richiuderle con lui dentro. Oh Jean, non dire nulla, ti prego. Fatti solo dire, in silenzio, con questo abbraccio: grazie Jean, per la dedizione che adesso vedo bene. Lo stringo di più. Per la fiducia che tu hai riposto in me, per la tene - rezza con cui hai intravisto e custodito i miei segreti senza inorridire.

90 Lui mi accarezza le spalle, i capelli. E scusami, perdona il mio tormentoso modo di essere. “Grazie Jean.” Rimani distante ancora un momento, ti prego. Non guardarmi, ancora. Non ho provato mai più, in tutta la mia vita, un desi - derio così forte verso un uomo come in quel momento.

91 Daria, 26 anni. All’ombra di una stanza di una vita al buio. Seduta all’angolo del suo letto, vagamente assente, nitidamente amareggiata, è appena rincasata dall’ap - puntamento con un ragazzo che frequenta da qualche settimana. Lui, Stefano, è più giovane di Daria di qualche anno, studia legge, lo ha conosciuto alla festa di com - pleanno della sua amica Valeria. Si sono stati simpatici da subito, lui è molto attra - ente e spensierato. Al secondo incontro, dopo la birra a Campo de’ Fiori la riaccompagna a casa in mac - china. Daria non gli ha detto che da più di un anno vive da sola al terzo piano di quell’edificio. Non glielo dirà mai per evitare di farlo entrare nel suo spazio. Difende la sua casa, la sua vita, come un predatore territoriale. È la fine di luglio, quella sera l’aria così mite rende amabile anche uno slargo qualsiasi di un quartiere qua - lunque. Così Stefano ha posteggiato l’auto alla fine della strada, sono scesi per fumare una sigaretta, e lui l’ha baciata. L’ha invitata a rientrare, ha posizionato i sedili in orizzontale e si è fatto accordare il permesso di toccarla. Le ha detto, in una ostentata eccitazione, di volerla moltissimo, e lei gli ha risposto sbottonan - dogli i pantaloni. Lui le ha preso un lembo della sua maglietta e ha provato a sfilarla, ma Daria ha trattenuto la sua mano bloccandolo.

92 Non vuole essere guardata. A lui dispiace, ma senza neanche troppo rammarico: può fare a meno di guar - dare, può evitare la totalità del contorno purché si arrivi al piatto forte, ed è così che si consumano. Si muove convulsamente su di lei, qualche volta geme un sì, è soddisfatto, e lei finge altrettanta soddisfazione. Allo stesso modo seguono altre volte, sempre lo stesso scenario, la macchina, il buio, il caldo sempre più intenso, il silenzio surreale della città in vacanza. Sempre poca calma, la fretta di una consumazione senza grande appetito. E molta, moltissima distanza tra due corpi vicini. Mai uno sguardo alle loro figure.

Quella era stata l’ultima occasione tra loro. L’ultima di altre, con qualche altro ragazzo, che quasi sempre era più giovane di lei, e sempre spensie - rato e un po’ simile a Tommaso. Non voleva nulla, lei. Infatti non aveva mai nulla, nessuna sorpresa, nessuna esultanza e, così, nemmeno alcun biasimo. Si intravide nello specchio, nel riflesso di un buio insensatamente diafano, il livido dell’iride distratto da un ombretto blu, e un ghigno di rossetto leggermente sbaffato. Si alzò dalla poltrona, accorciando le distanze tra sé e lo specchio si avvicinò, ancora di più. Si guardò attraverso il buio e riacquistò la sua presenza: com - prese, sentendolo dalle sue viscere, che non voleva più farsi toccare. Senza deciderlo, ancora una volta si trovò a rego - lare l’esposimetro, preparò senza troppi artifici di pro - spettiva una sequenza di autoscatti. Vestita. Poi, tolse la maglia. Poi i bermuda.

93 E iniziò senza guardarsi, così, a imprimere imma - gini di se stessa. A scendere in basso, voleva arrivare fino a dove po - tesse essere priva di innocenza.

94 Siamo abbracciati ed è questa la mia più lunga e concreta pace dopo anni di guerra. Sento bene che mi vuole, il suo desiderio si ferma a riva del mio guasto nell’anima, quello che lui ha ormai avvistato. Mi sussurra in un orecchio: “Ho tenuto una cosa, tesoro.” “Cosa?” Scioglie l’abbraccio, sparisce un minuto nel salone e rientra, portando in mano una foto. “Questa…” Una foto, una di quelle in cui sono poco vestita e ho pochi pudori. “Perché l’hai tenuta?” gli chiedo con una modula - zione interiore che mi impone di ritornare alle mie armi, appena dismesse. “Volevo guardarla con te, bambina.” “Perché diamine mi chiami bambina?” sprofondo nella vergogna, lo devo assalire, e mi divincolo coi miei toni piccati. “Vieni e guardati. Dimmi cosa vedi. Dimmelo bene.” “No. Scusami. È meglio che me ne vada!” “Sta’ qui, ti prego. Scusami. Scusa… Allora ecco… Ti dico cosa vedo io, vuoi?” Sì che voglio, tesoro mio. Annuisco, perché non c’è niente che voglia di più che sapere se mi sta disprezzando per quello che vede.

95 “Vedo la tua pelle chiara, la tinta nocciola dei tuoi capelli. I tuoi colori sono calamita per altri occhi. Guardo una bocca perfetta, leggermente socchiusa, vedo una ragazza intimidita dalla sua stessa bellezza. Vedo lo sguardo verde che è piovuto nei tuoi occhi, lo sguardo di chi vuole piacere, di chi vorrebbe tanto go - dere, lo sguardo di chi si accorge di essere pericolosa - mente potente, e allora deve nascondersi, perché troppa vergogna lo vince. E vedo una bambina, la più piccola del mondo, la più fragile dell’universo, che vorrebbe essere portata via da una camera oscura e messa al centro dello spazio, sotto al sole. Una bam - bina che muore dalla voglia che qualcuno le dica: sei piccola, sei ancora così innocente.” Mi viene da piangere, afferro tremando il mignolo e inizio a tirare via le pellicine con i denti. “Tu non lo sai, Jean… - gli dico, dopo un pesante sospiro - Non sai quanto mi sia buttata via!” “Anche se pensi di avere motivo di trattarti da per - sona sbagliata, Daria, non è così.” Piango. “Mi hai detto che dovevo svegliarti. So che volevi dire proprio questo, volevi chiedermi di aiutarti a ve - dere, a guardarti.” Non dico nulla, non riesco a muovere la lingua, che sembra essersi dissolta in bocca, scivolata giù lungo la gola assieme alle lacrime che ho trattenuto. “Tesoro… lo sai perché ti facevi quegli scatti vero? Ora lo sai?” Sospiro ancora, a fondo, amaramente. E amaramente annuisco. “Adesso, ti prego però, guardati. Guardati.”

96 Mi supplica. Appoggio gli occhi su quella fotogra - fia. Mi ero rivolta decine di scatti senza mai vedere quello che aveva visto lui. Mi abbraccia. Mi stringe, non mi lascia andare.

97 Abbiamo avuto entrambi le nostre prognosi. Jean ha una fascia intorno alla caviglia fin sotto al ginocchio, io intorno al braccio. Siamo in dimissioni. Lui chiama un taxi, io voglio camminare. Giorgia mi è venuta incontro, mi aspetta all’uscita dell’ospedale. La vedo fare un passo avanti, poi tentennare un po’ e poi fermarsi. La riconosco, anche se la sua figura è in lontananza. Poi anche lei mi vede e finalmente la sua ansia si scioglie e diventa sollievo, diventa sorriso per me. Le faccio cenno di aspettarmi un momento, mentre Jean si avvicina. “Ecco fatto, allora! Ci siamo …” mi dice, prima di salutarmi. “Jean… io…” Intorno a noi restano in attesa decine di persone. “Daria… quando staremo meglio ci potremo rive - dere?” Apro la borsa, frettolosamente. Prendo due rullini integri. “Tieni Jean, ecco. Prima guarda queste, e poi, se ancora vorrai vedermi… vieni da me.” Lo abbraccio serrando le palpebre per non preci - pitare nel suo sguardo intenso. “Svegliami se puoi… - gli dico, mentre mi sistemo il cappotto alla meglio sopra il braccio - Ho bisogno che mi svegli.” “A presto, Daria.” Volto le spalle con malinconia, e una stanchezza immane mi piomba addosso. Poi, nihil. Tabula rasa.

98 “Jean… Tu sei tornato da me prima di aver visto tutto…” “Sarei tornato anche senza aver visto nulla, Daria.” Rimango in silenzio davanti ai suoi occhi. È infi - nitamente serio, è saldo, risoluto, sembra nato per ac - cogliermi e rabberciarmi; sembra al mondo per essere lì in quel momento, arrivato lì da ogni tempo e luogo, lì, solamente per curare le mie fratture. Abbiamo appena sciolto l’abbraccio, eppure il suo sguardo mi tiene ancora. Nel naso ho la sua Eau Sau - vage, riconosco bene quel profumo, e sulle guance è rimasta la morbidezza del suo golf. “Sei troppo giovane e forse per questo ti sor - prendi… Io ti voglio guardare ogni giorno.” Mi commuovo e abbasso lo sguardo. Prendo dalla sedia la borsa, ci affondo una mano. “Ecco - gli dico - questo è il rullino che non hai svi - luppato.” Si siede, aprendo l’album che gli ho appena conse - gnato tra le mani. Io resto in piedi, davanti a lui, ma istintivamente mi volto di spalle. Ho le mani giunte e la fronte appoggiata sopra. Ora sta sfogliando le foto. Sento il rumore della carta politenata sfogliata, una fotografia scorrere sull’altra, poi il silenzio, e un’altra volta le sue dita sulle immagini. Ecco. Ora si è soffermato con attenzione, ha appog - giato l’ultima immagine sul tavolo, e si è avvicinato

99 di più, ripiegandosi su un bianco e nero mai più spie - tato di allora. La confronta con la precedente e la successiva. Non mi chiede nulla, sono io che, senza nemmeno voltarmi, gli dico: “Lui è Gabriele.” So che sta guardando una serie di foto di un ragaz - zino sbattuto su un letto di ospedale, con lo sguardo assente, il busto ingessato, che sparisce intorno a una invadente cornice di tubi e macchinari. “…È morto sei mesi fa, dopo anni vissuti in questo stato. E sono io che l’ho ridotto così.”

100 Daria e Tommy, 17 anni. Quel pomeriggio Gabriele avrebbe lezione di nuoto, ma la piscina è chiusa. I genitori di Tommy sono stati, quella volta, entrambi eccezionalmente trattenuti nei ri - spettivi uffici. Quando si verifica una situazione di que - sto tipo, è Tommaso a occuparsi di suo fratello. Lui e Daria vanno a prenderlo a scuola e, tornando a casa, mentre Gabriele saltella strattonandoli a destra e sinistra, si lanciano sguardi complici in previsione di un pomeriggio sgombro di ostacoli per ripetere l’esperimento tra i loro corpi. È una splendida giornata di maggio, e mangiano tutti e tre i loro gelati in giardino. “Io ora gioco con Matteo e Davide! - annuncia poi Gabriele, che ha scorto i suoi due amichetti in arrivo, i fratellini del palazzo accanto - Venite qui!” dice loro, facendo il cenno di correr loro incontro. “Va bene Gabry - gli dice Tommaso - Io e Daria sa - liamo, ti guardo dal balcone e tra un po’ vieni a casa anche tu, va bene?” “Tra un po’ quanto?” chiede Gabriele. “Ti chiamo io, ora gioca.” Tommaso guarda Daria negli occhi, e prendendole la mano la trascina al lato opposto del cortile, senza che il fratello li veda, fino a condurla al loro vecchio posticino. “Ora, se hai il coraggio…” inizia Tommy, ma prima che concluda la frase, lei gli salta al collo e ini - zia a baciarlo insistentemente.

101 Lui corrisponde alle sue labbra, e si trascina con le mani sotto la sua camicia, slacciando i bottoni, acca - rezzando i suoi timidissimi seni di donna eccitata dal desiderio. Daria sgancia il primo bottone dei suoi jeans, e Tommaso la ferma: “Dai, passiamo a controllare Gabry e poi saliamo… continuiamo nel mio letto.” “No, dai ti prego, un attimo solo…” sussurra lei, trattenendolo a sé. “Ma sei tremenda…” “Non ti piace?” sussurra mentre lo bacia lungo il collo e sbottona anche i suoi pantaloni. “Andiamo…” le dice, con voce rotta dall’eccita - zione, ma cercando di convincerla a seguirlo. “Un attimo soltanto e poi andiamo.” Solo due minuti, ma forse meno di due minuti dopo, ecco l’urlo. Da quel momento il tempo si è fratturato, letteral - mente, se ne sono sentite le consistenze frantumarsi. In quella spaccatura, la pellicola si è allungata. Scor - rono i fotogrammi di Daria e Tommaso che escono di corsa dal cortiletto, si precipitano verso le urla. Tutta l’aria intorno è risalita a ritroso andando a incollarsi ai tetti, al muro, agli alberi, al cielo, svuotandosi di ogni rumore. Davide e Matteo piangono a dirotto, immobilizzati davanti all’imbocco del passaggio sulle scalette. Sono scesi di corsa i loro genitori, hanno chiamato l’ambu - lanza. In fondo ai gradini dello scantinato c’è il corpo silenzioso, storto e traverso di Gabriele, steso sul dorso, tra la sua testa e il collo uno scalino e una macchia scar - latta. Tommaso urla, Daria è immobilizzata, risucchiata

102 in quello squarcio dove tutto il tempo è assurdo, ovat - tato, surreale. Dopo l’episodio di tanti anni prima, quando era stato Tommy a cadere, quell’area intorno era stata chiusa con una recinzione per evitare che si ripetessero incidenti… ma Gabriele aveva scavalcato. Tommaso scende le scalette in fretta e chiama il nome del fratello, i vicini lo trattengono dal muoverlo da quella posizione, cercano di tranquillizzarlo ma tutto è vano, fino all’arrivo dell’ambulanza. La corsa in ospedale. Tommaso lì, seduto in sala di aspetto con la testa tra le mani. Si alza e poi si siede, così, ripetutamente. Il suo corpo è nervosamente pre - sente a fronte di un animo assente, perso nel vuoto. I suoi genitori sono arrivati, stanno parlando con il medico. Va operato d’urgenza, è in coma. Ha un edema nel cervello. Cinque ore dopo, lo stesso chirurgo riferisce che se si sveglierà avrà quasi certamente dei danni neurologici, non si può definire di che entità né se saranno perma - nenti, ma la previsione è di danni gravi. Non hanno potuto fare nulla per il danno alla spina dorsale, in un punto innervato e inoperabile. Tommaso non parla più. Daria gli ruota intorno da ore. I genitori l’hanno costretta a tornare a casa per la - sciare la famiglia più libera di gestire quelle ore tragi - che, offrendo loro ogni disponibilità in caso di qualsiasi bisogno. Daria è tornata il mattino dopo. Tommaso non è vo - luto andar via, ha saputo la prognosi e non ha più al - zato lo sguardo dal pavimento. I genitori la vedono e le rivolgono un amorevole tentativo di sorriso. Sono

103 due fantasmi, in attesa. Disperazione, macerazione. Tommy è stato nella stanza di suo fratello, è uscito e non si è più mosso dalla sedia. Daria lo vede e gli si ferma il cuore. Gli si avvicina con il volto rigato dal pianto e gli occhi gonfi di la - crime. Non trova nemmeno il fiato talmente è violento lo scuotersi della sua anima dentro. Quando è ferma davanti a lui Daria solleva una mano, per avvicinarla al suo viso, ma lui la blocca con violenza prendendola per il polso. “È tutta colpa tua! - lo dice guardandola negli occhi a voce bassa, e continua - Sei tu che gli hai raccontato di quando mi sono buttato giù - Il tono è in crescente afrore - Sei tu che ieri mi hai trattenuto. Mi hai fatto distrarre, mi hai allontanato da mio fratello - quasi ur - lando - Se io avessi fatto come dicevo, se fossi tornato indietro un attimo prima… Io… Io…” Daria si lascia inghiottire dall’inferno. Vorrebbe dire qualunque cosa ma non ha coraggio né sente di posse - dere ancora una voce. Pensa di non avere più nemmeno un corpo, e men che meno, un’anima. Le esce un rila - scio di singhiozzo, un gemito di tutti i dolori del mondo aggrovigliati tra loro. “Vattene! - continua Tommaso, ritornando a un tono di voce sostenuto, ma fermo - Ti odio e non vo - glio vederti mai più.”

104 “…Da allora non mi ha mai più rivolto la parola. Nei periodi successivi sono stata a trovare Gabriele in ospedale, e quando mi capitava di incrociarlo nella sua stanza o in corridoio, Tommaso avrebbe voluto mettermi le mani addosso. Non lo ha fatto per non creare altri problemi e tensioni ai suoi genitori… Ma era così rabbioso che stringeva i denti e i pugni, mi guardava con disprezzo e odio. Alla fine, per andare da lui dovevo sapere quando Tommaso non c’era… Credo sia stata quella la prima volta che ho cominciato a spiarlo.” Jean è un lago di compassione: tutti i suoi nervi, i muscoli e le ossa, appaiono sulla pelle creando un composto trasparente e liquido fatto di presenza e cor - doglio. “Daria, lo sai, vero, che non è colpa tua?” “Sì che è colpa mia” rispondo mordendomi un lab - bro e ghermendo con gli incisivi un polpastrello. “Daria…” Abbasso lo sguardo e la diga si rompe, brusca - mente inizio a piangere. “Nessuno sa tutta la verità, tranne Tommy. Nessuno sa che sono io ad averlo trattenuto lì, per il mio egoi - smo di ragazzina alle prese coi primi ardori. È stata solo colpa mia! Solo Tommy sa che ho ucciso l’esi - stenza di suo fratello e ha ragione a odiarmi. Mi odio anche io…” “Basta. Tu sei così piccola… Nessuno può portarsi addosso un peso e un odio tanto gravi! In fondo lo sai

105 anche tu, è per questo che hai cercato di mettere da parte quel masso, estraniandotene, dimenticando.” Mi lascia riprendere fiato. “Volevo parlarne con mio nonno. Mi leggeva il cuore e sapeva che ero incastrata in qualche angusto angolo buio, ma io non ce la facevo a dirgli tutto, non potevo. Non so esattamente quando ho iniziato ad avere due vite. In una ero quella che vive nel rimorso, che si butta via, e come un ratto si nasconde e cerca il modo per avvicinarsi a chi ha tanto amato e tanto fe - rito. Nell’altra ero una ragazza normale, misurata, as - sennata, che ignorava l’altra persona. Sapevo dentro di me di essere una doppia, ma non riuscivo, né volevo dirmelo.” Faccio fatica a parlare per via del singhiozzo, ma non posso evitarlo, adesso, proprio adesso che final - mente è arrivato il momento della redenzione. Allora prendo un po’ di fiato e continuo. “Ho smesso di andare in analisi senza mai risolvere niente. Forse arrivavo vicino alla verità del dolore e mi fermavo. Anche dopo l’incidente.” “Ora puoi ritentare… L’incidente alla metro è stata la punta dell’iceberg, hai dovuto vivere quel trauma per scoprire cosa c’era sepolto sotto. Può capitare di smarrirsi e poi ritrovarsi, sai?” “Ma io non voglio ritrovarmi. Voglio solamente tornare indietro e rimediare! Non sai quante volte, per quanto tempo mi sono portata indietro con la mente, mi sono massacrata con se avessi fatto , se non avessi fatto . Mi sono trascinata nel passato con la speranza che fosse soltanto un brutto sogno destinato a svanire. Oh, Jean! Perché non può funzionare così? Perché non può tornare tutto a posto? Perché abbiamo solo una

106 vita e la sbagliamo? Cambierei tutto, se avessi solo un’altra possibilità…” “Tesoro - mi dice, attingendo le parole direttamente dall’anima - ti ricordi cosa mi hai detto in ospedale, quando parlavamo di Joshua? Mi hai detto che non era colpa mia, che le cose accadono, che la forza della vita è molto più vigorosa di noi.” Il silenzio si allunga come un elastico, mentre cerco di prendere fiato. “Non riusciamo nemmeno a perdonare noi stessi né a perdonarci l’un l’altro, anche se siamo stati legati da tanto amore e a lungo. Se sappiamo vivere in guerra con noi stessi e con il nostro più caro vicino, si potrà mai far cessare le bombe?” Mi sorride con dolcezza. “Sei tanto piccola in misura di quanto sai essere grande - mi dice, moltiplicando tenerezza a ogni pa - rola - Sai come faremo noi? Un passo per volta. Fa - remo un mondo nuovo a partire dal tuo e dal mio.” “Ma come?” chiedo a lui, e a me chiedo, renden - domi conto dell’enorme consolazione che mi nasce in cuore da quell’istante, se sia possibile che quell’uomo, sconosciuto fino a pochi attimi prima, abbia potuto confortare una vita in balia della colpa infinita. “Be’… Incontrarti ha iniziato già a cambiarmi e ora è il mio turno di fare lo stesso per te. Devi capire, e capire davvero, che il tuo senso di colpa non modifi - cherà il fatto che quello che è successo è stato un in - cidente. Sarebbe successo comunque. Tu mi hai detto che non è colpa mia se non ho potuto fare di più per una famiglia in un Paese che è sotto le armi da de - cenni. Io ora dico a te che non è colpa tua Daria, se un bambino gioca e cade.”

107 Piango di commozione, ora. Le sue parole hanno iniziato a sciogliere le mie catene, sono visibilmente toccata, totalmente grata. Lui si avvicina a me più di quanto già lo sia e non sa se può prendersi la libertà di abbracciarmi, per pudore, per rispetto di quel mo - mento luttuosamente mio. Non sa se può scavalcare la muraglia. E lo faccio io per lui, gli prendo il viso tra le mani, ne accarezzo la ruvidità, lo contemplo, fin - ché le sue labbra, adorabilmente sbilanciate, vengono a cercare e trovano le mie.

Ho visto qualcosa di nuovo in lui, ed è stato in quel punto che mi sono ritrovata. Perché in quel punto c’ero anche io, ed era realmente, puramente inconta - minato. Benché fosse integro e solo suo, benché non lo avessi mai notato né trovato prima, io mi ci sono rico - nosciuta, e c’ero. C’era quella persona, quella ragazza che ero, quella che precedeva le colpe, che credeva nella vita. Fino ad allora ero uscita da molte porte, senza mai essere entrata in una stanza. Ma adesso c’ero, iniziavo a riconoscere l’odore, e le sue pareti volevano conte - nermi per fondere quell’odore al mio, era una stanza tanto familiare da volermici fermare. Ho chiesto a quell’uomo di varcare la soglia, di oltrepassare il muro, ma senza che me ne rendessi conto la nostra porta era spalancata, e noi eravamo già dentro. Capirlo è stato naturale come vedere, perché era chiaro e logico come i numeri, in mostra come le fo - tografie, ed era semplice, involontario come respirare: io per lui, e lui per me.

108 Daria e Jean, 31 dicembre 2009. “Buon anno petit bourricot !” dice Daria, piroet - tando nel salotto di casa, alle prese con lenticchie e vino. Lui la guarda, impressionato, ammaliato. Frizzante nel tubino rosso, che cela un grembo abi - tato da poche settimane, Daria prepara due bicchieri, e riempiendoli dice: “Io non bevo, lo sai, ma propongo un brindisi. A nostro figlio in arrivo! Maschio o fem - mina che sia, brindiamo al primo dei fratelli Arcand!” Si commuove, lui. Daria lo guarda negli occhi, fin dove la luce gioca a far nascere le immagini. Rivive in pochi istanti tutta quella storia, la loro e la sua. Certe colpe non si sciolgono al sole, ma arriva una notte che alla fine le perdona. Hanno tanti progetti, adesso. Il negozio di Daria si sta trasformando nella sede di una piccola redazione. Lei non poteva tradire suo nonno, e disperdere tutto quello che aveva costruito nella vita. Lavoreranno in - sieme, pubblicheranno reportage, collane fotografiche, voci inascoltate, anche di Paesi lontani. Daria ha così tanto materiale meraviglioso, opera di suo nonno, che sarebbe un peccato non offrirlo al mondo. E poi ha la sua passione, e quella di Jean, e insieme sono una squa - dra perfetta. Brindano al futuro, e lui la bacia, su una mano prima, e sul ventre poi. Entrambi sanno che la me - moria resta, anche quando cerchiamo di liberarcene,

109 anche quando si pensa di averne perse finalmente le tracce. Ma sanno che si può trovare anche il modo di celebrarla oltre che dissacrarla e sradicarla da noi stessi. Ora lo sanno, ed è così che vogliono vivere. “Sei sempre piccola per me.” “Non credi che io sia troppo grande per rimanere piccola?” “Se possibile, vorrei che diventassi ancora più pic - cola.” “E poi? Come faresti, ad esempio, a vedermi, se di - ventassi minuscola e poi invisibile?” “Solo io potrei vederti lo stesso, e ti guarderei fino a sempre.” “E non puoi farlo anche ora, prima che in questa casa saremo in troppi?” “Infatti ho già iniziato da un pezzo.”

110 INDICE

PRIMA PARTE Il giorno in cui la mia vita cambiò 11 Se non mi dici che mi sposi 12 Era trascorso un mese dall’incidente 15 La porta si aprì 18 Indietro 21 Jean! 23 Tommaso ha 11 anni 28 Come ti chiami? 30 Mi sveglio di soprassalto 32 Freddo o caldo che sia il cielo 34 L’incidente in sé per sé era superato 35 Tommaso e Daria, 12 anni 44 Non pensavo ad altro 46 Tommaso ha deciso 48 Non so se sia un pregio o un difetto 50 Dopo la visita di accoglienza 52 Il marmo è freddo, adesso 55 Daria ignorava cosa significassero 57 Che succede? 61 Tommaso e Daria, 15 anni 63 Alla metro quel mattino 66

SECONDA PARTE La memoria è quello che siamo 71 Dopo tante domeniche di gelati 72 Sono stato per tre volte nel sud del Sudan 74 Daria ha 18 anni 78 Da quando Jean mi ha riconsegnato 79 Daria, 21 anni 81 Quando Jean tornò in sala d’aspetto 84 Daria, 23 anni 87 Mi ricordo, sì, l’indirizzo è via Botero 88 Daria, 26 anni 92 Siamo abbracciati 95 Abbiamo avuto entrambi le nostre prognosi 98 Jean... 99 Daria e Tommy, 17 anni 101 ...Da allora non mi ha mai più rivolto la parola 105 Daria e Jean, 31 dicembre 2009 109 COLLANE AVAGLIANO I CARDI La Cina che arriva - Aa.Vv. Acting - De Benedictis Maurizio L’arte c’est moi - Mirolla Miriam Un paese stanco - Capati Massimiliano Trilogia della censura - Beha Oliviero Complottario - Verrengia Enzo La prima sigaretta del giorno - Santojanni Andrea Una lucida passione - Bubbico Filippo L’ultima volta che ho ucciso mia madre - Fernandez Moreno Ines I ballatroni - Paris Renzo Renault 4 - Aa.Vv. Dal fondo - Aa.Vv. Il paziente italiano - Beha Oliviero N-èmica - El Khayat Rita L’Africa umiliata - Traoré Aminata Senza zucchero - Aa.Vv. Da Paisà a Salò e oltre - De Benedictis Maurizio La pulsione culturale - Smerigli Mario Terre senza promesse - Aa. Vv. L’erezione della modernità - De Sessa Cesare A poco a poco quello sguardo - De Benedictis Maurizio Il cinema tra irrisione e riflessione - Mazzella Luigi I CORIMBI Marta non è Maria - Palazzolo Egle Manguste metropolitane - Corbino Alberto Il matto dei tarocchi - Ruffa Luciana Il mare nel pozzo - Formisano Redenta Passo d’ombre - De Rienzo Giuseppina Peppermint - Micheletti Gustavo Villa bell’aspetto - Ambrosi De Magistris Elena Senza cuore - De Amicis Armando Il posto giusto - Procaccini Elvira L’isola di terracotta - Notari domenico Recita napoletana - Mozzillo Giovanna Cicatrici di pietra - Dannemark Francis Il diavolo in villa - La Stella Enrico La festa di Santa Elisabetta - Esposito Vincenzo La bambina dietro la porta - Orsini Natale Maria Manipolazioni - Sellitto Carolina Il sangue del Vesuvio - Locatelli Goffredo Il cielo capovolto - Cilento Antonella Corpo estraneo - Van Cauwelaert Didier Malussia - De Santis Sergio Irene a mosaico - Lanza Consolata Federico F. - Angelucci Gianfranco La quinta stagione dell’anno - Esposito Vincenzo Allium - Patroni Griffi Giuseppe Diario di una donna che ha tradito - Izzo Simona Cieli di carta - Orsini Natale Maria Una donna sbagliata - Roat Francesco La casa della palma - Angioni Giulio Luccatmì - Borrelli Ilaria Quando scriviamo da giovani - Franchini Antonio Pausa per rincorsa - Santoro Anna Allegri suicidi - Lambiase Sergio Domani si gira - Borrelli Ilaria Sfregi - Courtoisie Rafael La visita notturna - De Sica Manuel Nella terra di nessuno c’eran tutti - Alessandro Salas L’ultima papessa - Del Giudice Antonella Parco nemorense - Barone Massimo Cronache dalla città dei crolli - De Santis Sergio Viaggiatori a sangue caldo - Argentina Cosimo Prendetevi cura delle bambine - Milone Rossella Le detenute - Magni Stella Gustavo - Bordini Carlo Moremò - Morganti Davide Amore a Cape Town - Garavelli Bianca Notte abissina - Coscia Fabrizio Quelli che c’erano - Morea Delia I vecchi esultano la sera - Acitelli Fernando Ladro di sogni - De Sessa Cesare La strage di Natale - Quintini Roberto All’altezza delle labbra - Cristofaro Antonella Male e peggio - Selvetella Yari Silenzi vietati - Ceccamea Francesco Diciassette sillabe - Yamamoto Hisaye Dalla pelle al cielo - Drago Ilaria Fighting France - Wharton Edith Il castello dei Carpazi - Verne Jules Amedeo che non muore - Palazzolo Egle Nella mia vita ci piove dentro - Formisano Salvio Scene dal domani - Riccioni Pietro Il figlio del figlio - Balzano Marco La ballata della Mama Nera - Lepri Roberta La bella addormentata nel parco - Fiori Giuseppe Storie bastarde - Desario Davide Il silenzio del colore nero - Frediani Serena Il volto oscuro della perfezione - Lepri Roberta Lo scandalo del quarto Re Magio - Idalberto Fei Volevo essere Coco Chanel - Vanessa Valentinuzzi Borderlife - Marco Innocenti Il talento della malattia - Moscè Alessandro Il mercenario di Gheddafi - Safier Mariù Memorie dall’innocenza - Frediani Serena I TORNESI Francesca e Nunziata - Orsini Natale Maria Il resto di niente - Striano Enzo Il terrazzo della villa rosa - Orsini Natale Maria Ritratto di Angelica - Weller Simona L’ospite della vita - Bottone Vladimiro Naso di cane - Veraldi Attilio Una rosa nel cuore - Weller Simona La mazzetta - Veraldi Attilio La signorina e l’amore - Mozzillo Giovanna Suzanne - Weller Simona Rebis - Bottone Vladimiro Uomo di conseguenza - Veraldi Attilio Lavinia e l’angelo custode - Mozzillo Giovanna Mozart in viaggio per Napoli - Bottone Vladimiro Memorie di una pittrice perbene - Weller Simona Quell’antico amore - Mozzillo Giovanna Antonietta e i Borboni - Bernardini Emilia Nero giubileo - Sacchettoni Dido La principessa di Atlantide - Bottone Vladimiro Un gioco malandrino di finestre e balconi - Mazzella Luigi Gli ultimi figli - Bonucci Silvia Olimpo - Piersanti Umberto Quattro elementi - De Seta Cesare La favola del cavallo - Orsini Natale Maria, Scia Sabatino La vita come un gioco - Mozzillo Giovanna Per diverse acque - Miranda Miranda Le radici del tempo - Bonura Giuseppe Il console Stendhal - Barone Massimo Silvana - Vasile Turi Saint-Ex - D’Anna Riccardo Il chiodo nella sabbia - Mazzella Luigi Furia di diavolo - Cardona Maria Clelia L’uomo che guardava le donne - Benfante Marcello La baia del dubbio - Mazzella Luigi La verità dietro l’angolo - Mazzella Luigi Figli di due mondi - Aa. Vv. Gioco duro - Fiaschetti Michael Quando eravamo povera gente - Marchi Cesare L’estate di Camerina - Tomassoli Mauro IL MELOGRANO Ragazza caduta in città - Bartolini Luigi Inventario della memoria - Prisco Michele Horror vacui - Sinisgalli Leonardo Il fiele ibleo - Bufalino Gesualdo La stanza grande - Rimanelli Giose Un bel viaggio - Chiara Piero Al cinema non fa freddo - Marotta Giuseppe La cugina - Patti Ercole La vacanza delle donne - Compagnone Luigi La virtù delle donne - Serao Matilde Novelle inverosimili - Capuana Luigi I ragazzi di Nofi - Rea Domenico La maestrina degli operai - De Amicis Edmondo Il cappello del prete - De Marchi Emilio I parenti del sud - Montella Carlo L’eredita Ferramonti - Chelli Gaetano Carlo Serata D’onore - De Filippo Eduardo Notizie degli scavi - Lucentini Franco Città di mare con abitanti - Compagnone Luigi Amore amaro ed altri amori - Bernari Carlo Rosa Bellavita e altri racconti - Di Giacomo Salvatore Amati enigmi - Marghieri Clotilde Vita di Anna Stickler - Bartolini Luigi Una lapide in via del Babuino - Pomilio Mario I nottambuli - Fruttero&Lucentini Lontano - Parise Goffredo Un amore a Roma - Patti Ercole Il ventre di Napoli - Serao Matilde L’oro di Hollywood - Marotta Giuseppe Cose viste - Ojetti Ugo Redivivo - De Marchi Emilio Una vampata di rossore - Rea Domenico Napoli a occhio nudo - Fucini Renato Graziella - Patti Ercole Vita in villa - Marghieri Clotilde La disdetta - De Roberto Federico Le bellissime - Marotta Luigi Cronache dell’al di qua - Ottieri Ottiero Carnevale a Milano - Crovi Raffaele Il ghebo - Bartolini Elio Maestra - Tartufari Clarice L’innamorata - Contessa Lara Il cuore oscuro dell’Ottocento - Reim Riccardo La vita militare - De Amicis Edmondo Il paese di Cuccagna - Serao Matilde La Giudia - De Feo Sandro Sulle lagune - Verga Giovanni La cieca di Sorrento - Mastriani Francesco Campane a Sangiocondo - Prato Dolores Sciogli la treccia, Maria Maddalena - Da Verona Guido La danza della collana - Deledda Grazia Tre storie d’amore - Tecchi Bonaventura Piccole anime - Serao Matilde Ravello - De Masi Domenico San Gennaro non dice mai no - Marotta Giuseppe Peccatrice moderna - Invernizio Carolina LA STRANIERA Casa de Pensão - Azevedo Aluisio Madam Butterfly - Luther Long John La scelta del fantasma e altri racconti - Doyle Arthur Conan LE COCCINELLE L’ultima intervista di Pasolini - Colombo Furio, Ferretti G. Carlo Sandro Penna - Marcheschi Daniela Il girasole della memoria - Orsini Natale Maria, Marinelli Gioconda Il gioco dei padri - Sciascia Anna Maria Herta Müller - Lepre Gabriella Finito di stampare nel mese di novembre 2012 per conto della Avagliano Editore S.r.l. presso Global Print S.r.l - Gorgonzola (MI)