LE MISSIONI ESTERE DI

1 STORIA E VITA MISSIONARIA Collana diretta da P. Piero Gheddo Ufficio Storico del Pime - Via F.D. Guerrazzi, 11 00152 Roma - Tel. 06.58.39.151 1 - Piero Gheddo, Missione Brasile. I 50 anni del Pime nella Terra di Santa Croce (1946-1996), pagg. 384 + 32 fotografiche, L. 25.000 2 - Paolo Manna, Virtù apostoliche, pagg. 460, L. 30.000 3 - Piero Gheddo, Dai nostri inviati speciali. 125 anni di giornalismo missionario da Le Missioni Cattoliche a Mondo e Missione (1872-1997), pagg. 124, L. 11.000 4 - Piero Gheddo, Missione Amazzonia. I 50 anni del Pime nel Nord Brasile (1948-1998), pagg. 484 + 32 fotografiche, L. 30.000 5 - Giuseppe Butturini, Le missioni cattoliche in Cina tra le due guerre mondiali, pagg. 334, L. 30.000 6 - Piero Gheddo, Missione America. I 50 anni del Pime negli Stati Uniti, Canada e Messico (1947-1997), pp. 176 + 16 fotografiche, L. 18.000 7 - Piero Gheddo, Missione Bissau. I 50 anni del Pime in Guinea-Bissau (1947-1997), pagg. 464 + 32 fotografiche, E 14,46 8 - Amelio Crotti, Noè Tacconi (1873-1942), il primo Vescovo di Kaifeng (Cina), pagg. 368, L. 30.000 9 - Mauro Colombo, Aristide Pirovano (1915-1997), il Vescovo dei due mondi, pagg. 384 + 32 fotografiche, L. 30.000 10 - Piero Gheddo, Pime, 150 anni di missione (1850-2000), pagg. 1230, E 25,82 11 - Domenico Colombo (a cura di), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, pagg. 462, E 15,49 12 - Piero Gheddo, Il santo col martello. Felice Tantardini, 70 anni di Bir- mania, pagg. 240 + 16 fotografiche, E 10,33 13 - Angelo Montonati, Angelo Ramazzotti Fondatore del PIME (1800- 1861), pagg. 224 + 8 fotografiche, E 10,33 14 - Piero Gheddo, Paolo Manna (1872-1952), Fondatore della Pontificia Unione Missionaria, pagg. 400 + 4 fotografiche, E 14,46 15 - Pino Cazzaniga, Giappone missione difficile. I 50 anni del Pime nel Paese del Sol Levante, pagg. 304 + 16 fotografiche, E 13,00 16 - Amelio Crotti, Gaetano Pollio (1911-1991), Arcivescovo di Kaifeng (Cina), pagg. 186 + 32 fotografiche, E 13,00 Volumi di prossima pubblicazione: 17 - Piero Gheddo, Carlo Salerio, Missionario in Oceania e Fondatore delle Suore della Riparazione (1827-1870) AUTORI VARI

LE MISSIONI ESTERE DI ANGELO RAMAZZOTTI

Radici storiche e spirituali

Prefazione di Franco Cagnasso

EDITRICE MISSIONARIA ITALIANA

3 Copertina di Bruno Maggi.

© 2002 EMI della Coop. SERMIS Via di Corticella, 181 - 40128 Bologna Tel. 051/32.60.27 - Fax 051/32.75.52 web: http://www.emi.it e-mail: [email protected]

N.A. 1777 ISBN 88-307-1152-7

Finito di stampare nel mese di luglio 2002 dalla Grafica Universal per conto della GESP - Città di Castello (PG)

4 «Doniamo almeno amore a tutti e potremo dirci figli di Dio» (dalla Lettera pastorale di mons. Ramazzotti scritta per la Quaresima del 1857) PREFAZIONE

Il secondo centenario della nascita del fondatore e il centocin- quantesimo anniversario della fondazione, entrambi celebrati nel 2000, sono stati per i missionari del Pontificio Istituto Missioni Estere (PIME) l’occasione che ha portato alla riscoperta di una parte importante della loro storia. Durante gli anni del post-concilio, essi si sono impegnati so- prattutto nel rinnovamento della missione e, in misura minore, in quello dell’organizzazione del loro istituto. Era giusto dare priorità a questo impegno, tuttavia il passato era rimasto troppo in ombra. Le generazioni più giovani lo cono- scevano poco e – tese a guardare avanti per rispondere ai molti e rapidi mutamenti dei paesi in cui operano e della missione – non sentivano il bisogno di esplorarlo. Gradualmente, in questi ultimi anni è cresciuta però l’atten- zione alle fonti, con il desiderio di conoscere meglio le proprie radici. Oltre alle due importanti date appena ricordate, hanno con- tribuito a questa maturazione vari altri elementi. Diverse comunità stanno compiendo i 50 anni della loro pre- senza in alcuni paesi (Brasile 1946, Guinea-Bissau e Stati Uniti 1947, Amazzonia 1948, Giappone 1950) e ciò le spinge a confron- tarsi con la loro storia anche per capire come impostare il futuro. L’iter di studio e ricerca per la beatificazione di padre Paolo Manna è stato concluso e la beatificazione approvata (il 4 novem- bre 2001 Giovanni Paolo II ha beatificato padre Paolo Manna, ndr), risvegliando interesse per i tempi in cui padre Manna è vis- suto e gli avvenimenti in cui ha avuto parte. Il 1° ottobre 2000 padre Alberico Crescitelli, ucciso in Cina cento anni prima, è stato proclamato santo e il fatto si è aggiunto

7 ad altri che tengono desto l’interesse del PIME per la Cina sia del presente come del passato. Padre Piero Gheddo, che da circa 40 anni era alla direzione del mensile «Mondo e Missione», nominato direttore dell’Ufficio storico del PIME nel 1994, ha dato un forte impulso alla ricerca e a pubblicazioni curate direttamente da lui con l’ufficio stesso, o incoraggiando e sostenendo il lavoro di altri. Il ritorno alla propria storia è sollecitato anche dal progressivo internazionalizzarsi del PIME: giovani di altri paesi sentono la necessità di studiare le origini di questo istituto, per molto tempo esclusivamente italiano, di cui fanno parte. Non si tratta soltanto di interesse culturale, ma di una vera e propria ricerca sul carisma e sulla spiritualità che danno alla nostra «famiglia di apostoli» (come amiamo descriverci) le caratteristiche che la distinguono. Studiando il nostro passato, ci stiamo rendendo conto che un pic- colo gruppo di uomini che operano perlopiù lontani dai riflettori del- la cronaca e in luoghi remoti, considerati di scarsa importanza, può in realtà incidere profondamente sulla storia dei popoli. Dal 1850 a oggi il PIME ha accolto non più di 1.700 uomini circa, a cui vanno affiancate le Missionarie dell’Immacolata, di più recente fondazione (1936). Sono pochi, ma la loro opera ha per- messo la fondazione di numerose Chiese locali in Cina, Hong Kong, India, Birmania e Bangladesh e un consistente rafforzamento di altre in Brasile, Camerun, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Thai- landia, Filippine, Giappone, Papua-Nuova Guinea, Cambogia, Messico, Taiwan. Si tratta perlopiù di Chiese vive e ricche non solo di fedeli ma anche di opere sociali, culturali, caritative spesso notevoli. E in Italia? Il PIME fin dalla sua origine ha sempre fatto ogni sforzo per mantenere le sue caratteristiche, una delle quali consiste nel rite- nersi un’organizzazione – se così si può dire – di supporto, non totalizzante. Si considera uno strumento, il più agile e leggero pos- sibile, di cui le Chiese locali possono servirsi per adempiere al loro compito di svolgere la missione ad gentes, cioè ai non cristiani, e all’estero. Ancora oggi, chi entra nell’istituto sa che dovrà partire, anche se il suo paese di origine è a maggioranza non cristiana.

8 Per questo motivo, la presenza del PIME in Italia non si è mai espressa con opere pastorali di carattere generale (parrocchie, scuo- le, opere sociali o culturali) ma si è sempre volutamente limitata ad attività e opere che siano in strettissimo rapporto con il fine dell’istituto, cioè le missioni ai non cristiani e all’estero. Il PIME è sviluppato, in particolare, nei campi della comunicazione, della formazione per seminaristi e laici che vogliono partire, dell’ani- mazione missionaria e del supporto logistico, economico, cultura- le e spirituale ai membri che operano in altri paesi. Siamo e vogliamo continuare a essere strettamente legati alle Chiese in Italia, «specializzandoci» sempre meglio nel compito che esse hanno di evangelizzare le genti, così come altre istituzioni si specializzano nel campo della salute o dell’educazione giovani- le, dell’emarginazione sociale, ecc. Questa presenza limitata e con obiettivi precisi non ci rende però estranei alla realtà italiana, come desideriamo che non ci ren- da estranei ad altri paesi da cui ora provengono molti nuovi mem- bri. Al contrario, ci costringe a innestare profondamente ciò che facciamo nel tessuto della realtà ecclesiale, perché se così non fa- cessimo non saremmo noi stessi e, mancando di spazi nostri, per- deremmo immediatamente il terreno in cui operare. Ciò è facilmente riscontrabile anche dalla lettura di questo vo- lume, frutto di una giornata di studio organizzata al Centro mis- sionario del PIME di Milano il 28 ottobre 2000, e curato da padre Massimo Casaro, direttore del Museo dei Popoli e delle Culture e dei programmi culturali a esso collegati. Indagando su ciò che ha portato alla fondazione del Semina- rio Lombardo per le Missioni Estere, sul contesto storico in cui esso è sorto e sulla figura di mons. Angelo Ramazzotti, il fonda- tore, ci siamo accorti di quanti e quanto interessanti siano i no- stri legami con la storia di Milano e dell’Italia, e allo stesso tem- po di come la nascita di questo istituto che pure è rimasto nume- ricamente limitato sia stata significativa e continui ad esserlo per la Chiesa italiana. La maggior parte dei nostri uomini ha operato e opera altrove, e ciò significa che sono in certo qual modo espressione di una nostra capacità di allargare gli orizzonti, di adattarci, di «esporta-

9 re» quella fede che tanto ha inciso nella nostra storia. Allo stesso tempo però comporta anche un «ritorno», culturale e spirituale, di non poco conto. La Chiesa e la società lombarda prima e poi italiana sarebbero diverse se non avessero saputo inviare tanti «am- basciatori» di pace, solidarietà, interesse per gli altri, accoglienza della parola evangelica per cambiare la vita. Questo volume, ben documentato, è interessante per ciò che racconta e anche appassionante: aiuta a capire che la missione è davvero elemento vitale per la Chiesa e anche per una società civile.

P. FRANCO CAGNASSO Superiore generale del PIME Milano, ottobre 2000

Nell’anno 2000 la EMI ha pubblicato: Angelo Ramazzotti, Fondatore del PIME (1800-1861), di Angelo Montonati (pagg. 224 + 8 fotografiche, e 10,33), di cui sono uscite due edizioni.

10 LA FIGURA E LA SPIRITUALITÀ DI MONS. ANGELO RAMAZZOTTI di Francesca Consolini

La fisionomia spirituale di una persona, soprattutto di un can- didato alla santità, come nel caso di mons. Ramazzotti, non può mai essere disgiunta dalla sua vita. Se vogliamo delineare le linee portanti di questa spiritualità, possiamo definirle così: – amore alla preghiera e in particolare all’Eucaristia; – obbedienza indiscussa al Papa e alla Chiesa; – spirito missionario; – carità organizzata; – stile di vita povero e amore alla verità. Questi tratti dello spirito non possono però essere disgiunti dalla sua vicenda umana, anzi è in essa che si incarnano, prendono consistenza e, nel caso di un fondatore, si trasmettono alla propria famiglia religiosa costituendone il carisma. Mons. Angelo Ramazzotti che, in questa sede, viene oggi ricor- dato soprattutto come fondatore del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, fu anche uno dei più grandi vescovi del Regno Lombardo-Veneto, prima dell’unità di Italia e prima del Concilio Vaticano I. La sua vicenda terrena si può suddividere in quattro momenti: – gli anni giovanili dalla nascita (1800), al sacerdozio (1829); – la permanenza fra gli Oblati Missionari di Rho dal 1829 al 1850, con la fondazione del Seminario Lombardo per le Missioni Estere;

La dott.ssa Francesca Consolini è postulatrice di varie cause di Servi e Serve di Dio; collabora inoltre con l’Ufficio delle cause dei santi della dioce- si di Milano e di altre curie vescovili. È autrice della super virtutibus del Servo di Dio mons. Angelo Ramazzotti.

11 – l’episcopato a Pavia dal 1850 al maggio 1858; – il patriarcato a Venezia dal 1858 alla morte, il 24 settembre 1861.

Angelo Francesco Ramazzotti nasce a Milano il 3 agosto 1800 da Giuseppe Cristoforo e Giulia Maderna, entrambi originari di Saronno. Ricevette la sua prima formazione scolastica ed umana in una Milano che stava attraversando un non facile periodo di asse- stamento politico, soprattutto fra gli anni dal 1800 al 1809, anno nel quale il Ramazzotti venne ordinato sacerdote ed entrò fra gli Oblati Missionari di Rho. Sono sufficienti brevi cenni per illustrare la si- tuazione della diocesi ambrosiana di quel tempo: il 2 giugno 1800 Napoleone Bonaparte, primo console, fece il suo ingresso trionfale in Milano, promettendo tolleranza e libertà. L’arcivescovo era l’ot- tuagenario mons. Filippo Maria Visconti che morì il 30 dicembre 1801 a Lione, dove partecipava alla Consulta straordinaria, pro- mossa da Napoleone e organizzata dal ministro Talleyrand, allo sco- po di riordinare gli affari della seconda Repubblica Cisalpina. I lavori della Consulta proseguirono fino alla stipulazione del Concordato del 1803 fra la Repubblica francese e la S. Sede. La Repubblica Cisalpina doveva seguire le sorti della Francia: tra- sformatasi questa in impero, essa divenne Regno Italico. Le vicen- de conseguenti a questo cambiamento sono note: la storica inco- ronazione con la «corona ferrea» di Napoleone nel duomo di Mi- lano il 26 maggio 1803; il malcontento generale della Chiesa per le ingerenze del potere civile nelle questioni religiose; la diffusione del Catechismo imperiale; la sempre più massiccia opera di sop- pressione delle corporazioni religiose e il conseguente incamera- mento dei beni ecclesiastici. L’azione debole e troppo ossequiente a Napoleone dell’arcivescovo mons. Caprara, quasi mai in sede, che viveva abitualmente a Parigi come legato a latere dell’impera- tore, non aveva fatto che aumentare il malcontento. Alla caduta di Napoleone seguirono la restaurazione austriaca e l’elezione nel 1818, dopo la reggenza del vicario capitolare mons. Carlo Sonzi- ni, di un grande arcivescovo: mons. Carlo Gaetano Gaisruck. Sot- to di lui, la Chiesa ambrosiana riacquistò gradatamente un certo equilibrio; pur essendo di origine austriaca, infatti, il nuovo arci-

12 vescovo si sentiva soprattutto pastore della Chiesa milanese e sa- peva porre un freno deciso alle pretese ingerenze del potere civile. È da sottolineare che mons. Ramazzotti non ebbe a risentire molto della situazione politica che si rifletteva anche negli am- bienti ecclesiastici; scelse infatti la via del sacerdozio nel 1825 e compì gli studi teologici sotto l’arcivescovo Gaisruck che ebbe molto a cuore la preparazione dei suoi preti, tanto che, come scri- ve il Visconti Venosta, «si formò in Lombardia un clero colto, sti- mato e amato che seppe più tardi immedesimarsi nella vita del popolo e nelle aspirazioni nazionali». Quest’ultima affermazione non vale però per mons. Ramazzotti, morto nel 1861; egli non fu mai attratto dalle vicende politiche; si preoccupò invece, e molto, delle conseguenze che guerre e sollevazioni riversavano sulla po- polazione più povera; egli fu sempre fedele all’idea del potere tem- porale del papa come garanzia di libertà religiosa e all’Impero au- stro-ungarico, del quale, pur difendendo i diritti della Chiesa, si sentiva un suddito fedele.

Formazione scolastica e sacerdotale

Compiuti gli studi primari e liceali, prima presso il Collegio Viglezzi di Saronno, poi in quello di Gorla Minore e quindi al Col- legio Longone e poi in quello di S. Alessandro di Milano retti dai Barnabiti, passò alla facoltà di legge della Regia Università di Pavia dove si laureò nel 1823. Ottimo studente dal lato del profitto e della disciplina, sembra non risentire affatto dei moti risorgimentali che infiammano la maggior parte dei suoi compagni, molti dei quali abbandonano gli studi e prendono parte ai moti piemontesi del 1821: fatto insolito per i tempi, egli sembra disinteressarsi completamente degli avvenimenti politici che accadono attorno a lui, atteggiamen- to che sarà caratteristico della sua personalità; per tutta la vita si sarebbe dimostrato soprattutto un pastore, preoccupato solo del bene della sua gente, fautore di conciliazione e di pace. La fonte principale dalla quale attingere per conoscere l’inti- mo di mons. Ramazzotti è la biografia scritta solo qualche mese dopo la sua morte da don Pietro Cagliaroli; questi era il segretario

13 di mons. Ramazzotti, lo aveva seguito a Pavia e poi a Venezia, condividendo ogni sua fatica ed ogni suo ideale; era profonda- mente amico del vescovo il quale spesso gli confidava i suoi pen- sieri più intimi, le sue riflessioni ed anche alcuni preziosissimi ri- cordi; negli ultimi anni di vita del Ramazzotti, il Cagliaroli fu an- che suo confessore e, in questa veste, oltre che come amico, lo assistette nella sua ultima malattia e al momento della morte. Vo- lendone poi scrivere la biografia, don Cagliaroli condusse una approfondita indagine presso amici, compagni e conoscenti di mons. Ramazzotti, raccogliendo una serie di preziose testimonian- ze, aiutato in questo lavoro da padre Angelo Taglioretti, oblato di Rho anch’egli amico del Ramazzotti e suo collaboratore nella fon- dazione del Seminario Lombardo. Quanto al Ramazzotti studente universitario, il Cagliaroli, sul- la base delle testimonianze raccolte, lo descrive come un giovane di sani ed onesti costumi; si distingue per una certa signorilità di tratto e moderazione nel parlare che lo fanno rifuggire da ogni volgarità; apprezza l’amicizia cordiale e sincera; è attento nell’os- servanza delle pratiche religiose, dei precetti e delle astinenze, ma non è bigotto e manifesta la sua fede senza rispetto umano; dimo- stra, fin da allora, molta attenzione verso i poveri. Dopo la laurea, dal 1823 al 1825 frequenta gli studi di due noti legali milanesi per compiere il suo tirocinio. Nel 1825, quasi come un fulmine a ciel sereno, comunica alla madre la sua intenzione di farsi sacerdote. L’età matura, gli studi universitari già compiuti e la serietà della sua vocazione gli consentono di frequentare come alunno esterno il seminario teologico di Milano fino al sacerdozio, ricevuto il 13 giugno 1829.

Missionario Oblato di Rho

Strettamente unita alla vocazione sacerdotale si manifesta in lui quella missionaria; già al terzo anno di teologia si fa strada nel suo animo «il desiderio di consumare tutta la vita nella santificazione delle anime», non solo come prete; pensava quindi di ritirarsi in un istituto religioso «per svincolarsi da ogni sollecitudine e cura di fa-

14 miglia», senza però rinunciare a quello che considerava il compito principale del sacerdote: la predicazione. Sceglie quindi di far parte degli Oblati Missionari di Rho proprio per la cura precipua che essi mettevano nella predicazione popolare; la domanda di ammissione presentata dal chierico Ramazzotti al termine del terzo anno di teo- logia venne accettata anche se la sua entrata fu differita a dopo l’or- dinazione sacerdotale; il collegio di Rho era infatti formato da sa- cerdoti diocesani, già ordinati, caratteristica che il Ramazzotti tra- sferirà nel suo Seminario per le Missioni Estere. Il giorno stesso della sua ordinazione, nel pomeriggio, il Ramazzotti entrò nel colle- gio dei missionari di Rho. Questi erano stati fondati dal Servo di Dio Giorgio Maria Martinelli, il quale completava, con la sua istitu- zione, quella già fiorente degli Oblati dei SS. Ambrogio e Carlo; il collegio aveva sede presso il santuario della Madonna Addolorata di Rho; come le altre istituzioni religiose, esso venne soppresso in due riprese: da Napoleone nel 1798-1799 e insieme all’intera con- gregazione nel 1810. Il cardinale Gaisruck non aveva molta simpa- tia per gli Oblati di Rho e fu solo grazie all’azione di Ramazzotti, per tre volte superiore del collegio, che l’arcivescovo nel 1839 approvò il ripristino giuridico del collegio. L’azione di mons. Ramazzotti come oblato di Rho risulta dalle testimonianze dei suoi confratelli. Prima di tutto egli fu fedele alle norme che regolavano il collegio e alle direttive del suo fondatore: predicazione popolare, esercizi per il clero e le religiose; in più a padre Ramazzotti fu affidata la predicazione della dottrina «che per lunga consuetudine e con pieno beneplacito del parroco si teneva nel santuario del collegio. E la veniva esponendo con quel- la precisione, popolarità e chiarezza che era tutta propria del suo cuore, dei suoi lumi e della sua esperienza». Al di là delle missioni, egli si sobbarcò poi il delicato compito della direzione «di molti sacerdoti di quei dintorni e di altri luoghi [...] a tutti mostravasi largo di ogni assistenza, anche per consigli, onde poteano abbisognare ne’ loro rispettivi uffizi; così che non sapevan finire di commendare la prudenza e saviezza di avvisi e di regolamenti che attingevano all’amorevole sua direzione». Secondo le prescrizioni della Norma venivano distinti due tipi di missione: quelle brevi, chiamate anche «missioni di visita», per-

15 ché preparavano alla visita pastorale dell’arcivescovo e duravano un giorno o due al massimo di predicazione, e le missioni vere e proprie di due settimane, con la predicazione distinta per gli uo- mini, le donne, i fanciulli, le confessioni e comunioni generali. Il registro Missioni ed esercizi dal 1793 al 1888, conservato nel- l’archivio del collegio di Rho, permette di conoscere dove e quan- do Ramazzotti predicò le missioni. Egli predicò 214 missioni, 35 delle quali sono da considerarsi missioni vere e proprie, e di non meno di otto giorni le altre, in tutto il territorio della diocesi ambrosiana di allora che si estendeva a territori ora appartenenti alle diocesi di Novara, Como e al Canton Ticino. Le testimonian- ze dei confratelli e le relazioni dei parroci visitati dalla missione ricordano che padre Ramazzotti era instancabile; egli si sobbarca- va a qualsiasi fatica pur di riuscire nell’opera di riconciliazione e conversione delle anime. Scrive don Cagliaroli:

Portavasi anche nella missione a confortare gli ammalati del paese, ed ascoltare le confessioni, e animandoli alla pazienza per ogni ma- niera si studiava di aiutarli e consolarli. Né farò qui menzione dei disagi tollerati da lui in molte di tali missioni, specialmente nelle parti montuose della diocesi [...] Gli bisognava inerpicarsi su per balze e dirupi e tenere angustissimi sentieri che gli esponevano a pericolo la vita [...] fino a casolari che posti all’ultimo confine della diocesi s’al- zavano sui gioghi di altissimi monti, non impaurito per rischi, non vinto per istanchezza, costretto spesso a dividere un pane scarso coi meschini abitanti, ricoverato nelle loro affumicate e fetide capanne, questo vero angelo di Dio evangelizzava allegramente la pace, ammi- nistrava i SS. Sacramenti come se avesse dimorato fra le mura del suo Collegio. E quanto più c’era da lavorare e patire, tanto meglio si chia- mava contento il padre Ramazzotti.

Avvalendosi della sua formazione di avvocato si prestava an- che a ricomporre liti che duravano da anni e a riportare la pace nelle famiglie: «Le missioni si sarebbero dette propriamente la vita della sua vita, tanto era ardentissimo e direi quasi irrefrenabile il sentimento del bene onde era tutto animato. Mi attestano i Padri che gli furono compagni che, finita una missione, avrebbe voluto tosto incominciarne un’altra, e quando sulla lista dei

16 destinatari alle missioni, non leggesse il suo nome, restava come tutto mortificato». Nell’animo di padre Ramazzotti però si faceva già strada la chiamata a una missione più completa: quella ad gentes, che avrebbe poi concretizzato nella fondazione del Seminario Lombardo per le Missioni Estere. Un suo confratello, padre Liborio Rossi, ricorda infatti che, tornando al collegio dopo una missione, padre Ramazzotti spesso gli diceva: «Immaginiamo di essere due missionari, di quelli del- l’Oceania che vengono a casa dopo aver passato una giornata di fame, di stenti, di stanchezza. Oh che gusto», e più volte tornava sull’argomento della bellezza della vita spesa nella missione. Padre Ramazzotti fu per tre volte superiore del collegio di Rho: dal 1839 al 1841, dal 1841 al 1843 e dal 1847 al 1849, fatto ecce- zionale perché non era previsto che un superiore rimanesse tale per due mandati consecutivi, ma tale fu la volontà del card. Gai- sruck. Durante l’ultimo mandato egli si distinse per l’azione di pacificazione che svolse, per conto del governo provvisorio, per contenere la rivolta contro il governo austriaco nei paesi vicini a Milano; come in altre circostanze non si schierò né da una parte né dall’altra, ma si preoccupò che le conseguenze di tale rivolta non rendessero ancora più difficili le condizioni dei contadini, per i quali chiese al governo provvisorio la tutela di alcuni diritti con- tro i soprusi dei proprietari terrieri. Di questo terzo mandato del padre Ramazzotti come superio- re degli Oblati di Rho rimangono alcune belle testimonianze di alcuni suoi confratelli che ne mettono in luce l’umiltà e la carità; per padre Ramazzotti il vero missionario doveva essere santo; per ottenere buoni frutti dalle loro fatiche «i missionari devono essere santi per i primi». Ai confratelli era solito dire che i missionari «devono essere umili, devoti, pazienti, amanti del vero desiderio di piacere a Dio; devono essere mortificati, obbedienti alle loro Regole, far bene la mezz’ora di meditazione alla sera, digiunare al sabato, confessarsi due volte la settimana, avere un contegno che spiri santità e pace interna». Padre Ramazzotti non si accontentava del bene che faceva, ed era già molto, come missionario di Rho: «Facciamo del bene e

17 facciamolo davvero» era una esortazione che rivolgeva spesso ai confratelli e ne dava l’esempio; secondo la testimonianza di don Giovanni Salerio, fratello di padre Carlo che avrebbe poi fatto parte del Seminario Lombardo e fondato le Suore della Ripara- zione, padre Ramazzotti viveva in vera povertà personale perché con quanto poteva disporre di suo pagava l’affitto ad alcune fami- glie indigenti; forniva di una conveniente dote le ragazze povere; procurava lavoro a chi non ne aveva; era poi cordiale e sincero con gli amici e si rammaricava quando, per ragioni di ministero, non avrebbe potuto fare quanto avrebbe voluto, come curare perso- nalmente i poveri, lavarli, accudirli. Fin dai primi anni della sua attività come missionario di Rho, il Ramazzotti si era prefisso di restituire ad un fine religioso l’ex convento di S. Francesco a Saronno che suo padre aveva acquista- to come bene ecclesiastico espropriato e che, nella divisione dei beni, gli era pervenuto in proprietà. Vi aprì un oratorio maschile come quelli che stavano fiorendo nelle parrocchie ambrosiane; l’idea gli era venuta durante il mese di vacanza che i padri di Rho trascorrevano in famiglia. Scrive il Cagliaroli:

Le osservanze del Collegio danno ai RR. Padri, nella stagione autunnale, un mese di vacanza perché possano prendere quel sollie- vo che è necessario, onde riaversi delle fatiche sostenute durante l’an- no. Ma del padre Ramazzotti si può affermare che non sapeva che cosa fossero le vacanze; egli non fece mai viaggio di puro diporto, né volle concedersi una ricreazione, un divertimento di sorta; ben metteva a profitto il tempo che gli era lasciato libero, per fare ancora del bene. Onde, portandosi a Saronno, dove aveva la sua casa patrimoniale, ampio e comodo locale, chiamava a sé i poveri contadinelli del paese e con grande pazienza e carità li veniva istruendo nelle verità religio- se e si adoperava con calde esortazioni ad innamorarli della cristiana virtù, conformandoli così al santo timore di Dio.

Pensò di rendere poi stabile questa istituzione; contempora- neamente e sempre a sue spese apriva nella stessa casa un orfa- notrofio maschile di tipo familiare, affidato ad un sacerdote as- segnatogli dall’arcivescovo. L’oratorio e l’orfanotrofio presero il via la domenica 23 luglio 1837; per entrambi padre Ramazzotti

18 stese un regolamento e provvide ad ogni spesa. Scrive il Cagliaroli nel 1861:

Saronno ebbe ben presto a sentire i salutari effetti di questa istituzio- ne perché i giovani tolsero a convenirvi in gran numero; se ne conta- vano sino a 300 e più e con tale amore vi si recavano che stimassero il più grave dei castighi quello di esserne esclusi. Man mano che ne miglioravano i costumi crebbe l’ardore della carità e massime nella gioventù si strinsero i legami di tal vicendevole affetto da parere come membri di una sola famiglia. Il padre Ramazzotti nei giorni in cui poteva disporre di sé, faceva sentire la sua voce che era da tutti ascol- tata con divota e filiale riverenza. Di tratto in tratto inviava eziandio taluno dei Rev. Padri del Collegio a tenervi fervorosi ragionamenti che riuscivano sempre a raffermare quei giovani nel retto sentiero della virtù. E dodici si noverano i giovanetti di Saronno che, avviati alla pietà, si determinarono ad abbracciare lo stato religioso. L’orato- rio è in fiore anche adesso colla benedizione di tutti: bella e santa memoria del padre Ramazzotti.

Fu però soprattutto l’orfanotrofio che assorbì la massima cura da parte del Ramazzotti. Era modellato sullo stile di una famiglia: venti ragazzi al massimo, e quindi l’andamento e l’assistenza ven- nero affidati soprattutto al sacerdote assistente che viveva con loro. Alcuni maestri e prefetti di lavoro seguivano i giovani nella prepa- razione professionale perché l’orfanotrofio era per i figli dei con- tadini e degli artigiani. Ramazzotti cercava di esservi presente il più possibile: «specialmente il giovedì – attesta padre Rossi – fa- ceva tante volte a piedi, una gita sino a Saronno per trovare i suoi orfanelli ed anche la buona madre». Giulia Maderna, infatti, ve- dova fin dal 1819, essendosi l’altro figlio Filippo sposato, si era trasferita a Saronno e viveva nell’orfanotrofio, facendo da mam- ma a quei bambini. Il mantenimento dell’oratorio e dell’orfano- trofio costava a padre Ramazzotti «circa sei mila lire all’anno ed egli si esaurisce e si fa povero veramente, povero e gramo anche negli abiti per dar pane ai bisogni materiali e spirituali degli orfani e dei giovanetti». Durante le «cinque giornate» di Milano il Go- verno provvisorio di Lombardia ricorse all’orfanotrofio di Saronno per farvi «raccogliere ed educare un numero di orfani e derelitti in

19 causa della nostra gloriosa rivoluzione»; contemporaneamente, però, Ramazzotti vi accoglieva anche sedici fanciulli figli dei sol- dati austriaci che avevano abbandonato Milano in tutta fretta ed egli «pensò a rivestirli, a mantenerli, ad educarli. E a togliere ai nostrali ogni preoccupazione a danno degli stranieri, fece inten- dere ad essi, siccome secondo le leggi della carità cristiana, fosse- ro tutti fratelli in Gesù Cristo; badassero quindi a non recare ai giovinetti austriaci offesa alcuna. E per verità l’armonia di quella casa non fu turbata minimamente, né sorse mai litigio o contesa che la rompesse». Riaffiora questo tratto caratteristico della spiri- tualità di Ramazzotti che lo contraddistingue sempre: patriarca di Venezia proprio negli anni cruciali della vigilia della seconda guerra di indipendenza, in un clima di accesa avversione all’Austria, egli chiederà senza timore alla popolazione, peraltro già provata da tante privazioni, di aiutare le famiglie di alcuni soldati austriaci sinistrate dallo scoppio di una polveriera; chiedeva ed era ascolta- to perché, per primo, dava esempio di sorprendente carità e acco- glienza, conducendo una vita poverissima. L’accoglienza offerta ai ragazzi austriaci e ai figli degli insorti sorprese persino il maresciallo Radetzky, che constatò «la vera- mente evangelica carità con chi, qual missionario, continua costì, come riferisce codesta R. Delegazione Provinciale, a mantenere ed a far istruire a tutte sue spese parecchi giovanetti di quel paese ed anche esteri». Dopo l’elezione a vescovo di Pavia, Ramazzotti nel 1852 trasferì il suo orfanotrofio nella tenuta detta dei Casoni, nella campagna pavese; tutto però fu spazzato via dalla piena del Po dell’ottobre 1857 ed egli non fu più in grado di rimettere in piedi la sua istituzione. Anche da vescovo Ramazzotti amò sempre i suoi orfanelli; anzi aveva scelto l’orfanotrofio come luogo per passarvi le vacanze e i giorni di riposo. Scrive il suo biografo, che ve lo accompagnava:

Ed io credo che tanto gli fosse piacevole questo luogo perché poteva qui vivere a suo bell’agio quella santa povertà che era una delle virtù predilette dell’animo suo. Sceglieva per sé la stanza più remota e meschina della casa, lasciando le più comode pe’ i sacerdoti che l’aves- sero accompagnato: vi si saliva per una scala di legno e la suppelletti-

20 le altro non era che un letticciuolo, due scranne di paglia, un tavolino di legno greggio. Né si lagnava mai della molestia cagionata da pun- gentissime zanzare che in quei luoghi sono frequentissime. Mangiava nella cucina degli orfanelli o in una stanza vicina che serviva alle loro arti. Né mai mostravasi tanto lieto e contento come quando si fosse trovato in tal condizione.

Sul finire del 1848 il governo austriaco, cui spettava la scelta dei vescovi del Regno Lombardo-Veneto, cominciò a pensare a lui come un possibile titolare di una sede episcopale vacante. Lascio agli altri autori di questo volume la storia della fonda- zione del Seminario Lombardo. Qui voglio solo sottolineare che anche in questa fondazione l’obbedienza piena al papa fu la nota caratteristica che mons. Ramazzotti volle imprimere, perfino a costo, come scrisse chiaramente nel 1853, di sacrificare il fine stesso del seminario, cioè la missione ad gentes che costituiva l’ideale di tutta la sua vita.

Vescovo di Pavia

Proprio l’obbedienza a papa Pio IX impedì a mons. Ramazzotti di seguire come avrebbe voluto il Seminario Lombardo ed anche di farvi parte; infatti la sera dell’11 novembre 1849, mentre alla certosa di Pavia con don Giuseppe Prada e padre Marcello Supriès egli poneva le basi per la fondazione del Seminario Lombardo, Francesco Giuseppe imperatore d’Austria lo nominava vescovo di Pavia. Tra la nomina e l’ingresso in sede intercorse quasi un anno, durante il quale Ramazzotti perfezionò la fondazione del Seminario Lombardo. Un tale spazio di tempo era nella norma: l’iter della nomina di un vescovo del Lombardo-Veneto era complicatissimo, soprattutto per una sede come Pavia che era va- cante da più di cinque anni per la morte di mons. Luigi Tosi, avve- nuta nel 1845. La scelta del vescovo doveva essere approvata dal papa e se- condo gli accordi che regolavano i rapporti fra l’Austria e la S. Sede, mentre prima di tale rettifica si doveva eseguire tutta una

21 serie di passaggi: comunicazione del segretario di Stato di Pio IX, cardinale Antonelli, al nunzio a Vienna di aver ricevuti dall’impe- ratore il nominativo del nuovo vescovo e la lettera del candidato al ministro del Culto e Istruzione a Vienna per esternare la pro- pria adesione alla scelta imperiale, e così pure all’I.R. Delegazione di Pavia e al governatore interinale della Lombardia; i vari organi governativi poi si comunicavano a vicenda gli assensi ricevuti. Pri- ma delle «bolle placitate» di Roma, la S. Sede faceva i suoi passi: corrispondenza fra il cardinale Antonelli e il nunzio a Vienna cir- ca le qualità dei nuovi eletti che dovevano essere sacerdoti di pro- vate virtù, fedeli al papa oltre che all’imperatore, non troppo «au- striaci» e soprattutto per niente filoliberali. Occorreva poi anche un certificato medico sulle condizioni fisiche del nuovo vescovo, onde evitare di dover ripetere il tutto entro breve tempo; in quello rilasciato a Ramazzotti dal dott. Giovanni Carnelli, si intravede già la causa che lo avrebbe condotto ad una morte repentina e precoce: «soffre da molti anni di congestioni sanguigne precordiali a grado di far temere qualche guasto organico, se l’arte e la natura non concorressero a provvedere istantaneamente». I più interessanti fra i diversi documenti intercorsi fra Roma e Vienna sono la dichiarazione sulle virtù sacerdotali di Ramazzotti di padre Gaetano Ravizza, superiore del collegio di Rho, che ne mette in luce la grande carità verso i fanciulli ed i poveri, per man- tenere i quali «è continuamente sì privo di mezzi finanziari che spesso non ha con che provvedere a se stesso il conveniente», e quella resa alla S. Sede dall’arcivescovo Romilli circa la persona del padre Ramazzotti esaminata in ogni epoca ed aspetto del suo sacerdozio: giovane prete dotto e generoso che rinunciava ai suoi legati in favore dei confratelli più bisognosi; evangelizzatore di bene e di pace come missionario di Rho; esempio di dottrina e di pietà e fortezza per il clero, dal quale è amato e stimato; sollecito nella carità verso i poveri, specie i fanciulli orfani; lo stesso arcive- scovo confessa di privarsene «immo cordis dolore», perché era solito ricorrere al suo consiglio. Finalmente nel marzo si tennero a Roma i processi della dataria apostolica per l’elezione di mons. Ramazzotti a vescovo di Pavia. Risultati questi più che positivi, nel concistoro segreto del 20 mag-

22 gio 1850 Pio IX lo nominò vescovo di Pavia. Ne veniva di conse- guenza che, entro sei mesi, egli doveva recarsi a Roma per la con- sacrazione episcopale, che avvenne il 30 giugno 1850 per mano del prefetto della Sacra Congregazione di Propaganda Fide card. Franzoni nella chiesa di S. Carlo al Corso. Ramazzotti aveva ac- cettato la nomina a vescovo di Pavia solo in obbedienza al papa. La città aveva risentito moltissimo delle tensioni politiche del 1848 e della posizione assunta alla fine dell’aprile di quell’anno da Pio IX, il quale aveva preso netta distanza dalla rivoluzione e dalla guerra; erano quindi riemerse le antiche tesi sia regaliste che rigoriste, convergenti nell’opposizione al temporalismo del papa. Mons. Ramazzotti si trovava quindi a gestire la diocesi in una fase di transizione, segnata appunto da quella diatriba, mol- to viva nel clero «tra chi ritiene che ci si debba stringere attorno al papa, raccogliere le forze e battersi frontalmente contro la ri- voluzione e chi, viceversa, pensa che il potere temprale sia un fardello da cui al più presto occorre liberarsi per poter instaura- re un rapporto validamente collaborativo con l’Italia risorgimen- tale». Gran parte dei sacerdoti «tosiani» era su quest’ultima po- sizione, mentre il nuovo vescovo, non per opportunismo ma per convinzione, era dall’altra parte. Questo non impedì però a mons. Ramazzotti di avere rapporti di sincera amicizia e valida collabo- razione con sacerdoti come don Pietro Terenzio, convinto fauto- re della «santa causa dell’indipendenza nazionale», da lui nomi- nato cancelliere della curia. Il seminario aveva risentito moltissi- mo delle vicende del 1848, cui professori ed alunni avevano pre- so parte; per tale motivo era stato occupato dagli austriaci nel biennio 1848-1849 e adibito ad usi militari e civili. La diocesi contava sette parrocchie urbane compreso il suburbio e settantacinque suburbane, quasi tutte di regio patronato e soste- nute dalla carità dei fedeli. L’economia della diocesi era basata tutta sull’agricoltura per cui risentiva pesantemente delle cala- mità naturali, come avvenne anche durante l’episcopato del Ser- vo di Dio. Dopo le soppressioni giuseppine e napoleoniche e il drastico ridimensionamento del territorio diocesano nei primi decenni del secolo, all’ingresso di mons. Ramazzotti in Pavia l’uni- co insediamento religioso era rappresentato dai frati della certo-

23 sa, da poco rientrati in possesso del loro monastero, mentre non esistevano più conventi femminili. Mons. Ramazzotti entra in diocesi il 29 settembre 1850. Parti- colare curioso era il fatto che la maggior parte dei beni e delle rendite della mensa vescovile era al di là del Ticino, non più nel Lombardo-Veneto ma nel Regno di Sardegna, per cui il vescovo, per riscuoterne i proventi, doveva fare domanda al governo di Torino. Dal momento che la sede era vacante da anni, «le rendite intercalari della mensa ammassate nella lunga vacanza, gli davano in mano una somma rilevante»; ma egli, «uomo di inesauribile carità verso i poveri, dedicò le prime sue cure e rivolse ad essi tutta intera la sua benevolenza». Nei sette anni di episcopato l’interesse di mons. Ramazzotti verso il suo clero fu davvero lodevole; appena qualche mese dopo il suo ingresso in diocesi egli si era già fatto un’idea sulla condotta del suo clero; questo fatto lo portò a prendere una ragionevole distanza da alcuni provvedimenti governativi, in virtù dei quali l’I.R. Luogotenenza si riservava «di allontanare immediatamente dalla cura d’anime tutti quei beneficiati, contro i quali emergesse- ro fondati sospetti di sleali sentimenti politici e di abuso di potere spirituale». Non era facile mantenere un saggio equilibrio fra l’au- torità di vescovo che doveva rispettare le opinioni dei propri sa- cerdoti e la continua, quasi ossessiva sorveglianza del governo au- striaco sempre all’erta. Buon suddito che sottolineò con la dovuta solennità gli avve- nimenti della casa imperiale come il matrimonio di Francesco Giu- seppe con Elisabetta di Baviera e la nascita dell’arciduchessa So- fia, era però ben deciso quando si trattava di difendere i diritti della Chiesa; nel 1852 oppose un cortese ma fermo rifiuto a pro- durre alle autorità governative la lista degli insegnanti da nomi- narsi nel ginnasio vescovile, essendo quest’organismo sotto la di- retta responsabilità del vescovo. Lo scontro più diretto con l’I.R. Luogotenenza lo ebbe nel 1853, quando questa pretese di regola- re l’istruzione catechistica e religiosa della gioventù. Una circolare governativa del 18 giugno 1853 raccomandava ai parroci, agli in- segnanti e ai rettori dei convitti «d’istillare profondamente nei loro cuori la venerazione a Dio e la riconoscenza e l’amore al sovrano

24 imperiale che veglia con tanta cura al loro bene». Venivano poi prescritte come obbligatorie fra le preghiere quotidiane due orazioni pubblicate nel Piccolo catechismo di chiaro sapore impe- riale: nella medesima circolare si dava avviso della prossima pre- parazione del catechismo per le scuole primarie a cura del mini- stero del Culto. La reazione di Ramazzotti fu decisa, rivendicando alla sola Chiesa l’insegnamento religioso e la compilazione del ca- techismo al vescovo; la reazione fu tanto inaspettata che, quando egli si recò a Roma per la Visita ad Limina, fu sorvegliato dalla polizia segreta. Una delle prime iniziative di mons. Ramazzotti fu quella di or- ganizzare gli esercizi spirituali per il clero; organizzò poi la «Con- gregazione dei casi» (morali, teologici), nelle diverse parrocchie cui partecipava lui stesso; voleva infatti conoscere a fondo la prepara- zione culturale e teologica dei sacerdoti e per questo, spesso, ani- mava la discussione sugli argomenti che venivano trattati; formò poi la Congregazione Ecclesiastica di Carità con «l’incarico di por mente a quanto si potesse fare a maggior profitto delle anime; e ciò che di mano in mano l’uno o l’altro di loro veniva proponendo, era deciso in comune in un coi mezzi con che recarlo ad effetto».

A detta del biografo don Cagliaroli che ne fece personalmente esperienza, l’azione di mons. Ramazzotti nei confronti del clero fu paterna, paziente, ma capillare ed attenta, non priva della dovuta severità:

Né mai si era a desiderare in mons. Ramazzotti maggiore vigilanza sui portamenti dei sacerdoti e maggior fervore nel riscaldare gli ani- mi negli studi loro convenienti e nella santità della vita. Prendeva informazioni minute, massime se i curatori d’anime compissero con fedeltà e diligenza i propri ministeri, se illibato il costume, sana la dottrina. E richiamando al dovere chi ne deviava, congiungeva sì fattamente la carità alla correzione che esigendo l’emenda del colpe- vole, non se ne alienava mai l’animo pronto a ridonargli la sua fiducia appena gli mostrasse sicuro ravvedimento.

In genere il clero rispondeva bene a queste premure, ma non mancarono situazioni nelle quali il vescovo si vide costretto ad

25 operare «tagli dolorosi». La più grave di tali situazioni avvenne nel 1854-1855, dopo la definizione del dogma dell’Immacolata Concezione. Fu un episodio tanto penoso che per affrontarlo mons. Ramazzotti «vi ebbe a spiegare tale una mirabile virtù che toccò, si può dire, l’eroismo». Quattro sacerdoti del clero diocesano fe- cero giungere al vescovo una «protesta» con la quale dichiaravano di non poter aderire alla bolla Ineffabilis Deus perché contraria alla verità. La prima reazione di Ramazzotti fu quella di scrivere ai sacerdoti una lettera, non pervenuta, con la quale li sospendeva dal ministero fino al chiarimento della loro posizione. Li chiamò poi in arcivescovado e quindi, «colla carità tutta propria del suo bel cuore, per ogni maniera si adoperò a richiamarli da loro erro- re». Dal momento che questi perseveravano nella loro posizione, il vescovo mise in movimento tutte le persone che lo potevano aiutare per convincere i quattro ad obbedire al papa; coinvolse la diocesi nella preghiera; non volle né chiacchiere né accuse nei ri- guardi dei dissidenti. Anzi chiamando a Pavia mons. Luigi Biraghi e padre Taglioretti perché si incontrassero con quei sacerdoti, rac- comandò loro di lasciare ad essi la libertà di esporre «le ragioni alle quali credono di potersi appoggiare e a sentire in qual modo possono essere sciolte le loro difficoltà». La vicenda si concluse con la sentenza di scomunica verso i dissidenti, che furono allontanati dalla diocesi; mons. Ramazzotti si occupò personalmente del gruppetto di simpatizzanti che quei sacerdoti avevano riunito attorno a loro: «Li chiamò a sé e si con- dusse da loro; li istruì e li fece bene istruire sul dogma definito e sulle ragioni per cui doveva essere creduto, sventando le obiezioni che erano state loro messe in capo». Uguale premura egli dedicò al seminario, nel quale, nel 1853, erano presenti 53 seminaristi teologi; per quanto non fosse con- forme ai canoni del Concilio Tridentino, il vescovo riservò a se stesso la diretta responsabilità del seminario, come forma di tutela contro l’ingerenza del governo austriaco che considerava il semi- nario come potenziale semenzaio di rivoluzionari. Mons. Ramaz- zotti ebbe molta cura nel vagliare l’ammissione dei candidati e scelse per il seminario professori e confessori altamente preparati; quasi quotidianamente si recava in seminario mantenendo un rap-

26 porto personale con i giovani alunni. Per quanto riguarda l’am- missione dei chierici era severissimo, non piegandosi ad alcuna raccomandazione, era però altrettanto generoso nel collocarli una volta dimessi dal seminario:

Quando il chierico specialmente non gli desse bastevoli guarentigie sull’onestà del costume e sulla integrità della dottrina, non che esclu- derlo dai sacri ordini, anche gli facea porger giù l’abito ecclesiastico. Né valeano a piegar l’animo del vescovo a condiscendenza le pre- ghiere e le istanze più pressanti dei parenti e di altre persone anche di conto, non volendo per una falsa compassione tradire gli interessi di Dio. A coloro poi che, o per espresso comando di lui, o per proprio consiglio venivano esclusi dal sacerdozio, era largo di tutta la sua carità non mancando di adoperarsi presso le magistrature ed i privati affinché fossero provvisti di onesti impieghi.

Nella relazione per la Visita ad Limina Apostolorum del 27 set- tembre 1853 si legge che, all’epoca, nella diocesi di Pavia esistevano due soli insediamenti religiosi: i Certosini dimoranti presso la famo- sa certosa e le Figlie della Carità, dette Canossiane dalla fondatrice Maddalena di Canossa, nate per provvedere all’educazione delle fanciulle del popolo. Queste suore erano state chiamate a spese di mons. Ramazzotti per occuparsi dell’educazione e della formazione delle fanciulle, specie le più povere. Mons. Ramazzotti aveva cono- sciuto le Canossiane a Milano e le giudicò le più adatte a questo compito; per questo si recò personalmente nella casa milanese di via S. Michele alla Chiusa per chiedere alcune religiose per la fon- dazione di Pavia; a questo scopo non mancò di sollecitare una ri- sposta dalla superiora generale, madre Margherita Crespi. L’avvio della casa non fu facile, ostacolato dal complicato meccanismo bu- rocratico regolato dalle autorità austriache; essendo però un’opera che presentava indubbi vantaggi sociali, il feldmaresciallo Radetzky ne agevolò le pratiche; la scuola con la casa-convitto aveva sede nell’ex convento delle Francescane che il vescovo aveva provvedu- to ad adattare e arredare. L’opera prese il via il 3 dicembre 1852, sempre provvista di tutto, anche del cibo, dalla sollecitudine di mons. Ramazzotti; in essa venivano preparate anche le ragazze delle cam- pagne che, avendone le capacità, desideravano diventare maestre

27 rurali; per quelle che non potevano pagare la retta provvedeva la carità del vescovo. Dal 1853 in questa casa funzionò anche una scuola per le sordomute, con un’apposita maestra venuta da Milano dove queste scuole funzionavano già con successo; non riuscì a fare al- trettanto per i ragazzi, perché gli assembramenti maschili erano guardati con sospetto dalle autorità governative. L’opera di carità svolta dal vescovo fu davvero notevole ed ab- bracciava ogni campo: la condizione dei malati negli ospedali; il problema dei ragazzi sordomuti; i suoi orfani trasferiti da Saronno nella campagna pavese; la disastrosa inondazione del Po e del Ticino dell’ottobre 1857; il colera, le carestie. Vi erano poi urgen- ze morali: redigere il nuovo catechismo; istituire il tribunale per i matrimoni; esercizi e missioni nelle parrocchie. Mons. Ramazzotti aveva uno stile tutto suo nel fare le opere di carità. Si sapeva servire di validi collaboratori: sacerdoti, Canos- siane, laici preparati, nelle cui mani metteva tutto del suo per sov- venire alle diverse necessità. Ma il suo nome e la sua azione diretta non comparivano quasi mai; inoltre non amava molto fare la cari- tà spicciola dell’elemosina, preferiva investire anche grandi som- me in opere valide e durature che, oltre a risolvere i problemi del momento, davano la garanzia della continuità; si serviva, poten- ziandole, anche delle opere già esistenti come la Pia Casa di Indu- stria che sostenne con denaro, con la sua presenza, con l’acquisto di materiale per fare lavorare le donne e le fanciulle, per provve- dere all’istruzione dei poveri. Diede molta attenzione ai giovani; per gli apprendisti, gli operai e gli artigiani aprì, in episcopio, le scuole serali gratuite. Monsignor Ramazzotti dovette poi affrontare gravi emergen- ze: l’epidemia di colera del 1855 durante la quale aprì un ospedale nel seminario, visitando più volte i malati nei due lazzaretti citta- dini e nelle campagne, informandosi dai parroci sulle loro necessi- tà; solo l’insistenza dei suoi sacerdoti che temevano per l’incolumità del vescovo, lo fece desistere dall’assistere egli stesso i malati. Fu poi ammirevole l’opera che svolse durante la piena del Po e del Ticino dell’ottobre 1857; don Cagliaroli lo accompagnò nei paesi sinistrati dove il vescovo provvide in prima persona all’invio di viveri, al soccorso degli anziani e dei malati; egli seppe organiz-

28 zare tanto bene le operazioni di assistenza e di spedizione di vive- ri, letti, coperte e indumenti che l’arciduca Massimiliano d’Au- stria, fratello dell’imperatore e governatore del Lombardo-Veneto, lo propose come successore nella sede vacante del patriarcato di Venezia: una città, a quel tempo, oppressa dalla miseria dove vive- va un vero esercito di poveri. Il denaro con il quale il vescovo provvedeva a tutto gli prove- niva dalla rendita vescovile e dal suo patrimonio personale che si andava esaurendo; vi era poi la generosità del fratello Filippo e di altri benefattori; ma soprattutto mons. Ramazzotti viveva in po- vertà più che monastica. In episcopio viveva secondo lo stile di vita comunitario dei missionari di Rho, dividendo il tempo fra molte ore di preghiera e di studio (la sera e la notte) e l’opera pastorale; aveva con sé, come farà anche a Venezia, un gruppo di sacerdoti, detti «preti di famiglia», con i quali faceva vita comune; questi, come lo stesso vescovo, si dedicavano soprattutto alla predicazione delle missioni nelle varie parrocchie della diocesi e all’insegna- mento del catechismo per il quale mons. Ramazzotti aveva aperto diverse scuole di dottrina cristiana. Personalmente lo stile di vita del vescovo era austerissimo: pasti frugali, niente riscaldamento nelle sue stanze; mobili, vesti, suppellettili ridotti all’essenziale; camminava a piedi il più possibile, usando pochissimo la carroz- za; si serviva pochissimo anche della servitù: volle che i laici in servizio in episcopio abitassero nelle loro case, sapendoli padri di famiglia. Don Cagliaroli sostiene «che in capo a pochi mesi avesse dispendiato in limosine lire 80.000», per provvedere ai poveri del- le campagne, ai malati del civico ospedale, per «somministrar de- naro a liberare pegni dal Monte di Pietà», visitare «uno per uno i pii istituti e a tutti recò sovvenimenti». Viveva in tanta povertà che gli stessi suoi collaboratori ed il suo amministratore, un laico noto anch’egli a Pavia per la sua carità, arrivavano a rimproverarlo con molta familiarità, ma «il vescovo coll’usata sua giovialità e senza esitanza rispondeva che nessuno meglio di lui desiderava farsi povero, rincrescendogli solo che dal suo stato alla paglia di S. Car- lo c’era ancora molta distanza». Oltre allo studio, alla preghiera e alle visite al seminario e alle diverse istituzioni caritative della diocesi, mons. Ramazzotti rice-

29 veva personalmente chiunque si recava in episcopio, anche i po- veri. Esaminava poi personalmente «i negozi di massima», cioè le questioni più delicate che cercava di risolvere con l’aiuto dei suoi collaboratori e con lunghe ore di studio, specie di notte. Per incrementare le vocazioni sacerdotali sostenne il Collegio Vescovile, già fondato da mons. Tosi, e non volle tralasciare la predicazione e l’amministrazione dei Sacramenti come aveva sem- pre fatto da missionario di Rho:

Predicava nella cattedrale [...] entro l’Ottava di Pentecoste ammini- strava solennemente la Cresima in Duomo ed anche ogni dì nella sua cappella vescovile. Né si ricusò mai dal conferire questo gran sacra- mento ai figlioletti in pericolo di vita, sia in città che in campagna, appena ne fosse domandato. Né dal farlo lo indugiavano affari più importanti che fossero, né inclemenze di stagioni per quanto stempe- rate; onde più di una volta fu veduto attraversare la città a piedi, mentre a falde larghe cadeva la neve.

Sempre sullo stile appreso e vissuto fra i missionari di Rho, intraprese la visita pastorale nell’aprile 1853, predicando e con- fessando con molta semplicità, anche in dialetto come aveva im- parato a fare quando era missionario. Del resto mons. Ramazzotti si considerò sempre e soprattutto un missionario; quando seppe della sua elevazione al patriarcato di Venezia, scrisse due volte a Pio IX per convincerlo a non accettare la proposta dell’imperatore; la prima lettera, del 13 febbraio 1858, è andata persa; nella seconda, del 15 marzo successivo, egli afferma chiaramente di non essere all’altezza di un tale compito per «la di- sparità che io non potrei negare, neppure volendo, tra la mia attitu- dine e l’alto e gravissimo compito che è quello del patriarcato di Venezia», questo perché, già all’epoca nella quale era stato nomina- to vescovo a Pavia, i suoi «pensieri non erano al di là della carriera di missionario». Era molto delicato anche il momento politico; a Venezia si respirava aria di acceso patriottismo e si sapeva che la scelta del nuovo patriarca era fatta dall’imperatore. Fu dunque Massimiliano d’Austria a suggerire il nome di Ramazzotti, passato, in un primo momento, sotto silenzio: «Egli sarebbe inoltre uno dei più saggi ed intelligenti vescovi della Lombardia; di esemplare inte-

30 grità morale [...] di una eccellente cultura teologica». Era conside- rato «uomo di moderazione»; soprattutto era noto per la sua ecce- zionale carità: «Dal lato dei poverelli – scrive mons. Moro, vicario capitolare di Venezia – mons. Ramazzotti vi ottiene un massimo provento. Un esercito di 45.000 poveri inserito nelli cataloghi interinali, è la miglior dote del patriarca». La nomina gli giunse di sorpresa; una lettera del barone Ernesto di Kallesperg, vicepresidente dell’I.R. Luogotenenza, con la quale lo salutava patriarca di Venezia. E poi nei giorni successivi la nomi- na ufficiale e le lettere di felicitazione. Prima che il papa apponesse il suo placet, egli tentò di esimersi scrivendo appunto le due citate lettere, rimettendosi comunque come sempre alla volontà del Santo Padre: «Basterà, lo ripeto, un suo cenno a togliermi ogni esitazione».

Patriarca di Venezia

Ma per la sede patriarcale di Venezia, come avvertiva l’Imperial Cancelleria, occorreva procedere con molta cautela: «Il patriarcato in questione ricopre una grande importanza rispetto alla posizione del patriarca come metropolita; la scelta di un valente patriarca è difficoltosa anche a causa delle personalità degli immediati prede- cessori del patriarca stesso che si sono distinti per fermezza di fede, integrità morale ed erudizione; in essi Venezia venerava non solo l’alta dignità ecclesiastica, ma anche la persona stessa». Egli ignora- va però che il processo della dataria apostolica del 12 marzo lo ave- va già promosso patriarca di Venezia; il breve di Pio IX del 25 mar- zo 1858, che lo trasferiva dalla sede di Pavia a quella metropolitana di Venezia, mise fine ad ogni riluttanza da parte del Servo di Dio. L’ingresso nella nuova diocesi avvenne il 15 maggio 1858, pre- ceduto da una sosta nel Seminario Lombardo, a Milano presso la sede di S. Calocero, e fu celebrato con tutta la pompa dell’occa- sione che mons. Ramazzotti aveva cercato invano di evitare; era talmente alieno dal far mostra di sé che da Pavia i suoi preti non furono in grado di inviare a Venezia neppure un ritratto del nuovo patriarca perché egli non aveva mai voluto farsi ritrarre. In effetti le raffigurazioni che si hanno di lui sono state fatte a memoria,

31 perché mons. Ramazzotti non accettò mai di farsi ritrarre per modestia e per spirito di povertà. La sera stessa del suo ingresso, stupì tutti perché senza seguito e su una semplice gondola si recò a visitare due sacerdoti che ave- va saputo essere gravemente malati. A Venezia il patriarca trovò una vita religiosa molto più viva rispetto a Pavia: parecchie case religiose ben funzionanti e molto clero, abbastanza preparato; buono anche lo stato del seminario che vantava una pregevole biblioteca ed accoglieva duecento chie- rici. Ma mons. Ramazzotti era abbastanza realista per sapere che la più parte di loro non aveva ancora raggiunto l’età per decidere se diventare responsabilmente sacerdote. A Venezia funzionava una attivissima rete di carità e solidarie- tà coordinata dalla Società di S. Vincenzo de’ Paoli, con la quale Ramazzotti ebbe un ottimo rapporto di collaborazione. Buona anche l’indole della popolazione, incline all’umanità ed alla religione, più portata, scrive lui nella relazione per la Visita ad Limina, a prendere la vita con serenità che a sottoporsi a duri la- vori; una popolazione varia e vivace che aveva però un unico gra- ve difetto, contro il quale il patriarca combatterà con la parola e la penna senza darsi tregua: la bestemmia. La sorveglianza austriaca non era così oppressiva come a Pavia e mons. Ramazzotti godeva di una certa autonomia, consolidatasi poi nel febbraio 1861 quan- do divenne deputato della camera del Consiglio dell’imperatore. Quanto all’azione di mons. Ramazzotti, sebbene egli sia stato patriarca solo tre anni, ha del sorprendente: riordino e fondazione di nuove scuole della Dottrina Cristiana con la preparazione di ca- techisti e sacerdoti seguiti personalmente da lui e compilazione del nuovo catechismo; riunione del concilio provinciale dei vescovi suf- fraganei, tenutosi dal 18 ottobre al 4 novembre1859; evento, que- sto, importantissimo perché vedeva riuniti tutti i vescovi della sua provincia ecclesiastica per uno scambio e un confronto di azione pastorale, soprattutto per arrivare all’uniformità dell’insegnamento da impartirsi nei ginnasi e nei seminari. Non fu facile convincere i confratelli vescovi a muoversi in piena guerra di indipendenza, ma era necessario un confronto dopo il recente concordato firmato fra Austria e Santa Sede nel 1855. Gli statuti del concilio furono stam-

32 pati dal successore del Ramazzoti, mons. Travisanato. La celebra- zione del sinodo ebbe riscontro molto positivo nell’opinione pub- blica, bene informata circa la solennità dell’evento. Mons. Ramaz- zotti avrebbe voluto celebrare un secondo concilio provinciale e il sinodo diocesano nel 1862, ma non ne ebbe il tempo. Il 20 giugno 1858 intraprese la visita pastorale cominciando dalle parrocchie più povere, quelle della zona dell’Estuario, «tan- to gli stavano a cuore i più meschini, non già i meglio agiati o ricchi fra i suoi diocesani». Due volte si recò nella forania del- l’Estuario, ma nei soli tre anni del suo episcopato a Venezia non riuscì a completare la visita pastorale. Per le parrocchie dell’Estua- rio egli volle provvedere perché, al di là della consuetudine che prevedeva un solo concorrente impedendo al vescovo di scegliere la persona più degna, esse venissero considerate alla stregua delle parrocchie di città; anzi, considerando le difficili condizioni di quei luoghi, con una lettera circolare del 19 luglio 1859 invitava i sacer- doti a chiedere di esservi assegnati:

Come un soldato valoroso domanda il posto più pericoloso e più difficile, o meglio, come la carità ambisce gli offici più oscuri, più penosi e meno remunerati della terra [...] ricordatevi – scrive ai sa- cerdoti – che assumendo il sacerdozio avete assunto uno speciale obbligo di obbedienza al vostro patriarca, di servizio verso la Chiesa, di zelo per la gloria di Dio e per la salute delle anime.

Come a Pavia, così anche a Venezia mons. Ramazzotti si preoccu- pò di avviare opere di carità sotto il segno della continuità e dell’effi- cienza, collaborando con la Società delle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli e con le famiglie religiose esistenti o in via di formazione. L’aiuto che diede alle nuove famiglie religiose fu rilevante:

– Francescane Clarisse della Trinità. Per loro mons. Ramazzot- ti, su richiesta della superiora suor Maria Crocifissa Scarpa, si ado- però presso la S. Sede affinché il piccolo convento della Giudecca ottenesse l’erezione canonica, con voti religiosi perpetui; l’interes- samento del patriarca fu sollecito presso la S. Sede e presso le autorità austriache, tanto che il 9 febbraio 1859 egli accoglieva la professione delle prime suore e imponeva la clausura vescovile.

33 – Carmelitane Scalze. Nel 1853 una pia dama della città, la con- tessa Paolina Giustiniani Recanati vedova Malipiero, aveva pro- posto ai Carmelitani presenti in Venezia la fondazione di un mo- nastero che fosse sotto l’immediata giurisdizione dell’Ordine Carmelitano; questo rendeva difficile l’assenso della Santa Sede che preferiva che le case religiose, anche claustrali, fossero sogget- te al vescovo. La cosa venne fatta conoscere al patriarca, «ed egli considerando il bene che, ad onta della voluta condizione, potea derivarne alla sua Venezia, ne scrisse al Santo Padre in termini di persuasione, e ne ebbe prontamente la più ampia approvazione». A mons. Ramazzotti venne anche concessa la facoltà di permette- re che la contessa fondatrice entrasse con alcune compagne nel monastero di Parma per compiervi il noviziato; egli ottenne inol- tre dal Santo Padre che, non essendo ancora pronta la sede desti- nata a monastero, la fondazione iniziasse a operare in una casa presa in affitto con le debite assicurazioni, impegnandosi egli stes- so a seguire personalmente l’andamento della comunità e a vigila- re sull’esatta osservanza della regola e della clausura.

– Figlie del Sacro Cuore. Dallo zelo del canonico Daniele Ca- nal, nel 1852, erano state fondate le Figlie del Sacro Cuore che si occupavano dell’educazione delle fanciulle poverissime in una casa a S. Maria del Pianto. Il Canal, con la collaborazione della Serva di Dio Anna Marovich, pensò poi alla fondazione di una casa in cui accogliere «quelle infelici che all’uscire dal carcere, lasciate in balìa di sé medesime, correrebbero il rischio di ulteriori travia- menti». L’istituzione, all’arrivo del patriarca, era ancora ai primi passi e progrediva con fatica data l’originalità dello scopo che si prefiggeva. Solo grazie all’incoraggiamento di mons. Ramazzotti la Marovich portò avanti il suo progetto: «Fu pertanto il Patriarca che, udito esporsi dalla signora Marovich le sue pietose intenzio- ni, gliene approvò siccome volute da Dio, confortandola con grande ardore a recarle in pratica, senza tema di dare in fallo. Largo a lei sempre di savi consigli, quante volte n’era richiesto, le prestò an- che mezzi per farsi incontro ai primi dispendi nell’avviamento di tanta impresa». Le Figlie del Sacro Cuore si unirono poi alle Pie Signore della Casa di Nazareth, oggi Suore della Riparazione, fon-

34 date a Milano nel 1859 da padre Carlo Salerio del Seminario Lom- bardo per le Missioni Estere.

– Figli della Carità Canossiani. Fondati anch’essi, come le Suo- re Canossiane, da Maddalena di Canossa, nel 1833. All’ingresso del Servo di Dio in diocesi, erano soltanto cinque, abitavano in una casa presso la chiesa di S. Giosuè dove gestivano un frequen- tatissimo oratorio maschile, ma non erano canonicamente costitu- iti. Frequentandoli, mons. Ramazzotti si rese conto del gran bene che operavano e decise di erigerli canonicamente, intendendo af- fidare loro il Patronato di S. Giuseppe per i ragazzi discoli e vaga- bondi che si stava organizzando allora. Il 29 aprile 1860 egli diede loro l’abito religioso, dopo aver ottenuto anche i relativi permessi dalle autorità governative.

Soprattutto, mons. Ramazzotti si interessò delle Suore Canos- siane e in particolare dell’opera che gestivano in S. Alvise dove aveva sede una casa per sordomute. Decisivo fu il suo apporto per l’apertura di queste suore al mondo missionario. Esse erano già state richieste, nel 1858, dai padri del Seminario Lombardo per affiancare la missione che stavano aprendo ad Hong Kong. Vi era però il fatto che la fondatrice non aveva previsto, nelle Costituzio- ni dell’ordine, l’invio delle suore in missione; avuta la certezza che le religiose personalmente erano ben disposte alla vita missiona- ria, mons. Ramazzotti, previo assenso della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, scrisse a mons. Ludovico Bensi, consultore della Sacra Congregazione dei religiosi, prospettando la necessità che tali suore affiancassero i padri nelle missioni: «I missionari di S. Calocero che abbiamo in India mostrarono il bisogno ed il desi- derio che una congregazione religiosa femminile si assumesse colà l’educazione delle fanciulle, come essi i missionari quella dei fan- ciulli». La Sacra Congregazione dei religiosi non ritenne però oppor- tuno accettare tale proposta appunto per l’ostacolo frapposto dal- le Costituzioni; partirono per l’India le Suore della Carità, dette di Maria Bambina. Nel 1859 don Marinoni, superiore del Seminario Lombardo, e il prefetto apostolico di Hong Kong mons. Luigi

35 Ambrosi, ripeterono la loro richiesta per la missione di Hong Kong, mettendo la cosa nelle mani del Ramazzotti. Questi, dopo aver sondato la disponibilità delle religiose delle due case di Venezia e di Pavia, nel gennaio 1860 chiese ed ottenne dal Santo Padre la facoltà di apportare alcune modifiche alle Costituzioni della Ca- nossa, in merito alle particolari situazioni del lavoro missionario. La prima spedizione delle Canossiane partì da Venezia benedetta dal patriarca il 24 febbraio 1860. Mons. Ramazzotti sostenne poi moltissimo l’opera che le Canossiane svolgevano a S. Alvise a favore delle ragazze sordomu- te, vistandone la scuola e la casa, provvedendole di adeguate mae- stre, incoraggiandole e invitando le dame veneziane a formare un comitato sostenitore per assicurare il mantenimento delle più pove- re. Egli si adoperò poi moltissimo per avere un’analoga opera a fa- vore dei ragazzi ma, per le consuete difficoltà con la burocrazia au- striaca, vi riuscì solo alla vigilia della morte affidandoli ai Somaschi. Aveva in progetto di fondare una casa di Oblati missionari, cioè di sacerdoti diocesani e provenienti dalle diocesi suffraganee impegnati a tempo pieno nelle missioni fra il popolo; per presen- tare tale progetto ai vescovi, li visitò personalmente nelle loro sedi, ottenendone l’approvazione, ma la sua morte prematura troncò questo progetto. Ugualmente la sua scomparsa quasi repentina mise fine anche al progetto dell’istituzione di una parrocchia di rito greco per la quale, nel 1859, aveva già chiesto l’autorizzazione al prefetto di Propaganda Fide card. Barnabò e aveva già predi- sposto l’arrivo, a sue spese, di don Nicola Franco, sacerdote sici- liano di rito greco. Ma Venezia era soprattutto una città piena di poveri; il patriarca collaborava assiduamente con la Commissione della beneficenza pubblica che vagliava i vari casi e vi provvedeva; esiste un fitto scam- bio epistolare fra il patriarca e il presidente di detta commissione che rivela la capacità di Ramazzotti di ascoltare e collaborare. No- nostante ciò, una vera corte dei miracoli assediava il palazzo patriar- cale ogni giorno: «i poveri confidentemente ricorrevano a lui, certi di esserne sovvenuti. L’atrio, l’anticamera, a volte, si può dire che ne formicolassero»; egli li riceveva ad uno ad uno, ascoltandoli e con- fortandoli; se gli veniva fatto osservare «che così andavano perdute

36 delle ore a lui tanto preziose, rispondeva sorridendo che anzi ci guadagnava e di buono». La miseria era aggravata dalla situazione politica, per la quale Venezia era stretta in una morsa dalla terra e dal mare, a causa dei moti rivoluzionari indipendentisti e dello stretto controllo degli austriaci, che non facevano giungere alla città le der- rate alimentari necessarie. Nel 1859 la città venne bloccata dalla parte del mare e la situazione era disperata; lo scriveva don Federi- co Salvioni, altro segretario di Ramazzotti, a madre Luigia Grassi superiora delle Canossiane di Pavia: «La miseria qui si fa così gran- de che anche il pane della carità non si può offrire con così largo cuore. Si immagini, signora superiora, che una sola ditta lasciò ieri in libertà cento uno lavoratori, il che vuol dire cento una famiglie senza pane e tutte vengono dal patriarca, così il numero dei biso- gnosi cresce ogni giorno». Al patriarca per vivere bastava sempre meno: «Negli ultimi tempi, sopra crescendo i bisogni dei poveri e venendogli meno a tanto dispendere i redditi della mensa, ordinò che si vendessero le argenterie della casa, non ritenendo che quanto serviva all’uso gior- naliero della tavola e per pochi»; arrivò fino al punto di pensare seriamente di vendere anche la croce pettorale, non avendo più risorse personali alle quali attingere. Lo spettacolo dei poveri e l’impossibilità di potervi provve- dere tormentavano mons. Ramazzotti, tanto che, secondo don Cagliaroli con il quale egli si confidava, era convinto che questo contribuì ad aggravare i suoi disturbi cardiaci e a portarlo alla morte: «Anche pochi dì prima che scoppiasse la terribile malat- tia, che in breve tempo lo trascinò al sepolcro, fu udito dire qua- si piangendo: “Oh tanti poveri che io vorrei aiutare e non posso! Son questi poveri, credetelo a me, che mi affannano il respiro, mi struggono la salute”». Importante è poi quanto fece per i carcerati. Non solo ottenne dalle autorità austriache di potenziare il numero dei cappellani, ma per il giubileo straordinario del 1858 predicò egli personal- mente gli esercizi per otto giorni nel penitenziario della Giudecca dove erano rinchiusi più di ottocento detenuti comuni: «sin dai primi giorni nacque in tutti il desiderio di riconciliarsi con Dio nel sacramento della confessione». Fu quindi preoccupazione del pa-

37 triarca provvedere che venti sacerdoti si recassero al penitenziario per confessare, mentre egli ascoltava quelli che chiesero di confes- sarsi con lui, dedicando a questo ministero le ore della notte. Nel 1860 fu la volta del penitenziario femminile, dove egli si recava spesso, commosso dalla sorte di quelle infelici che scontavano col- pe commesse più per ignoranza e per miseria che per malvagità d’animo. Nel 1860 aveva iniziato la predicazione anche nella Casa delle Penitenti sempre alla Giudecca , ma un incidente con la gondola gli impedì di portare a termine queste visite e si fece sostituire da uno dei suoi «preti di famiglia» che lo avevano seguito anche a Venezia. Il 26 febbraio 1861 l’imperatore aveva nominato mons. Ramazzotti deputato della camera dei signori del Consiglio del- l’imperatore; tale nomina comportò un suo viaggio a Vienna per assistere al Consiglio dell’impero; parlava perfettamente il tede- sco fin dai tempi dell’università e fu quindi in grado di far sentire la sua voce in Consiglio, dove aveva diritto di voto, perché aveva saputo che l’imperatore voleva ritoccare il Concordato con la Santa Sede, specie su quanto riguardava il matrimonio. In tale occasione chiese ed ottenne la liberazione di alcuni sacerdoti detenuti politi- ci a Venezia. Sul finire del 1859 l’imperatore d’Austria, per mezzo del suo ambasciatore presso la S. Sede, avanzò la proposta che mons. Ramazzotti fosse elevato al cardinalato; il ministro del Culto lo sug- gerì al card. Antonelli e questi al papa. Per la situazione politica la decisione venne rimandata a tempi più tranquilli, così solo il 10 agosto 1861 il card. Antonelli informò il patriarca della decisione di Pio IX di elevarlo alla porpora cardinalizia nel concistoro stabilito per la metà di settembre. Ma mons. Ramazzotti aveva già lasciato Venezia, essendosi aggravati i disturbi cardiaci che lo avrebbero stroncato il 24 settembre successivo. Si trovava nella casa dei nobili Canal a Crespano del Grappa per sfuggire all’afa della città che non lo lasciava respirare. Si era deciso a lasciare la città quando le sue condizioni apparvero disperate, trasferendosi il 14 luglio in casa Canal perché aveva ceduto al Comune la villa per la villeggiatura patriarcale di Mirano per erigervi un ospedale militare. Qui, in per-

38 fetta tranquillità di spirito, sereno ed offrendo le sue ultime soffe- renze per il ritorno alla Chiesa dei sacerdoti macolatisti di Pavia, si spense alle 4 e mezza del mattino del 24 settembre mentre don Cagliaroli celebrava la messa nell’oratorio predisposto attiguamente alla sua camera. Morì da povero, tanto che fu il Comune di Venezia a pagare le spese del trasporto e del funerale; fu rimpianto come «padre dei poveri e sacerdote santo». Papa Pio IX ne riconobbe le virtù non comuni e la santità di vita nella lettera che scrisse al clero veneziano. Venne sepolto nella basilica di S. Marco a Venezia e traslato, il 3 marzo 1958, nella chiesa di S. Francesco Saverio a Milano su richiesta del superiore generale del PIME, padre Augusto Lom- bardi, e per volontà del beato Giovanni XXIII, allora patriarca di Venezia, che lo aveva preso a modello del suo episcopato e che fin da allora ne auspicava la beatificazione. Egli infatti ricordava che già da giovane sacerdote era rimasto colpito dall’iscrizione che ricordava mons. Ramazzotti presso l’altare dell’Addolorata nel san- tuario di Rho: «Monsignore Angelo Ramazzotti, missionario di Rho, vescovo di Pavia, Patriarca di Venezia, designato cardinale, acclamato santo».

39 MODELLO ECCLESIOLOGICO E REALTÀ DELLA CHIESA DI MILANO NELL’OTTOCENTO di Ennio Apeciti

Premessa

A modo di premessa, ci piacerebbe che fosse tenuta sotto gli occhi la tabella n. 1 che ci indica la progressiva evoluzione della diocesi di Milano, il suo espandersi numericamente a livello di po- polazione ed il suo ristagnare a quello di clero. La sola tabella, cre- diamo, spingerà a riflettere che la diocesi di Milano si trovò costret- ta, di fatto, a vivere in stato di missione al suo interno, vivendo così naturalmente l’afflato missionario, che ha caratterizzato – non a caso – l’Ottocento, il secolo della missione.

Tabella n. 1 - Stato della diocesi di Milano (da Milano Sacro)

1815 (Gaisruck) Totale Abitanti Città e Corpi 847.372 Santi 157.850 Forese 689.522 Parrocchie 783 1838 (Gaisruck) Abitanti Città e Corpi 933.220 Santi 193.000 Forese 740.121 segue

Don Ennio Apeciti è docente di storia della Chiesa presso la Facoltà teo- logica dell’Italia settentrionale e di storia della Chiesa antica presso l’Istituto superiore di scienze religiose di Milano. Inoltre è responsabile dell’Ufficio delle cause dei santi della diocesi di Milano e superiore degli Oblati diocesani dei SS. Ambrogio e Carlo.

40 Parrocchie Città e Corpi 763 Santi 36 Forese 674 Canton Ticino 53 1847 (Romilli) Abitanti Città e Corpi 988.123 Santi 209.421 Forese 778.702 Parrocchie Città e Corpi 688 Santi 36 Forese 652 Vicariati 78 Preti Città e Corpi 2.747 Santi 718 Forese 2.029 Seminaristi 733 1860 (Ballerini) Abitanti 1.201.043 Parrocchie 775 Vicariati 82 Preti secolari 2.561 Preti regolari 107 Seminaristi 565 Religiose 517 1868 (Calabiana) Abitanti 1.218.237 Parrocchie 776 Vicariati 85 Preti 2.649 1894 (Ferrari) Abitanti Città e Corpi 1.592.756 Santi 451.375 Forese 1.141.381 Parrocchie Città e Corpi 730 Santi 42 Forese 688 Vicariati 79 Preti Città e Corpi 2.002 Santi 532 Forese 1.470

41 Tabella 2 - Quadro riassuntivo della diocesi di Milano (anni 1815- 1894)

ANNO POPOLAZIONE PRETI PARROCCHIE 1815 847.372 783 1838 933.220 763 1847 988.123 2.747 688 1860 1.201.043 2.561 775 1868 1.218.237 2.649 776 1894 1.592.756 2.002 730

Ci apprestiamo a dare corpo alla tabella n. 1 ripercorrendo la storia della diocesi ambrosiana nel secolo XIX e soffermandoci su ognuno dei vescovi che la ressero in quei decenni turbolenti e fe- condi. Speriamo, così, di aiutare ad intuire la complessità della trama storica che portò alla nascita dell’attuale Pontificio Istituto Missioni Estere. L’Istituto delle Missioni Estere, nato nel 1850, non è – non avviene quasi mai nella storia – un fiore germogliato nel deserto, stupefacente quanto inatteso. Le sue stesse origini, infatti, si potrebbero collocare a Rho, presso gli Oblati Missionari, fondati il 4 aprile 1721 dal cardinale Erba Odescalchi (1712-1737), che da più di un secolo, dunque, presso il santuario della Madonna Addolorata di Rho accoglieva- no preti, soprattutto, e laici, per gli esercizi spirituali secondo il metodo ignaziano. Essi, inoltre, si disperdevano per il territorio della vasta diocesi a predicare le missioni, quel metodo allora moderno di pastorale teso a raggiungere le masse, che si erano scoperte ancora poco formate cristianamente, tanto che c’era chi paragonava le campagne alle terre di missione e chi parlava dell’«India Italia». Di questi Oblati Missionari nella prima metà dell’Ottocento fu membro di spicco mons. Angelo Ramazzotti. Non possiamo pensare, dunque, all’Istituto delle Missioni Estere senza ricordare questi Oblati. Essi erano gli eredi della congregazione fondata da san Carlo per realizzare tra i suoi preti l’ideale sacerdotale proposto dal Concilio di Trento, preti santi e zelanti, vale a dire intensamente impegnati nel ministero, nel servizio del loro popolo, tanto che le stesse parrocchie ne risentirono nella determinazione dei loro con-

42 fini: esse dovevano essere vaste – si diceva con un po’ d’effetto – quanto l’ombra del campanile della chiesa, che n’era il cuore. Per avere l’intuizione di quest’ideale basterebbe leggere anche solo un passo dello stupendo discorso tenuto da san Carlo durante il suo ultimo sinodo (1584) e che è un poco il suo testamento:

Hai il mandato di predicare e di insegnare? Studia e attendi a ciò che ti è necessario per svolgere pienamente questo incarico. Da’ sempre buon esempio e cerca di essere il primo in ogni cosa. Predica soprat- tutto con la vita ed i costumi, perché [non avvenga che] vedendoti dire una cosa e farne un’altra, deridendo le tue parole, scuotano il capo. Sei in cura d’anime? Non trascurare per questo te stesso e non darti agli altri tanto generosamente che non rimanga nulla di te a te stesso. Infatti è certo doveroso che tu abbia a ricordarti delle anime alle quali presiedi, non tuttavia in modo tale da dimenticarti di te 1.

Forse non meno affascinante sarebbe il discorso tenuto agli ordinandi il 24 maggio 1578, quasi a metà del suo ministero episcopale:

Siate santi nel vostro cuore, nelle parole, nelle opere; perfetti sotto ogni aspetto, per ricevere degnamente il Santissimo Sacramento del- l’Ordine ed essere colmati dei doni dello Spirito Santo, per grazia divina. Non accontentatevi di progredire soltanto voi, nel Signore, sulla strada della virtù; fate in modo che anche le altre persone si santifichino per mezzo del vostro esempio e della vostra parola 2.

San Carlo fu divorato da quest’ansia pastorale e desiderò con- sumarne ogni suo presbitero: dal servizio (o dalla destinazione) all’altare discendeva per lui la necessità della santità sacerdotale, la quale era – ed è – la condizione necessaria per una vera, autenti- ca, feconda attività pastorale. E la trilogia potrebbe essere detta anche in senso inverso. Perché un sacerdote sia zelante, utile –

1 Acta Ecclesiae Mediolanesis, 3, ed. Achille Ratti, Mediolani 1892, p. 882. La traduzione è nostra. 2 SAN CARLO BORROMEO, Omelie sull’eucaristia e sul sacerdozio, Edizioni Paoline, Roma 1984, p. 306.

43 cioè – al bene delle anime, deve essere santo, di quella santità che discende (riceve, cioè, e si nutre) dai sacramenti, che egli celebra efficacemente, poiché agisce in persona Christi: egli, il sacerdote, è colui (o Colui?) che celebra. In quest’anelito apostolico si colloca l’intuizione degli Oblati, preti che avrebbero dovuto condividere l’ideale sacerdotale di san Carlo; preti che si sarebbero dati totalmente al ministero nel pri- mato dato all’amore di Cristo e dei fratelli, della contemplazione e della pastorale, inseparabili l’una dall’altra, perché solo stando così simbioticamente unite potevano – e possono – conservare fedele e felice la vita del prete. San Carlo li sognava così: liberi da ogni attaccamento monda- no; dediti solo al servizio delle anime nella collaborazione sincera e fraterna del presbiterio, tra loro con il loro vescovo. Questo chiese al papa Gregorio XVI, che li riconobbe il 26 aprile 1578. Questo ricordò loro, consegnando gli Statuti della Congregazione (13 settembre 1581): «Vi abbiamo fondato per il bene di tutta la Chiesa milanese, così che tutti riconoscano che essa è sostenuta dagli esempi delle vostre virtù, è adornata dal vostro progresso spirituale, è resa più grande e splendida dalle vostre buone azioni, che sono sempre presenti in voi, per consoli- darla, una santa volontà unita ad ardente zelo, prontezza nell’ob- bedire e compimento esatto del vostro dovere» 3. Questo coinvolgimento totale con il proprio vescovo aveva la forma del voto di obbedienza, che è rimasto anche oggi come le- game con un passato che tocca a noi rendere ancora attuale nei suoi valori autentici. Quel voto per un prete di quel tempo com- portava la rinuncia ad ogni beneficio parrocchiale o di altro tipo e la totale dipendenza economica dall’arcivescovo. E questo signifi- cava una scelta di povertà radicale, apostolica. Comportava la ri- nuncia ad ogni carrierismo (perché non si partecipava ai concorsi di vario tipo a posti prestigiosi) e la disponibilità radicale ad assu- mere quei compiti che nessuno voleva per sé. Era, dunque, scelta

3 SAN CARLO BORROMEO, Statuti degli Oblati di S. Ambrogio, a cura di PIER FRANCESCO FUMAGALLI, NED, Milano 1984, p. 93.

44 di nascondimento e di umiltà. Comportava la collaborazione con i confratelli, che condividevano l’identico ideale (quello del ve- scovo): non avendo parrocchia personale, si abitava dove il vesco- vo voleva e, nel caso, nelle abitazioni messe a disposizione del ve- scovo, di qui partendo per svolgere gli incarichi ricevuti e qui tor- nando al loro compimento. L’oblazione, dunque, significava scel- ta di fraternità sacerdotale, con vera vita comune. Comportava dare il primato alla pastorale del vescovo, alla comunione di in- tenti e non alle proprie intuizioni o sperimentazioni. Era, in altre parole, la scelta della diocesanità, della progettazione comune, di itinerari educativi precisi, di collaborazione pastorale. Era la scel- ta del primato della missione e del servizio. Non a caso gli Oblati furono subito destinati da san Carlo e dai suoi successori a formare i futuri preti nei seminari e la gioven- tù ambrosiana nelle scuole della Dottrina Cristiana; ad animare la spiritualità degli adulti nelle confraternite e stimolare la vita dei fedeli, riformando le parrocchie. Non è, dunque, un caso che alcuni preti milanesi, giovani e pieni di zelo, appassionati e pronti ad ogni sacrificio per amore del Vangelo e dei fratelli, scegliessero di fare vita comune in patria – a Milano – in vista della missione in terre lontane. Era quasi inevitabile che nel contesto dello sviluppo dell’ideale missionario, che è uno dei tratti caratteristici dell’Ottocento, alcuni preti am- brosiani scegliessero questa forma di ministero: era nel solco della tradizione sacerdotale che li aveva preparati. Come gli Oblati del tempo di san Carlo e quelli missionari di Rho erano stati la rispo- sta appropriata a ciò che lo Spirito suscitava nella Chiesa del loro tempo; così i missionari di Saronno e poi di San Calocero furono un modo di rispondere a ciò che lo Spirito faceva sentire alla Chiesa nell’Ottocento. La Chiesa ambrosiana, ovviamente, condivideva questa vocazione missionaria che lo Spirito suscitava: l’Istituto delle Missioni Estere ne è espressione. Potremmo, però, anche affermare che l’Istituto delle Missioni Estere nacque a Saronno. Qui prese corpo e vita la piccola comu- nità primitiva. Lo fece presso un convento riscattato da uno dei tanti laici che si impegnarono con coraggio ed energia, rimetten- doci di persona (anche economicamente) per difendere gelosa-

45 mente la loro Chiesa ambrosiana, che da tempo li andava educan- do ad un impegno personale, coraggioso ed intelligente; che li impegnava ad essere capaci di porsi nel difficile contesto politico e sociale, in modo da saper rendere «ragione della speranza che era in loro» (cfr. 1Pt 3,15). Anche questo era espressione dello spirito della Chiesa ambro- siana, che nel suo stesso nome si caratterizza per un richiamo ad un tempo significativo della sua storia, quello del suo Parentem maximum, come lo canta nella sua solenne memoria liturgica il 7 dicembre. Non è questo il luogo di trattarne. Basti ricordare, comunque, che la Chiesa di Milano si sentì talmente segnata dall’impronta di questo vescovo da assumerne il nome. Ambrogio fu il campione della missione, colui che impegnò tutte le sue energie e quelle del- la sua comunità nel plasmare con i valori del Vangelo il volto della società del suo tempo, pur in mezzo alle difficoltà ed incompren- sioni che il tempo dimentica. Non fu facile per la Chiesa del tem- po di Ambrogio testimoniare il primato del Vangelo e la sua capa- cità di dare senso e stile al vivere sociale, politico, civile. Eppure ci riuscì. Questo impegno a dare sapore alla vita della società, ad esserne fermento che fa lievitare e sale che brucia e purifica insie- me accompagnò la comunità ambrosiana anche nei momenti più bui della sua storia, anche quando fu tentata di omologarsi all’an- dazzo comune. Ma l’impronta ricevuta, la costringeva a ritornare alle sue radici. Avvenne anche nella prima metà dell’Ottocento: di fronte all’ondata rivoluzionaria francese ed alla restaurazione ri- formatrice degli austriaci, si pose una comunità che sentiva forte- mente il legame con le sue tradizioni; che era stata abituata da secoli a vivere coinvolgendo le sue diverse componenti, anche quelle laicali. Si pensi ancora una volta alle scuole della Dottrina Cristiana: esse avevano un animatore (assistente) ecclesiastico, ma erano completamente gestite dai laici che, assumendo quell’impe- gno, sceglievano un esigente tipo di vita spirituale personale e si impegnavano nel loro ambiente a testimoniare le loro scelte. I maestri e tutti gli altri operatori pastorali sapevano di impegnarsi non solo per un’ora la settimana, ma di assumere uno stile di testi- monianza nel loro ambiente, fosse il piccolo paese o il quartiere di

46 Milano. Sarebbe qui da tracciare la grande saga degli oratori, cui accenneremo. Basterebbe pensare all’entusiasmo che avevano i co- siddetti Giovani della Madonna, che si riunivano presso il duomo. Ma si potrebbero ricordare i giovani che con Luigi Monti fonda- rono la Compagnia dei Frati a Bovisio Masciago (Milano). Tutti questi giovani si trovavano la sera, dopo il loro faticoso lavoro, e pregavano, leggevano le vite dei santi, cantavano, discutevano di quello che era successo durante il giorno. Da questo ritrovo co- mune conseguivano concrete scelte operative, dalle corali per ani- mare la messa domenicale alle rappresentazioni teatrali, alle for- me che oggi diremmo di volontariato, aiutando chiunque fosse nel bisogno. Il fine non era solo quello di passare qualche bella serata insieme, ma di aiutarsi ad essere testimoni autentici duran- te il giorno. Essi, infatti, si proponevano di far rifiorire cristiana- mente gli ambienti in cui vivevano, mostrando a molti compagni di lavoro o parenti quanto fosse bello e quanta gioia donasse l’es- sere cristiani. E ci riuscirono, anche in mezzo alle prove ed alle incomprensioni. Non è, allora, senza significato che la Compagnia dei Frati del venerabile padre Monti fosse nata dall’incontro che quel giovane diciassettenne ebbe con i Padri Oblati Missionari di Rho ed in particolare con padre Angelo Ramazzotti: in quei giovani riviveva lo stile della loro Chiesa, l’anelito missionario mai domo. Basti solo questo, per far intuire che il terreno in cui poté attecchire il futuro PIME era reso adatto anche dalla testimonianza di molti laici: quello che fece – per usare solo un nome – Marcello Candia era nel solco della tradizione laicale ambrosiana. La presenza del- l’Istituto delle Missioni Estere a Milano fu, dunque, preziosa per la stessa Chiesa milanese: stimolò il suo spirito missionario e ne impedì la rassegnazione, che sempre insidia le cose degli uomini. Forse la vivacità della Chiesa ambrosiana attuale deve molto a quest’istituto, nato dalla sua stessa tradizionale attenzione ad in- carnare il Vangelo. Lo stesso mondo religioso dell’Ottocento milanese esprime e raccoglie l’anelito missionario, che fece germogliare il PIME. Pen- siamo – solo per cenni – ai numerosi istituti religiosi nati nella diocesi ambrosiana, e che più sotto indicheremo. La congregazio-

47 ne delle Suore Marcelline nacque dall’intuizione di mons. Luigi Biraghi, che non a caso scopriamo come animatore dell’ideale missionario dei chierici del seminario, ove era direttore spirituale. Ambedue – i giovani missionari per l’estero e le giovani ragazze per la buona borghesia ambrosiana – esprimevano l’identico idea- le: non era più tempo di stare nelle sacrestie e tanto un buon prete quanto una ragazza generosa andavano a portare il Vangelo con entusiasmo, dove il bisogno era maggiore. In quegli anni la bor- ghesia lombarda era percorsa da correnti di agnosticismo – accan- to a testimonianze eccezionali di fede – che facevano pensare, s’è già detto, che non ci fosse molta differenza fra alcune zone di Mi- lano e della Micronesia. Anche per questo motivo, oltre che per la tradizione tipica del tempo, i primi missionari, rientrando dalla missione, si inserivano con lo stesso ardore nell’attività pastorale. È il caso, anche qui usato come esempio per tutti, di don Carlo Salerio che, riprese le forze consumate in Oceania, fu attivissimo fondatore di case di accoglienza e di formazione, affidate alla congregazione religiosa delle Suore della Riparazione: fu il suo entusiasmo a sostenere i primi passi della loro fondatrice, Carolina Orsenigo. Anche il mondo dei religiosi e delle religiose dell’Ottocento ambrosiano, pertanto, si presenta caratterizzato dagli stessi ideali missionari che si coagularono nell’Istituto delle Missioni Estere. Esso poté radicarsi in questo humus, ove si univano consacrazione a Dio e servizio dei fratelli nella carità e nella formazione spirituale e cul- turale; donarsi agli ultimi o ai meno formati, per portare a tutti la piena realizzazione umana di cui il Vangelo è custode. Dall’altra parte, la presenza stessa dei preti del futuro PIME – fossero in for- mazione o di ritorno – stimolava la stessa vita dei consacrati e li permeava degli stessi valori. Anche di questo, forse, dovremmo te- nere conto. La Chiesa di Milano ha saputo affrontare sfide epocali anche – noi crediamo – perché si è presentata all’appuntamento con una vivacità di intenti e una capacità di dialogo con i cosiddetti lontani, che le venivano da un secolo, l’Ottocento, durante il quale il vento ed il profumo della missionarietà avevano svegliato gli assonnati, rincuorato gli incerti, entusiasmato quelli che sentivano che il Vangelo ha un segreto strano: è sempre attuale; sa sempre dire

48 parole nuove ad ogni nuova generazione; se non è accolto è sempli- cemente perché non è stato sentito, perché in quel luogo o momen- to nessuno ne ha parlato. Non a caso il Signore Gesù fa udire i sordi e parlare i muti: sino a che ci sarà – e ci sarà sempre – chi ne parli, ci sarà qualcuno che ascolterà e a sua volta ne parlerà.

Come comincia il secolo XIX nella diocesi di Milano? a) Il vescovo e le sue vicende: G.B. Montecuccoli Caprara (1802- 1810)

La nostra storia comincia con il cardinale Giovanni Battista Montecuccoli Caprara, un uomo controverso 4, arrivato alla por- pora quasi per liberare la nunziatura di Vienna (1792), ma recupe- rato nel 1801, quando, per il suo noto atteggiamento favorevole ad un accordo della Santa Sede con i rivoluzionari francesi, fu inviato come legato a latere a Parigi, per l’esecuzione del Concor- dato. Egli interpretò in modo talmente favorevole ai francesi le clausole dell’accordo, che ottenne come premio da Napoleone l’ar- civescovado di Milano (25 maggio 1802). In forza di questo titolo garantì ogni controllo francese sulla diocesi; organizzò splendida- mente l’incoronazione di Napoleone ad imperatore dei francesi (2 dicembre 1804) ed a re d’Italia in Milano (26 maggio 1805): visita dolorosa, perché Napoleone approfittò dell’occasione per scegliere il progetto della facciata del duomo 5. Fu questa la seconda – ed ultima – occasione, che vide il cardinale Caprara nella sua sede episcopale 6. Forse a sua difesa vale la massima della sua vita, così

4 GIOVANNI PIGNATELLI, Caprara Montecuccoli Giovanni Battista, in Diziona- rio Biografico degli Italiani, vol. XIX, 1976, pp. 180-186. 5 Fu scelto il progetto meno costoso e fu stabilito che a pagarlo sarebbero stati i milanesi stessi: si ordinò alla Fabbrica del Duomo di vendere i suoi beni, che passarono nel giro di mesi da 2.500.000 a 92.000 e si impose una tassa spe- ciale alla popolazione. 6 Era sceso a Milano la prima volta il 21 agosto 1802, per prendere possesso della sede.

49 come la riferiva il cardinale Consalvi, che non gli era propriamen- te amico: «Non vi è che la condiscendenza [...] Bisogna restare in piedi ad ogni costo, perché se si cade una volta, non si risorge più». Le cose, in ogni caso, non andavano meglio prima della nomi- na del Caprara. Conviene farne cenno. Inizialmente la Chiesa milanese era stata contraria alla Rivolu- zione francese, anche se in seguito l’ostilità diminuì, senza arrivare mai, però, all’estremo del prevosto di Varese, don Felice Lattuada, che dall’appoggio alla rivoluzione passò alla «rivoluzione della dot- trina morale» ed al rifiuto della religione come superstizione 7. Purtroppo, l’arrivo dei rivoluzionari – ed in particolare di Na- poleone – si trasformò da speranza in stolto saccheggio. Se all’ar- rivo di Napoleone in città si cantò il Te Deum, ben presto si rimase colpiti dalla protervia francese: furono richiesti 20 milioni di lire tornesi alle province lombarde; furono confiscati tutti i beni dei conventi, compresi i rivestimenti in rame delle cupole ed i mate- rassi; fu saccheggiata la Pinacoteca Ambrosiana e furono portati a Parigi le Madonne del Luini, di Rubens, di Bruegel, il cartone della Scuola di Atene di Raffaello, tredici volumi di disegni e scrit- ture di Leonardo 8. Le manifestazioni di dissenso furono represse duramente, an- che quando venivano dal clero: il 4 giugno 1796 cadde sotto i col- pi del plotone d’esecuzione don Paolo Bianchi, parroco di S. Fran- cesco di Paola, una delle parrocchie centrali di Milano (tra via Montenapoleone e via Manzoni) e il 30 giugno fu fucilato don Giuseppe Pacciarini, parroco anziano del duomo. Quando la popolazione cominciò a ribellarsi, Napoleone ne accusò il clero, ritenuto da sempre vicino alla popolazione e suo istigatore. E questo è un dato da conservare. Il Francese poté così piegare l’arcivescovo Filippo Visconti (1783-1801) a pubblicare una lettera pastorale sull’obbedienza. La

7 Nel 1796 lasciò infine il sacerdozio. 8 Ne fu restituito uno solo nel 1816. Al saccheggio si devono aggiungere la Coronazione di spine di Tiziano, asportata da S. Maria delle Grazie e il S. Seba- stiano del Procaccini da S. Celso.

50 popolazione si sentì tradita ed uccise l’arciprete della metropoli, Giuseppe Ordogno de Rosales, mentre l’arcivescovo dovette fug- gire da Milano e rifugiarsi a Gorla Minore 9. La situazione pastorale si aggravò con l’estensione alla Re- pubblica Cisalpina delle norme ecclesiastiche deliberate in Fran- cia con la Costituzione civile del clero: il 1° dicembre 1797 si stabilì che i parroci fossero eletti dai cittadini e il 17 dello stesso mese si proibì la raccolta di offerte e la celebrazione di atti di culto fuori delle chiese, mentre il viatico doveva essere portato in incognito. Inoltre, tutte le immagini sacre dipinte sui muri esterni delle case dovevano essere coperte con calce, mentre ven- ne scalpellato dalla facciata del duomo lo stemma di Pio VI e furono distrutte le insegne dei sepolcri dei cardinali milanesi (al- cune pietre tombali furono invece semplicemente rivoltate). Infi- ne, nel 1798 furono soppressi i capitoli del duomo e di tutte le collegiate e furono requisiti il seminario, i conventi ed i mona- steri (quello di S. Ambrogio fu trasformato in ospedale). Particolarmente odiosa, in ogni caso, rimaneva la clausola ob- bligatoria prima di assumere ogni incarico o beneficio ecclesiasti- co, che ritornò anche nei successivi concordati e che non ha biso- gno di molti commenti:

Io giuro e prometto a Dio sui santi Vangeli di prestare obbedienza e fedeltà al Governo stabilito dalla Costituzione della Repubblica fran- cese. Prometto altresì di non avere alcuna intelligenza, di non assiste- re ad alcun conciliabolo, di non mantenere alcuna lega, sia all’interno sia all’estero, che sia contraria alla tranquillità pubblica; e se nella mia diocesi ed altrove, sentissi che si tramasse qualche cosa in pre- giudizio dello Stato, io lo farò sapere al Governo.

Era in fondo, se applicato, un giuramento di delazione che lasciava imprecisato il rapporto con il segreto confessionale. Eppure, così facendo, Napoleone favorì la Chiesa: il popolo non capiva questo accanimento contro il clero che, dai tempi di

9 In seguito passò a Padova.

51 Maria Teresa d’Austria, era giuridicamente trattato, comprese le tasse, come qualsiasi altro cittadino. Si può capire il tripudio con cui fu accolto il ritorno degli au- striaci. Essi, purtroppo, si abbandonarono a veri atti di vendetta perdendo così, nei 13 mesi in cui rimasero, il capitale di consenso che li aveva accolti. Intanto Napoleone aveva imparato la lezione se, come si nar- ra, confidò al Talleyrand: «Per vivere in pace col popolo italiano, è necessario rispettare ed andare d’accordo col clero». Infatti, al suo ritorno in Milano (2 giugno 1800) convocò i parroci della città e tenne loro un discorso conciliante. Ma durò poco: l’arcivescovo Visconti, appena rientrato da Padova, dovette pagare una multa di 2 milioni di lire italiane in nome di tutto il clero per l’appoggio dato agli austriaci e, quando le resistenze ripresero, l’arcivescovo Visconti provò le traversie di Pio VI e Pio VII: fu convocato a Lione nonostante i suoi 80 anni. È in questa difficile situazione che operò – o si barcamenò – il Caprara. Tra gli altri, uno degli atti che ci possono interessare fu quello compiuto nell’ottobre 1806, quando l’arcivescovo di Milano pro- mulgò su ordine imperiale e contro la volontà della Santa Sede il Catechismo imperiale o napoleonico che, in forza dell’approva- zione ambrosiana, fu esteso ai regni italiani satelliti dell’imperato- re 10. Val la pena di leggerne la famosa Lezione settima, riguardan- te il quarto comandamento:

D.: Quali sono i doveri dei Cristiani verso i Principi che li governa- no; e quali sono in particolare i nostri doveri verso Napoleone I, Imperatore e Re nostro?

10 Catechismo ad uso di tutte le Chiese del Regno d’Italia. Edizione originale ed autentica, Stamperia Reale, Milano 1807. Sul Catechismo imperiale vedi: ANDRÈ LATREILLE, Le catéchisme impérial de 1806. Études et documents pour servir à l’histoire des rapports de Napoléon et du clergé concordataire, Les Belles Lettres, Paris 1935; ROSA PESCINI, “La polemica sul Catechismo napoleonico e una confutazione romana di esso”, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 17 (1963), pp. 406-412; FRANCESCO PISTOIA, “Nota sul Catechismo imperiale del 1806”, in «Rivista di Letteratura e di Storia Ecclesiastica», 8 (1976), pp. 299-313.

52 R.: I Cristiani debbono ai Principi, da cui sono governati e noi in particolare a Napoleone I, Imperatore e Re nostro, amore, ri- spetto, obbedienza, fedeltà, il servizio militare, le imposizioni ordinate per la conservazione e difesa del trono: noi gli dobbia- mo ancora fervorose preghiere per la di lui salute, e per la pro- sperità spirituale e temporale dello Stato. D.: Per qual ragione siamo obbligati a questi doveri nei confronti del nostro imperatore? R.: In primo luogo perché Dio, che crea gli imperi e li distribuisce secondo il suo volere, ricolmando il nostro imperatore di doni, tanto in pace quanto in guerra, lo ha costituito nostro sovrano, lo ha reso ministro della sua potenza, e sua immagine sopra la terra. Onorare e servire il nostro imperatore è dunque onorare e servire Dio stesso. In secondo luogo perché nostro Signore Gesù Cristo, colla sua dottrina e coi suoi esempi, ci ha egli stesso inse- gnato quello che noi dobbiamo al nostro sovrano: è nato mentre si obbediva all’editto di Cesare Augusto; ha pagato la tassa pre- scritta; e come ha ordinato di rendere a Dio quel che appartiene a Dio, così ha ordinato di rendere a Cesare quel che appartiene a Cesare. D.: Vi sono motivi particolari, per i quali dobbiamo essere più forte- mente attaccati a Napoleone I, nostro imperatore? R.: Sì, perché egli è colui che Dio ha suscitato in circostanze difficili al fine di ristabilire il culto pubblico della santa religione dei nostri padri, e di esserne il protettore. Con la sua profonda ed attiva saggezza egli ha ristabilito l’ordine pubblico e lo ha con- servato; col suo braccio potente difende lo Stato; è diventato l’Unto del Signore per la consacrazione che ha ricevuta dal Som- mo Pontefice, Capo della Chiesa universale, come Imperatore, e dall’Eminentissimo Cardinale Arcivescovo di Milano, come Re d’Italia. D.: Che cosa si deve pensare di coloro che mancassero ai loro doveri verso l’imperatore? R.: Secondo l’apostolo s. Paolo essi resisterebbero all’ordine sta- bilito da Dio stesso e si renderebbero degni della dannazione eterna.

Anche in questo caso, riteniamo inutile ogni commento. Piut- tosto vale la pena osservare che questo catechismo avrebbe do- vuto sostituire tutti quelli precedenti ed in parte lo fece. Ma,

53 essendo durato lo spazio dell’impero napoleonico, ne seguì la sorte. Alla fine, tramontato l’astro di Napoleone, rimase alla dio- cesi di Milano ed in genere all’Italia ed alla Francia un vuoto formativo proprio a livello di catechesi: mancava un testo unico, preciso, comune a tutta una regione, il che permetteva alla po- polazione, spesso in movimento, di inserirsi nel nuovo domici- lio, anche ecclesiale, senza eccessive difficoltà e senza lacune for- mative. Credo sia un elemento di cui non si tiene sempre conto: per tutto l’Ottocento ci fu un’atomizzazione della catechesi, di cui noi, forse, abbiamo visto gli effetti – solo i primi! – nel XX secolo. La situazione pastorale si aggravò, se pensiamo che il cardina- le Caprara ordinò ai professori del seminario di prestare giura- mento di fedeltà all’impero e soppresse le confraternite, tranne quelle del SS. Sacramento. Anche in questo modo, egli danneggiò la vita pastorale. Basterebbe pensare a cosa significassero in realtà le confraternite, a cosa comportava l’essere confratello. Oltre che a coltivare e a sostenere una spiritualità eucaristica – il confratello era tenuto alla comunione almeno mensile – lo stesso confratello era chiamato a curare la spiritualità familiare, poiché era sua la responsabilità primaria dell’educazione dei figli alla fede e, per farlo degnamente, gli era richiesta l’esemplarità. Di qui l’educa- zione costante ad una corretta condotta quotidiana, fedele ai pro- pri doveri, all’educazione del carattere, all’educazione propria delle virtù umane, all’importanza della carità (o attenzione ai poveri), alla collaborazione all’interno della confraternita e della comunità parrocchiale cui essa apparteneva. Vi era, quindi, insita una prima assunzione di responsabilità, una prima forma di spiritualità laica- le, prima animazione della società 11. Lo stesso discorso si dovrebbe fare – e rivelerebbe un singolare interesse – anche per le confraternite femminili, dedicate soprattut- to alla Madonna. Esse permettevano, oltre a quanto detto per quel- le maschili, di coltivare la spiritualità mariana alla maniera di san

11 AMBROGIO PALESTRA, Le antiche confraternite del SS. Sacramento della dio- cesi di Milano, in Ricerche Storiche della Chiesa ambrosiana, vol. XI (= Archivio Ambrosiano 45), Milano 1982, pp. 169-207.

54 Carlo e dunque erano sentite come ambrosiane. Esse permettevano poi di educare ad un certo modello di famiglia, che non dovremmo dimenticare e che ritroveremo sviluppato lungo il secolo XIX. Se poi ricordiamo le confraternite dedicate a San Giovanni Decollato, potremmo allargare il nostro discorso all’ambito della carità. Queste confraternite si dedicavano all’assistenza dei carce- rati, compresi i condannati a morte, per alleviarne le pene del car- cere e l’orrore dei momenti estremi. Esse sono sulla linea dell’im- pegno di carità che aveva segnato la Chiesa ambrosiana. Non si dimentichi che, già al tempo di san Carlo, su 560.000 abitanti del- la diocesi circa 100.000 erano assistiti dalla comunità ecclesiale. Intanto Napoleone con leggi imperiali aveva soppresso alcune parrocchie, soprattutto nel centro di Milano, riducendole a 23 (22 giugno 1805). Ciò significò indebolire quel principio tipicamente ambrosiano e carolino – nel senso che era un retaggio delle rifor- me di san Carlo consegnato alla diocesi –, che si basava sulla capil- larità delle parrocchie, secondo un adagio tradizionale: la parroc- chia doveva essere vasta quanto l’estendersi dell’ombra del cam- panile. Era un principio che aveva fino ad allora garantito quella vicinanza tra pastore e popolo che faceva sentire il «signor cura- to» uno di casa, partecipe delle vicende e delle attese di ognuno, spesso compagno nel cammino della vita, dalla culla – o meglio dal fonte battesimale – alla tomba. Cosa ancora più importante fu la soppressione nel 1810 di tutti gli ordini religiosi tranne i Fatebenefratelli e le Suore di Carità. Poi- ché spingeva sulla strada dell’impegno, della vita attiva, questa sop- pressione selettiva non fu tutto sommato un male: accentuò il carisma della carità, proprio della consacrazione, chiedendo di coniugare l’elemento contemplativo – proprio di ogni consacrazione a Dio – con quello attivo, secondo la sintesi di san Giovanni, per cui non può dire di amare Dio che non vede colui che non ama il fratello che vede. Era una costrizione ad uscire dal chiuso delle mura dei conventi, e delle sacrestie, per avviarsi sulle strade del mondo fer- mandosi, come facevano gli istituti di carità, presso i più bisognosi. Che fosse non tanto un’intuizione di alcuni, ma un desiderio dello Spirito, che voleva sospingere la Chiesa su questa strada, potrebbe essere confermato dal semplice scorrere l’elenco degli ordini reli-

55 giosi nati nel secolo XIX e agli inizi del XX, con l’indicazione cari- smatica della carità. (Si veda la tabella n. 3, con l’opportuno com- mento).

Tabella n. 3 - Ordini religiosi fondati tra il 1802 e il 1918

ANNO NOME LUOGO CARATTERISTICA (E FONDATORE) 1802 Scuole della carità Fratelli Cavanis Carità-istruzione 1808 Missionari di Francia (o Pre- Francia Missioni ti della Misericordia) Figlie della Carità o Serve Canossiane Carità dei Poveri 1814 Congregazione di Picpus Missioni 1815 Missionari del Preziosissimo Roma (Gaspare Missioni popola- Sangue del Bufalo) ri 1816 Oblati di Maria Immacolata Provenza Missioni Oblati di Maria Vergine di Missioni Pio Lanteri 1817 Marianisti - Società di Maria 1821 Adoratrici Perpetue del SS. Sacramento 1822 Maristi Missioni 1824 Orsoline di San Carlo Milano Istruzione 1828 Suore della Carità dell’Imma- Ivrea Carità colata Concezione 1830 Compagnia di Maria Sordomuti (cari- tà) 1831 Figlie del Sacro Cuore Bergamo Carità 1832 Suore della Carità (Maria Lovere, Bergamo Carità Bambina) 1833 Suore di S. Giuseppe Torino Carceri-carità Figlie della Presentazione di Istruzione-carità Maria SS. al Tempio Missionari dei Sacri Cuori di Secondigliano, Gesù e di Maria Napoli 1834 Suore di Sant’Anna Torino (marche- Carità sa Barolo) segue

56 ANNO NOME LUOGO CARATTERISTICA (E FONDATORE) 1838 Suore di Santa Marcellina Milano Istruzione Missionari di S. Francesco di Francia Missioni popolari Sales 1845 Agostiniani dell’Assunzione Spagna Carità 1846 Suore del Bambin Gesù Inghilterra Per i convertiti 1847 Pavoniani Brescia Carità 1848 Padri dello Spirito Santo Missioni (CSSp) Missionari dell’Immacolata Lourdes Missioni popolari Concezione 1849 Missionari Figli del Cuore Missioni Immacolato di Maria (Clare- tiani) 1850 Missioni Estere di Milano Missioni 1854 Missionari del Sacro Cuore Francia di Gesù 1855 Missionari del Sacro Cuore Missioni Insegnanti di Maria Imma- Missioni colata (Claretiane) 1856 Società Missioni Africane Missioni (SMA) 1857 Fratelli Ospitalieri o Figli del- Roma (p. Luigi Carità l’Immacolata Concezione Monti) 1859 Frati della Carità (Frati Bigi) Carità 1860 Figlie della Carità (Ancelle Montreal, Canada dei Poveri) 1864 Figlie di Maria S. Immacolata Carità Suore della Santa Famiglia Convitti per ope- raie 1867 Istituto Missioni Africane - Missioni Comboniani - Figli del Sa- cro Cuore 1868 Missionari d’Africa (Padri Missioni Bianchi) Sacerdoti del SS. Sacramento Spagna Ancelle del SS. Sacramento Spagna 1871 Figlie di Bethlem Milano Carità segue

57 ANNO NOME LUOGO CARATTERISTICA (E FONDATORE) 1872 Comboniane - Madri della Missioni Nigrizia Figlie di Maria Ausiliatrice Educazione 1874 Pontificio Istituto SS. Pietro Missioni e Paolo 1875 Società del Verbo Divino Germania Missioni (Verbiti) 1876 Suore del Preziosissimo San- Monza Istruzione gue 1880 Missionarie del Sacro Cuore (F.S. Cabrini) Emigrati di Gesù 1885 Missionari dell’Immacolata S. Armengol (Spa- Concezione gna) 1886 Padri del Cuore Immacolato Belgio Missioni di Maria di Scheut Istituto Artigianelli Giovanni Piamarra Educazione-carità Sacra Famiglia di Nazareth Orfani e abban- donati Umili Serve del Signore 1887 Missionari di San Carlo (Sca- Emigrati labriniani) 1888 Suore della Sacra Famiglia Carità del Sacro Cuore di Gesù Sacerdoti Missionari di San Germania Per i convertiti Paolo (Paulisti) 1889 Opera di San Pietro Aposto- Missioni lo 1890 Missionari dei Sacri Cuori di Randa, Spagna Carità Gesù e di Maria 1894 Missionari di San Giuseppe Mill Hill (Gran Missioni Bretagna) 1895 Pia Società di San Francesco Parma (Italia) Missioni Saverio (Saveriani) 1899 Istituto di San Francesco Sa- (Spagna, Burgos) Missioni verio 1900 Istituto della Consolata Piemonte (Italia) Missioni segue

58 ANNO NOME LUOGO CARATTERISTICA (E FONDATORE) 1903 Piccola Opera della Divina Tortona (don Carità Provvidenza Orione) Piccola Missione per i Sor- Fratelli Lanteri Per i sordomuti domuti 1907 Poveri Servi della Divina Prov- Verona (don Ca- Carità videnza labria) 1908 Servi della carità Como (don Gua- Carità nella) 1911 Società di Maryknoll Missioni Povere Serve della Divina Verona (don Ca- Carità Provvidenza labria) 1917 Figlie di S. Maria della Prov- Como (don Gua- Carità videnza nella) 1918 Congregazione dei Figli del- Parigi Per gli operai la Carità

Premettiamo che la distinzione dei compiti (carismi) è difficile da farsi: ogni ordine o congregazione ne vive insieme parecchi e la sottolineatura di uno di loro è spesso funzionale al distinguersi da un istituto simile. C’è in questa differenziazione la manifestazione di una grande fantasia e libertà, di un grande rispetto reciproco (che si coniugava, ovviamente, ad una sana e reciproca emulazione). Possiamo in ogni caso individuare, per comodità di studio, tre caratteristiche carismatiche e tre caratteristiche spirituali che ci pos- sono permettere di conoscere un po’ più complessamente il volto della Chiesa della prima metà del secolo XIX. Le caratteristiche carismatiche sono: l’intenso afflato missio- nario; il primato dato alla carità verso i più bisognosi in ogni sen- so; la cura quasi eroica della formazione soprattutto delle giovani generazioni. Torniamo ora alla diocesi ambrosiana e alla soppressione, tra gli altri, della congregazione degli Oblati, quei preti raccolti dal tempo di san Carlo in una scelta di vita e di fraternità che richie- deva la rinuncia nelle mani del vescovo (= oblazione) dei propri benefici parrocchiali, per mettersi al suo immediato servizio nelle scelte pastorali che egli avesse ritenuto più necessarie, senza ri-

59 compensa o vantaggio economico: per gli Oblati era la scelta del primato del ministero pastorale e dello stile di povertà vissuto con un impegno di fraternità. Essi, inoltre, avevano formato quel grup- po specializzato che erano i Padri Missionari di Rho, cui fu proibi- ta la predicazione perché ritenuti troppo fedeli alla Santa Sede e troppo «carolini», anche se ufficialmente la motivazione fu la loro formazione, non più «all’altezza dei tempi». Ma anche in questo modo si introdusse un principio devastan- te per la vita della diocesi cancellando, almeno formalmente, quel principio che aveva caratterizzato il clero diocesano ambrosiano e che era testimoniato proprio dagli Oblati: l’importanza, se non il primato, dell’obbedienza dei sacerdoti al loro vescovo, che era il vero cuore, il vero centro propulsivo della diocesi. In realtà, Na- poleone favorì il diffondersi proprio di questo ideale, poiché i preti oblati, abbandonate le loro case ed i compiti cui erano stati depu- tati – e che, di fatto, erano quelli di fiducia da parte dell’arcivesco- vo e di responsabilità, con i connessi onori –, si diffusero per le parrocchie della diocesi e permearono tutto il presbiterio di que- sta aspirazione alla comunione con il proprio pastore, sancita dal primato dell’obbedienza: preti pronti ad obbedire, poiché l’es- senziale era servire il proprio popolo, poiché a questo ci si era educati. Conseguentemente, potremmo affermare che si diffuse, se ce n’era bisogno, tra il clero ambrosiano un rinnovato impulso mis- sionario, insito nello stesso ministero presbiterale. Tali erano i preti oblati, deputati da sempre alla conduzione ed all’animazione del- le scuole della Dottrina Cristiana, con il compito di formazione dei laici e dei maestri, coinvolti in queste scuole. Missionari, in particolare, erano quegli Oblati che avevano assunto anche il nome di «Oblati Missionari» e che risiedevano presso il santuario mariano di Rho per predicare le missioni nelle campagne e guidare gli eser- cizi spirituali dei presbiteri. Ora, la persecuzione di questa con- gregazione di preti secolari ne determinò per un certo verso la diaspora, ma per un altro verso permise la diffusione degli ideali che la animavano: l’anelito missionario di raggiungere i lontani – fossero quelli compresi nei confini della diocesi o oltre – divenne comune patrimonio ambrosiano.

60 b) Quale tipo di clero, laici, religiosi?

Per illustrare meglio questa caratteristica ambrosiana, comples- sa come si è visto, potremmo accostare due figure sacerdotali, una reale e una letteraria. Quella reale è la figura di don Serafino Morazzone (1747-1822), parroco di Chiuso, un piccolo paese alla periferia di Lecco. Il suo processo di canonizzazione è in fase avanzata presso la Congrega- zione delle Cause dei Santi. Per conoscere questo prete, sarebbe bello leggere quanto scrisse Alessandro Manzoni nella prima stesura dei Promessi Sposi, Fer- mo e Lucia (1821-1823), pochi mesi dopo la morte di don Serafino, di cui l’artista conservava fresco e personale ricordo:

Il curato di Chiuso era un uomo che avrebbe lasciato di sé una me- moria illustre, se la virtù sola bastasse a dare la gloria fra gli uomini. Egli era pio in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue parole, in tutte le sue opere: l’amore fervente di Dio e degli uomini era il suo sentimento abituale: la sua cura continua di fare il suo dovere, e la sua idea del dovere era tutto il bene possibile. [...] Sento un rammarico di non possedere quella virtù che può tutto illustrare, di non poter dare uno splendore perpetuo di fama a queste parole: prete Serafino Morazzo- ne curato di Chiuso 12.

Cosa ammirarono in don Serafino, Alessandro Manzoni ed i contemporanei? Se scorriamo le testimonianze sulla sua vita, leg- giamo che fu un prete innamorato del confessionale («le confes- sioni erano affollatissime e la notte lo sussidiava nel disimpegnar- le»), della Madonna, del SS. Sacramento. Basti leggere la preghie- ra probabilmente composta da lui stesso e che insegnava ai suoi parrocchiani: «O Sangue preziosissimo di vita eterna, mercede e riscatto di tutto l’universo, bevanda e lavacro delle anime nostre che proteggete continuamente la causa degli uomini presso il tro- no della suprema misericordia! Ah! io profondamente vi adoro e vorrei, per quanto mi è possibile, compensarvi delle ingiurie e de- gli strapazzi che voi ricevete di continuo».

12 ALESSANDRO MANZONI, Fermo e Lucia, Bergamo 1984, pp. 333-334.

61 Ma don Serafino fu anche – e non meno – uomo della catechesi, che curò con tutte le sue forze: «Spiegava tutte le feste la dottrina cristiana al popolo». Fu vicino con tutto il suo zelo alla gioventù. Un testimone, ricordando quando era un ragazzino, dichiarò: «Aveva moltissima cura dei fanciulli. Tutti i giorni verso sera ci conduceva all’oratorio di S. Giovanni esercitandoci in pratiche divote e religio- se anche nel ritorno». Infatti la sera era l’unico momento per offrire loro un po’ di svago, essendo impegnati nei lavori dei campi fin dalla più tenera età. Vi è qui, in nuce, l’oratorio ambrosiano, che proprio in quegli anni decollava – o si riprendeva – per opera di un laico, un giovane barbiere di San Babila in Milano, Giuseppe Figi- no. In questo ambito anche don Serafino maturò e dalla primitiva severità, richiesta dai sistemi educativi di quel tempo, passò ad uno stile pieno di «dolcezza», forse ricordando l’insegnamento di san- t’Ambrogio, che scriveva a sua sorella Marcellina: «Gesù Cristo, nostro Signore, ha ritenuto che gli uomini possano essere obbligati e stimolati a fare il bene, più con la benevolenza che con la paura; e che, per farli emendare, l’amore è più efficace del timore». Pastore zelante, don Serafino curò gli ammalati e i poveri e non mandava mai via nessuno che venisse a cercare soccorso da lui, senza fargli la carità. Era assiduo al letto degli infermi «visitandoli tutti immancabil- mente almeno una volta al giorno». A quali virtù don Serafino ispirò il suo agire quotidiano? Qua- le lo stile del suo ministero? Egli fu un uomo umile, mite: «Se avesse potuto nascondere il bene che faceva, lo avrebbe fatto vo- lentieri». Fu un uomo povero: d’altra parte, mostrandosi libero e staccato, voleva «insegnare che il religioso deve avere unicamente il Signore per sua eredità». Così don Serafino non temette di per- correre – con gioia – l’erto sentiero dell’ascesi, dal cilicio alle quo- tidiane rinunce: «In ozio non lo si trovava mai, sempre occupato o nelle cure del ministero o nella preghiera». Don Serafino, dunque, con reale umiltà e spirito di verità cre- dette nel modello spirituale che gli era stato consegnato dalla tra- dizione della sua Chiesa; prese sul serio la formazione che aveva ricevuto e vi ispirò il suo quotidiano ministero. Quanti furono i preti come lui? Noi risponderemmo: tutti quelli che presero sul serio la loro formazione al sacerdozio, mentre oggi

62 parleremo della loro formazione seminaristica. Questa spiritualità essi consegnarono ai preti che servirono la Chiesa ambrosiana lungo l’Ottocento. La seconda pagina che vorremmo citare, per fare esperienza del modello di prete che veniva proposto nella prima metà del- l’Ottocento, è quella scritta da un laico, Carlo Ravizza, in Un cura- to di campagna 13. Con stile autobiografico, l’autore descrive il suo soggiorno in Brianza e la conoscenza che ebbe del curato del luo- go. Era, questi, un prete che non si limitava al sacro, alla preghie- ra, ai sacramenti, ma era non meno sollecito dello sviluppo inte- grale delle persone tra le quali era stato mandato. Nessuno degli aspetti della vita quotidiana dei suoi fedeli gli sfuggiva e per tutti si faceva maestro e testimone e profeta, cioè stimolatore. Egli per- tanto si occupava dello sviluppo agricolo, dell’istruzione dei fan- ciulli, della tutela del lavoro, della giustizia sociale, della cultura personale (e non disdegnava letture profane, cioè scientifiche, «per applicarle al bene dei suoi»). Il tutto soffuso di una religiosità ot- timista, fiduciosa di sé, perché «la fede sta per se stessa nel cuore umano», ma nello stesso tempo ha un’inevitabile rilevanza socia- le, poiché «si tolga la religione agli uomini [...] e nessuna istituzio- ne potrà mai riempire l’orribile vuoto che resterà nel mondo». Da questa incrollabile fiducia in Dio scaturiva quella nel progresso, nonostante le difficoltà del tempo. Significativa, anzi commoven- te, la pagina conclusiva che Ravizza mette in bocca al vecchio Pa- rini, quasi suo testamento:

Il secolo che non vuole nella società inciampi al suo naturale progresso e aspira a pareggiare tutte le condizioni, ha tolto al clero quei privilegi che parevano da mille anni dargli una potenza senza contrasti e senza eccezioni. Ora poi che s’è accorto che quei principii sono un comodo pretesto per far denaro, ha incominciato a venderne i possedimenti, e chi sa quando e dove finirà, Tu che sei giovine vedrai anche questi fraticelli snidati, raminghi destare le risa del mondo, di cui non cono- scono le usanze. Continueranno quei soli che sono evidentemente atti- vi ed utili, perché il secolo non avrà il coraggio di far valere contro essi

13 CARLO RAVIZZA, Un curato di campagna, Bernardoni, Milano 1842.

63 i suoi pretesti. Fate sinceramente del bene, e l’avvenire vi rispetterà [...] Tu, figlio, presto sarai prete. Che tu possa non dimenticare giam- mai la tua tremenda missione! Il campo è più che mai aperto e sgom- bro, e bisogna entrarvi spogli e colle sole armi della carità e della fede, e l’amore e la venerazione de’ popoli dovrete conquistarli colle azioni. Non ingerirti nei piccoli affari del mondo per non perdere l’influenza vera nelle cose più importanti: ma non ritirarti pusillanime quando sono in pericolo la verità e la giustizia. La vostra missione è combattere per i più santi principii; e perché dovremo calare agli accordi quando si presenta il nemico? Non vi ha per noi interessi temporali che possono farci parer difficile il dovere. La famiglia nostra è il genere umano. Le nostre speranze e i nostri timori non sono di questo mondo. Il mondo sa troppo bene che la nostra carità non deve aver limiti, e se vede in noi un’esuberanza di forze e di agi la guarda con occhio incredulo e deriso- rio, quasi avanzasse al dovere che abbiamo verso gli altri. Studia, perché bisogna fare vedere che i preti non hanno paura del progresso e della verità, e dobbiamo giovare agli altri con tutti i mezzi che l’incivilimento ossia Dio medesimo ci porge. Ma soprattutto ama, ama sinceramente, e allora tutti i doveri ti diverranno facili. Cerca un’occupazione utile e san- ta, e a preferenza scegli la cura delle anime. Essa obbligandoti ad essere guida ed esempio, ti sarà un salutare ritegno sulla via del bene, ti darà l’amore e la forza per giovare agli altri 14.

Possiamo, pertanto, comprendere il giudizio lusinghiero rila- sciato dal cancelliere di Giuseppe II, Kaunitz, a proposito dei par- roci di Milano, che difende contro la riduzione del loro numero, desiderata dall’imperatore austriaco nel suo zelo riformistico:

[Sono] rispettabili per la loro condotta, hanno la riputazione di pre- stare con particolare bontà e sollecitudine la loro assistenza agli am- malati [...] Sono mediatori nelle frequenti discordie dei cittadini; impediscono le risse, prevengono alterchi e liti con la loro autorità, invigilando, per quanto possono, alla condotta morale dei loro par- rocchiani. Questi reali vantaggi per la società mi parevano meritare che l’attuale numero dei parrochi, quand’anche ecceda il loro biso- gno, non debba essere considerato inutile 15.

14 Ibid., pp. 280-281. 15 ANGELO MAJO, Storia della Chiesa ambrosiana, 3, NED, Milano 1984, p. 133.

64 A preti così, viventi o vagheggiati, dobbiamo accostare i laici. Essi meritano una considerazione attenta nella storia della Chiesa ambrosiana. Basterebbe considerare la figura di Giuseppe Figino (1747-1802), un umile barbiere, il quale trasformò la sua bottega in un primo luogo di esperienza apostolica, insegnandovi con entusiasmo il ca- techismo. A lui dobbiamo la ripresa esemplare – scriviamo così per non dare l’idea che egli sia stato il solo – dell’oratorio, così come lo ha conosciuto la diocesi ambrosiana sino a qualche anno fa 16. Con lui assistiamo alla progressiva presenza di laici coinvolti in prima persona nell’animazione, nell’educazione e nella collaborazione con il clero, anzi nella sollecitazione dello stesso clero ad iniziative nuo- ve e profetiche di pastorale. C’è in quest’umile barbiere ed in quelli che lo imitarono il segno di una sensibilità missionaria, che agitava – ci sembra di poter dire – anche il laicato. c) Prima conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?

Se ritroviamo lo stesso spirito nel clero, dobbiamo concludere che fosse uno stile di Chiesa; che fosse generato dallo Spirito, il quale spingeva i suoi figli su sentieri nuovi di fedeltà e di servizio. Una Chiesa, dunque, che ci appare da una parte sotto le pressio- ni del gallicanesimo, una Chiesa soggetta allo Stato, agognata non solo da Napoleone ma da tutti i sovrani del tempo. Contro questa tentazione operarono come antitossine le forti tradizioni ambrosiane, l’impronta di san Carlo e dei suoi successori che, pur secondo le diverse stature personali, lo avevano tenuto e proposto come mo- dello. Un’aspirazione, quella della libertà della Chiesa dallo Stato, che appartiene alla sua natura profonda e che, infatti, riscontriamo – sia pure con maggiori tensioni – anche nelle altre Chiese locali.

16 ENNIO APECITI, “L’Oratorio Ambrosiano da san Carlo a fine Ottocento”, in «La Scuola Cattolica», 122 (1994), pp. 511-584; ID., “L’Oratorio Ambrosiano dal Cardinale Ferrari ai nostri giorni”, in «La Scuola Cattolica», 122 (1994), pp. 735-854. Oggi raccolti in ID., L’Oratorio ambrosiano da san Carlo ai giorni nostri, Ancora, Milano 1998.

65 Una Chiesa, allo stesso tempo, attenta alle «novità» straniere, a quelle d’oltralpe soprattutto. Non dobbiamo dimenticare, infat- ti, che la Rivoluzione francese con la sua appendice napoleonica fu portatrice di nuovi ed alti ideali cui forse essa stessa non fu fedele e con cui non fu coerente – si pensi solo alla proclamazione della libertà e dell’uguaglianza ed alla violenta persecuzione della religione e della Chiesa – ma che certamente furono un punto di riferimento e di speranza, qualcosa che scosse le antiche tradizio- ni e gli antichi costumi e che costrinse tutto l’Occidente a percor- rere sentieri nuovi, dei quali solo in questi recenti decenni abbia- mo visto la fine. Gli ideali dell’illuminismo e della rivoluzione ci hanno condotti sul sentiero della montagna di cui abbiamo in questi anni visto la cima, per accorgerci che oltre c’è un altro monte da salire; che la vetta è ancora lontana. Proprio per questa attenzione alle voci nuove e di rinnovamen- to – che furono non solo quelle rivoluzionarie e francesi, ma anche quelle dell’imperatrice Maria Teresa e di suo figlio Giuseppe II – la Chiesa ambrosiana si affacciò all’Ottocento molto attenta alla di- gnità dell’uomo ed alla catechesi, che è il luogo in cui l’uomo, sco- prendo il disegno di Dio, ne intuisce il progetto su di sé: una vera catechesi, svelando il volto di Dio all’uomo, permette di cogliere lo stesso volto dell’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio.

Il ritorno austriaco in diocesi: primo momento a) Il vescovo e le sue vicende: Carlo Gaetano Gaisruck (1818-1846)

Il secondo momento della nostra riflessione si incentra sul suc- cessore del cardinale Montecuccoli Caprara, Gaetano Gaisruck (1818- 1846), di origini austriache, ma che realizzò un’autonomia intelligen- te nei confronti del governo austriaco, riuscendo a farsi amare dalla diocesi ambrosiana, anche se il suo episcopato venne a concludersi quasi a ridosso degli anni più intensi del Risorgimento italiano 17.

17 MARCO PIPPIONE, L’età di Gaisruck, NED, Milano 1984; ID., Gaisruck Car- lo Gaetano, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. II, NED, Milano 1988, pp. 1303-1307.

66 Conviene una premessa. Gaisruck fu eletto dopo otto anni di sede vacante: Caprara era morto il 21 giugno 1810 ed egli fu eletto dall’imperatore il 16 marzo 1818 e fece il suo ingresso il 26 luglio dello stesso anno. Nei lunghi anni di sede vacante la diocesi fu amministrata dal vicario capitolare, mons. Carlo Sozzi, che dovette limitarsi alla ge- stione corrente; non poté attuare particolari iniziative. In partico- lare egli non poté agire contro il clero vagante per l’Europa, ac- cresciutosi di numero dopo le secolarizzazioni e le soppressioni degli ordini religiosi; un clero non sempre obbediente né zelante. Si pensi in particolare ai riflessi che questa assenza del vescovo determinò nella vita parrocchiale: molte parrocchie non ebbero un pastore legittimo. Ma, contro ogni pessimismo, si ricordi che tra il clero disperso c’erano anche i preti oblati, che assunsero la cura di molte parrocchie, in attesa che tornasse la normalità giuri- dica ed amministrativa. Essi si resero disponibili ad incarichi che non garantivano sicurezza né prebende, ma li esponevano all’al- lontanamento nel momento stesso in cui fosse stato nominato il legittimo titolare. Erano, in altre parole, preti che vivevano aven- do di mira il primato della pastorale, accettando la precarietà come compagna di vita. Col tempo, durante quel secolo travagliato, di- venteranno una nuova famiglia della Congregazione degli Oblati, quella degli Oblati Vicari, giuridicamente costituita nel 1875. Que- sti preti fanno riferimento ai loro confratelli cui è ancora permes- so di esistere, ai missionari di Rho – ricostituiti da Gaisruck nel 1839 – e, potremmo dire, ne diffondono lo spirito a livello parroc- chiale, locale: primato della formazione (e, dunque, attenzione alla cultura); cura della catechesi e della confessione (intesa come di- rezione spirituale); cura della regolare vita spirituale, secondo il modello gesuitico. Certo, non possiamo né dobbiamo pretendere che abbiano proposto stili o pratiche diversi da quelli diffusi nel loro tempo: essi però non temettero di annunciare con fedeltà e coraggio il Vangelo, pur vivendo in condizioni difficili, quasi da terra di missione. L’arcivescovo Gaisruck si rese conto di questa situazione e non a caso, come si disse, «evangelizzare fu il suo ideale». Lo fece pri- ma di tutto rinnovando profondamente le strutture e la metodolo-

67 gia educativa del seminario: concentrò, infatti, gli alunni in tre grandi sedi – San Pietro a Seveso per i ginnasiali, Monza per i liceali, Milano per i teologi – e propose il programma di studi delle scuole di Stato e delle facoltà teologiche austriache. Il risultato della riforma fu un clero di alto profilo culturale e contemporane- amente fedele alle sue tradizioni spirituali: non a caso Gaisruck aveva assunto come secondo nome quello di Carlo, il suo più fa- moso predecessore. Per conoscere lo spirito di questo vescovo, si potrebbe leggere quanto egli raccomandò ai seminaristi in uno dei suoi primi mes- saggi (15 gennaio 1819):

Percorrendo voi la carriera che conduce nel Santuario, è d’uopo che, sin dai teneri anni, usiate la massima sollecitudine nell’adornarvi d’ogni virtù, affinché siate un qualche giorno ministri di quel Dio che è la stessa Santità, e la luce delle vostre buone opere, risplendendo agli occhi de’ fedeli, ne sia glorificato il Padre celeste. La religione, la pietà, lo studio debbono formare le vostre delizie, memori che, fatti sacerdoti, dovete essere i modelli ed i maestri dei popoli, che alle vostre cure saranno affidati. Se non crescerete nella pietà e nella dot- trina, che sono i due fini principali per cui siete educati nei seminari, sarete piante sterili ed infruttuose, e voi ben sapete che il buon agri- coltore leva dal suo campo le piante che occupano inutilmente il ter- reno 18.

Il desiderio di Gaisruck e del suo tempo era che attraverso il seminario crescesse un prete colto, aperto alle scienze, anche quelle profane, che lo rendessero capace di dialogare e consi- gliare i suoi parrocchiani non solo nel campo spirituale ma an- che in quello delle attività quotidiane, del lavoro, fosse quello dei campi, della semina, degli incroci botanici o dell’allevamen- to dei bachi da seta: tutto era funzionale a fare uscire il prete dalla canonica. O, se vogliamo, a rinnovare quella caratteristica ambrosiana, già indicata, che era la vicinanza dei preti alla loro gente, vicinanza anche fisica, abitativa. Lo apprezzò anche An-

18 Archivio Storico Arcidiocesi di Milano, Sezione XIV, Manoscritti, 241.

68 tonio Rosmini, che proprio in quegli anni soggiornò a Milano: «Questa città – egli scrive – mi piace appunto sopra quante ne vidi, nell’essere, cioè, singolarmente divota e di una divozione so- lida e direi quasi robusta. Dappertutto si vedono le grandi opere di san Carlo, non solo ne’ sontuosi edifizi, di cui ha abbellito l’este- riore della città, ma (quello che è più) ne’ grandi e magnifici senti- menti sparsi nel popolo suo e nel suo clero e tramandati, quale eredità preziosissima, di padre in figlio, co’ quali sentimenti subli- mi ha edificato una città interiore, ha eretto magnifici edifizi nella celeste Gerusalemme» 19. E questo è l’elogio fatto – non è certo un caso – da un martire d’eccezione, don Enrico Tazzoli, uno dei martiri di Belfiore, chia- mato da Radetzky ad esprimere una valutazione comparativa tra il clero lombardo e quello veneto:

Il clero lombardo tiene conto degli insegnamenti di san Paolo che vuole ragionevole il nostro ossequio [...] si antepongono i suggeri- menti della ragione agli aforismi delle scuole e alle opinioni dettate dai Dottori, e di ogni verità si ricerca il carattere persuadente e l’applicabilità agli studi della vita [...] Così il clero lombardo rag- giunse una coltura che gli ha guadagnato la stima e l’amore del popo- lo; la sua parola non è sdegnata nemmeno dalle menti più distinte tra i laici ed intimi legami si sono messi tra i due ordini. Questa intimità importa che i preti conoscano a fondo i bisogni del popolo e i gemiti che egli emette. Qual meraviglia che essi vi prendano parte e se ne addolorino e facciano voti perché la pubblica cosa migliori? 20.

È il prete che entusiasmò gli animi più aperti dell’Ottocento e che creò, o mantenne, intorno al clero ed alla Chiesa quel consen- so e quella stima che permisero di attraversare un secolo turbino- so. È l’ideale di prete che amo sempre descrivere attraverso una bella citazione di Alessandro Manzoni (1807-1881) nelle sue Os- servazioni sulla morale cattolica:

19 Ma si legga il testo completo in PIETRO RUSCONI, Rosmini a Milano, Cogliati, Milano 1897, p. 8. 20 Ibid., p. 456.

69 Sì, ci sono dei preti che disprezzano quelle ricchezze delle quali annunziano la vanità e il pericolo: dei preti che avrebbero orrore di ricevere i doni del povero, e che si spogliano invece per soccorrerlo; che ricevono dal ricco con un nobile pudore, e con un interno senso di ripugnanza e, stendendo la mano, si consolano solo col pensare che presto l’apriranno per rimettere al povero quella moneta che è tanto lungi dal compensare agli occhi loro un ministero, il quale non ha altro prezzo degno che la carità. Essi passano in mezzo al mondo, e sentono i suoi scherni sull’ingordigia dei preti; li sentono, e potreb- bero alzare la voce e mostrare le loro mani pure, e il loro cuore de- sideroso solamente di quel tesoro che la ruggine non consuma (Mt 6, 20), avaro solo della salvezza dei loro fratelli; ma tacciono, ma divo- rano le beffe del mondo, ma si rallegrano di essere fatti degni di patire contumelia per il nome di Cristo (At 5,41) 21.

Un’altra cosa ci preme dire: questo ideale di alto profilo – così lo abbiamo indicato – fu perseguito affidando la formazione dei giovani seminaristi ad uomini degni ed eminenti per intelligenza e virtù. Basterebbe citare tre campioni di quegli anni: Giovanni Bat- tista Vegezzi (1789-1858), che propose un intelligente rinnova- mento della teologia morale; Nazaro Vitali (1806-1886), che ag- giornò gli studi filosofici e che, trasferito alla vita parrocchiale, contribuì al deciso rinnovamento della pastorale diocesana: a lui dobbiamo non solo la nuova filosofia del seminario, ma anche le scuole serali, per i ragazzi poveri, cui abbiamo accennato sopra. Terzo viene Luigi Biraghi, insegnante (1824-1833) e direttore spi- rituale (1833-1848) nonché fondatore delle suore Marcelline, de- dite in modo specifico alla formazione ed all’insegnamento delle ragazze di buona famiglia, ma della cui formazione ci si preoccu- pava poco 22. Biraghi intuì che la trasformazione della società sa-

21 ALESSANDRO MANZONI, Osservazioni sulla morale cattolica, SEI, Torino 1919, p. 274. 22 È difficile riassumere la bibliografia su Biraghi. Ricordiamo CARLO CASTI- GLIONI, Luigi Nazari dei Conti di Calabiana Arcivescovo di Milano e i suoi tempi (1859-1893), Ancora, Milano 1942, p. 179. Rimandando alla scheda bibliografi- ca di ANTONIO RIMOLDI, “Mons. Luigi Biraghi”, in «Civiltà Ambrosiana», 5 (1988), pp. 303-304, tra le opere più recenti scegliamo: MARY FERRAGATTA, Monsignor Luigi Biraghi Fondatore delle Marcelline, Queriniana, Brescia 1979, con una nota

70 rebbe passata per la famiglia e che occorreva formare ragazze con- vinte della loro fede e ricche di virtù, perché fossero un giorno madri cristiane, capaci di trasmettere le loro virtù (cristiane) ai loro figli e di irradiarle in famiglia, sugli stessi mariti. Era in fondo uno zelo missionario, se si tiene conto della diffi- cile situazione sociale. Lo stesso incitamento ad osare, a non rima- nere chiusi nelle sacrestie come ancorati a tempi definitivamente fuggiti, lo guidò nella formazione dei seminaristi. Basti, al riguar- do, citare un passo del suo Saluto ai giovani ormai prossimi alla loro ordinazione presbiterale:

La dottrina, la sapienza, la verità sono affidate a voi, a voi commessi i misteri del regno e le vostre labbra custodiranno la scienza e la dif- fonderanno in nome di Dio sui popoli. E tale è la grazia conceduta alle vostre labbra che alla parola vostra obbedirà Dio, si aprirà il cie- lo, si chiuderà l’inferno. Si diffonderanno tutte intorno le grazie sul popolo fedele, tanto che si potrà dire anche di voi in senso spirituale: chi è costui che comanda al mare e i venti obbediscono a lui? [...] Combattete, ma non per levare alto la vostra fortuna, non per pro- cacciarvi preminenze fastose, non a far valere capricci o private sod- disfazioni, sì bene per la verità e la giustizia. Tal è la guerra del Sacer- dote: combattere a favore della verità e della giustizia per mezzo del- la verità, per virtù di sofferenze, vincere colla mansuetudine, trionfa- re colla pazienza, venir ad avere corona col patire. Le nostre armi sono la parola di Dio, le lagrime e l’orazione e la nostra gloria la croce di Gesù Cristo e tutta la nostra scienza e provvisione: Gesù e Gesù Crocifisso [...] Il sacerdozio non è stato di ozio, ma di fatica, non officio di comparsa, ma impegno di occupazione, non tanto divisa di gloria, quanto onore di travaglio. Con quei mezzi che sembrano i più disutili al mondo: e appunto modo mirabile è quello di vincere col patire. [...] Fate cuore adunque e rinfrancatevi ed escite pure fuori bibliografica ampia ed aggiornata; “Nel primo Centenario della morte del Servo di Dio Mons. Luigi Biraghi”, numero unico di «Conoscerci. Periodico dell’Isti- tuto Internazionale delle Suore di Santa Marcellina, dicembre 1979», Milano 1979; ANTONIO RIMOLDI, “Mons. Luigi Biraghi (1801-1879) educatore delle gio- vani della borghesia milanese”, in «Studi e Fonti di Storia Lombarda. Quaderni Milanesi» 6 (1986) pp. 32-58; GIOVANNI SPINELLI, Biraghi Luigi, in Bibliotheca Sanctorum. Prima Appendice, Città Nuova, Roma 1987, pp. 185-186.

71 nel campo del mondo: giacché il sacerdozio si esercita nel mondo [...] Solo vi ricordi che virga aequitatis virga regni tui. Il vostro potere è tutto di conciliazione, di pace: regit qui corrigit, Sacerdos qui santifi- cat. Ma come sarete voi reggitori di equità? Santificatevi. [...] Tutto santo è un tanto ministero. E santo deve essere un tale ministro. Tan- to più idoneo sarà ad intercedere pel popolo quanto più sarà egli santo. [...] Sacerdozio è cosa sacra e cosa sacra e cosa santa è poi la medesima cosa 23.

Come si noterà, il perno del discorso, la sua chiave di volta era la santità: non c’è altra parola adeguata a dare la sintesi del mini- stero sacerdotale e della stessa vita cristiana battesimale. Un altro aspetto della formazione di Luigi Biraghi deve essere indicato. Già nel 1839 don Biraghi, direttore spirituale, aveva pen- sato ad un seminario missionario o meglio un «istituto di sacerdo- ti, i quali si dedicherebbero alle missioni tra gli infedeli». Dal 1845, poi, erano diventate regolari le visite dei seminaristi – almeno di alcuni gruppi – alla certosa di Pavia, dove abitava padre Lorenzo Marcello Supriès, missionario delle Missioni Estere di Parigi in India: ne ascoltavano i racconti e ne raccoglievano l’ancora indo- mito desiderio di missione. Il frutto di questi formatori fu un clero che non temo di defini- re eccezionale e che vorrei presentare anche solo a mo’ di carrellata secondo il criterio cronologico. Quali furono, dunque, i discepoli di don Luigi Biraghi? Il primo è don Giuseppe Marinoni (1810-1891), cui dobbia- mo il vero radicarsi dell’Istituto per le Missioni Estere 24. C’è poi padre Luigi Villoresi (1814-1883), divenuto barnabita e fondatore dell’Oratorio Villoresi, una delle più preziose realtà ambrosiane del XIX secolo 25. Seguono Giuseppe Spreafico (1817-1882), ca- techeta e fondatore delle Scuole notturne di carità, Biagio Verri

23 Archivio Generale delle Suore Marcelline, Milano, Autografi, 4b e 8. 24 PIERO GHEDDO, Marinoni Giuseppe, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. IV, NED, Milano 1990, pp. 2075-2077. 25 ANGELO RECALCATI, Un educatore del clero ambrosiano: Padre Luigi M. Villoresi (= Archivio Ambrosiano 47), NED, Milano 1983; ID., Villoresi, Luigi Maria, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. VI, NED, Milano 1993, pp. 3917-3919.

72 (1819-1884), fondatore dell’Opera per il riscatto delle morette 26, Serafino Allievi (1819-1891), animatore degli oratori San Carlo, San Luigi e del loro primo Regolamento, che vale la pena leggere in qualche passo per cogliere l’animo di un prete, esempio di co- m’erano moltissimi altri:

S’accorgono i tristi che bisogna seguire la gioventù e questa non poten- do avere tutta in massa perché la maggior parte applicata a mestieri, così prende quella che può nelle scuole. Quindi esclusi i preti ed i parrochi dalle scuole, una smorfia di catechismo insegna il maestro, talvolta valdese o peggio e corrompe il senso morale. Qualche rimedio a tanto danno si può opporre attivando gli oratori feriali degli studenti. In essi, aiutandoli al disimpegno degli scolastici doveri, e dando loro tempi di sollazzarsi si può ottenere molto assai massime coi ginnasiali. S’istruiscono nella dottrina, si premuniscono contro gli errori, si di- spongono a ricevere i Sacramenti, si tengono lontani dagli scandali che trovano scioperandosi per le strade fuori città. [...] È da questa istitu- zione che nacquero tante vocazioni al sacerdozio, alla vita religiosa e che nasceranno ancora se Iddio inspirerà qualche pio opulento a farsi protettore. [...] L’opera del tanto benemerito don Bosco di Torino nac- que da questi principii ed ha questo fine, salvare gli studenti e coltivare le vocazioni. Quanti poveri giovanetti hanno talento e virtù e devono dire piangendo hominem non habeo! 27.

C’è, poi, Giovanni Battista Avignone (1821-1864), patriota ed autore di un appassionato Appello al papa e al clero per sollecitare ad abbracciare con entusiasmo la causa dell’unità nazionale, ri- nunciando al potere temporale:

Lasciate, lasciate ch’egli [il potere temporale] muoia, e trascini con sé la causa di tanti disastri: appigliatevi lealmente, seriamente alla

26 CARLO CASTIGLIONI, Luigi Nazari dei Conti di Calabiana Arcivescovo di Mila- no e i suoi tempi (1859-1893), Ancora, Milano 1942, pp. 181-182; ID., Candidati lombardi alla gloria degli altari, in Memorie Storiche della Diocesi di Milano, vol. IV, Biblioteca Ambrosiana, Milano 1957, pp. 22-33; CARLO CAMINADA, Don Biagio Verri, apostolo delle Morette, Varese 1951; PIETRO GINI, Verri Biagio, in Bibliotheca Sanctorum. Prima Appendice, Città Nuova, Roma 1987, pp. 1429-1430.

27 Archivio Storico della Diocesi di Milano, CU 518.

73 libertà: appigliatevi solo a voi stessi e a Dio, e troverete d’esser più forti di quello che vi reputaste sinora: lasciate la politica, appoggiate- vi alla croce e non alla spada, benedite l’Italia e la libertà, e i trionfi della Chiesa veramente incominceranno. O vegliardo che posi in Va- ticano, non a caso Iddio ha protetto così a lungo il corso dei tuoi giorni: tu colla tua amnistia desti il primo impulso alla risurrezione d’Italia; compila ora con la tua Benedizione! [...] Benedici la caduta di quel potere, che, malgrado opposte apparenze, fu l’alleato che com- promise la forza e il trionfo della Chiesa; benedici col regno della libertà l’avvenimento che prepara il risveglio della forza morale della sposa di Gesù Cristo e con esso la ripresa delle antiche conquiste 28.

Dovremmo poi ricordare Giulio Tarra (1832-1889), fondatore dell’Istituto per i sordomuti, che ispirò la sua infaticabile opera ad un principio elaborato ancora da seminarista: «Io farò il missiona- rio dei poveri selvaggi della mia patria, perché Dio me li conse- gna» 29. Dovremmo anche ricordare Carlo Salerio (1827-1870), uno dei primi missionari dell’Istituto Missioni Estere, partito con il beato Giovanni Mazzucconi e tornato sfiancato in Italia, sfiancato ma indo- mito, per cui fondò la Casa di Nazareth, un’unione di pie signore dedite alla rieducazione delle giovani sordomute o «pericolanti» 30.

28 GIOVANNI BATTISTA AVIGNONE, La Chiesa senza il potere temporale, Milano 1870. Sull’Avignone è fondamentale ormai la voce di FRANCESCO TRANIELLO, Avignone, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. IV, Fondazione Treccani, Roma 1962, pp. 679-681. Ad illustrare con sintesi precisa gli articoli dell’Avignone su «Il Conciliatore», vedi MICHELE BERTAZZOLI, “I conciliatoristi milanesi e il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa nel 1860-1861”, in «La Scuola Cattoli- ca», 90 (1962), pp. 307-330; ID., “I riformisti milanesi del Carroccio (1863-1864)”, in «La Scuola Cattolica», 92 (1964), pp. 123-153. 29 ANGELO RECALCATI, Tarra, Giulio, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. VI, NED, Milano 1993, 3632-3633. 30 LUIGI PEDRAGLIO, Il Padre Carlo Salerio, PIME, Milano 1923; GIOVANNI BATTISTA TRAGELLA, Carlo Salerio Apostolo della fede e della «Riparazione». 1827- 1870, Istituto della Riparazione - PIME, Milano 1947; VITTORIA PAPA, La Casa di Nazareth per la rieducazione delle giovani di Padre Carlo Salerio, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 25-35; GRAZIELLA CAUZZI, Salerio, Carlo, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. V, NED, Milano 1992, pp. 3159-3160.

74 Tutte queste figure non possono che farci riflettere: c’è nel cle- ro milanese una forte sensibilità alla dimensione missionaria, lega- ta certamente al movimento transalpino, di cui fu espressione l’Opera della Propagazione della Fede, fondata a Lione nel 1822 da una laica, Pauline Jaricot 31. Non possiamo, dunque, parlare del clero senza considerare l’importanza del laicato. b) Quale tipo di laico emerge?

Accanto a simili preti trovarono spazio sempre maggiore ed offrirono collaborazione sempre più cordiale i laici. Non parliamo solo di quel laicato parrocchiale cui forse siamo abituati a pensare oggi, ma soprattutto di quel laicato appartenente alle classi diri- genti, alla nobiltà, alla grande imprenditoria milanese, che profes- sava con sincerità e con entusiasmo la sua fede e che adoperò le sue ingenti sostanze per sostenere le nuove forme di pastorale, soprattutto nel campo educativo giovanile, cui abbiamo già ac- cennato. A uomini come il conte Giacomo Mellerio (1777-1847) 32

31 La Jaricot nel 1822 fondò a Lione l’associazione Propagazione della Fede, che si diffuse rapidamente in Europa e nelle Americhe, favorita dal carattere popo- lare della proposta: si invitava a dare un «soldino settimanale alle missioni»; si proponeva il rosario comunitario (allora si diceva: vivente) con intenzione missio- naria; si diffondevano attraverso le zelatrici i bollettini missionari, come «Lettere edificanti e curiose» (fr.: «Choix des Lettres edifiantes et curieuses») dei missiona- ri gesuiti di Parigi, e gli «Annali della propagazione della fede» (fr.: «Annales de l’Association de la Propagation de la Foi»), fondate nello stesso anno e tradotte in italiano dal 1828, sino a che nel 1868 fu fondato il settimanale «Les Missions Catholiques». L’Italia stessa ne fu contagiata e ne riprese le iniziative: a partire dal Congresso di Vienna sino al 1860 dal solo Regno di Sardegna erano partiti 600 missionari! Su Pauline Jaricot, la cui vita merita attenta considerazione: CECILIA GIACOVELLI, La donna delle due lampade, Roma 1999 (edizione fuori commercio).

32 GIAN FRANCO RADICE, Mellerio Giacomo, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. IV, NED, Milano 1990, pp. 2157-2160. Un estratto del suo testamento, che può illuminarci sulla sua generosità verso tutti gli oratori, ed in particolare quelli da lui fondati, è stato pubblicato in «Eco degli Oratori», 9 (1968), pp. 754–760.

75 dobbiamo non solo la prima casa delle Suore di Carità, le Canos- siane, a Milano, ma anche le sedi di alcuni prestigiosi oratori, qua- li il San Carlo ed il San Luigi. Accanto a lui potremmo ricordare un altro personaggio, questa volta nel campo accademico, Gabrio Piola (1794-1850) 33, che fu insieme illustre matematico-fisico – tanto che gli è dedicata una delle piazze e delle stazioni della me- tropolitana milanese – e prefetto dell’oratorio che guidò, con in- telligenza, sagacia e quel sano umorismo che è un prezioso cari- sma educativo. Ancora, Gabrio Casati (1798-1873), prefetto d’ora- torio, podestà di Milano e Ministro della Pubblica Istruzione ita- liana, cui dobbiamo una delle prime e fondamentali riforme della scuola del Regno d’Italia 34. c) Quale tipo di religioso emerge?

A indicare la vivacità della Chiesa ambrosiana in quegli anni, preziosi per lo stesso discorso della nascita dell’attuale Pontificio Istituto per le Missioni Estere, occorre accennare almeno meto- dologicamente alla preferenza data da Gaisruck agli istituti o con- gregazioni di vita attiva, quali i Fatebenefratelli ed i Barnabiti, mentre osteggiò la ricostituzione degli Oblati e il ritorno dei Ge- suiti, dei Francescani e dei Cappuccini. Appoggiò con simpatia, invece, la diffusione nella diocesi delle nuove fondazioni, spesso ancora quando esse erano appena agli inizi, ramoscelli teneri e fragili, come ad esempio le Canossiane o Serve dei Poveri – attual- mente Figlie della Carità –, nate nel 1808 e riconosciute nel 1828, ma già presenti a Milano nel 1823. O come le Suore di Maria Bam-

33 Dopo aver studiato matematica e fisica presso l’Università di Pavia, rifiutò la cattedra, che gli veniva offerta nella stessa università, per darsi alla ricerca ed all’insegnamento privato. Fu maestro di uomini illustri: tra essi si ricorda Fran- cesco Brioschi, fondatore del Politecnico di Milano. Su di lui recentemente: GIU- SEPPE BARZAGHI, “Gabrio Piola (1794-1850). Un cristiano impegnato per i tempi nuovi”, in «Civiltà Ambrosiana», 10 (1993) pp. 293-299. 34 LUIGI AMBROSOLI, Casati Gabrio, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XXI, 1978, pp. 244-249. Una più antica eppure completa biografia: ACHILLE MAURI, Conte Gabrio Casati, in Scritti biografici, Le Monnier, Firenze 1878, pp. 131-147.

76 bina o Suore di Carità, nate nel 1832 e già diffuse a Milano nel 1842. Ad esse potremmo aggiungere le Orsoline di San Carlo, ri- conosciute nel 1824, le Marcelline (1838) e l’Istituto del Buon Pa- store (1845), ecc. Il segnale che Gaisruck voleva dare era evidente ed è quello ben radicato oggi in ogni cristiano, e potremmo esprimerlo con una frase di papa Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica, Re- demptor hominis (4 marzo 1979): «L’uomo è la prima strada che la Chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della Chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’In- carnazione e della Redenzione» (n. 14). d) Seconda conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?

Possiamo affermare, dunque, che nel secondo momento della vita della Chiesa ambrosiana nell’Ottocento, quello caratterizzato dall’episcopato del cardinale Gaisruck e che copre buona parte della prima metà del secolo, si consolidò fortemente l’apporto laicale; maturò una Chiesa fortemente capace di dialogo interno, insieme gelosa della sua autonomia dal potere imperiale e molto aperta alle sollecitazioni del rinnovamento, sia quello missionario d’oltralpe, sia quello originato dalla forte sensibilità romantica e dallo storicismo, che ricercava le origini del proprio risorgimento e spingeva, pertanto, a sottolineare gli elementi propri della Chie- sa ambrosiana, vista come parte della Chiesa cattolica, che trova- va il suo radicamento nel papato romano. Una Chiesa, quella ambrosiana, che riscopriva – trasformava, attualizzava – la dimensione della carità, sia attraverso le scelte di nuovi ordini religiosi, sia attraverso l’insistita proposta di un prete che fosse amico e conoscente di tutti, consigliere agricolo in cam- pagna e dotto professore in città, capace di suscitare strutture ri- spondenti ai bisogni, quelli dei poveri soprattutto, per promuove- re la dignità dell’uomo. In questo stile si vede anche un’antropologia: ogni essere uma- no è degno di stima; tutti siamo fratelli e sorelle, per la comune

77 origine divina ed il comune battesimo, per cui non c’è nessuno che possa ritenersi superiore all’altro; a tutti deve essere data la possibilità di riuscire, di trafficare – parlando evangelicamente – i talenti ricevuti da Dio. Nella Chiesa dell’Ottocento c’erano, dun- que, fermenti di progresso sociale molto più numerosi e vivaci di quanto sia affermato dalla pubblicistica comune. E forse più di quanto noi stessi credenti e figli di questa Chiesa sappiamo. Un fermento di progresso e di attenzione all’essere umano che si co- niugava con lo spirito tipico dell’Ottocento, avventuroso, ricerca- tore, romantico e con quello che è il patrimonio genetico insito nella stessa natura dell’uomo, la carità, quella che lo fa essere simi- le a Dio, il suo creatore.

Il ritorno austriaco in diocesi: secondo momento a) Il vescovo e le sue vicende: Bartolomeo Carlo Romilli (1847-1859)

Il terzo momento del nostro cammino è segnato dal nuovo arcivescovo, Bartolomeo Carlo Romilli 35. Egli era atteso come il ritorno di un italiano: era il segno delle aspirazioni all’unità na- zionale, ormai incontenibili. Il segno fu l’entusiasmo della popo- lazione alla notizia della nomina: Cesare Cantù scrisse che «si giu- bilò come d’un trionfo nazionale» 36. Purtroppo tanta attesa susci- tò la reazione sospettosa del governo austriaco e la tensione dege- nerò proprio in occasione del suo ingresso in diocesi (8 settembre 1847). La polizia cercò di disperdere un gruppo di giovani che in piazza del duomo si era messo a cantare l’inno di Pio IX: sul terre- no rimase una vittima. Il peggio, comunque, si ebbe il giorno se- guente, quando si dovevano svolgere i funerali: la truppa disperse la folla e requisì la bara, che fu sotterrata nottetempo. Erano solo i prodromi di quanto si verificò nella primavera seguente, le famo- se «Cinque giornate» di Milano (18-22 marzo 1848). Esse videro

35 LAURA VANZULLI, Bartolomeo Carlo Romilli arcivescovo di Milano. Un pro- filo politico-religioso (1847-1859), NED, Milano 1997. 36 CESARE CANTÙ, Storia del popolo e pel popolo, Agnelli, Milano 1871, pp. 325.

78 in prima linea anche la comunità cristiana. Anche il seminario, o meglio i suoi giovani ed entusiasti seminaristi. È noto che la più resistente delle barricate opposte alle truppe austriache, quella che bloccò l’attuale corso Venezia, fu costruita dai seminaristi teologi usando le panche della loro cappella. Purtroppo fu un seminari- sta, Giambattista Zaffaroni, a colpire a morte il primo soldato au- striaco, cui aveva strappato il fucile. Non è certo cosa di cui un prete, o chi si prepara ad esserlo, debba gloriarsi, ma esprime an- cora una volta il coinvolgimento profondo del clero ambrosiano con la vita dei propri fratelli. E, in effetti, nei giorni seguenti l’ope- ra dei seminaristi si concentrò nel rifocillare i combattenti e nel costruire i famosi palloni aerostatici (progettati dal chierico Anto- nio Stoppani), che permisero alla città presidiata di comunicare con i paesi vicini e, così, favorire il diffondersi dell’insurrezione nella Brianza e nella zona di Como. Tra questi seminaristi merita- no un ricordo Carlo Salerio e Giovanni Mazzucconi: nell’amore di patria e nella carità verso i feriti, maturarono la loro coscienza ad un servizio generoso, senza paura delle difficoltà. In questi frangenti, non c’era molto spazio per le novità. Piut- tosto si determinarono situazioni di ulteriore controllo e pressio- ne da parte del governo austriaco. Romilli cercò di custodire le tradizioni della Chiesa ambrosiana e di rispettare i decreti del go- verno. Così costituì una Consulta ecclesiastica, una specie di pic- colo consiglio episcopale, della quale fecero parte in particolare Giovanni Battista Vegezzi e Luigi Biraghi: tramite i loro consigli egli riuscì a custodire quello spirito che abbiamo descritto sopra. Il prezzo da pagare al governo, comunque, fu alto. Egli dovette ricostituire gli Oblati diocesani (1853) e affidare loro la conduzio- ne del seminario, con lo scopo dichiarato di «combattere i nemici della Chiesa». Non era certo un bel biglietto di presentazione per la stessa congregazione degli Oblati, e da allora essa fu circondata da sospetto e da critiche. D’altra parte il primo compito che do- vette assolvere fu una pratica epurazione del seminario (1854): 13 professori furono allontanati, anche se l’arcivescovo Romilli fece in modo di dare loro importanti destinazioni. Questa ricerca di unità e di rispetto delle diverse modalità di pensiero spinse Romil- li e con lui i vescovi lombardi a custodire e privilegiare il legame

79 con la Santa Sede, accogliendone le sollecitazioni. Forse era un modo di sottrarsi autorevolmente alle pressioni austriache; forse era un modo di coordinare le forze dell’episcopato lombardo in modo da realizzare a livello ecclesiale quello che si stava verifican- do a livello politico. Sta di fatto che proprio all’interno di questa polarità si può collocare la nascita dell’Istituto per le Missioni Este- re. Mi sembra che lo illustri sufficientemente la proposta di alcu- ne Massime e norme per l’Istituto delle Missioni Estere, inviata ai vescovi lombardi e da essi approvata temporaneamente in attesa del giudizio di Propaganda Fide. In essa si leggono le seguenti pa- role, che sembrano anticipare lo spirito missionario del Concilio Vaticano II:

L’arcivescovo di Milano e i Vescovi Comprovinciali, non trattenuti dal timore di perdere qualche soggetto ai bisogni della Diocesi; con- siderato il compenso che devono attendere le loro Chiese dal Signo- re; considerando che gli splendidi esempi di distacco e di sacrificio sono atti più che altro a svegliare la fede e possono rendere fruttuoso alla diocesi non meno il Missionario, il quale parte per un altro emi- sfero, che il Sacerdote rimasto ad operare fra i suoi; che anzi, spin- gendo in alcuni individui la vocazione ecclesiastica al suo pieno svi- luppo, viensi a suscitarla e meglio maturarla in altri; ma più di tutto considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dilatazione della Chiesa universale, e che ciascuna diocesi è in qualche modo tenuta a fornire per questo intento il suo contingente di milizia apo- stolica, pensarono di dover favorire e tener cura delle vocazioni al ministero delle Estere Missioni con non minor zelo di quello che usi- no per la buona educazione del Clero destinato alla diocesi.

Da allora il volto della Chiesa ambrosiana cambiò. E forse si complicò, almeno al momento: si creavano nuovi modelli di for- mazione presbiterale; si acuiva l’anelito a non rimanere chiusi nell’hortus conclusus della parrocchia tradizionale; si cominciava con radicalità maggiore a pensare in termini di Chiesa universale, appunto cattolica, e ci si liberava così dalla mentalità della colla- borazione tra trono ed altare, che di fatto era sudditanza del se- condo al primo. Ma rimanevano le persone formatesi ad altre scuo- le; educate ad un’altra pastorale; forse lente ad accettare che il

80 «dare a Cesare» ed il «dare a Dio» non chiedevano che ci fosse sempre sintonia tra le due realtà, e che il Vangelo non si proclama con l’appoggio dello Stato e delle sue strutture ma con la forza ad esso interna. Il Concilio Vaticano II ce lo ha richiamato e papa Giovanni Paolo II lo ha proposto nel cammino di preparazione al Grande Giubileo del 2000: «La verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insie- me con vigore» 37. Su tutte queste aspirazioni venne a calare il colpo apoplettico che colpì l’arcivescovo Romilli il 21 dicembre 1857 e che lo co- strinse ad affidare la conduzione della diocesi al suo fidato vicario generale, mons. Paolo Angelo Ballerini, sino a che non venne a morte il 7 maggio 1859. Il momento era politicamente drammati- co, poiché si era nel pieno della seconda guerra d’indipendenza. Il vicario generale e con lui la diocesi pagarono un prezzo elevato. b) Un vescovo mancato: Paolo Angelo Ballerini (1859-1867)

Il 7 giugno 1859, tre giorni dopo la battaglia di Magenta, Fran- cesco Giuseppe usò del suo diritto di nomina per indicare al papa il proprio candidato alla sede arcivescovile di Milano: Paolo An- gelo Ballerini 38. Era l’ultimo suo gesto di autorità sulla Lombar- dia, poiché il giorno dopo (8 giugno) Napoleone III e Vittorio Emanuele II entravano solennemente in Milano, accolti dall’entu- siasmo della popolazione che con un rapido plebiscito votò l’an- nessione al Regno di Sardegna, primo nucleo del Regno d’Italia che si andò costituendo in pochi mesi. Sarebbe stato prudente non confermare la designazione impe- riale, ma Pio IX era rispettoso del diritto e, poiché la nuova situa- zione territoriale della Lombardia fu decisa solo l’11 luglio con l’ar- mistizio di Villafranca, confermò la nomina del nuovo arcivescovo

37 CONC. ECUM VAT. II, Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, n. 1; GIOVANNI PAOLO II, Lett. Ap. Tertio millennio adveniente, n. 35. 38 CARLO CATTANEO, Mons. Paolo Angelo Ballerini. L’uomo e il Vescovo in documenti inediti, NED, Milano 1988.

81 nel concistoro del 20 giugno 1859. Forse c’era stata un poco di fret- ta da parte del papa; forse si inanellarono quelle coincidenze, che sembrano fatte apposta per creare danni, come ad esempio il fatto che il concistoro fosse già fissato e che non conveniva ritardare ulte- riormente la nomina di un pastore per Milano, proprio a causa della difficile situazione politica. Sta di fatto che il nuovo governo italia- no non accettò – come avrebbe potuto? – il fatto compiuto e affer- mò che gli competevano i diritti, anche quelli ecclesiastici, del pre- cedente governo austriaco. Forse non era tanto la persona di Balle- rini che non era gradita: era il desiderio di esercitare un diritto che si riteneva violato; forse il governo italiano avrebbe accettato Balle- rini, se esso stesso avesse potuto indicarlo alla Santa Sede. Sta di fatto che il papa fu irremovibile e la situazione si aggra- vò quando Ballerini fu ordinato segretamente nella certosa di Pavia da un solo vescovo nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1859. Il go- verno lo ignorò e pretese che anche il capitolo metropolitano lo facesse, rifiutandosi – o meglio sottraendosi al momento opportu- no – di ricevere le bolle di nomina pontificie. Per superare l’impasse il capitolo, con il consenso del governo, e Ballerini nominarono un identico vicario, l’unico che fosse già vescovo e risiedesse in diocesi, mons. Carlo Caccia Dominioni, che resse la diocesi dal 1859 al 1866 39. Solo che il capitolo ed il governo lo ritenevano vicario capitolare poiché per loro la sede era vacante, mentre Ballerini lo guidava come suo generale, essendo per lui la sede impedita. C’è solo da immaginare come la situazio- ne pastorale potesse essere drammatica e continuamente tesa. Si

39 Per le tristi vicende di questo pover’uomo, vedi [LUIGI VITALI], Le piaghe della Chiesa milanese, Brigola, Milano 1863; CARLO BONACINA, Monsignor Carlo Caccia e i suoi tempi. Memorie storiche. 1802-1866, San Giuseppe, Milano 1906; CARLO CASTIGLIONI, Società ecclesiastica in Milano (1860-1863), in Memorie stori- che della diocesi di Milano, vol. IX, Biblioteca Ambrosiana, Milano 1962, pp. 9- 39; G. COLOMBO, La società ecclesiastica di Milano (1860-1862), in Ricerche stori- che sulla Chiesa ambrosiana (= Archivio Ambrosiano 21), vol. II, NED, Milano 1971, pp. 295-364; Ibid., (= Archivio Ambrosiano 23), vol. III, NED, Milano 1972, pp. 144-202; Il Capitolo Metropolitano e monsignor vicario Caccia vescovo di Famagosta, Brigola, Milano 1862; [DEMOFILO LOMBARDO], Il Seminario di Mi- lano e gli Oblati, Brigola, Milano 1862.

82 pensi ad esempio al rifiuto dei canonici di obbedire a Ballerini, che aveva ingiunto di non cantare il Te Deum per la festa dello Statuto (1861). Colpevole venne ritenuto il suo sfortunato vicario, che più volte fu convocato a Torino per chiarimenti e che alla fine si rifugiò, per sottrarsi alle angherie, nel Seminario Liceale di Monza, ove stette sino alla morte (1866). La situazione paradossa- le si trascinò fino al 1867: in questo anno – a causa del blocco delle nomine dei parroci – si contavano 150 parrocchie vacanti (su 775). c) Quale la situazione del clero?

Eppure non tutto fu negativo. Proprio in questi anni lo spirito conciliante di mons. Caccia Dominioni permise la nascita del Se- minario del Villoresi (1862) o Istituto dei Chierici Poveri. Esso nacque per intuizione e col permesso di mons. Caccia nel 1862, in seguito a un dialogo con il suo confessore, appunto padre Luigi Villoresi, che – lo abbiamo detto sopra – aveva studiato nel Semi- nario di Milano, prima di passare tra i Barnabiti, che lo destinaro- no a Monza. Qui – già nel 1845 – aveva fondato un oratorio per i giovani più poveri e abbandonati di Monza, andando e mandando a reclutare gli sbandati che trovava per le strade della città. Col tempo di trasformò ed accolse in modo permanente, a mo’ di un convitto, quei ragazzi poveri che aspiravano al sacerdozio ma non potevano frequentare il Seminario diocesano soprattutto per mo- tivi economici. Già nel 1863 diciannove ragazzi indossarono la veste talare e nel 1866 i chierici ammontavano a 162. Il suo suc- cesso era dovuto certamente alle novità educative sia nel campo culturale 40 sia in quello spirituale 41. La stessa vita quotidiana ave-

40 Al Villoresi si facevano sei ore di scuola ogni giorno della settimana (com- preso il giovedì) e due ore di scuola, più due di studio, nelle vacanze autunnali. 41 Presso il Seminario diocesano vigeva la netta separazione dei fori (discipli- na, studio, vita spirituale); all’Istituto di Monza, invece, padre Villoresi era ad un tempo rettore, confessore ed insegnante. Un solo esempio, la devozione eucaristica: per un villoresino la comunione quotidiana era normale, mentre nel Seminario teo- logico si praticava ogni quindici giorni e quella settimanale era appena tollerata.

83 va uno stile più familiare che non nel Seminario diocesano, forse anche i professori erano tutti volontari ed i ragazzi sapevano che avrebbero dovuto sostenere un esame d’ammissione al Seminario teologico. Certamente il clima era, però, reso più familiare dal coinvolgimento degli studenti. Essi, infatti, nel tempo libero dallo studio si dedicavano all’oratorio annesso all’istituto, organizzan- do giochi, rappresentazioni teatrali, concerti e concorsi musicali; si prestavano per il catechismo, la scuola elementare serale e quel- la festiva per gli adulti. Era un’ottima preparazione all’impegno pastorale, con un aspetto di missionarietà che non va sottovaluta- to e che spiega il motivo per cui padre Villoresi nel 1874 contattò, senza giungere però ad alcun risultato, mons. Marinoni, cofonda- tore dell’Istituto per le Missioni Estere di S. Calocero, per fonde- re (almeno giuridicamente) i due istituti. Come si vede, una forma di preparazione moderna, intelligen- te, provocante, missionaria, ma foriera di inevitabili attriti per i confronti tra i due modelli educativi – quello diocesano e quello villoresino – che accentuarono anche la tensione con la formazio- ne dell’Istituto per le Missioni Estere. Ci fu chi ritenne che si an- dasse delineando un’anarchia formativa; che si stesse perdendo la tipicità del prete ambrosiano. Si agitavano, infatti, diverse anime tra il clero ambrosiano: la più conciliatorista era definita spesso superficialmente come libe- rale. Essa si organizzò anche in un’associazione che avrebbe do- vuto favorire la riflessione all’interno del clero, facendo crescere un clima di fraternità e di comunione di intenti che anticipa per certi versi quella concezione di ordo presbiterorum che sarà limpi- damente proposta dal Concilio Vaticano II. Purtroppo, la Società Ecclesiastica – così si chiamava – e il giornale cui essa diede vita, «Il Conciliatore», ebbero vita breve (1860-1862) e furono sciolti d’autorità. Lo spirito, comunque, non può essere soffocato nep- pure dall’autorità: al massimo può ritardarne l’esplosione. A questo gruppo si contrapponevano quei preti che si trovava- no rappresentati dal quotidiano intransigente «L’Osservatore Cat- tolico» (1864). Illuminante circa la linea editoriale il motto che lo caratterizzò: «Col Papa e per il Papa». Esso era stato fondato con l’intenzione da una parte di aiutare a conoscere la vita della Chie-

84 sa e le sue novità, per colmare quello che già allora compariva come un tacito ostracismo a ciò che di religioso caratterizzava la società italiana; dall’altra parte intendeva anche nel nome porsi sul solco romano, sottolineare il legame con il papa, in quei mo- menti travagliati della storia ecclesiale, soprattutto italiana. Que- sta fedeltà al papa e questo taglio culturale spinsero inizialmente gli stessi vescovi lombardi a sostenere il giornale e a raccomandar- lo al clero, salvo poi prenderne le distanze quando prevalse il tono polemico ed intransigente che venne assumendo in particolare dal 1869, con l’arrivo in redazione di don Davide Albertario (1846- 1902) 42, uno dei più brillanti esponenti del giornalismo cattolico e tenace campione dell’intransigenza. Alla fine (1872) gli stessi fondatori del quotidiano, mons. Giuseppe Marinoni e don Felice Vittadini, si ritirarono, lasciando nelle mani di tre sacerdoti (Enri- co Massara, Davide Albertario, Carlo Locatelli) la direzione e la proprietà del giornale. Vale la pena annotare che a fondarlo fu colui che voleva rinno- vare la preparazione culturale del clero ambrosiano, in modo che fosse all’altezza dei tempi nuovi e colui che aveva preso sulle spal- le la pratica concretizzazione dell’Istituto per le Missioni Estere, che mons. Ramazzotti aveva dovuto lasciare proprio al momento della nascita per assumere l’episcopato di Pavia. Possiamo dun- que ritenere che «L’Osservatore Cattolico» si inscriva nello spirito missionario della diocesi, missione vista come impegno sia in pa- tria sia in terre lontane per difendere e diffondere il Vangelo e la

42 Dopo la voce stesa da Fonzi (FAUSTO FONZI, Albertario Davide, in Diziona- rio Bibliografico degli Italiani, vol. I, Treccani, Roma 1960, pp. 669-671, la nota bibliografica più aggiornata su Davide Albertario ci sembra quella di ALFREDO CANAVERO, Albertario e «L’Osservatore Cattolico», Studium, Roma 1988, pp. 255- 259. Ad essa si possono aggiungere gli articoli (tutti abbastanza puntuali) com- parsi successivamente: CARLO MARCORA, “L’Osservatore Cattolico: un’intransi- genza contestata”, in «Diocesi di Milano - Terra Ambrosiana» n. 2, 29 (1988), pp. 53-59; PIERANGELO GIOVANETTI, “L’‘Osservatore Cattolico’ di Milano: i per- ché del successo di un giornale cattolico”, in «Civiltà Ambrosiana», 6 (1989), pp. 99-110; ANGELO MAJO, “L’esilio napoletano di don Albertario in documenti inediti”, ibid., pp. 111-131; PAOLO LIZZI, “Un dissidio tra ‘confratelli’ intransi- genti: Milano e Roma a confronto”, ibid., pp. 132-142.

85 Chiesa. Un segno di questo scambio tra i due volti della missione si potrebbe ritrovare nel passo di una lettera di mons. Giuseppe Marinoni a mons. Luigi Biraghi (18-26 maggio - 6 giugno 1839):

Carissimo mio Padre in Cristo, [...] Il disegno che ella ha per la mente non è cosa di cui io possa giudicare: se io posso tuttavia dire quel che mi vien suggerito, in tanto bisogno che stanno le missioni estere di operai evangelici, con tante e sì proprie occasioni che il Signore presenta di esercitare fruttuosamente il santo ministero, mi parrebbe ottima cosa il consacrarsi nel ritiro, nell’orazione e nello studio a questa grande impresa della Propagazione della Fede. Parvuli petierunt panem et non fuit qui frangeret eis; specialmente ove si rifletta l’attitudine grande che ha lei così pei lunghi pellegri- naggi come pel farsi tutto a tutti e comunicare i doni della mente e del cuore ricevuti da Dio. Quando tale fosse il suo pensiero, ne troverebbe forse più preparata la via, perocché si sta concertando l’erezione di un ritiro per ecclesiastici che vogliono consacrarsi, lungi dagli impicci di famiglia, al ministero apostolico nelle parti cattoli- che, ed un Collegio di missioni per quelli che amassero di portare in paesi esteri la santa fede.

È, dunque, in questo contesto caratterizzato dall’incertezza nella guida della diocesi ed insieme dall’esperienza concreta di come fosse faticoso annunciare il Vangelo in Italia, ed in partico- lare in Lombardia, che forse si può capire da un lato come po- tesse trovare accoglienza tra i giovani preti l’idea di un istituto sacerdotale missionario e dall’altro lato il suo faticoso affermar- si. Da una parte, infatti, poteva essere normale pensare che ac- canto ai preti poveri, che uscivano dal Seminario del Villoresi, potessero esserci altri preti che sentivano il bisogno di puntua- lizzare con maggiore precisione il loro carisma pastorale, il loro modo di essere preti. La nascita degli Oblati Vicari che si va preparando in quegli stessi anni si inserirebbe in questo solco: nel desiderio di precisare tra le mille possibilità offerte il proprio desiderio di servizio del Vangelo e della Chiesa. Dall’altra parte proprio quel senso carolino o ambrosiano di prete, che abbiamo delineato sopra, e quel primato della parrocchia, così profonda- mente radicato nel clero ambrosiano, possono spiegare per qua-

86 le motivo non si ebbe mai più di un manipolo di candidati al- l’Istituto Missioni Estere: i bisogni erano molti ed urgenti anche a Milano, che appariva terra di missione capace di assorbire le energie generose, quando ci fossero. Una prova di questo sarebbero le altre figure di prete che po- tremmo presentare e che vanno affermandosi in questa seconda metà del secolo XIX. È ancora un clero profondamente dedito alla carità. Si pensi a mons. Luigi Vitali (1836-1919), che fondò l’Istituto per i ciechi, un monumentale complesso ancor oggi esi- stente 43. Si pensi a mons. Domenico Pogliani (1838-1921), fonda- tore dell’Ospizio Sacra Famiglia per gli Incurabili di Cesano Bosco- ne 44; a don Carlo San Martino (1844-1919) che, bruciato dal desi- derio di farsi missionario – pensò anch’egli di entrare nel PIME –, intuì che poteva esserlo qui tra i derelitti e, dopo aver retto il Ri- formatorio di Parabiago (popolato da 400 ragazzi), fondò l’Istitu- to per la Fanciullezza Abbandonata (o Figli della Provvidenza) per attuare un’educazione più mirata alle reali condizioni dei ra- gazzi 45. E, accanto a questi preti di frontiera, ancora una volta dovrem- mo ricordare i mille e mille dediti alla cura dei ragazzi e dei giova- ni negli oratori della città e della provincia. Un segnale: in quegli anni si contavano nella sola città di Milano trenta oratori maschili. Ed abbiamo già accennato a quale fosse il loro stile: la collabora- zione faticosa e feconda tra sacerdoti e laici, chiamati spesso a

43 CARLO CASTIGLIONI, Mons. Luigi Vitali animatore dell’Istituto dei ciechi, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 7-12. 44 PIETRO RAMPI, L’Ospizio Sacra Famiglia per gli Incurabili fondato dai sacer- doti D. Pogliani e L. Moneta, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 69-80; GUIDO VIGNA, Dalla parte degli ultimi. Vita e opere di un parroco di campagna: don Domenico Pogliani, Istituto Sacra Famiglia, Cesano Boscone 1988. 45 UBERTO PESTALOZZA, Don Carlo San Martino, Tip. dell’Istituto, Milano 1920; ACHILLE MARAZZA, Don Carlo San Martino, padre della Fanciullezza abbandonata, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, a cura di VITTORIA FOLLI, NED, Milano 1981, pp. 37-53; RAFFAELLA BEANANTI CAGLIERI, “San Martino, Carlo”, in «Civil- tà Ambrosiana», 3 (1986), pp. 58-60.

87 prendere posizione di fronte alle autorità governative, in luogo ed a nome dei preti. d) Terza conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?

In conclusione di questo terzo momento della vita della dio- cesi ambrosiana, possiamo dire che essa è caratterizzata da una forte sottolineatura della fedeltà al papa e del legame con Roma, ed insieme da una preferenza per la scelta della fine del potere temporale, vista come occasione storica – o provvidenziale – per allargare l’attenzione alla dimensione pastorale ed universale della Chiesa. In quest’epoca ed in quest’ottica, la Chiesa ambrosiana ritorna a sottolineare – forse premuta dalle contingenze politiche – il for- te senso dell’obbedienza al vescovo, espresso in modo particolare dal ritorno degli Oblati per volontà dell’Austria e dall’incarico loro affidato di formare il futuro clero nel seminario. La conseguenza fu che, accanto alla centralità del vescovo e del senso di comune appartenenza alla Chiesa, si posero le nuove prospettive pastorali, protette dalla stessa incertezza del governo ecclesiale. Tutte, in fondo, miravano ad un comune ideale: un clero capace di uscire dalle sacrestie, capace di stare tra la gente e di parlare con ed alla gente. In certo senso: un clero che riscopriva la dimensione mis- sionaria del suo ministero, in sintonia con l’esplosione del feno- meno missionario in tutta la Chiesa ed in sintonia con l’appoggio dato alle missioni da Gregorio XVI e poi da Pio IX; il primo era stato prefetto di Propaganda Fide prima di salire al soglio pontifi- cio, il secondo aveva seguito il desiderio di essere missionario an- dando – sia pure come segretario di una delle prime missioni di- plomatiche in America Latina – in Cile. Il clero di Milano, nella sua fedeltà al papa sostenuta da «L’Osservatore Cattolico», non poteva che essere sensibile a queste dimensioni ed a queste solle- citazioni. Era, d’altra parte, un clero abituato ad un vivace dibattito intraecclesiale, ad una forte coscienza della dignità del ministero di parroco. Anzi nella riflessione comune si affermava con forza

88 che i parroci appartengono al secondo grado ecclesiastico e sono più importanti dei vescovi; che i vescovi hanno potere di giurisdi- zione, mentre i preti (identificati con i parroci) sono di diritto divi- no per l’ordinazione. Basterebbe leggere anche solo l’incipit di un libro che circolò nella diocesi ambrosiana in vista del Concilio Ecumenico Vaticano I, l’Appello ai Parochi 46, che rivela una visio- ne di Chiesa per certi versi profetica, più vicina all’ecclesiologia del secondo che a quella del primo Concilio Vaticano: «La Chiesa non è costituita de’ soli Vescovi, Cardinali e Papa; né de’ soli Preti del II ordine, né de’ soli Laici: è il popolo fedele sparso per tutto il mondo» 47. Proprio per questo motivo gli estensori dell’Appello pre- tendono di partecipare al Vaticano I; parlano di «collegialità» all’interno della Chiesa; richiamano l’immagine della Chiesa apostolica (At 2,42-46); ricordano che la Chiesa non è gerar- chica (una piramide retta da competenze giurisdizionali) ma è un popolo, in cui ogni membro ha un ruolo e il vescovo deve coordinare la sintesi. In ultima analisi: una Chiesa apostolica con un connaturale istinto missionario. Una Chiesa in cui tro- vava posto naturale e ben voluto anche un istituto di preti che si dedicassero in modo specifico alla missione tra le genti «sparse in tutto il mondo». Era una ricchezza di stimoli e di immagini sacerdotali che, però, custodiva nel suo seno un principio di anarchia, la tentazione – sempre ricorrente – di confrontarsi e di contrapporsi, di giudicare l’altro con severità e non con simpatia per la diversità che lo carat- terizzava. È la tentazione di sempre nella Chiesa e nella società, quella che è all’origine delle stesse eresie, degli scismi e delle divi- sioni che hanno lacerato la Chiesa. È la conseguenza della divisio- ne che si incunea tra verità e carità. Esse, invece, sono come sorel- le siamesi: l’una non sta senza l’altra e, separata, ognuna si smarri- sce, lasciando divisione, lacrime e tristezza.

46 Per il XX. Concilio Ecumenico MDCCCLXIX. Appello ai Parrochi, Canoni- ci, Professori e Moderatori dei Seminari, e Sacerdoti Italiani, Treves, Milano 1869. 47 Ibid., p. 5.

89 Fu, forse, quello che ricadde su colui che dovette assumere la pesante eredità di ricucire il tessuto della comunione, mons. Luigi Nazari di Calabiana.

Milano nel Regno d’Italia a) Il vescovo e le sue vicende: Luigi Nazari di Calabiana (1867- 1893)

Dopo otto anni di reciproche incomprensioni venne finalmente il momento della comune saggezza e Pio IX da una parte ed il go- verno italiano dall’altra riuscirono in un faticoso accordo per la no- mina ad un certo numero di sedi episcopali, tra cui quella di Mila- no 48. L’accordo si realizzò promuovendo l’arcivescovo eletto, mons. Ballerini, a patriarca di Alessandria d’Egitto, in partibus infidelium come si diceva allora, e trasferendo a Milano l’anziano vescovo di Casale, mons. Luigi Nazari di Calabiana, la cui bontà e mitezza, unite alla cura della catechesi e alla moderazione, erano note. Egli, poi, era senatore del regno e dunque poteva essere ponte di dialogo tra le due realtà italiane, il governo e la Chiesa romana 49.

48 Già nel 1865 erano iniziate le laboriose trattative fra la Santa Sede ed il governo italiano per provvedere di titolari le molte sedi episcopali vacanti. Falli- ta la missione del ministro Francesco Saverio Vegezzi, le trattative vennero ripre- se dal consigliere di Stato Michelangelo Tonello nel 1866 e portate a termine tra mille difficoltà. Una delle vertenze più faticosamente risolte fu quella che inte- ressava la sede arcivescovile di Milano. Fra i candidati a succedere al Ballerini venne dapprima nuovamente escluso il card. Piero De Silvestri, prelato di curia: la scelta di un cardinale per Milano poteva significare eccessiva deferenza verso il governo. Pio IX caldeggiò fortemente – si disse – la candidatura dell’arcivesco- vo di Lucca, mons. Giulio Arrigoni, ma gli si oppose il netto rifiuto del ministro degli Esteri Bettino Ricasoli. Non rimanevano che i tre vescovi senatori del Re- gno: il lombardo mons. Giovanni Corti, vescovo di Mantova; i piemontesi mons. Alessandro d’Angennes, arcivescovo di Vercelli, e il vescovo di Casale mons. Luigi Nazari di Calabiana, elemosiniere di Sua Maestà. La scelta anche per mo- tivi di età cadde su quest’ultimo. 49 CARLO CASTIGLIONI, Monsignor Luigi Nazari dei Conti di Calabiana Arcive- scovo di Milano e i suoi tempi (1859-1893), Ancora, Milano 1942; ENNIO APECITI,

90 Preconizzato arcivescovo di Milano nel concistoro del 27 mar- zo 1867, mons. Luigi Nazari dei conti di Calabiana fece un ingres- so modesto in diocesi, a causa dell’incipiente epidemia di colera, il 23 giugno, rimanendovi fino alla morte avvenuta il 22 ottobre 1893. Sin dall’inizio fu evidente e neppure celata la scarsa stima che Pio IX aveva per il vescovo, che aveva dovuto designare obtorto collo. Su questo stato d’animo – tutto sommato personale – si innescò la dolorosa propaganda de «L’Osservatore Cattolico», che non per- se occasione per umiliare l’arcivescovo e chi prendeva posizione per lui. Di queste fatiche Calabiana fu esperto sin dai primi giorni. Nel suo discorso pronunciato in duomo nel giorno del suo ingres- so, disse: «Desidero che cessi fra voi ogni rancore, ogni contesa di partiti, ogni vendetta [...] Desidero che su tutta quanta la mia no- vella spirituale famiglia risplenda perpetuo il sole della verità, del- la giustizia, della pace» 50. Egli applicò un principio che gli era caro, un motto di san- t’Agostino: «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus charitas». Lo applicò sempre. Lo applicò di fronte allo stesso papa, nei confronti della società milanese, verso la sua Chiesa ambrosiana. Nei confronti del papa, Calabiana coltivò sincera devozione e sicura fedeltà alla tradizione della Chiesa che gli era stata affidata. Lo si vide bene durante il Concilio Vaticano I, quando egli chiese, con altri 54 vescovi della minoranza, di lasciare Roma per non pronunciare il proprio non placet sul dogma dell’infallibilità «palam et in facie Patris» 51. Lo fece perché le posizioni dei docenti del

Alcuni aspetti dell’episcopato di Luigi Nazari di Calabiana Arcivescovo di Milano (1867-1893). Vicende della Chiesa ambrosiana nella seconda metà del 1800 (= Archivio Ambrosiano 66), NED, Milano 1992. 50 LUIGI NAZARI DI CALABIANA, Discorso pronunciato in Duomo nel suo solen- ne ingresso in Milano, Milano, 23 giugno 1867. 51 La coerenza del gesto va sottolineata, se si considera che del già piccolo gruppo degli anti-infallibilisti italiani firmarono solo, oltre a Calabiana, i vescovi Montixi di Iglesias, Moreno di Ivrea, Sala di Nizza: mons. Biale di Albenga era morto poco prima di Pasqua, mons. Renaldi di Pinerolo era già da tempo assen- te per motivi di salute, mons. Riccardi di Torino era rientrato ammalato in dioce-

91 suo seminario erano per la non opportunità, in quelle circostanze, della definizione dogmatica ed egli non voleva sconfessare gli educatori dei suoi futuri preti. Fu un segnale di fiducia nei loro confronti, che pagò a caro prezzo perché fu oggetto di una sorda e denigratoria campagna di stampa. Ma nella stessa vicenda egli mostrò la sua devozione al papa, poiché aderì solennemente al dogma nella prima solenne celebrazione successiva alla definizio- ne, durante il pontificale dell’8 settembre, festa della Natività di Maria, cui è dedicato il duomo. Non meno faticoso ed insieme sincero il rapporto con le auto- rità civili. Il motto episcopale scelto da Calabiana era stato «Ognun mi sente». Era la volontà del dialogo in tutti i modi possibili alla carità. Non a caso il motto era in italiano, e non in latino secondo la tradizione: occorreva che cominciasse a farsi capire anche da quella sola frase. Sempre nel suo discorso nel duomo di Milano in occasione del suo ingresso, aveva detto: «Il mio linguaggio con voi non sarà mai che quello del cuore. Charitas Christi urget nos... Ad ogni chiamata, dovunque si estenda il mio ministero, io mi terrò pronto [...] si allargherà il mio cuore se mi avverrà di poter dire: oh Signore, grazia vostra, ho potuto oggi fare qualche poco di bene ai miei figli! Grazia vostra, non fu inutile oggi la mia missio- ne» 52. Per questo si era dimostrato disponibile ad un ingresso in dio- cesi in forma semplice, richiesto dal prefetto ufficialmente per evi- tare i pericoli del contagio da colera, allora serpeggiante in città. Per questo andò subito a visitare la truppa militare ed insieme gli ospedali della diocesi, per dimostrare lealtà allo Stato e prossimità ai sofferenti ed ai bisognosi. Non a caso mons. Luigi Biraghi scris- se: «Accoglie da mane a sera clero, signori e popolo, per le rispet-

si a Pasqua e non era tornato a Roma, limitandosi alla fine di giugno a pubblicare una dichiarazione sull’infallibilità, che non brillava per chiarezza di contenuto e di impegno, mons. Losanna di Biella aveva abbandonato Roma dopo la votazio- ne del 13 luglio, incaricando Calabiana di rinnovare il suo non placet nella vota- zione solenne del 18 luglio. 52 LUIGI NAZARI DI CALABIANA, Discorso pronunciato in Duomo nel suo solen- ne ingresso in Milano, Milano, 23 giugno 1867.

92 tive occorrenze. La soddisfazione di chi tratta con lui, non esclusi i meno conciliabili, è universale» 53. Eppure non gli furono risparmiate umiliazioni, che egli affrontò con equilibrio e dignità, fiducioso nel primato della fede e nel suo radicarsi nel cuore delle persone. Un momento significativo di questo stile furono, per esempio, le feste per il centenario dell’ele- zione episcopale di sant’Ambrogio nel 1874. Pochi anni prima erano state ritrovate le reliquie del santo sotto l’altare dell’omoni- ma basilica e sembrò ben giusto caratterizzare il centenario por- tando in duomo l’urna delle reliquie per un triduo di preghiere, concluso da una solenne processione che avrebbe riportato il san- to nella sua basilica. Avvicinandosi il momento, concordato anche con le autorità politiche, si scatenò una violenta campagna di stampa, in cui si distinse il quotidiano «Il Secolo», che presentò l’imminente pro- cessione come un pietoso tentativo di «risuscitare il Medio Evo colle sue superstizioni». Poiché la processione si sarebbe svolta il 13 maggio, giorno della nascita di Pio IX, si volle vedere nella sua scelta un’intenzione politica: «l’occasione per fare una dimostra- zione a favore del Papa-Re [per] festeggia[re] il più acerrimo ne- mico della libertà d’Italia» 54. La cosa fu portata in parlamento, dove il deputato Felice Cavallotti «con un profluvio di bestemmie e d’insulti alla religio- ne cattolica, e di lazzi schifosi contro le reliquie dei SS. Martiri e del S. Dottore Ambrogio fece al Cantelli, ministro per gli affari interni, un’interpellanza contro la divisata processione» 55. Così alla vigilia del trasporto delle reliquie in duomo, il 10 maggio, il prefetto, «considerato che ci sono fondate ragioni per temere che nell’occasione della processione per le feste di S. Ambrogio venga turbata la dignità dei riti religiosi ed il sentimen- to morale di ogni onesto cittadino» 56, vietava la processione.

53 Archivio Generale Suore Marcelline, Epistolario I, n. 1086. 54 Ibid., 156. 55 «La Civiltà Cattolica», 21 (1874), serie 9, vol. 2, p. 619. 56 Ripreso da «La Gazzetta di Milano», 10 maggio 1874. La posizione fiera- mente avversa alle feste santambrosiane da parte della «Gazzetta di Milano»

93 Calabiana si piegò al decreto prefettizio ed alle quattro della notte tra l’11 e il 12 maggio accolse le spoglie di Ambrogio, di Gervaso e di Protaso, che giunsero coperte da tela cerata per evi- tare ogni curiosità. Esse furono venerate nei giorni seguenti da un numero straordinario di persone. Ma più impressionante fu ciò che avvenne quando si trattò di riportare le reliquie in S. Ambrogio. Ancora una volta, secondo gli ordini dell’autorità civile, si sarebbero dovute trasportare nella not- te del 15 maggio. Nell’attesa del momento piazza del Duomo si andò affollando di devoti e di guardie travestite per timore di disor- dini. Alle due e mezza di notte si aprirono le porte del duomo e ne uscirono le urne, coperte come all’arrivo, e seguite da alcuni mem- bri del capitolo metropolitano e dal Calabiana. Nel buio della not- te, rapidamente la piazza cominciò ad illuminarsi: erano le candele che alcuni fedeli avevano portato e dividevano fra tutti i presenti, calcolati in alcune migliaia. Si formò così uno spontaneo e lungo corteo: alla testa i corpi dei santi, seguiti dal piccolo corteo di Cala- biana e, dietro, lo snodarsi di questo fiume di fioca luce dal quale salivano sommesse preghiere. Giunti nei pressi della basilica di S. Ambrogio i giovani del circolo omonimo intonarono il Te Deum, che fu ripreso dal popolo. Con questo inno di trionfo, le spoglie dei tre santi rientrarono nella loro basilica. Calabiana celebrò la messa, accompagnata dal canto del popolo e tutti attesero l’alba: solo allo- ra la folla cominciò a sciogliersi lentamente per far posto ai pellegri- ni, che continuarono ad arrivare ininterrotti per più di un mese. Non fu l’unico momento di contrasto che Calabiana dovette gestire. Bisognerebbe ricordare la tenace ed astiosa polemica del- la Massoneria, che nel Milanese in tutti i modi combatté l’educa- zione cristiana, sia quella impartita nelle scuole sia quella degli oratori. A dare un’idea del clima di molte scuole – non si dimentichi l’importanza che avevano le maestre ed i maestri a livello locale – andrebbe studiata. Già nel n. 116 di domenica 26 aprile 1874 aveva tuonato in prima pagina contro il «Carnevale di Maggio», come definiva la processione, e non meno offensiva era stata all’interno del giornale, ove parlava di «medioevale baldoria organizzata dai vescovi d’accordo colle autorità».

94 potrebbe servire un passo di un libro di Luigi Settembrini, Ricor- danze della mia vita:

La storia mi fa aborrire i preti: non una piccola offesa fatta a me da un miserabile, che poteva ancora non essere prete, ma diciotto secoli di delitti, di rapine, di sangue, ma i roghi ed i tormenti, ma un im- menso cumulo di mali, di corruzione, d’ignoranza, di ferocia, ma la servitù della mia patria, e di tante contrade della terra, mi fanno ri- bollire l’anima nel pensare al prete, che è stato, ed è cagione di tutte le umane miserie 57.

Contro gli oratori, poi, si giunse ad istituire degli sfortunati – nel senso letterale dato che non ebbero fortuna – ricreatori laici 58. Gli oratori infatti, scriveva la Massoneria, non erano «solo un male per il futuro», ma anche «un pericolo presente e immediato»:

Con seimila fanciulli negli oratori i preti esercitano un’influenza non indifferente sopra seimila famiglie della città. Questi fanciulli a loro insaputa irradiano nelle famiglie a cui appartengono buona parte dei sentimenti e delle dottrine che assorbono per opera dell’educazione clericale. Essi possono venir adoperati per conoscere segreti dome- stici, per servir da messaggeri fra la chiesa e la casa e perfino in una lotta politica per distribuire, poniamo, nelle rispettive famiglie un proclama, una scheda elettorale, per ridestare fors’anche in caso di conflitto il fanatismo delle moltitudini ignoranti 59.

Proprio per evitare questi perniciosi influssi, la Massoneria proponeva di contrapporre agli oratori dei «ricreatori o come si voglian chiamare, con carattere prettamente liberale, destinati a raccogliere, educare e sollazzare i giovanetti nei giorni festivi» 60. In fondo questa opposizione massonica fu utile: dimostrò la vivacità delle strutture ecclesiali, la loro capacità di coinvolgere la

57 LUIGI SETTEMBRINI, Ricordanze della mia vita, Morano, Napoli 1892, p. 167. 58 Rimando al mio libro: ENNIO APECITI, L’Oratorio ambrosiano da san Carlo ai nostri giorni, Ancora, Milano 1998, pp. 78-87, 104-107.

59 [D. NULLI], Gli oratori cattolici a Milano. Relazione ad una Società Filan- tropica, Giuseppe Civelli, Milano 1877, pp. 6-7.

60 Ibid., p. 7.

95 gioventù e le famiglie, cioè la società, non quella «legale» ma quel- la «reale», secondo un effato divenuto ormai classico. Questa vivacità ecclesiale era quanto mai necessaria ed anche sollecitata dalle circostanze. Basterebbe ricordare che ben più fe- conda per il futuro della stessa storia milanese fu la presenza del socialismo. A Milano, infatti, nacque il primo Partito Operaio (1882) e qui fu eletto al parlamento il primo deputato socialista, Andrea Costa, e si organizzò la Camera del Lavoro (1890). Calabiana non si lasciò mai scoraggiare, e continuò a racco- mandare il dialogo ed il rispetto ed insieme a difendere la libertà della sua Chiesa ed a incoraggiare preti e fedeli sulla via della con- cordia e della verità. Neppure in questo fu sempre capito e soste- nuto. Abbiamo già citato le pagine de «L’Osservatore Cattolico», sempre pronto a polemizzare, in modi talvolta disgustosi, come avvenne nel 1878 in un articolo sulla morte di Vittorio Emanuele II, di cui basti leggere l’incipit: «A Roma siamo, a Roma restere- mo! E a Roma restò come egli aveva profetizzato; ma vi resta ca- davere in un palazzo papale!» 61. Calabiana rimase disgustato e con lui il clero liberale – circa 150 sacerdoti – che sottoscrisse una Dichiarazione di biasimo per i toni del giornale intransigente e di solidarietà con l’arcivescovo, che aveva decretato celebrazioni di suffragio per il re e che veniva così, almeno implicitamente, criti- cato da «L’Osservatore». Purtroppo la Dichiarazione, che doveva rimanere riservata, fu divulgata dalla stampa. «L’Osservatore» per tutta risposta si mise a pubblicare articoli nei quali si dichiarava «figlio di ubbidienza [...] dolente d’averlo comecchessia amareg- giato» [l’arcivescovo]62. Ma contemporaneamente (con perfidia?) riportava encomi, congratulazioni ed applausi per ciò che aveva pubblicato e di cui si dichiarava dolente nei confronti del suo ve- scovo. La tensione, che andava inevitabilmente crescendo, fu pla- cata ancora una volta dal papa il quale, pur anch’egli vicino alla morte, rinnovò l’umiliazione di Calabiana inviando un nuovo Bre- ve di encomio che lasciò sconcertati anche perché vi si poteva co-

61 “In morte di Vittorio Emanuele: A Roma siamo, a Roma resteremo”, in «L’Osservatore Cattolico», 10-11 gennaio 1878, p. 1. 62 «L’Osservatore Cattolico», anno 15, n. 14, giovedì-venerdì 18-19 gennaio 1878, p. 2.

96 gliere una censura all’arcivescovo: «[Biasimiamo] coloro che col pretesto della prudenza e della carità fantasticano assurde ed im- possibili conciliazioni» 63. Ci fermiamo qui. Ci sembra di aver illustrato sufficientemente il clima teso della diocesi, l’incrociarsi di diverse tensioni. In fon- do a Milano si viveva la stessa questione romana, la fatica di co- struire una nuova nazione, che custodisse la grande tradizione cri- stiana, che fa singolare – anzi unica nel mondo – l’Italia. Purtrop- po, una minoranza faziosa ed arrogante – radicale nei suoi due estremi, quello massonico e quello ultraclericale – ed una maggio- ranza troppo remissiva permisero quello che in questi casi succe- de: il degenerare dell’unità e della concordia, il prevalere dell’in- giustizia e della mediocrità. Volendo fermarci ad un’analisi più approfondita dobbiamo ora sostare brevemente – secondo lo schema che abbiamo adottato – sulla condizione del laicato, dei religiosi, del clero. b) Quale la situazione del laicato?

Ci sembra di poter dire che il laicato della diocesi di Milano nella seconda parte dell’Ottocento presentava caratteristiche di vi- vacità singolari. Si pensi al Circolo giovanile cattolico Sant’Ambro- gio di Milano (6 marzo 1873), che possiamo considerare l’antesi- gnano della Gioventù di Azione Cattolica. Ricordiamo, poi, l’ap- porto dato dall’Opera dei Congressi sin dal I congresso di Venezia (12-16 giugno 1874), mentre l’Unione Cattolica per gli studi sociali (29 dicembre 1889), di cui fu presidente Giuseppe Toniolo 64, diede

63 Archivio Segreto Vaticano, Ep. ad Princ., Reg. 285 (1878) 9,4. Datato il 17 gennaio 1878. Fu pubblicato con la traduzione, che abbiamo ripreso, ne «L’Os- servatore Cattolico», 23-24 gennaio 1878, p. 1. 64 Per un’introduzione esauriente: PAOLO PECORARI, Toniolo Giuseppe, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980. I protagonisti, vol. II, Marietti, Casale Monferrato 1982, pp. 636-644. Si veda anche la commemo- razione di DALMAZIO MINORETTI, “Il professor Toniolo”, in «La Scuola Cattoli- ca», 46 (1918/2), pp. 337-343.

97 singolare contributo agli studi conclusivi dell’enciclica Rerum No- varum (15 maggio 1891). Un laicato impegnato nella vita sociale, ed insieme caratteriz- zato da una fede profonda anche se tradizionale, legato alle devo- zioni che ancor oggi diciamo popolari, quella al rosario per esem- pio: il solo Leone XIII nel suo pontificato scrisse undici encicliche per raccomandare la recita del rosario, soprattutto nel mese di ottobre. Esso voleva essere una preghiera familiare, atta a racco- gliere la famiglia in preghiera ed a sostenere la sua spiritualità. Potremmo allora parlare di cura della spiritualità familiare, insi- diata com’era (s’è visto) dall’insistente propaganda per il divor- zio 65. In quest’ottica s’inseriscono l’istituzione della Festa della Famiglia (1893) e la diffusione delle immaginette con Giuseppe falegname aiutato dal fanciullo Gesù, sotto l’occhio materno di Maria che cuce: l’esempio della Sacra Famiglia è indicativo del- l’importanza della vita quotidiana, delle cose di ogni giorno come via alla santità; gli affetti familiari richiamano all’attenzione, alla bontà ed alla misericordia. Il frutto fu una rivisitazione teologica del sacramento del matrimonio ed una predicazione che pose al centro della sua attenzione la famiglia e i suoi valori, e la sua im- portanza nel cammino della santità.

65 Il 1° giugno 1879 Leone XIII intervenne con una durissima lettera, intitola- ta Ci siamo grandemente, ai vescovi del Piemonte e della Liguria, per condannare il progetto di legge, approvato dalla Camera dei Deputati il 19 maggio 1879 – con 153 voti a favore e 101 contro – che avrebbe dovuto rendere «reato» la celebrazio- ne del matrimonio religioso prima di quello civile. Le proteste che si levarono, non solo da parte cattolica, spinsero a non presentare il progetto di legge al Senato, e pertanto decadde. Il papa intervenne poi più ampiamente il 10 febbraio 1880 con l’enciclica Arcanum Divinae, a difesa della famiglia e del sacramento del matrimo- nio. Ma il governo italiano non si rassegnò e nel 1892 di nuovo propose la legge che imponeva la precedenza del matrimonio civile su quello religioso. Ancora una volta il papa intervenne pubblicamente con una lettera al vescovo di Verona, cardi- nale di Canossa, dal titolo Il divisamento (8 febbraio 1893), in cui bollava come «sacrilega usurpazione» la proposta di legge. Il testo delle lettere e dell’enciclica in: UGO BELLOCCHI, Tutte le encicliche e i principali documenti pontifici emanati dal 1740, V/1 [Leone XIII (1878-1891)], Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1996, pp. 49-52 (la lettera del 1879); pp. 76-92 (l’enciclica del 1880); ibid., V/2 [Leone XIII (1892-1903)], 1997, pp. 44-49 (per la lettera del 1893).

98 Non meno importante fu la devozione al Sacro Cuore 66, che trovò la sua sanzione nella Consacrazione del genere umano al Sa- cro Cuore, fatta da Leone XIII a coronamento dell’Anno Santo del 1900, il primo dopo quello avvenuto in sordina nel 1825 67. Il Sacro Cuore, poi, ci rimanda all’importanza progressiva che as- sunse nella spiritualità ottocentesca la devozione all’Eucaristia. Essa era vista come uno stimolo alla carità, un simbolo della concordia, una cena comunitaria. Vi sono qui i prodromi del grande sviluppo che l’Eucaristia prenderà nel Novecento e gli elementi che danno vita alle numerose confraternite di carità che crebbero in quel pe- riodo. Il primo Congresso Eucaristico italiano si tenne a Napoli nel 1891 e fu occasione per un’approfondita ricerca dei mezzi per la diffusione delle verità eucaristiche, il più efficace dei quali era senza dubbio il catechismo 68.

66 Una buona introduzione anche storica in FRANCESCA MARIETTI, Il Cuore di Gesù. Culto, devozione, spiritualità, Ancora, Milano 1991. La devozione al Sacro Cuore deve molto all’opera dei Gesuiti ed alle confraternite fondate da Giovanni Eudes, Grignon de Monfort. San Paolo della Croce e Alfonso Maria de’ Liguori, che compose una Novena al Sacro Cuore, ne sostennero la diffusione presso papa Clemente XIII, come mezzo per arginare il giansenismo e le sue esagerazioni. Pur- troppo la devozione al Sacro Cuore risentì della polemica antigesuitica e della soppressione della Compagnia. Essa però continuò a diffondersi tra il popolo e trovò la sua conferma nella stessa ricostituzione della Compagnia: si pensi all’Apostolato della Preghiera, sorto per opera del gesuita F. X. Gautrelet nel 1844 Durante il concilio Vaticano I circa 225 padri indirizzarono un voto a Pio IX, perché sostenesse la consacrazione al Sacro Cuore, cosa che il papa fece approvan- do la formula della Consacrazione per l’Anno Santo (mancato) del 1875. 67 Lett. Enc. Annum Sacrum, 25 maggio 1899. È la prima enciclica pontificia dedicata al Sacro Cuore. In essa il papa disponeva che in preparazione alla festa del Sacro Cuore (11 giugno), si consacrasse l’umanità al Sacro Cuore. Con la stessa enciclica Leone XIII riconobbe le Litanie del Sacro Cuore. A questo do- cumento seguirono: Pio XI, Miserentissimus Redemptor (1928); Pio XII, Haurietis aquas (1956); Paolo VI, Investigabiles divitias Christi (1965). 68 ANTONIO RIMOLDI, Profilo storico dei Congressi Eucaristici Nazionali, Cen- tro Direttivo 20° CEN, Milano 1981; ACHILLE ZAMBARBIERI - ANTONIO OCCHIONI - ENRICO CATTANEO, I Congressi eucaristici nella Chiesa e nella società italiana, Milano 1983.

99 Di qui, comunque, il cammino inarrestabile con un’accentua- zione della valenza sociale dello stesso culto eucaristico, che si espresse attraverso i congressi eucaristici, iniziati a Lille nel 1881 69 e rapidamente diffusi anche in Italia. Essi volevano essere anche un modo di testimoniare la propria fede cristiana nella società, come ha scritto Enrico Cattaneo a proposito del quinto Congres- so Eucaristico, tenutosi a Milano nel 1895, che fu «un magnifico e fervente atto di omaggio all’Eucaristia, ma anche un continuo gri- do di protesta contro le leggi italiane che vietavano le pubbliche manifestazioni religiose ed un invito accorato a fare dell’Eucari- stia la forza unitiva dei cattolici italiani» 70. Il sacramento eucaristico veniva così ad assumere un nuovo carattere, divenendo forza sociale e simbolo d’unità fra le diverse classi per affermare i valori religiosi nella società e per il rinnova- mento spirituale dei fedeli. Si comprendono, pertanto, le parole con cui l’arcivescovo di Torino terminava il suo discorso al Congresso Eucaristico milanese:

Il popolo aprirà maggiormente gli occhi e vedrà altre cose; non vedrà solamente i mali che affliggono la società e gli ordini materiali e gli ordini civili e tutte le pertinenze sociali; vedrà qualche cosa di più. Esso che [...] nel fondo del suo cuore sente... il bisogno di Gesù Cri- sto, sentirà pure che Gesù Cristo non è ancora al suo posto; e con il popolo apriranno pure gli occhi tanti cattolici e capiranno ciò che

69 Dovremmo qui ricordare prima la figura di Pietro Giuliano Eymard (1811- 1868), che fondò nel 1856 la Congregazione dei Sacerdoti del SS.mo Sacramento e nel 1863 quella delle Ancelle del SS.mo Sacramento. Tra queste entrò nel 1865 Maria Marta Emilia Tamisier (1834-1910), che fu l’ispiratrice vera e propria dei congressi eucaristici. Alla sua azione si dovettero i primi solenni pellegrinaggi eucaristici francesi, che poi spinsero a fondare l’Opera dei Congressi Eucaristici Internazionali. Il primo si tenne a Lille il 28-30 giugno 1881. Seguirono quelli di Friburgo (1885) e di Tolosa (1886). Già al primo congresso parteciparono anche gli italiani, che proposero di ospitare il Congresso Eucaristico Internazionale a Torino, la «città del SS. Sacramento». Non fu possibile per l’opposizione del go- verno (il primo si poté fare solo nel 1905). Maturò allora l’idea di fare dei congressi eucaristici nazionali, a partire da quello di Napoli (19-22 novembre 1891). 70 ENRICO CATTANEO, “Le Quarantore ieri e oggi”, in «Ambrosius», 43 (1967), pp. 238.

100 molti e molti di essi ancora purtroppo non sanno intendere; vedran- no Gesù Cristo prigioniero nel suo Vicario, ed allora per tutta Italia i cuori si ridesteranno 71.

La devozione all’Eucaristia era, dunque, un modo di sostenere l’ottimismo, la fiducia, il coraggio, che permettevano concreta- mente un rinnovato impegno di animazione, di annuncio. Questo ritorno alla centralità dell’Eucaristia non a caso scandisce il secolo XIX ed il suo spirito missionario. In altre parole, ci domandiamo se lo stesso diffondersi della devozione eucaristica e della pratica della comunione quotidiana, dell’Adorazione Riparatrice delle Nazioni Cattoliche e delle Quarant’ore non sia in linea – frutto ed insieme causa – del rinnovato impegno missionario che è, poi, il desiderio che tutti i popoli credano nel Signore Gesù e nel suo amore appassionato per ogni essere umano. Allora non parrà stra- no notare che le Quarant’ore ebbero un incremento impressio- nante nella diocesi ambrosiana, in concomitanza anche con la ca- nonizzazione di sant’Antonio Maria Zaccaria. Non parrà strano che in questa diocesi accanto al prorompente sviluppo del sociali- smo si ponesse un vivacissimo laicato cattolico: ovunque c’è biso- gno di annunciare il Vangelo, lì c’è missione. c) Quale la situazione dei religiosi?

Lo stesso prorompente fiorire si ebbe nel campo dei nuovi ordini religiosi, che Calabiana approvò o accolse con lungimiran- za nella diocesi. Nuovi ordini che meritano di essere perlomeno ricordati sono le Suore del Preziosissimo Sangue, dette comune- mente Preziosine, riconosciute nel 1876; la Famiglia del Sacro Cuo- re di Gesù, fondata da madre Laura Baraggia nel 1880; i Figli dell’Immacolata Concezione, fondati nel 1857 da padre Luigi Mon- ti, originario della diocesi ambrosiana, condotto a maturare la sua scelta dalle prediche infiammate dei padri di Rho, tra cui ricorda- va sempre padre Angelo Ramazzotti: era dunque il ritorno di un

71 Ibid., p. 239.

101 figlio quello del 1886, quando il nuovo istituto aprì una casa a Saronno. Non meno preziose, poi, le Suore Misericordine, fonda- te da mons. Luigi Talamoni (1891). Mi sembra che lo spirito che animò questi nuovi istituti possa proprio essere esplicitato da un passo di quest’ultimo:

Aiutare caritatevolmente e materialmente gli ammalati, per curare santamente e spiritualmente le loro anime e procurare la loro salvez- za. Ma, cogli ammalati, giovare anche ai sani, portando nelle loro case l’amore di Gesù Cristo, l’osservanza delle sue leggi e dei precetti della sua Chiesa, l’amore vicendevole, il rispetto ai capi di casa, l’aborrimento al vizio, l’amore e lo stimolo alla virtù. Per arrivare a ciò non bisogna guardare a sacrifici, a bassezza di uffici, a privazioni, a dicerie, a disprezzi, a invidie; è a ben più caro prezzo che il nostro Divin Salvatore ci ha ricomprati dalla schiavitù del peccato. E noi, che vogliamo farci Sue seguaci nella salvezza delle anime coll’aiutare i corpi, ci ritireremo dal soffrire?

Padre Monti dopo gli ammalati accolse gli orfani e gli sventu- rati, per provvedere alla loro formazione in vista di un loro riusci- to inserimento sociale. Le suore di madre Baraggia si impegnaro- no nelle parrocchie, proprio per raggiungere gli strati più umili della popolazione, quelli più bisognosi e quelli che cementano una parrocchia: gli ammalati, visitare i quali era uno dei massimi punti d’onore per i parroci ambrosiani. Le Preziosine erano invece de- dite alla formazione delle fanciulle del circondario di Milano – nacquero a Monza – quasi a completare la scelta di mons. Biraghi con le Marcelline: se queste si dedicavano alle ragazze della bor- ghesia medio-alta, quelle – le Preziosine – si sarebbero dedicate a quelle del ceto più popolare. Tutti questi nuovi ordini, si sarà no- tato, avevano tra i loro carismi un forte senso di carità, una forte esigenza di pastoralità e un forte desiderio di formazione dei loro contemporanei. C’era in essi un forte desiderio di evangelizzazio- ne, di missione. Non ci stupirà, dunque, trovare le Preziosine in Brasile, con le Marcelline ed i Figli di padre Monti: la missione ad gentes era nel loro sangue, come lo era nell’humus della diocesi che li aveva accolti.

102 d) Quale la situazione del clero?

Alla luce di quanto abbiamo detto sopra, crediamo di aver de- lineato sufficientemente il volto del clero ambrosiano nell’ultima parte del secolo XIX sotto l’episcopato di Calabiana. Permane, dunque, una singolare attenzione ed una nuova ripresa dello spi- rito missionario-pastorale, di cui ci è testimone la costituzione giu- ridica degli Oblati Vicari (4 novembre 1875). Essi avrebbero prov- veduto alla vita delle comunità prive del parroco, pronti a lasciare tutto appena il governo avesse approvato la nomina del pastore legittimo. Allora, con la stessa prontezza con cui erano arrivati ed avevano vissuto della carità dei fedeli (non potevano toccare il beneficio), lasciavano il posto che avevano servito con la dedizio- ne di chi sapeva che era lì per coprire un’emergenza, facendo come il servo del Vangelo, che sa di essere prezioso ed inutile insieme. I Vicari Oblati, nella loro scelta di insicurezza economica e di pri- mato del ministero pastorale, vennero destinati normalmente alle parrocchie più abbandonate o difficili, a quelle – in altre parole – più vicine alla frontiera della missione. Non a caso mons. Calabia- na curò la fondazione di nuove parrocchie proprio nella periferia di quella che andava divenendo la grande città (si pensi alle par- rocchie di S. Luigi e di S. Gioachimo) e permise il ritorno discreto dei Gesuiti, purché si stabilissero nelle zone periferiche: scelta preferenziale che fu continuata dal cardinale Ferrari, che permise l’arrivo in diocesi dei Salesiani, purché si stabilissero nella perife- ria di allora, l’attuale zona della Stazione centrale. Era una scelta che impegnava anche il futuro della diocesi, noi diremmo: una strategia pastorale di Calabiana. Egli volle preparare un clero in cui convivessero libertà personale e attenzione privile- giata alla pastorale, cioè all’annuncio efficace, proposto secondo le categorie culturali più comprensibili all’uomo del suo tempo. Era, in fondo, la scelta fatta da Paolo sin dal discorso paradigmatico ai sapienti dell’Areopago di Atene. Modernizzare gli studi seminari- stici fu, pertanto, un’altra scelta, che segnò il volto del prete dioce- sano. Calabiana volle che fossero adottati i programmi statali per gli studi del ginnasio-liceo. Il motivo? Nel caso i ragazzi avessero la- sciato il seminario durante il cammino di formazione, non avrebbe-

103 ro perso tutti i loro studi e le loro fatiche; nel caso invece fossero divenuti sacerdoti, essi avrebbero avuto una cultura pari a quella delle menti migliori dell’epoca – basti ricordare cosa volesse dire, soprattutto a quel tempo, frequentare il liceo classico –, una cultura raffinata, capace di un fecondo dialogo con gli uomini e le donne, capace di rispondere alle domande più profonde e complesse che fossero nate nel cuore dei loro fedeli. Se poi si tiene conto del con- testo sociale e dell’ostilità della cultura ufficiale verso tutto ciò che apparteneva alla sfera religiosa ed ecclesiale, la scelta di preparare i futuri sacerdoti secondo i programmi statali – e del liceo-ginnasio – era indirizzata a permettere al clero di dialogare con quel ceto so- ciale che, prevedibilmente, avrebbe retto le sorti della società civile: a questi compiti, infatti, arrivavano tradizionalmente gli studenti del ginnasio-liceo. Un prete, dunque, formato sin da giovane a sa- per «rendere ragione della sua speranza» (cfr. 1 Pt 3,17); un prete tendenzialmente missionario, che trovava logico incontrare sul suo cammino anche forme di ministero presbiterale specificamente pre- parate ad gentes. Di qui l’appoggio incondizionato che Calabiana diede sia al Seminario Villoresi, di cui abbiamo già parlato, sia alla comunità dei preti di S. Calocero. Una pluralità di presenze che rese la Chiesa milanese vivace e impegnata. Accanto ai molti preti già presentati ed ancora sulla brec- cia nel momento storico che stiamo descrivendo, dobbiamo porre ora don Luigi Talamoni (1848-1926), che fu a lungo docente nei se- minari di Milano, confessore e predicatore ricercato, consigliere co- munale di Monza finché il fascismo non gli chiuse la bocca 72. Egli esprime quel desiderio di impegno nella vita politica italiana che è poco conosciuto. Si parla molto di non expedit e di indifferenza con- seguente dei cattolici allo Stato unitario italiano. Non è precisamente

72 ANGELO RECALCATI, Documenti e appunti per la biografia di Monsignor Luigi Talamoni, Monza 1980; ID., Mons. Luigi Talamoni e l’assistenza dei malati a domi- cilio, in Preti ambrosiani al servizio dei poveri, NED, Milano 1981, pp. 55-68; ID., Talamoni Luigi (1848-1926), in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. VI, NED, Milano 1993, pp. 3629-3630; ID. Le lettere di mons. Luigi Talamoni alle Suore Misericordine, Monza 1986. Accanto a questi studi potremmo porre: , Mons. Luigi Talamoni, in Maestri di vita, NED, Milano 1985, pp. 151- 166; ANGELO MAJO, Monsignor Luigi Talamoni e il suo tempo, NED, Milano 1988.

104 così. Il non expedit valeva a livello di elezioni politiche generali per entrare in Parlamento, e può addirittura avere una giustificazione sto- rica, almeno all’inizio. Meno noto è che a livello locale invece i catto- lici furono addirittura sollecitati a farsi presenti, poiché qui era effet- tivamente possibile operare e salvaguardare i valori propri del cristia- nesimo, che può a buon diritto essere fermento della società, della sua giustizia e del suo progresso. Mons. Talamoni è uno dei tanti, anche preti, che sentirono come loro dovere pastorale animare la so- cietà ed educarono le giovani generazioni ad assumersi le responsabi- lità della vita civile. Personalmente credo siano stati questi mille e mille sconosciuti consiglieri comunali o provinciali che hanno custo- dito in Italia quel tesoro prezioso che è la fede. Un’attenzione non improvvisata, piuttosto preparata da studi specifici. Se nella prima parte dell’Ottocento ai parroci era chie- sto di conoscere le tecniche agricole e di impollinazione poiché essi servivano comunità a grande maggioranza dedite all’agricol- tura, adesso, in tempi di vivace sviluppo pre-industriale, occorre- va che ci fossero preti capaci di saper affrontare la questione ope- raia. È per questo motivo che troviamo emergente tra il clero del tempo don Dalmazio Minoretti, che divenne poi arcivescovo di Genova 73. Egli fu incaricato di insegnare dottrina sociale nel Se- minario di Milano, succedendo al suo maestro Giuseppe Toniolo.

73 Per un’introduzione vedi: DANILO VENERUSO, Minoretti Carlo Dalmazio, in Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia 1860-1980. II. I protagonisti, Marietti, Casale Monferrato 1982, pp. 391-394; CARLO CATTANEO, Minoretti Car- lo Dalmazio, in Dizionario della Chiesa Ambrosiana, vol. IV, NED, Milano 1990, pp. 2250-2252; ANTONIO RIMOLDI, Il movimento cattolico nel milanese (1867- 1915). Appunti, in Ricerche storiche sulla Chiesa ambrosiana, vol. V, Milano 1975, pp. 366-378; ERNESTO COMBI, “Carlo Dalmazio Minoretti e l’insegnamento di economia sociale”, in «Bollettino dell’Archivio per la storia del movimento so- ciale cattolico in Italia», 22 (1987), pp. 226-287; FEDERICO MANDELLI, Ricordo del cardinal Minoretti, in Profili di preti ambrosiani del Novecento, NED, Milano 1987, pp. 58-68; ERNESTO COMBI, “Aspetti inediti del prete ‘sociale’ ambrosiano C. D. Minoretti. Il carteggio con Toniolo (1899-1980)”, in «Bollettino dell’Ar- chivio per la storia del movimento sociale cattolico in Italia», 34 (1999), pp. 195- 249. Per le fonti: CARLO DALMAZIO MINORETTI, Omelie, discorsi, panegirici. Volu- me I (1909-1929), SEI, Torino 1934; CARLO DALMAZIO MINORETTI, Omelie, di- scorsi, panegirici. Volume II (1930-1933), SEI, Torino 1934; CARLO DALMAZIO MINORETTI, Ideali umani, a cura di LORENZO CABOARA, Paideia, Brescia 1963.

105 Vale la pena soffermarci su alcune sue pagine, poiché delinea- no l’immagine del prete consegnato al secolo XX per la diocesi di Milano. Sono rimasto affascinato dalla lettura del primo breve articolo, scritto da don Carlo Dalmazio Minoretti sul fascicolo di settembre- ottobre 1900 de «La Scuola Cattolica», la prestigiosa rivista del Se- minario di Milano, ben più che centenaria (nacque nel 1873):

Dobbiamo prendere il popolo là dove si trova stipato nelle afose of- ficine o disperso sui sudati campi, non immaginarcelo diverso da quello che è, prenderlo colle sue tendenze legittime, prenderlo come è insidiato dai suoi nemici, ed organizzarlo. Vogliamo condurlo al cielo questo caro popolo, ma non abbiamo il diritto noi di infligger- gli come condizione e passaporto per la felicità il certificato di miserabilità e di servitù 74.

In quello stesso mese don Minoretti teneva la prolusione del nuovo anno scolastico del Seminario di Milano, al sorgere del nuo- vo secolo. Il titolo era significativo: La missione scientifica e pratica del clero agli inizi del secolo XX 75. L’analisi storica era lucida:

È convinzione diffusa nei cattolici più insigni per studii sociali, che sia imminente un’ultima aspra e decisiva lotta fra il principio cristia- no ed il principio razionalista e materialista [...] Sia che la Chiesa per l’azione concorde e generosa del clero e dei cattolici riesca vincitrice in questo tremendo cozzo di forze avverse e ci scampi dal pericolo di cadere in una società ridivenuta pagana e barbara, sia che per manca- ta obbedienza ai reiterati inviti della Chiesa, a questa non sia riserva- to che l’ufficio di ripigliare l’azione dei primi secoli di fronte all’uma- nità abbrutita, sempre è vero che un ciclo storico sta per chiudersi ed un altro per aprirsi; l’uno di civiltà ed ordinamento materialistico, l’altro di civiltà cristiana 76.

74 CARLO DALMAZIO MINORETTI, Il XVII Congresso..., in «La Scuola Cattoli- ca», 10 (1900), pp. 248-250. 75 CARLO DALMAZIO MINORETTI, La missione scientifica e pratica del clero agli inizi del secolo XX, in «La Scuola Cattolica», 10 (1900), pp. 406-421. 76 Ibid., p. 407.

106 Vale la pena sottolineare l’altra valenza del discorso di don Minoretti: se l’analisi era impietosa, lo sguardo verso il futuro era carico di speranza.

E la Chiesa che non ha mai odiato il popolo, che l’ha raccolto disper- so, sollevato abbrutito, che insieme alla grazia lo ha educato alle virtù civili, volete oggi lo lasci in balìa dei nemici del nome cristiano e della società, oggi che le sorti della civiltà cristiana sono nelle sue mani? [...] Perciò la Chiesa non si accontenta di aprire i battenti dei suoi templi, di far echeggiare nell’aria i gravi suoni dei sacri bronzi, ma corre al popolo là dove si trova, disperso nei campi, stipato nelle officine, parla un linguaggio sensibile che può essere inteso, lo aiuta nella sue giuste rivendicazioni, non gl’impone come condizione e passaporto pel cielo la servitù e miserabilità in terra. Ecco se non erro la posizione che all’aprirsi del nuovo secolo prende la Chiesa, in que- sti ultimi tempi. Essa discende al popolo, all’ordine economico, e di qui coll’organizzazione, colla giustizia intende risalire le radiose vette di una integrale civiltà cristiana 77.

Questo, però, richiedeva nel pastore alcune condizioni precise:

Ma perché questa nuova ed urgente missione del clero abbia un esito felice sono necessarie condizioni ch’io mi permetto di enumerare: scien- za, amore, fede integra, condotta santa. In mezzo ad una società mate- rialmente progredita, religiosamente regredita, con un diffuso spirito di investigazione e disputa, il sacerdote non può presentarsi rispettato ed ascoltato se non fornito a dovizia di un’ampia coltura teologica ed economica; con questa a nessuno sarà secondo nell’aiutare il popolo; con quella saprà difendere e diffondere le ragioni della Chiesa e della fede. È stato detto che la soluzione della questione sociale non si avrà che attraverso ad inondazione di sangue, od inondazione d’amore. La seconda è il nostro ideale, le fonti donde deve sgorgare tale fiumana irrompente incoercibile di carità sono i cuori dei sacerdoti. Amatelo, o sacerdoti, il popolo, memori che i più di voi sono del popolo, amatelo, memori che fu amato da G.C. dalla Chiesa, amatelo nonostante la ru- videzza delle forme e dei tratti, amatelo poiché sotto rozze spoglie bat- te un cuore e rivela uno spirito che educato forse sarebbe più pregevo-

77 Ibid., pp. 417-418.

107 le del nostro, e ad ogni modo tiene un’anima cara a Dio. Mosè diede mano alla liberazione del popolo dopo avere accostato il roveto arden- te; s’accinse a dirigere le mobili volontà del popolo dopo avere riporta- to dal colloquio con Dio sul monte due luminosi raggi in fronte. Uscite dal tempio ma dopo esservi stati, dopo aver accostato il roveto ardente che è il Cuore di Cristo, riportandone impressi e manifesti i raggi della carità e della scienza divina 78.

In altre parole, per don Minoretti il prete deve animare la so- cietà con la sua santità. Questo era l’ideale costantemente propo- sto al clero ambrosiano. Un ideale sempre lontano, o meglio sem- pre oltre la meta raggiunta da un prete: la santità, che è l’unica condizione di fecondità pastorale, è come un cammino la cui meta viene costantemente spostata da Dio verso di Sé, poiché la santità sta nell’essere immersi nell’oceano d’amore di Dio. e) Quarta conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?

Possiamo dire che l’azione pastorale di Calabiana, ispirata al- l’assioma agostiniano «in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas», seppur osteggiata da diverse parti permise la maturazione del «dialogo» con la società, anche se essa era pre- giudizialmente ostile alla Chiesa. Calabiana chiese alla sua comu- nità ecclesiale di praticare il suo motto episcopale «Ognun mi sen- te»; di essere una Chiesa più aperta e pronta a farsi carico delle relazioni con il mondo. Era, in fondo, quello che Giovanni XXIII, figlio dell’Ottocento, propose con il suo discorso in apertura del Concilio Vaticano II:

Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso [la dottrina], come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la nostra età esige, proseguendo così il cammino, che la Chiesa compie da quasi venti secoli. [...] Lo spirito cristiano, cattolico ed apostolico del mondo intero, attende un balzo innanzi verso una penetrazione

78 Ibid., pp. 420-421.

108 dottrinale e una penetrazione delle coscienze; è necessario che que- sta dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispet- tata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigen- ze del nostro tempo. Altra cosa è infatti il deposito stesso della fede, vale a dire le verità contenute nella nostra dottrina, e altra cosa è la forma con cui quelle vengono enunciate, conservando ad esse tutta- via lo stesso senso e la stessa portata [...] Al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità; ritiene che si debba andare incontro alle necessità odierne esponendo più efficacemente il valore della dottrina piutto- sto che condannando [...] La Chiesa cattolica, innalzando con questo concilio la fiaccola della verità religiosa, vuole mostrarsi madre amorevolissima di tutti, benigna, paziente, mossa da misericordia e bontà verso i figli da lei separati 79.

Mons. Calabiana condusse così la sua comunità a maturare una coscienza ecclesiale più alta, più convinta dell’importanza della comunione, della fraternità, della concordia, dell’unità; più con- vinta – almeno come tensione ideale – dell’importanza della di- mensione fraterna, della comunione tra i diversi carismi ecclesiali, sia laicali che religiosi che presbiterali, più convinta dei carismi diversi che possono essere seminati da Dio anche all’interno delle diverse compagini ecclesiali, dei diversi ordines: in quanti modi si può vivere la comune vocazione al laicato, al sacerdozio, alla vita consacrata? Quando la nostra fantasia di uomini avrà esaurito le possibilità di pensarli, sarà ben lungi dall’essere esaurita l’infinita fantasia di Dio al riguardo. La Chiesa ambrosiana verso la fine dell’Ottocento continua a manifestare una vivace e primaria attenzione per la dimensione della carità vista sia come attenzione ai bisogni immediati degli ultimi, dei poveri, degli emarginati, sia come concreta attenzione alla dimensione politica e sociale, per affrontare con progettualità di soluzione il dramma dell’ingiustizia e della povertà. Nel fare

79 Su questo discorso: Fede, tradizione, profezia, Brescia 1984. Contiene la sinossi delle varie redazioni ed un commento di Giuseppe Alberigo. Si veda an- che: VINCENZO CARBONE, Il Concilio Vaticano II (= Quaderni de «L’Osservatore Romano» 42), Città del Vaticano 1998, pp. 29-39.

109 questo, dunque, si mostra una Chiesa non gelosa delle sue iniziati- ve e – anche se non sempre – non in polemica organizzativa con la realtà civile, quasi a dimostrare che «noi siamo più bravi», come spesso sembrava dire don Davide Albertario nel suo esaltare le iniziative ecclesiali e denigrare quelle governative. Era, piuttosto, un sincero desiderio di vivere ciò che è un proprium della Chiesa quanto il Vangelo, la dimensione caritativa e sociale, poiché «l’uo- mo è la via della Chiesa». Ma, allora, la Chiesa ambrosiana di fine Ottocento sembra an- ticipare quei fermenti che ritroveremo splendidamente espressi nell’enciclica programmatica di Paolo VI Ecclesiam Suam (6 ago- sto 1964), che era uno splendido invito al dialogo, e che non a caso si deve alla consulenza operosa di don Carlo Colombo:

Gesù Cristo ha fondato la sua chiesa, perché sia nello stesso tempo madre amorevole di tutti gli uomini e dispensatrice di salvezza. [...] Nessuno è estraneo al suo cuore materno. Nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo. Non a caso si dice cattolica; non a caso è incaricata di promuovere nel mondo l’unità, l’amore, la pace. La Chiesa non ignora le formidabili dimensioni d’una tale missione; conosce le sproporzioni delle statistiche fra ciò che essa è e ciò che è la popolazione della terra; conosce i limiti delle sue forze; conosce perfino le proprie umane debolezze, i propri falli; conosce anche che l’accoglimento del Vangelo non dipende, alla fine, da alcuno suo sforzo apostolico, da alcuna favorevole circostanza d’ordine temporale: la fede è dono di Dio; e Dio solo segna nel mondo le linee e le ore della sua salvezza 80.

Paolo VI, che fu vescovo di questa Chiesa ambrosiana, sospin- geva tutta la Chiesa su questo sentiero: egli per lei non desiderava altro che si facesse «ancella dell’umanità per servire l’uomo in ogni sua condizione, in ogni sua infermità, in ogni sua necessità».

80 Enchiridion Vaticanum, 2, Dehoniane, Bologna 1981, pp. 163-210. Su di essa si può leggere: «Ecclesiam suam». Première lettre encyclique de Paul VI. Colloque international ( 24-26 octobre 1980) (= Pubblicazioni dell’Istituto Paolo VI 2), Istituto Paolo VI - Studium, Brescia-Roma 1982.

110 Considerazioni conclusive

Possiamo, in conclusione, affermare che il volto della Chiesa ambrosiana dell’Ottocento è ancora quello tridentino, non ben definito se non attraverso la prassi consolidatasi nel corso dei due secoli precedenti e testimoniata dall’insegnamento del Catechi- smo cosiddetto tridentino. Lo si vede bene se si considera la figu- ra dell’episcopato, che è letto ancora soprattutto nel primato di giurisdizione, sino al caso limite di Giovanni Montecuccoli Caprara, che apre il secolo da noi considerato. Accanto a questa immagine episcopale, dobbiamo riconosce- re la singolare importanza del presbiterato e la sua radicale auto- nomia nei confronti del vescovo, come testimoniato dal testo – certo estremo – dell’Appello ai Parochi. All’interno del clero, poi, riscontriamo per tutto il secolo una presenza sinfonica di figure diverse di formazione e di esercizio del ministero presbiterale, che sebbene manifesti una non omoge- neità, permette anche un arricchimento, sia pure vivace e talvolta polemico, di stili pastorali, tutti tesi – nella reciproca e tensiva sollecitazione – a sottolineare con progressiva urgenza la dimen- sione pastorale, missionaria, sintetizzabile nella frase tipica del car- dinale Ferrari, sin dal suo primo sinodo diocesano (1902): «Dob- biamo uscire dalle case nostre, poiché tocca al pastore cercare le pecorelle e chi vuole fare più abbondante pesca ascolta le parole del Salvatore, non sta in casa, ma va al mare». Nella Chiesa ambrosiana dell’Ottocento riconosciamo una notevole importanza del laicato: esso è pienamente coinvolto nel- la vita pastorale ed ecclesiale, un coinvolgimento forse non tema- tizzato teologicamente – l’Apostolicam actuositatem è ancora lon- tana – ma convintamente praticato. Una comunità ecclesiale così vivace da arrivare a forti tensioni polemiche porta in progressiva emergenza i temi della missione, della carità, del dialogo culturale con il mondo coevo. Volendo ulteriormente precisare, potremmo sinteticamente af- fermare quanto segue:

1. Il punto di partenza è quello di una Chiesa che ha forti tra- dizioni caroline, almeno formalmente; che vive la tentazione del

111 gallicanesimo, di una Chiesa, cioè, soggetta allo Stato e che insie- me è rivolta alle «novità» straniere, d’oltralpe; che è fortemente attenta alla dignità dell’uomo ed alla catechesi. 2. Questo si realizza attraverso (o determina) un forte coinvol- gimento laicale, una Chiesa assolutamente capace di dialogo in- terno, una Chiesa gelosa della sua autonomia dal potere imperiale e regio, sia esso napoleonico, austriaco, sabaudo. 3. Una Chiesa che riscopre (trasforma, attualizza) la dimensione della carità sia attraverso le soppressioni degli ordini non utili (scel- ta mantenuta da Gaisruck), sia attraverso lo stile del prete ambro- siano tradizionale, che mira ad una parrocchia vasta quanto l’om- bra del campanile sulle case; con un parroco amico e conoscente di tutti e consigliere agricolo in campagna e dotto professore in città. 4. Il prosieguo delle vicende complesse e delle tensioni, favori- to dalle stesse scelte austriache, determina un volto di Chiesa am- brosiana che sottolinea fortemente la fedeltà al papa e il legame con Roma, la preferenza per la scelta della fine del potere tempo- rale, vista come occasione di attenzione alla dimensione pastorale ed universale della Chiesa. Un’attenzione al papato romano che si coniuga con un tradizionale e forte senso dell’obbedienza al Ve- scovo, secondo l’assioma ripreso e divulgato da Nazari di Calabia- na: «Ubi Petrus, ibi Ecclesia Mediolanensis», che si può leggere sottolineando volta a volta la prima parte o la seconda... 5. La permanenza di un vivace dibattito intraecclesiale deter- mina una dottrina vicina al Concilio Vaticano II, che passa attra- verso l’importanza del presbiterio, che trascina con sé la matura- zione di un volto di Chiesa dialogante e fraterno e, attraverso que- sto, la maturazione del «dialogo» con la società, anche quando fosse ostile, così come determina una Chiesa più aperta e pronta a farsi carico delle relazioni con il mondo, con tutto il mondo, tesa ad essere fedele al mandato del suo Signore: «Andando, battezza- te tutti gli uomini, fino all’estremità della terra» (cfr. Mt 28,19). 6. In ultimo: una Chiesa, quella ambrosiana, che sentì natura- le, anzi suo bene prezioso, avere dei figli da destinare alla missio- ne.

112 NUOVI IDEALI MISSIONARI: ROSMINI, LUQUET, RAMAZZOTTI di Fulvio De Giorgi

Figura e importanza di Rosmini

Dopo la profonda crisi che le missioni cattoliche avevano at- traversato dal Settecento al primo Ottocento, la ripresa cominciò con la nomina – il 2 ottobre 1826 – del card. Mauro Cappellari, camaldolese, a prefetto della Congregazione di Propaganda Fide. Egli fu il primo prefetto a fissare la propria residenza nel palazzo di Propaganda e a creare un circolo di collaboratori ed amici che, condividendo le sue idee culturali e spirituali – che possono defi- nirsi ispirate a uno zelantismo riformatore –, rilanciassero nello stesso tempo la tradizionale linea missionologica e pastorale di Propaganda Fide. Insieme ed accanto a Cappellari vi furono, dunque, il suo con- fratello card. Zurla, che era stato prefetto degli studi nel Collegio Urbano di Propaganda, mons. Castruccio Castracane degli Alte- minelli, segretario della Congregazione dal 15 dicembre 1828 (fino al 1833), il laico Gaetano Moroni, segretario personale del Cap- pellari, dal quale ebbe l’incarico di trascrivere il registro dei docu- menti d’archivio di Propaganda e che fu poi autore del notissimo, enciclopedico Dizionario di erudizione ecclesiastica. Minutante di Propaganda Fide era poi don Gaspare del Bufalo, il fondatore dei

Fulvio De Giorgi insegna storia contemporanea presso l’Università Cattolica di Brescia. Si occupa di storia della cultura e dell’educazione nel- l’età contemporanea, con particolare riferimento alla storia religiosa e della spiritualità. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: La scienza del cuore, spi- ritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini; Cattolici ed educazione tra Restaurazione e Risorgimento. Inoltre ha curato il volume Daniele Comboni tra Africa ed Europa.

113 Missionari del Preziosissimo Sangue, che nel 1826 fu incaricato di stendere la bozza di due lettere che il papa avrebbe inviato l’una ai vescovi dello Stato Pontificio affinché promuovessero vocazioni missionarie nel loro clero, l’altra a tutti i sacerdoti e regolari catto- lici invitandoli a prendere in considerazione la possibilità di di- ventare missionari di Propaganda Fide. A Roma giungeva poi, alla fine del 1828, per restarvi fino al 1830, Antonio Rosmini, che già era stato nell’Urbe, ma per poco tempo, nel 1823 (aveva, in quel- l’occasione, conosciuto di persona sia Zurla sia Cappellari, con il quale peraltro era in contatto epistolare fin dal 1821). Ritornando a Roma nel 1828, dunque, il Roveretano riprendeva stretti contat- ti con il prefetto di Propaganda Fide e con il circolo che attorno a lui si riuniva. Proprio a Roma, nel 1830, Rosmini pubblicò due sue opere fondamentali: le Massime di perfezione cristiana e il Nuovo saggio sull’origine delle idee. Esse ebbero un notevole successo, furono accolte favorevolmente dal Cappellari e da altri prelati ed intellettuali e diedero grande fama e lustro al Roveretano. Le prime due massime di perfezione cristiana erano: «I. Desi- derare unicamente ed infinitamente di piacere a Dio, cioè di esse- re giusto. II. Rivolgere tutti i propri pensieri ed azioni all’incre- mento e alla gloria della Chiesa di Gesù Cristo». Spiegando la seconda massima, Rosmini chiariva che il cristiano non si poteva mai sbagliare se rivolgeva il suo pensiero, il suo affetto, il suo im- pegno a tutta la Chiesa (la stessa sicurezza, invece, non vi poteva essere nel caso si dovesse trattare di una sola parte, non essenziale – nella sua particolarità – alla Chiesa universale):

Se dunque il cristiano che si propone di secondare la sua vocazione e seguire la sua perfezione, non ha tolto a far altro che a cercar in tutte le cose la gloria di Gesù Cristo, la sua professione consiste per neces- saria conseguenza nell’occupare le sue forze a servire unicamente alla Santa Chiesa: a questa, in qualunque modo egli può, dee pensare, e per questa desiderare di logorar le sue forze, e di versare il suo san- gue, ad imitazione di Gesù Cristo e de’ martiri. [...] Come adunque egli dee aver sempre presente la celeste gloria, così pure egli dee aver sempre presente in tutte le sue operazioni la caducità di tutte le altre cose, il loro repentino transito, e la morte, come mezzo all’ultimo celeste riposo. Camminerà adunque in questa vita, come se ogni gior-

114 no dovesse abbandonare tutto, come se dovesse morire ad ogni istante, senza far per sé lunghi provvedimenti.

Nel Nuovo saggio sull’origine delle idee, che fu certo una delle più importanti e profonde opere filosofiche del primo Ottocento europeo, Rosmini affermava come in ogni uomo vi fosse il lume della ragione, che non è Dio ma è il divino nell’uomo (e ciò spiega pure perché, sul piano spirituale e pastorale, egli insistesse sull’amore che il cristiano deve avere per ogni uomo, anche se non fa parte della Chiesa). In ogni uomo, inoltre, secondo Rosmini, era innata l’idea dell’essere, fondamento del pensiero umano e della conoscen- za. La dottrina tradizionale del pensiero cristiano era, dunque, ri- presa con originalità dal Roveretano e temprata nel fecondo rap- porto critico con la filosofia moderna. L’universalità della verità, fondamento implicito dell’azione missionaria, era pertanto giustifi- cata teoricamente con un’argomentazione robusta ed aggiornata. A Roma e negli ambienti di Propaganda, Rosmini inoltre co- nobbe alcune personalità che gli rimasero sempre affezionate, di- mostrandogli stima sincera e apprezzando il suo lavoro filosofico. Paolo Barola, lettore di filosofia morale nel Collegio Urbano di Propaganda, fu un suo caldo ammiratore, ebbe con lui un intenso carteggio, divenne seguace delle sue dottrine e ne sostenne l’orto- dossia fino alla morte (nel 1863). Rosmini conobbe pure due giovani veronesi, Giovanni Batti- sta Giuliari e Ludovico De Besi. Giuliari giunse a Roma nel no- vembre 1829, si iscrisse alla Gregoriana ma frequentò pure alcuni corsi al Collegio Urbano. Qualche tempo dopo lo seguì De Besi, accolto come alunno del Collegio di Propaganda Fide. I due vero- nesi, che si incoraggiavano vicendevolmente all’impegno missio- nario, conobbero Rosmini e gli rimasero poi sempre affezionati, tanto da essere fra coloro che gli testimoniarono per iscritto la loro immutata amicizia dopo la messa all’Indice, nel 1849, delle Cinque piaghe della Santa Chiesa. Entrambi, incoraggiati da Cap- pellari, coltivarono progetti missionari, ma con esiti diversi. Giu- liari, ordinato sacerdote a Verona nel 1834, tornò a Roma e fre- quentò i corsi di teologia di Propaganda Fide. Nonostante il suo forte desiderio non riuscì però a partire per le missioni e infine,

115 consigliato dallo stesso Rosmini, rimase a Verona, dove fu biblio- tecario della Capitolare. De Besi, alunno – come si è detto – del Collegio Urbano, fu in intima relazione col Cappellari che gli con- fidò tra l’altro la sua meraviglia per la mancanza in Italia di un seminario per le missioni estere. Egli fu poi missionario in Cina, vicario apostolico di Shan-Tong. Rimase sempre in contatto, oltre che col Cappellari, con Rosmini e con Giuliari, ma fu anche amico di Ramazzotti. In realtà l’indirizzo missionario del De Besi era piuttosto tradizionale e rimase sostanzialmente distinto dalle po- sizioni rosminiane. Tuttavia Giuliari e De Besi ebbero una notevole importanza nell’impulso dato all’ambiente veronese e dunque nel ruolo di primo piano giocato da Verona nella storia del movimento mis- sionario. Essi stabilirono un legame significativo con Roma e con Propaganda Fide. Furono vicini a don Nicola Mazza, al suo isti- tuto e ad alcuni mazziani come don Francesco Oliboni, don Lui- gi Dusi, don Angelo Vinco, più sensibili alla vocazione missiona- ria e che poi in effetti partirono per le missioni. Ma la loro vici- nanza a Rosmini fece partecipi Giuliani e, sia pure in modo più mediato, De Besi anche dello svilupparsi delle simpatie rosmi- niane a Verona. Ancora una volta fu importante l’ambito del- l’Istituto Mazziano, a partire dallo stesso Mazza – che aveva ri- cevuto una decisiva influenza da parte del filippino Antonio Cesari, molto legato a Rosmini – ma poi pure di altri membri dell’istituto, come Alessandro Aldegheri e, soprattutto, - sco Angeleri. Si andava così profilando, in Verona, un indirizzo spirituale, culturale e missionario sostanzialmente diverso da quello, di ma- trice filogesuitica, rappresentato da Gaspare Bertoni e dalla Con- gregazione degli Stimmatini. Mazza manteneva buoni rapporti con i religiosi delle Sacre Stimmate, ma la sua posizione era autonoma e nel suo istituto, come si è visto, cresceva l’influenza rosminiana, tanto da pesare negativamente, in un momento successivo, sui rap- porti dei mazziani con Roma. Nel 1853, infatti, dopo che Mazza aveva nominato Angeleri vicesuperiore per le opere maschili e vi- cerettore dell’Istituto fondamentale e Aldegheri rettore dell’Isti- tuto fondamentale, don Tommaso Toffaloni – responsabile vero-

116 nese dell’Opera della Propagazione della Fede e vicino agli Stim- matini – scriveva a Propaganda Fide, denunciando l’influenza del rosminianesimo sull’Istituto Mazziano, implicitamente assumen- dolo come screditante sul piano dell’iniziativa missionaria. Circo- stanze non chiare portarono poi nel 1856 all’abbandono dell’isti- tuto da parte di Aldegheri e di Angeleri, pur rimasti in buoni rap- porti col Mazza. Tuttavia il sospetto di rosminianesimo doveva permanere a lungo sull’ambiente mazziano. Soltanto molto tem- po dopo, col Comboni, questa «frattura veronese» sarebbe stata in un certo senso superata. L’importanza di Rosmini, peraltro, era anche propriamente interna all’ambito missionario: nel 1828, prima di recarsi a Roma, egli aveva steso le Costituzioni dell’Istituto della Carità, che aveva sottoposto all’attenzione del Cappellari. La nuova congregazione religiosa cominciava a svilupparsi, assumendo subito una fisionomia missionaria peculiare: nel 1835, infatti, l’Istituto della Carità iniziava una missione in Inghilterra. Alla fine del 1838 si aveva poi l’approvazione romana delle Costitu- zioni. Nella sua struttura l’Istituto della Carità prevedeva un quarto voto di speciale obbedienza al papa, «in modo da essere disposti ad andare immediatamente ovunque gli piaccia di man- darli, tra i Fedeli o gli Infedeli, anche senza sussidio di viaggio, e a servire alacremente alla Chiesa di Dio, anche col dare la propria vita, a quel modo che prescriverà lo stesso Pontefice, in tutto quello che si degnerà di loro comandare» 1. Il tema del- le missioni era affrontato specificamente nel capo V della parte VIII delle Costituzioni. Tra l’altro Rosmini stabiliva: «chi sarà designato dal Sommo Pontefice a recarsi in qualche luogo, si offra generosamente senza chiedere né da sé né per mezzo d’altri nulla per il viaggio, ed anzi sia mandato dal Sommo Pontefice nel modo che Sua Santità, non tenendo in ciò alcun conto di altra cosa, giudicherà dover riuscire al maggior ossequio di Dio

1 A. ROSMINI, Costituzioni dell’Istituto della Carità [d’ora in poi Cost.], Stresa- Trento 1974, n. 7.

117 e della Sede Apostolica» 2. In altri termini Rosmini voleva che i suoi missionari si abbandonassero completamente alla volontà della Santa Sede, rimettendosi in tutto alle sue istruzioni 3 e, dun- que, lasciando a Roma anche l’indicazione specifica dell’indirizzo missionario da seguire: «se uno fosse mandato a una missione, dovrebbe essere avvisato, oltre il resto, se debba andare a guisa dei poveri, senza veicolo o giumento, e senza denaro, o con mag- giore comodità; e così pure se debba servirsi di lettere di presenta- zione, ecc.» 4.

Luquet e la Neminem Profecto

L’ascesa al soglio pontificio del Cappellari nel 1831 dava un notevole impulso all’impegno romano per le missioni. Con Gre- gorio XVI, per la prima volta, un prefetto di Propaganda Fide diveniva papa. Sempre nel 1831, Angelo Mai – che dal 1828 era anche rettore del Collegio Urbano – scoprì nella Biblioteca Vati- cana, dove era primo scrittore, il manoscritto di Nicola Forteguer- ri che descriveva le missioni cattoliche. Nel pubblicarlo, il Mai invitava a seguire l’esempio del Forteguerri, suggeriva di tracciare una descrizione aggiornata delle missioni e anche proponeva un’opera originale. Egli infatti auspicava: «Un’altra lodevole ope- ra, da trarsi similmente dai registri della Propaganda, sarebbe l’epi- scopologio cattolico nelle regioni di eterodossi o d’infedeli; ed una quasi geografia cattolica romana de’ nostri tempi: il quale proget- to mi risveglia il desiderio di altra opera assai maggiore e di este- sissima utilità, cioè dell’orbis christianus, ossia episcopologio uni- versale» 5. Appare estremamente significativa questa sensibilità del Mai rispetto all’episcopato, in prospettiva missionaria. Del resto

2 Cost., n. 586. 3 Cost., n. 589 (cfr. anche n. 714 D.). 4 Cost., n. 727 D. 5 [A. MAI], Memorie intorno alle missioni di Africa, di Asia e di America, estratte dall’Archivio di Propaganda Fide d’ordine della santa memoria di Clemen- te XI dal celebre Nicolò Forteguerri che fu segretario della medesima Propaganda, Roma 1831, p. 2.

118 nel 1833 Angelo Mai divenne segretario di Propaganda Fide – subentrando al Castracane – e tenne questo ufficio fino al 1839 quando divenne cardinale. Nel dare un più forte impulso allo slancio missionario cattoli- co, Gregorio XVI operò secondo due indirizzi: una linea che si potrebbe dire di restaurazione e una invece di innovazione. Per quanto riguarda la prima, essa si espresse nell’esortare la Compa- gnia di Gesù a riprendere su vasta scala il suo antico impegno missionario. In effetti nel 1833, a seguito della circolare del padre generale Roothaan, De missionum esterarum desiderio excitando et favendo, si ebbe un progressivo aumento del numero dei Gesu- iti impegnati nelle missioni. D’altra parte, Gregorio XVI, convinto assertore dell’ideale zelante della libertas Ecclesiae e dunque ostile all’ingerenza del potere temporale, si impegnò per separare l’opera di evangelizza- zione dalle forme di controllo politico coloniale. Ciò, in particola- re, portò a un rapido e talvolta traumatico superamento del seco- lare istituto del Patronato, tanto rispetto alla monarchia spagnola quanto a quella portoghese. Di grande importanza ideale fu poi, il 3 dicembre 1839, la let- tera apostolica In Supremo, fermamente antischiavista, dunque con una chiara condanna della tratta dei neri e, soprattutto, dell’ideo- logia razzista che ne costituiva il presupposto. Papa Cappellari sottolineava l’uguaglianza naturale di tutti gli uomini. Se tale so- lenne pronunciamento non ebbe forse subito, nel mondo cattoli- co italiano, la diffusione che meritava (perfino riviste missionarie non vi fecero cenno), esso fu invece accolto con vivo consenso in quegli ambienti che, come si è visto, erano in qualche modo colle- gati a Rosmini: fu il caso, per esempio, di don Mazza e dei mazzia- ni a Verona. Del resto fu proprio Rosmini, nella sua Filosofia del diritto, a dimostrare, sulla base del riconoscimento della dignità della persona, l’insostenibilità teorica della schiavitù, che pertan- to doveva essere – a suo parere – immediatamente e totalmente abolita ovunque. Il 15 agosto 1840 Gregorio XVI emanò poi la Probe Nostis, la prima enciclica pontificia esplicitamente e unicamente dedicata alle missioni. Anche in questo documento i toni tradizionali si in-

119 trecciavano a registri innovativi: se le missioni erano viste, con toni bellicosi e trionfalisti, collegate a un impegno «civilizzatore», tuttavia l’insistenza era sull’evangelizzazione svolta senza sostegni umani e con una disponibilità al martirio che il papa collegava esplicitamente all’esempio della «prima età della Chiesa». Grego- rio XVI invitava i vescovi cattolici a sostenere l’Opera della Pro- pagazione della Fede e altre istituzioni simili, come la viennese Società Leopoldina. Ricordava pure, con approvazione e soddi- sfazione, quelle altre società – come l’Istituto della Carità 6 – «le quali, sotto l’autorità della stessa Chiesa, ciascuna a proprio modo, contribuiscono con l’unione delle forze ai doveri di carità, all’istru- zione dei fedeli e alla diffusione della fede». Ma, ancor più significativa dell’enciclica Probe Nostis, fu l’istruzione Neminem Profecto, indirizzata il 23 novembre 1845 da Propaganda Fide a tutti i capi di missioni. Con tale istruzione si voleva promuovere la moltiplicazione delle Chiese locali nei territori evangelizzati, attraverso la creazione di vescovati 7. A questo scopo si insisteva sulla creazione del clero indigeno. Inol- tre si osservava come i missionari dovessero occuparsi, in primo luogo, dell’educazione dei giovani per puntare all’autopromo- zione dei popoli evangelizzati, e dunque alla loro autonomia e non alla loro dipendenza dagli europei. L’istruzione riprendeva e rilanciava quella che era sempre stata la linea di Propaganda Fide, a favore della creazione del clero indigeno: una linea che era stata più volte e in vari modi osteggiata e disattesa, ma che non era mai stata abbandonata. Peraltro proprio in questo spiri- to era stata fondata, verso la metà del XVII secolo, la Società per le Missioni Estere di Parigi la quale, del resto, negli anni ’20 e ’30 dell’Ottocento conosceva un significativo avvio di una nuo- va fioritura. Fu dunque proprio un membro delle Missioni Estere di Pari-

6 Che non era citato, ma che certo era compreso in tale indicazione: del resto le sue Costituzioni erano state appena approvate da Roma. 7 In effetti, durante il suo pontificato, Gregorio XVI creò circa una settanti- na tra vescovati, vicariati e prefetture di missione.

120 gi, Jean-Félix-Onésime Luquet, a provocare con il suo appassio- nato impegno la Neminem Profecto. Nato nel 1810 in Francia, Luquet era entrato dapprima nel Seminario di S. Sulpizio e poi, dal 19 luglio 1841, nel Seminario delle Missioni Estere di Parigi. Dopo essere stato ordinato sacerdote, partì il 21 dicembre 1842 per la missione di Pondichéry, un immenso vicariato dell’India meridionale 8. Qui, in seguito alla celebrazione di un sinodo nel gennaio 1844, il vescovo Clément Bonnand, personalità di grande rilievo, decise di inviare Luquet a Roma per far approvare le deli- berazioni sinodali, in particolare per l’auspicato stabilimento del- la gerarchia cattolica in India. Un osservatore privilegiato, Gaetano Moroni, ben addentro – come si è visto – alle questioni di Propaganda Fide e segretario personale del papa, così dava conto degli avvenimenti, nel volume XXXIV del suo Dizionario di erudizione, pubblicato proprio nel 1845, alla voce Indie Orientali:

Il principale scopo del Sinodo che si è tenuto in Pondichery nel mese di gennaio 1844, fu di provvedere ai mezzi efficaci di formare un buon clero indiano, secondo il fine della Santa Sede, quando stabilì la congregazione ossia il seminario delle missioni estere di Parigi. In questo sinodo, che farà certamente epoca nella storia ecclesiastica dell’Indostan, si trattò dell’importanza del clero indigeno in genera- le, e della necessità di un tal clero nell’Indostan particolarmente. Poi si discusse sopra i mezzi più adatti per stabilire con frutto i seminari per gli studi di teologia, altre scienze e belle lettere. Ma siccome la gioventù senza avere ricevuta una educazione buona nella prima età, di raro può perfettamente adattarsi poi agli studi ed anche alle virtù necessarie allo stato ecclesiastico, e siccome la necessità dell’istruzio- ne si sente vivamente per tutta la popolazione indiana tanto per gli uomini che per le donne, così il sinodo ha fatto della questione delle

8 L’India meridionale, sotto il nome di Missione del Malabar, era stata affida- ta alla Società per le Missioni Estere di Parigi nel 1776, in seguito alla soppres- sione della Compagnia di Gesù. Dopo il ristabilimento dei Gesuiti e il loro rin- novato impegno missionario, la Compagnia di Gesù riprese il Madura, ma il vicariato di Pondichéry rimase ai missionari delle Missioni Estere di Parigi.

121 scuole in generale il soggetto delle sue più importanti deliberazioni, dopo quelle riguardanti al clero indigeno. Le altre deliberazioni del sinodo spettarono a diversi punti di disciplina.

Dopo aver riassunto i lavori e le deliberazioni del Sinodo di Pon- dichéry, Moroni proseguiva dando conto degli sviluppi romani:

In seguito dallo stesso sinodo fu mandato in Roma il sacerdote fran- cese Giovanni F.O. Luquet di Langres, del seminario delle missioni estere di Parigi, zelante missionario di Pondichéry, coll’incarico di umiliare alla Santa Sede le deliberazioni dell’assemblea, insieme con diversi progetti importanti per l’incremento e maggior stabilità della regione cattolica in queste parti dell’Indie. Il pontefice Gregorio XVI, e la sacra congregazione di Propaganda Fide hanno accolto questi progetti con favore, facendo concepire le più belle speranze ai mis- sionari e benemerito vicario apostolico di Pondichery. Gli atti di sud- detto Sinodo, dopo la presentazione di un importante memoriale scrit- to dal sacerdote Luquet sotto questo titolo: Eclaircissements sur le Synode de Pondichéry, furono approvati dalla congregazione di pro- paganda. Quindi sulla proposizione dei cardinali della medesima, fu proposta una istruzione generale per tutti i vescovi e missionari del mondo per raccomandar loro l’applicazione dei principii esposti ne- gli Eclaircissements. In una adunanza dei cardinali di Propaganda Fide, la suddetta istruzione fu da loro esaminata e approvata, quindi sottomessa alla suprema sanzione del Papa. Sempre nello stesso volume del Dizionario di erudizione, alla voce Indigeno Clero, Moroni citava ancora il sinodo di Pondichéry e l’istru- zione Neminem Profecto, ma soprattutto, sulla scorta dell’opera di Luquet Lettres à Mgr. l’Evêque de Langres sur la Congrégation des Missions Etrangères (Paris 1843), ricostruiva l’impegno di Propa- ganda Fide a favore della costituzione di un clero indigeno. I cardinali che avevano esaminato la Ponenza, estratta dallo scrit- to di Luquet, proposero al papa che il religioso fosse nominato co- adiutore del vicario apostolico mons. Bonnand. Gregorio XVI ap- provò il suggerimento della congregazione e il Luquet, nominato vescovo di Hesebon in partibus, fu consacrato nella chiesa di S. Ma- ria in Vallicella, dei Filippini, dal card. Giacomo Filippo Fransoni, prefetto di Propaganda Fide, il 7 settembre 1845. Tuttavia sia l’istru-

122 zione Neminem Profecto sia la nomina di Luquet a coadiutore di Bonnand trovarono opposizioni di vario tipo, così che il Luquet nel 1851 fu costretto a dimettersi dalla coadiutoria e si ritirò nel Semi- nario francese di Roma, dove morì il 3 settembre 1858.

Il sinodo di Pondichéry

La presenza di Luquet in Italia dal 1845 al 1858 fu comunque significativa, sia per la sua opera di scrittore impegnato – anche se non unicamente – a favore della causa del clero indigeno, sia per la rete di contatti personali che riuscì a stabilire. Tra l’altro egli fu amico di Rosmini (il quale ne condivideva gli ideali missionari) ed ebbe anche un ruolo importante nella nascita del Seminario Lom- bardo per le Missioni Estere. Nel 1843 Luquet inviò a Rosmini, che evidentemente già sti- mava ed apprezzava, il suo volume di lettere che illustravano la storia delle Missioni Estere di Parigi. Il 31 marzo dello stesso anno Rosmini gli rispondeva:

L’istruzione e la consolazione spirituale che m’arrecò la lettura delle vostre lettere a Mr. Vescovo di Langres sulla Congregazione delle Missioni Straniere, non mi concede di tenere in me la gratitudine che Vi porto pel dono del vostro libro, e mi muove a manifestarvela, por- gendovi in iscritto i miei più vivi ringraziamenti. Oltre quell’accesa pietà e zelo per la diffusione del Vangelo, che spira da un capo all’al- tro questo vostro erudito lavoro; vi ho trovato ben sovente de’ senti- menti così conformi ai miei, che ho dovuto concepire, insieme colla stima, uno speciale affetto in Gesù Cristo al suo autore. Io mi pro- pongo di far leggere le vostre lettere ai Sacerdoti del minimo nostro Istituto, ai quali son certo che non potrà che comunicare dello Spiri- to, e crescere via più il loro ardore per le Missioni fra gl’infedeli, alle quali debbono trovarsi sempre pronti, secondo lo spirito della loro vocazione, e l’impegno che ne hanno preso entrandovi.

Rosmini, dunque, fin d’allora segnalava una profonda sintonia col Luquet e con gli indirizzi missionari (ma forse anche spiritua- li) delle Missioni Estere di Parigi. E concludeva la sua lettera: «Id-

123 dio benedica e fecondi le vostre fatiche! Benedica e fecondi quelle de’ zelanti vostri confratelli! Faccia egli ancora che alle vostre fa- tiche apostoliche possiamo aggiunger le nostre, e non solo le fati- che, ma ancora il sangue!» 9. Il 29 febbraio 1844 Luquet rispondeva a Rosmini, dall’India, chiamandolo «Reverendissimo e (lo dirò benché non ne abbia il diritto) amatissimo Padre in Cristo Gesù». Il francese dimostrava di aver compreso benissimo il punto fondamentale in cui il pen- siero missionario rosminiano si incontrava col suo e con la tradi- zione della sua congregazione: la questione del clero indigeno. Luquet scriveva infatti al roveretano:

Con massimo piacere e vera riconoscenza ho ricevuto la sua onoratissima lettera nei primi mesi del mio soggiorno in questa cele- bre vigna del Signore, nella quale vedo gran lavoro ed assai pochi lavoratori. La detta lettera, che conserverò preziosamente per me- moria della sua benevolenza verso di me, mi ha fatto conoscere che lei voleva stabilire le sue missioni future sul vero principio che la Santa Chiesa ha ricevuto da N.S. e dagli apostoli. Di tutto cuore mio ne ringrazio la bontà di Dio! Faccia questo Padre benedetto delle misericordie che quanto prima i missionari dell’Istituto della Carità possieno lavorare fra gl’infedeli alla formazione di questi boni e santi sacerdoti indiani, chinesi, ecc. che tutti noi desideriamo tanto. Poi- ché, senza di tali sacerdoti, la santa Chiesa romana nostra carissima madre, non vedrà mai la religione fondata in queste regioni di modo che non sia più possibile di distruggerla per le persecuzioni e le altre calamità che vengono spesso contra il Regno di Cristo 10.

Il sinodo di Pondichéry si era concluso da appena quindici giorni e Luquet dunque ne scriveva a Rosmini con entusiasmo:

Son certo che lei saprà con massima consolazione, che, nel mese di Gennaro passato, noi abbiamo celebrato il primo sinodo che sia sta-

9 Archivio Storico dell’Istituto della Carità - Stresa [d’ora in poi ASIC], A. 1, XVIII, 1843, 523 (394); cfr. A. ROSMINI, Epistolario Ascetico [d’ora in poi EA], III, Roma 1912, p. 23. 10 ASIC, A. 1, XIX, A-M, 1844, 846 r (589).

124 to mai tenuto in Pondichéry. Il reverendissimo ed illustrissimo vesco- vo di Drusipara nostro tanto degno Vicario Apostolico ci ha tutti convocati, francesi o indiani missionari per quella venerabile assem- blea, e tutti (25 francesi e 5 indiani) venirono. [...] Prima di tutto, abbiamo stabilito di una voce solenne ed unanime che d’or innanzi, la perfetta educazione del clero indiano sarebbe più che mai l’ogget- to delle nostre prime cure e più particolari lavori. Appena due setti- mane son passate dal tempo che fu terminato il sinodo, e la bontà pietosa di N.S. ci ha dato le grazie più abbondanti per l’esecuzione dei nostri progetti. In questo momento abbiamo ottanta scolari nel collegio nostro di Pondichéry; fra i quali trenta mostrano belle dispo- sizioni per lo stato ecclesiastico 11.

Luquet si augurava che tutti i vicari apostolici di quelle regioni asiatiche seguissero l’esempio di mons. Bonnand, anche se ricor- dava le parole di un vicario apostolico inglese in India che aveva giurato di non ordinare mai un indigeno. Il sacerdote francese si augurava infine di vedere missionari dell’Istituto della Carità la- vorare alla formazione del clero indiano. Quando dunque nel 1845 Luquet fu a Roma, egli prese contatto con i religiosi rosminiani. Fece avere a Rosmini, tramite Carlo Gi- lardi, la sua Memoria sul sinodo presentata a Propaganda Fide. Nel luglio dello stesso anno, inoltre, scrisse al Roveretano per metterlo a parte dell’approvazione della Ponenza, decisa dalla congregazione, ma comunicandogli pure i tentativi messi in atto dalle «persone che voi sapete» per ridurre la portata di tale decisione e raccontando anche i problemi avuti con alcuni Gesuiti 12. Il 23 luglio Rosmini gli rispondeva, accennando subito al testo della Ponenza:

Io la trascorsi con infinito mio piacere, perché lo posso ben assicura- re che quelle sono sempre state le cose che mi vennero in mente fin dal principio ch’io presi a pensare all’opera delle missioni. Io non sapevo (saranno almeno vent’anni fa) come s’intendesse la cosa a Roma, e andavo meco stesso maravigliato a veder come quasi per tre secoli le missioni s’affidassero a semplici religiosi senza pensiero di Vescovi e di clero indigeno; che mi parevano [cose] sì chiare e co-

11 Ibid., 846 r-v. 12 ASIC, A. 1, XX, 1845, 717-718 (504).

125 stantemente praticate da tutta la sacra antichità. La sua bella esposi- zione alla S.C. giustifica a pieno colla storia a mano la Santa Sede; la quale non mancò di fare degli sforzi per conseguire que’ due impor- tantissimi oggetti, benché fosse contrariata dalle circostanze e il sa- per questo, il saperlo comprovato di fatti e di documenti positivi, mi recò grandissima consolazione: perché io mi consolo di tutto ciò che torni in onore della Santa Sede, e del contrario mi contristo. La rin- grazio dunque oltremodo del prezioso regalo, che tengo carissimo come un importante monumento da giovarsene a buon tempo 13.

In effetti nell’archivio dell’Istituto della Carità si conserva la co- pertina del Ristretto con Sommario e Schiarimenti sulle delibera- zioni del Sinodo tenuto in Pondichéry etc. in addizione alla Ponenza analoga, contenente gli atti suddetti: ha l’intestazione della Sacra Congregazione di Propaganda Fide, è datato maggio 1845 e il po- nente è il card. Angelo Mai. Su tale copertina, Rosmini aveva anno- tato di suo pugno: «Conformità colle nostre massime. 1 Vescovi. 2 Clero indigeno» 14. Peraltro è significativo che al n. 791 delle Costi- tuzioni dell’Istituto della Carità, Rosmini avesse stabilito: «È som- mamente desiderabile che alcuno di coloro che sono deputati alle missioni degli infedeli sia consacrato Vescovo. I nostri missionari poi devono aver somma cura che i Vescovi non manchino alle nuo- ve Cristianità e che in esse a poco a poco si educhi un clero indige- no» 15. Successivamente, Luquet inviò a Rosmini l’edizione degli atti del sinodo di Pondichéry, corredati dai documenti di Propaganda Fide. Il Roveretano gli rispose per ringraziarlo e per felicitarsi per la sua promozione all’episcopato. Nella lettera, del 30 marzo 1846, egli dunque scriveva al francese alludendo alla Neminem Profecto: «L’Istruzione da Lei provocata ed ottenuta sarà memorabile nella Storia delle Missioni a’ popoli infedeli, e gloria immortale del Cor- po, a cui Ella appartiene. I due principij del Clero indigeno e del- l’Episcopato saranno d’ora in avanti regole immutabili, e le Mis- sioni si estenderanno così allo stesso modo, nel quale le estesero e

13 ASIC, A. 1, XX, 1845718 v (505). 14 ASIC, A. G. 2, 627 r. 15 Cost., n. 791.

126 diffusero gli Apostoli. Da gran tempo io era venuto meco stesso desiderando, che la Santa Sede facesse de’ nuovi sforzi per incam- minar le Missioni su questa via; ma vedendo gli ostacoli (colpa la mia poca fede) appena osava sperarlo» 16. Qualche mese più tardi, il 5 maggio 1846, Rosmini – in una lettera a un chierico trentino – esprimeva i suoi convincimenti circa l’adeguata preparazione, ne- cessaria all’apostolato missionario: «Primieramente l’opera delle sacre missioni è santissima, ed è somma grazia, se Iddio chiama a sì sublime ministero. In secondo luogo, è anche sommamente ar- dua e pericolosa, e perciò esige tre condizioni: la prima, che sia ben accertata la vocazione; la seconda, che chi è chiamato si pre- pari ad essa colla santità della vita; la terza, che nella maniera di dar mano a tant’opera si usi di ogni prudenza per cautelarsi con- tro i pericoli spirituali e per poter raccogliere frutto più copioso delle proprie fatiche» 17.

Il clero indigeno e i riti orientali

Il tema della seria preparazione, che Rosmini riteneva necessa- ria per intraprendere l’apostolato missionario, ritornava nella let- tera del 10 giugno 1846 che il Roveretano scrisse al Luquet, in risposta a una lettera – del 30 maggio – del francese e a proposito di un diretto impegno nelle missioni ad gentes dell’Istituto della Carità. In particolare Luquet accennava a due realtà nelle quali lo stabilimento della gerarchia locale e il lavoro per la formazione del clero indigeno apparivano necessari e urgenti: Ceylon – dove, come altrove in India, si risentivano ancora gli effetti del breve Multa praeclare del 1838 che aveva abolito le diocesi di patronato in India e in Indocina affidandone i territori ai vicari apostolici e provocando reazioni ostili nel clero favorevole al patronato (ri- spetto a questo clero mons. Bonnand, il vicario apostolico di Pon-

16 ASIC, A. 1, XXII, 1846, 1015 (763). 17 EA, III, p. 300.

127 dichéry, aveva subito raccomandato a Propaganda Fide un atteg- giamento mite e conciliante) – e l’Oregon, negli USA, dove pro- prio nel 1846 fu costituita una nuova provincia ecclesiastica, con Oregon City per metropoli. Gli rispondeva dunque Rosmini:

Ciò che Le è stato detto, che l’Istituto della Carità non accetterebbe al presente una Missione nell’Oregon, o a Ceijlon, è del tutto vero. Avanti qualche anno [cioè nel 1840] Sua Em.za il Card. Franzoni ebbe la degnazione di offerirci la Missione di Filippopoli. Ma profes- sandomi sempre disposto ad ubbidire a quanto la S.S. si compiacesse di comandarci, ho creduto da parte mia di dovergli rispettosamente dichiarare, che non credevo fosse ancora venuto il momento d’assu- mere un’opera di tanto rilievo. L’Istituto della Carità è fatto, si può dire, in particolar modo per la grand’opera di annunziare il Vangelo agl’Infedeli, ma sente in pari tempo tutto il bisogno di premettere una lunga e seria preparazione. Benché io abbia poca esperienza, ed anzi appunto per questo, sono intimamente convinto, che il prende- re Missioni straniere leggermente si è di grave danno a quelli che si mandano, ed alla stessa causa del Vangelo. Sono ancora persuaso che se i missionarii già spediti fra le nazioni infedeli fossero in numero minori e maggiori in virtù, si raccoglierebbe una messe assai più ab- bondante. L’Istituto della Carità presentemente ha una colonia in Inghilterra, dove la messe già biancheggia; ed è mia intenzione di non disperdere troppo i missionari, ma di tenerli piuttosto uniti. Onde venendomi dimandati da quell’Isola importante sempre nuovi ope- rai, preferisco per ora di mandare colà quelli che mi avanzano delle case nostre in Italia. E tuttavia non creda, Monsignore, che non volga il pensiero ed il desiderio alle nazioni infedeli. Sospiro il tempo, in cui io possa stabilire un apposito Collegio, in cui quelli che saranno chiamati da Dio possano educarsi alla vita apostolica e ricevervi un’ac- comodata istituzione 18.

Nella sua lettera del 30 maggio, poi, il Luquet, che era in con- tatto con i rosminiani residenti a Roma, Gilardi e Setti, accennava ai problemi personali che gli erano occorsi a causa dei nemici del- l’istituzione del clero indigeno nelle missioni. Inoltre egli deplora-

18 ASIC, A. 1, XXI, P. II, 1846, 287 r-v (234); cfr. EA, III, pp. 306-307.

128 va l’opera antigesuitica di Gioberti e si diceva d’accordo col Ros- mini che ne aveva proibito la lettura ai suoi religiosi 19. Rispon- dendogli, il Roveretano osservava:

Ella mi dice nella vener.ma Sua del 30 Maggio, che io mi sarò ben pensato che il sapientissimo Decreto della S.C. de Propaganda sullo stabilimento della Gerarchia e del Clero indigeno nelle Missioni del- l’Indie avrebbe trovato nella sua esecuzione gli oppositori antichi. No, Monsignore, non ho pensato mai questo; anzi ho ringraziato il Signore di tutto cuore che avesse condotta la S. Sede a finire una questione così vitale per l’incremento della Chiesa, e mi persuasi che tutti i Missionari indistintamente avrebbero d’ora in poi data mano con piena concordia all’effettuazione di quelle due gran massime cam- minando fedelmente sulla via tracciata dal Capo della Chiesa. Ora sento con dolore e maraviglia dalla lettera Sua, che l’opposizione con- tinua, benché oggimai non possa più essere di buona fede. Ma quello che m’indignerebbe, se convenisse indignarsi di ciò che permette Iddio pe’ suoi altissimi fini, si è la maniera vile e disonesta, colla quale pro- cedono quegli oppositori, di cui Ella mi ragiona, facendo uso della calunnia. Il Signore, dandole questa prova assai grave alla natura, intende sicuramente a perfezionarla, giacché una delle più belle e necessarie virtù apostoliche si è appunto quella di sopportare con animo forte e confidenza in Dio le calunniose imputazioni, opponen- do la semplicità all’astuzia, la veracità al falsiloquio, la benevolenza all’odio, la mansuetudine alla prepotenza ed alla violenza. Sì, vuole il Signore anche da Lei, come il volle da S. Paolo, che lo serva per infamiam et per bonam famam; e, ciò che forse non ha sperimentato fra gl’infedeli, vuole che sperimenti fra cattolici, il gaudio di chi è fatto degno pro nomine Jesu contumeliam pati 20.

Rosmini aveva già sperimentato quel «gaudio» e ancora lo avrebbe sperimentato. Tuttavia le preoccupazioni di Luquet era- no realistiche e fondate: solo nel 1919 con la Maximum Illud di Benedetto XV furono effettivamente avviate tutte le missioni cat- toliche sulla strada dello stabilimento di una gerarchia e di un cle- ro indigeni.

19 ASIC, A. 1, XXI, P. II, 1846, 285-286 (233). 20 ASIC, A. 1, XXI, P. II, 1846, 287 r (234); cfr. EA, III, PP. 305-306.

129 Luquet scrisse ancora a Rosmini, da Roma, il 25 novembre 1846, di aver saputo da Newman dei progressi dell’Istituto della Carità in Inghilterra 21. Il riferimento è significativo: una rete di legami spirituali e culturali – di alto livello intellettuale e di pro- fondo sentimento religioso – collegava Luquet, Newman, Rosmi- ni e altri. Rispondendo al francese infatti, il 7 dicembre, Rosmini scriveva: «Io spero che vedrò il sig. Newman ch’Ella menziona nella venerata Sua lettera al ritorno di lui da Roma. Manzoni mi recò la lettera di Filipps [Phillipps] che me lo raccomandava, qui a Stresa, e mi duole di non aver avuto occasione di preparargli qualche servigio da queste parti» 22. A Luquet e a Rosmini si avvi- cinavano dunque Newman e Ambrogio M. Phillipps (poi noto con lo pseudonimo di Phillipps de Lisle) che era vicino a Wise- man, il quale era sia un ammiratore dell’Istituto della Carità (ne divenne un ascritto), sia un fautore del ristabilimento della gerar- chia cattolica in Inghilterra. Newman, Wiseman e Phillipps colti- vavano prospettive unioniste tra anglicani e cattolici: Phillipps avrebbe poi aderito, nel 1857, all’Association for the Promotion of the Union of Christendom (APUC), promossa da alcuni eccle- siastici anglicani favorevoli alla «corporate reunion» (cioè alla riu- nione con Roma di tutta la Chiesa d’Inghilterra e non solo di sin- goli «convertiti») condannata da Pio IX nel 1864 23. Rosmini, nel- la lettera, riprendeva pure un apprezzamento di Luquet per il fat- to che l’Istituto della Carità fosse sottoposto all’ordine gerarchico della Chiesa e cioè al ministero episcopale. Affrontava poi, sem- pre su richiesta di Luquet, la grave questione dei riti orientali, richiamando significativamente le disposizioni di Benedetto XIV e dimostrando di essere d’accordo, anche su ciò, con Luquet:

Venendo ora al discorso de’ riti orientali, che è il principale oggetto della venerata sua lettera, niente affatto dubito di confidare alla sua

21 ASIC, A. 1, XXI, P. 1, 1846, 229 r (173). 22 ASIC, A. 1, XXI, P. 1, 1846, 231 r (174); cfr. EA, III, p. 334. 23 Phillipps si sottomise a Roma. Wiseman avrebbe forse tentato di rendere meno severo il decreto di condanna, ma Manning – che ammetteva solo conver- sioni individuali – lo dissuase. Cfr. J. BIVORT DE LA SAUDÈE, Anglicani e cattolici. Il problema dell’unione anglo-romana (1833-1933), trad. it., Milano 1954.

130 prudenza ed amicizia la mia maniera di sentire; ed ecco qual è. L’at- taccamento de’ varii popoli ai loro riti è così grande, e se mi permette di dire, così cieco, che io credo che sarebbe impossibile di far rientra- re nella Chiesa le nazioni scismatiche ed eretiche dell’Oriente, quan- do si pretendesse di farle nello stesso tempo cangiar di rito inducen- dole al rito latino od altro; o almeno io giudico che per tali nazioni sarebbe uno sforzo assai più difficile mutar di rito che mutar di fede. L’attenta osservazione del fatto lo prova a qualunque uomo che sap- pia osservare. Quindi la sapienza della Chiesa e della S. Sede racco- mandò sempre a’ missionarij che i riti orientali fossero rispettati: Ella conosce in particolare i Decreti di Benedetto XIV. Posto dunque questo sommo attaccamento alle antiche e venerabili liturgie di po- poli orientali; posto altresì l’efficacia del pubblico culto sul sentimento religioso; io credo, che una delle principali massime della Chiesa Cattolica nell’opera d’invitare a sé que’ Cristiani che sono fuori del suo seno debbe essere e sia di mantenere o restituire a que’ riti tutta la dignità che possono aver perduta agli occhi dell’Occidente, co- m’Ella dice egregiamente. Stimo del pari che sia un felicissimo pen- siero quello che mi accenna, l’introdurre i diversi riti fra i membri delle congregazioni cattoliche destinati a diventar Missionarj e Pa- stori di quelle pecore sbrancate. Per riguardo all’Istituto della Carità basta il nome che porta a far risposta alla Sua dimanda, basta il motto che la caratterizza Omnibus Omnia. Ma acciocché non nascesse con- fusione da tale provvedimento si dovrebbero costituire Collegii di Missionarj per ciascun rito, ciascun de’ quali Collegii educasse i Missionarj destinati a vantaggio di que’ popoli che professan quel rito. E l’Istituto della Carità a ciò sarebbe disposto tanto più, che egli vuole dividere i suoi membri in altrettanti Collegii, quante sono le opere principali di carità ch’egli esercita. Onde sarebbe cosa tutta conforme alla sua istituzione e al suo spirito che v’avesse, poniamo, un Collegio di Missionarj pei Russi, uno pei Greci, uno per gli Armeni, e così discorrendo, per le diverse chiese scismatiche di rito diverso 24.

24 ASIC, A.1, XXI, 1846, 231v-232r (174); cfr. EA, III, pp. 335-336. Rispetto al motto Omnibus Omnia, si può ricordare ciò che Rosmini, fin dal 1835, scrive- va ai suoi religiosi in Inghilterra. In una lettera dell’8 novembre di quell’anno, diretta a don Luigi Gentili, ma rivolta anche a don Antonio Rey e al chierico Emilio Belisy, Rosmini affermava: «Raccomando a tutti e tre di rendervi un poco alla volta inglesi in tutte le cose dove non ci sia peccato, poiché così pratichere-

131 La questione dei riti orientali assumeva in quel momento una grande importanza, che riguardava il mondo missionario perché degli affari ecclesiastici orientali si occupava Propaganda Fide fin dalla sua costituzione. Luquet era un caldo fautore dell’unione del- la Chiesa latina con le Chiese orientali 25, sulla base del rispetto dei riti e della disciplina orientali: una prospettiva che, come si è accen- nato, aveva avuto l’importante sanzione di Benedetto XIV (si veda in particolare l’enciclica Allatae sunt del 26 luglio 1755) e che, an- che per questo, trovava il pieno consenso di Rosmini. Pure Pio IX avrebbe coltivato aspirazioni unioniste, espresse nell’enciclica In suprema Petri del 6 gennaio 1848 (che però, per i toni utilizzati, urtò gli orientali e riaccese le polemiche). In realtà le prospettive che si seguirono furono – all’opposto di quanto speravano Luquet e Ro- smini – nel senso di un’opera, aperta o dissimulata, di latinizzazio- ne. L’indirizzo di assimilazione e latinizzazione fu sostenuto in ge- nerale dai Gesuiti francesi che operavano in Medio Oriente, dai Cappuccini e dai Francescani (in particolare i custodi dei luoghi santi). Tra i fautori della centralizzazione e uniformizzazione lati- nizzatrice vi furono don Guéranger, che esercitava una notevole influenza sull’opinione pubblica cattolica in Francia, il cappucci- no Angelo di Fazio delle Pianelle, delegato apostolico in Siria dal 1836 al 1839, ma in particolare mons. Giuseppe Valerga, missio- nario a Mossul dal 1841 e divenuto patriarca latino di Gerusa- lemme, dopo il ripristino del patriarcato da parte di Pio IX in accordo col sultano, il 23 luglio 1847 26. Valerga, che era anche

mo quello di S. Paolo: Omnia Omnibus factus sum. In tutte le cose dove non c’è peccato, non giova contraddire: ogni nazione ha i suoi costumi, e sono buoni agli occhi suoi. Voi dovete avere quelli della nazione in cui vi trovate, e devono essere buoni agli occhi della vostra Carità. L’essere tropo attaccato ai costumi italiani, o romani, o francesi, è difetto grande ne’ servi di Dio, pei quali la vera patria è il cielo». 25 Cfr. R. ROUSSEL, Un précurseur. Mgr Luquet (1810-1858), Langres 1960. 26 Cfr. A. POSSETTO, Il Patriarcato latino di Gerusalemme, Milano 1938; J. HAJJAR, L’apostolat des missionnaires latins dans le Proche-Orient selon les directives romaines, Gerusalemme (Giordania) 1956; ID., L’Europe et les destinées du Proche- Orient, Paris 1970.

132 delegato apostolico in Siria, fu aiutato nel suo impegno latinizza- tore dal prodelegato apostolico, il gesuita francese Benoît Plan- chet. Un momento di forte tensione si ebbe in occasione degli attacchi che, a Roma, mons. Valerga e il gesuita C. van Overbro- eck portarono alle risoluzioni del sinodo «nazionale» del patriar- cato cattolico greco-melchita, svolto nel 1848 sotto la guida del patriarca Maximos III Mazloum, una personalità di notevole li- vello, che era stato molto stimato da Gregorio XVI ma che ora veniva accusato, dai latinizzatori, di essere un «foziano maschera- to» per il suo attaccamento alla tradizione orientale 27. Si può dunque affermare che si realizzava una significativa convergenza su una serie di questioni cruciali per la vita delle mis- sioni (stabilimento di una gerarchia locale, clero indigeno, impe- gno missionario dei vescovi cattolici, adeguata preparazione dei missionari, rispetto dei riti orientali, importanza dell’educazione del clero) tra Rosmini, cioè tra il rappresentante forse più qualifi- cato della cultura cattolica e della filosofia italiana in quel mo- mento, e Luquet, interprete autentico e generoso della tradizione delle Missioni Estere di Parigi e dei loro indirizzi missionari, so- stanzialmente omogenei a quelli di Propaganda Fide. Emblematico era pure il già citato richiamo, contenuto in una lettera di Luquet, alla polemica antigesuitica di Gioberti, che tanto Rosmini quanto Luquet deprecavano, ma che in realtà di- videva e infiammava gli animi nella seconda metà degli anni ’40 del secolo XIX. Si può dire che, in ambito missionario, Rosmini e Luquet non accettassero quello che, nonostante le polemiche, appariva il tratto comune ai Gesuiti e a Gioberti: l’idea, cioè, di una prevalente azione civilizzatrice della Chiesa che accompa- gnando l’evangelizzazione portasse di fatto a un’assimilazione di popoli, culture e civiltà da parte della civiltà europea e del catto- licesimo romano. Riprendendo la nota distinzione rosminiana della triplice cari- tà, si può dire che l’indirizzo missionario di Rosmini (ma anche di

27 Cfr. J. HAJJAR, Un lutteur infatigable, le patriarche Maximos III Mazloum, Harissa (Libano) 1957.

133 Luquet) fosse caratterizzato: sul piano della carità corporale, da un impegno antischiavistico e di difesa della dignità della persona umana; sul piano della carità intellettuale, da una prioritaria ope- ra di educazione, sia come formazione di missionari capaci di as- sumere in profondità le culture locali, sia come preparazione di un clero indigeno, sia come istruzione delle popolazioni per ren- derle autonome e non dipendenti dagli europei; sul piano, infine, della carità spirituale, da un’azione di evangelizzazione, condotta in particolare da vescovi, in grado di fondare nelle diverse terre la gerarchia locale e le Chiese locali, sull’esempio di quanto fecero gli Apostoli.

L’influenza di Luquet su Ramazzotti

Nel 1847 soggiornò a Roma per qualche tempo un altro reli- gioso francese delle Missioni Estere di Parigi, Emmanuel-Jean- François Verrolles, vicario apostolico nella Manciuria cinese. Egli, dopo un’udienza pontificia, indirizzò a Propaganda Fide un in- teressante memoriale per perorare l’istituzione della gerarchia ecclesiastica ordinaria in Cina, in Giappone, in Corea e in Indo- cina. Il memoriale fu discusso nella congregazione particolare dell’11 maggio 1848 ma non portò a risoluzioni specifiche. Fu invece promossa una consultazione conoscitiva dei vicari apo- stolici, che però non diede i risultati sperati perché molti dei vescovi missionari dell’Estremo Oriente ritenevano la costitu- zione di una gerarchia ecclesiastica locale prematura, inutile o perfino dannosa 28. Ancora nel 1847, intanto, diventava sempre più delicata la si- tuazione svizzera, dove i sette cantoni cattolici fin dal 1845 aveva- no deciso di costituire il Sonderbund, cioè una confederazione se- parata. Gli animi si erano ancor più riscaldati per l’arrivo dei Ge- suiti a Lucerna. Ne avevano approfittato i radicali che, con la loro

28 Cfr. J. METZLER, La Santa Sede e le Missioni, in J. METZLER (a cura), Dalle Missioni alle Chiese locali (1846-1965), Cinisello Balsamo 1990, pp. 54-57.

134 campagna antigesuitica, ottennero, nella primavera del 1847, la maggioranza alla dieta federale. Il 1° luglio Pio IX indirizzò una lettera agli svizzeri, invocando la pacificazione. Ma il 20 luglio la dieta dichiarava illegale il Sonderbund e pertanto ne intimava lo scioglimento. Il 3 settembre, poi, la dieta ordinava l’espulsione dei Gesuiti dalla Svizzera. Questa situazione, com’è noto, sarebbe ben presto precipitata, provocando la «guerra del Sonderbund». Intanto, però, nel novembre 1847 Pio IX faceva un ultimo tentati- vo di pacificazione religiosa inviando in Svizzera in sua rappresen- tanza, per una missione straordinaria ed ufficiosa, mons. Luquet come delegato apostolico. Nel suo viaggio da Roma in Svizzera, Luquet ebbe modo di passare per la Lombardia e di trattare questioni anche di argo- mento missionario. Nel novembre 1847, dunque, Luquet si recò a Milano per parlare con mons. Carlo Bartolomeo Romilli, divenu- to arcivescovo della diocesi ambrosiana giusto qualche mese pri- ma. Non trovandolo nel palazzo episcopale, saputo che il Romilli era in ritiro per gli esercizi spirituali nel Collegio degli Oblati di Rho, Luquet vi si recò. Era allora superiore del collegio (elettovi il 10 settembre 1847 per la terza volta) Angelo Ramazzotti. Luquet parlò all’arcivescovo alla presenza di Ramazzotti e gli comunicò il desiderio di Pio IX per l’apertura di un seminario di missioni este- re con il concorso dei vescovi. Gli parlò pure della necessità di diffondere l’Opera della Propagazione della Fede – che non era ben vista dal governo austriaco, che preferiva la viennese Società Leopoldina – e della necessità di collegarla al centro di Lione. Romilli si dichiarò disponibile a fare il possibile. Ma fu soprattut- to Ramazzotti ad accogliere con convinzione le proposte del Luquet: il desiderio pontificio, infatti, poteva dare un’autorevole e solenne sanzione ai deboli e velleitari tentativi fino ad allora messi in atto in Lombardia. Progetti in questo senso infatti erano stati ideati da don Carlo Strazza, collaboratore del direttore diocesano milanese dell’Opera della Propagazione della Fede e professore per alcuni anni nei seminari ambrosiani, e da don Luigi Biraghi, anch’egli insegnante nel seminario e fondatore della Congregazio- ne delle Marcelline. In modi diversi sia Strazzi sia Biraghi appar- tenevano a quella parte del clero ambrosiano che conosceva e ap-

135 prezzava Rosmini. Tra il 1845 e il 1846, inoltre, un gruppo di chie- rici del Seminario di Milano e di giovani sacerdoti di Milano e di Lodi aveva vagheggiato la fondazione di un istituto missionario lombardo, ricevendo un sostegno significativo dal francese padre Lorenzo Marcello Supriès, che allora si trovava alla certosa di Pa- via in qualità di vicario, ma che dal 1829 al 1838 era stato membro della Società per le Missioni Estere di Parigi ed era stato in missio- ne a Pondichéry. Ramazzotti conosceva questi tentativi falliti e si sentiva perso- nalmente attratto dalla vocazione missionaria. Per questo le paro- le di Luquet ebbero un’eco profonda nel suo animo. Nel 1851, in un articolo sull’«Amico Cattolico», don Giuseppe Marinoni, anti- co discepolo di Biraghi e principale collaboratore di Ramazzotti nella fondazione del Seminario delle Missioni Estere in Lombar- dia, scriveva:

Il primo pensiero di questo Seminario si deve al Vicario di Gesù Cristo, il regnante Sommo Pontefice, il quale abbracciando nella sua paterna carità tutti i popoli della terra, e la sorte infelice com- miserando di tante nazioni ancora sedenti nelle ombre della morte, sin dal principio del suo pontificato, per mezzo del suo delegato straordinario il Vescovo di Esebon [cioè Luquet], che trovavasi qui di passaggio, faceva sentire quanto caro gli sarebbe tornato che il clero numeroso di queste province non tardo al certo alle Sante imprese, e quella eletta schiera di buoni d’ogni ceto e condizione che tanto onorano la patria nostra, prendessero parte ad un’opera di tanta pietà qual si è la conversione degl’infedeli. Le parole del delegato apostolico facevano alta impressione nell’animo del P. Angelo Ramazzotti allora missionario nel collegio di Rho, ora meritatamente elevato alla sede episcopale di Pavia, uomo di quel cuore e di quello zelo che a tutti è noto, e risvegliavano in lui una sua antica idea vagheggiata lungamente negli anni più verdi, l’idea di consacrarsi alla grand’opera delle estere missioni: se non più con la persona, almeno con tutti quei mezzi che fossero in sua disposi- zione. Medita egli, prega, consulta, e finalmente risolve 29.

29 G. MARINONI, «Il nuovo Seminario delle Missioni Estere in Lombardia», in «L’Amico Cattolico», novembre 1851, p. 651.

136 Ramazzotti non poté immediatamente dare corso ai disegni mis- sionari, poiché ne fu impedito dalle «cinque giornate» di Milano, dagli eventi della rivoluzione e dalla guerra del 1848-1849. In que- sto frangente egli si distinse, insieme al confratello padre Angelo Taglioretti, per un’opera di pacificazione sociale, richiestagli dal governo provvisorio con il consenso di Romilli. Ramazzotti inoltre, sempre su richiesta del governo provvisorio, che gliene fu grato, accolse nel suo orfanotrofio di Saronno i figli – rimasti a Milano – degli ufficiali austriaci che, nella fuga, non avevano potuto condurli con sé. Dopo la restaurazione austriaca, peraltro, Ramazzotti rice- vette anche, il 7 febbraio 1849, il ringraziamento e la lode del gover- no imperiale. L’imperatore Francesco Giuseppe, inoltre, lo preco- nizzò l’11 novembre 1849 vescovo di Pavia e ricevette l’incarico da Pio IX nel concistoro del 20 maggio 1850. Fu poi consacrato a Roma, il 30 giugno, proprio prefetto di Propaganda Fide card. Franzoni. Mons. Ramazzotti non abbandonò infatti i suoi piani missio- nari e nel luglio 1850 fondò, nella sua casa di Saronno, il Semina- rio Lombardo per le Missioni Estere. Tra coloro che contribuiro- no all’avviamento del seminario, le Memorie dell’Istituto, redatte da don Giacomo Scurati, ricordano: «M.R.P. Angiolo Taglioretti, oblato di Rho, M.R.P. Taddeo Supriès, Priore della Certosa di Pavia, M.R.P. Vandoni, barnabita, M.R.D. Luigi Biraghi, Dottore della Biblioteca Ambrosiana, M.R.D. Pietro Tacconi, Preposto di Vi- mercate». Supriès, come si è visto, portò l’esperienza delle Mis- sioni Estere di Parigi e del suo apostolato a Pondichéry. Biraghi rafforzò le simpatie filorosminiane. Il principale collaboratore di Ramazzotti fu tuttavia don Giu- seppe Marinoni, direttore del Seminario per le Missioni Estere. Egli era stato alunno di Biraghi nel seminario milanese, si era poi recato a Roma e, dopo tentativi falliti di farsi prima gesuita e poi pallottino, fu parroco a Roma e, per tutti gli anni ’40, fu legato al card. Antonio Tosti, estimatore ed amico di Rosmini. Il 2 maggio 1850 Ramazzotti aveva scritto, a nome di Romilli, un Promemoria per il luogotenente generale di Lombardia, nel quale – presentando il nuovo istituto e chiedendo l’approvazione governativa – si affermava:

137 Si tratta di iniziare un’associazione di Sacerdoti secolari per le Mis- sioni Estere a propagazione della fede cristiana. La novità e affatto speciale importanza di siffatta impresa consiste in ciò che si avrebbe una casa diocesana di Missionarj dipendente dal proprio Vescovo. Non sarebbero quindi alcuni Sacerdoti (come avveniva in passato) che per dedicarsi alle missioni estere si staccano dalla propria Dioce- si e dal paese proprio, cercando altrove l’educazione a sì sublime ministero, ed aggregandosi perciò a qualche famiglia, o a qualche altro estero Istituto; ma si tenterebbe invece di stabilire tra noi stessi una casa di Missioni Estere, nella quale potessero raccogliersi quei Sacerdoti che sentissero la spinta a tale vocazione e dove potrebbero provarla ed abilitarsi cogli esercizi dello studio e della pietà senza bisogno d’abbandonare a tale effetto la propria patria e Diocesi.

Si capisce da questo approccio che l’esperienza alla quale si guardava era quella della Società per le Missioni Estere di Parigi. Ciò è ancora più evidente nelle regole elaborate da Ramazzotti con la collaborazione di Marinoni e di Taglioretti. Infatti dopo l’approvazione governativa, che giunse (nonostante i timori per le simpatie guelfe e rosminiane dei sacerdoti dell’istituto) il 30 ago- sto 1850, era cominciato il lavoro di stesura delle regole. Nell’ot- tobre fu inviata ai vescovi lombardi una Proposta di alcune massi- me e norme per l’Istituto delle Missioni Estere. Emendata e appro- vata, essa costituì il testo delle regole dell’istituto, che fu ufficial- mente e formalmente eretto il 1 dicembre 1850 dall’arcivescovo di Milano e dagli altri presuli lombardi, i vescovi di Como, Crema, Lodi, Mantova, Cremona, Pavia e Brescia. Nella avvertenza preliminare della Proposta si affermava, dunque:

L’Arcivescovo di Milano e i Vescovi Comprovinciali, non rattenuti dal timore di perdere qualche soggetto ai bisogni della Diocesi; con- siderando il compenso che devono attendere le loro Chiese dal Si- gnore; considerando che gli splendidi esempi di distaccamento e di sacrificio sono atti più che altro a svegliare la fede e possono rendere fruttuoso alla Diocesi non meno il Missionario, il quale parte per un altro emisfero, che il sacerdote rimasto ad operare fra i suoi; che anzi, spingendo in alcuni individui la vocazione ecclesiastica al suo pieno sviluppo, viensi a suscitarla e meglio maturarla in altrui; ma più che tutto considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dila-

138 tazione della Chiesa universale, e che ciascuna delle Diocesi è in qual- che modo tenuta a fornire per questo intento il suo contingente di milizia apostolica, pensarono di dover favorire e tener cura delle vo- cazioni al ministero delle estere Missioni con non minor zelo di quel- lo che usino per la buona educazione del Clero destinato alla Dioce- si. [...] Di più queste spedizioni diocesane e provinciali stabilirebbe- ro un vincolo tra le Chiese native dei Missionari e quelle che il loro zelo benedetto da Dio verrebbe a formare nelle popolazioni conver- tite, e dovrebbe risultare un impegno delle nostre Diocesi e provin- cie a proteggere gli interessi di quelle Chiese, le quali si raccomande- rebbero a noi coi dolci titoli di una quasi parentela spirituale 30.

Anche se non si parlava, dunque, di formazione di clero indi- geno, l’ottica era tutta rivolta alla costituzione di Chiese locali. Esplicito e centrale era poi l’inserimento dell’apostolato missio- nario all’interno del ministero episcopale. Nel trattare delle discipline ordinate a coltivare lo spirito e le virtù degli aspiranti alle missioni, le regole insistevano per una «vita di spirito e di fede». Il missionario doveva essere mosso dalla «pura vista di Dio», non preoccupandosi di raccogliere il frutto delle proprie fatiche: «Anzi quest’anima non cerca a Dio le ragio- ni della missione da Lui ricevuta, ed opera sulla sua parola, e su quella de’ suoi rappresentanti, come strumento docile, della ado- rabile volontà, e in ogni evento ripete con gioia e profonda con- vinzione: servi inutiles sumus: quod debuimus facere, fecimus (Luc. c. XVII, v. 10)» 31. Ciò che importava dunque era che gli allievi del Seminario Missionario avessero disposizioni solide di schietto zelo, di puro amore e timor di Dio, nonché sicura padronanza delle proprie passioni: «A tale intento si procura primieramente, che nella Casa, mantenuta pur sempre la semplicità, l’ilarità, anche un cotal grado di vivacità, domini potentemente il fervore per le cose spirituali, e lo studio della vita interiore e della perfezione. [...] Non saranno trascurati, ad aiuto della pietà e dello spirito, gli eser-

30 Proposta di alcune massime e norme per l’Istituto delle Missioni Estere (Set- tembre 1851), Roma 1961, pp. 14-15 e 17. 31 Ibid., p. 45.

139 cizi della mortificazione esteriore, sebbene sia necessario, trattan- dosi massime di giovani recenti dal seminario, procedere con di- screzione [...] Quel che più importa è che queste pratiche di pietà e di mortificazione si abbia cura di non lasciarle diventare col- l’abitudine una formalità materiale» 32. Le virtù più coltivate perché ritenute necessarie all’apostolato missionario erano la castità, la carità e soprattutto lo spirito di sacrificio. La disposizione al sacrificio appariva «essenzialissima» agli alunni della missione: «Se la formino col tener sempre gli oc- chi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in Croce per le anime nostre. Non è a dubitarsi che se con viva fede con- templeranno e gusteranno un mistero di tanto amore, non siano per esibirsi a perder tutto e morire per Lui e con Lui» 33. Significativo era poi l’impianto generale dato alla prospettiva formativa perseguita dal Seminario per le Missioni Estere:

Può forse dirsi che siavi presso alcuni un’opinione esagerata sull’am- piezza delle cognizioni e sulla coltura intellettuale richiesta in un Missionario. Alcuni nella Casa che lo prepara alle funzioni apostoliche vorrebbero trovare un Istituto di scienze ed arti, una scuola di tutte le lingue. Invece il piccolo Seminario non potrà far molto in questo punto senza perdere perciò la speranza di formare buoni alunni alle Missioni. E convien che si rimarchi; anzi non solo a togliere la sor- presa di chi si aspettasse dal seminario grande apparato di studi, ma anche a vieppiù insinuare negli alunni la cura del raccoglimento, del- l’umiltà, e migliore indirizzo dello spirito verso quel punto che più d’ogni altro importa, gioverà che qui sia proclamata la gran massima del primo e più grande dei Missionari tra gli infedeli, dell’apostolo S. Paolo: la somma scienza, anzi l’unica veramente necessaria è quella del Crocifisso. Ben ritenuta però questa massima e presa a norma dello spirito con cui devono studiare; vigilando sopra sé che talora la soverchia intensità dell’applicazione agli studi non sottragga il tempo o inaridisca il cuore agli esercizi della pietà, e la riuscita non lo gonfi; riferendo al tempo dello studio principalmente la raccomandazione

32 Ibid., pp. 46-48. 33 Ibid., p. 54.

140 delle divote giaculatorie; attenderanno gli alunni a studiare con ogni sollecitudine 34.

Per una più precisa determinazione del piano di studi la Pro- posta di alcune massime rimandava a un periodo successivo, quan- do si sarebbe potuto far tesoro dell’esperienza concreta acquisi- ta nei paesi da evangelizzare. Intanto si stabiliva di rivolgersi agli studi di prima necessità per l’esercizio pratico del ministero sa- cerdotale, di fondarsi nelle prove del catechismo, di conoscere – per poterle confutare – le dottrine dei protestanti, così attivi al- lora nelle missioni. Tali studi, uniti a quelli della Sacra Scrittura e della storia ecclesiastica, dovevano costituire la principale oc- cupazione. Per la conoscenza delle lingue ci si limitava a prescri- vere uno studio molto impegnato dell’inglese e un esercizio del francese. Interessante e originale era invece il metodo di studio propo- sto, sia perché non si pensava a uno studio contemporaneo e pa- rallelo delle varie discipline, sia perché si suggeriva una sorta di stile seminariale più che lezioni cattedratiche. Per quanto riguar- da il primo punto, si affermava infatti: «Nel metodo di condurre gli studi si ha questa avvertenza di non frastagliarli dividendo l’applicazione sopra materie disparate, ma si esauriranno a mano a mano i trattati principali dedicando ad essi uno studio continua- to e completo» 35. Per il secondo aspetto, invece, si stabiliva:

Ma per rendere questi studi di minor peso ed insieme notabilmente più impegnati e fruttuosi, si è giudicato di aiutarli con famigliari ma ben regolate conferenze. Queste sono quotidiane, e procedendosi da tutti insieme di pari passo, e colla guida di un medesimo autore, cia- scuno vi porta il transunto scritto del caso studiato, propone senza superfluità ed inutili digressioni le difficoltà che ha incontrato in qual- che punto, e di cui bramerebbe una più chiara soluzione. Anzi, es- sendo pure raccomandato che ciascuno secondo la propria capacità procuri di meglio approfondire la materia massime coll’associare allo

34 Ibid., pp. 57-58. 35 Ibid., p. 61.

141 studio dell’autore adottato per guida la lettura di trattati più ampi e ben ponderati di altri autori, ciascuno recherà nelle conferenze il frutto dei suoi studi individuali a comune erudizione e vantaggio 36.

I primi allievi dell’istituto furono alcuni giovani seminaristi del quarto corso teologico: Giovanni Mazzuconi, Carlo Salerio, Timoleone Raimondi, Alessandro Mornico. In quegli anni l’in- fluenza rosminiana era stata ben viva nei seminari ambrosiani e dunque fu probabilmente presente anche nella formazione di questi giovani che poi si avviarono all’Istituto delle Missioni Este- re. In particolare, Carlo Salerio poi missionario in Melanesia e successivamente fondatore dell’Istituto delle Pie Signore di Na- zareth, ebbe come professore di filosofia negli anni del liceo, dal 1844 al 1846, don Alessandro Pestalozza, amico di Rosmini e convinto assertore del sistema filosofico rosminiano. Ed è signi- ficativo che quando don Salerio, inviato a Roma da don Marino- ni insieme a don Paolo Reina, fu ricevuto il 21 agosto 1851 da Pio IX, il pontefice accennasse – in fondo con affetto – proprio a Rosmini.

Conclusioni

Si può, dunque, concludere che nell’esperienza dell’Istituto delle Missioni Estere di Milano venissero a incrociarsi e a intrec- ciarsi, in forme peraltro originali, la linea metodologica tradizio- nalmente sostenuta dalla Società per le Missioni Estere di Parigi e la linea spirituale e culturale del rosminianesimo. Veniva così a delinearsi, nell’ambito della storia italiana del movimento missionario, una posizione nuova, che si ricollegava alla tradizione romana di Propaganda Fide ma la innovava signifi- cativamente, riproponendola nel nuovo contesto storico di un’Eu- ropa che sarebbe presto dovuta passare dai problemi posti dal nazionalismo e dal colonialismo a quelli posti dall’imperialismo e dal razzismo.

36 Ibid., pp. 60-61.

142 La nuova posizione missionaria era ben distinta tanto dalla tra- dizione francescana e cappuccina quanto dalle metodologie mis- sionarie gesuitiche. Nel contesto italiano della seconda metà degli anni ’40 del secolo XIX, tale innovativa posizione missionaria tro- vò i suoi interpreti più alti e significativi in Rosmini, Luquet e Ramazzotti. Frutti significativi di tale esperienza furono, prima, la fonda- zione dell’Istituto per le Missioni Estere in Lombardia e, poi, con l’aggiungersi degli sviluppi dei fermenti veronesi, l’opera di Da- niele Comboni e la nascita dell’Istituto Comboniano.

143 LA CHIESA E L’ ORIENTE: IL DISEGNO MISSIONARIO DI PIO IX E IL SEMINARIO LOMBARDO PER LE MISSIONI ESTERE di Agostino Giovagnoli

Pio IX e le missioni

«Il numero di ordini religiosi e di congregazioni maschili e fem- minili con orientamento missionario fondati nel XIX secolo è tan- to elevato che un inventario non può essere fatto con pretese di completezza», afferma Joseph Metzler. La nascita del futuro PIME si iscrive nel contesto di generale risveglio dello spirito missiona- rio, dopo la grave crisi del XVIII secolo e le conseguenze della Rivoluzione francese, ed è preceduta da molte altre iniziative sor- te altrove, soprattutto in Francia. Ma mons. Angelo Ramazzotti non fondò un istituto o una congregazione: la sua iniziativa rap- presenta qualcosa di nuovo e diverso nel pur ricco panorama mis- sionario dell’epoca 1. L’originalità del Seminario Lombardo per le Missioni Estere emerge già nel complesso iter che portò nel 1850 alla sua fonda- zione, indubbiamente influenzato anche da vicende esterne, ma

1 C. SUIGO, Pio IX e la fondazione del primo Istituto per le missioni estere, PIME, Roma 1976, p. 125.

Agostino Giovagnoli ha insegnato nelle università di Bari e di Sassari ed è ordinario di storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano. Ha condotto studi e ricerche sulla storia dell’Italia contemporanea e su Chiesa e relazioni internazionali nel XX secolo. Ha pubblicato, fra l’altro, il volume Roma e Pechino. La svolta extraeuropea di Benedetto XV (Roma, Studium 1999) e ha in corso di pubblicazione un volume sul ponti- ficato di Pio IX.

145 determinato soprattutto dallo sforzo paziente e tenace di mons. Ramazzotti di tener conto il più possibile di soggetti diversi e delle loro differenti prospettive. Egli si adoperò intensamente perché «questo prospettato collegio [...] lungi dal presentare inconvenienti d’alcuna sorta, li prevenisse ed offrisse per ogni lato rilevantissimi vantaggi» da qualunque punto di vista lo si fosse guardato e cioè se lo «si considerasse in rapporto alla chiesa universale, o [...] in rapporto ai doveri episcopali, o in relazione al Governo, o nell’in- teresse dei Missionari medesimi» 2. Le diverse prospettive qui sin- tetizzate furono effettivamente considerate da mons. Ramazzotti ed egli ebbe la capacità di armonizzarle e fonderle nel corso del- l’attenta opera da lui compiuta per giungere all’apertura del semi- nario. Il suo disegno infatti, pur articolato e complesso, rivela an- che un’ispirazione unitaria e la volontà di mettere sempre al pri- mo posto l’interesse delle missioni attraverso un collegamento co- stante con le prospettive universali della Chiesa. In questo senso, la sua azione appare profondamente inserita nel quadro complessivo dello sforzo missionario perseguito in quegli anni da Pio IX. Fin dai primi tempi del suo pontificato, questi mostrò grande interesse per le questioni missionarie, ri- prendendo l’intensa attività avviata dal suo predecessore, Gre- gorio XVI, di cui cercò di portare a compimento molti disegni. Nel novembre ’45, pochi mesi prima del passaggio di pontifica- to, era stata emanata l’istruzione di Propaganda Fide Neminem Profecto per la creazione di un clero indigeno, con cui Gregorio XVI innovava rispetto a numerosi pronunciamenti contrari de- gli anni precedenti, raccomandando di «dividere i territori in preparazione allo stabilimento della gerarchia [...] reclutare e formare un clero indigeno e, a questo scopo, erigere seminari per condurre il clero indigeno fino all’episcopato [...] non trat- tare i sacerdoti indigeni come clero ausiliario, ma dare loro pre- cedenze, onori e cariche come agli europei [...] rinunciare alla tradizione di usare gli indigeni solo come catechisti [...] non

2 D. COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, EMI, Bologna 2000, p. 100.

146 mescolarsi affatto agli affari politici e profani [...] curarsi di tut- to ciò che favorisca il radicarsi della religione nella società» 3. Come nota Aubert, nel pontificato di Pio IX non ci fu nessun pronunciamento di carattere generale che possa essere parago- nato alla Neminem Profecto: tuttavia questa coraggiosa direttiva, che rappresentò il punto d’arrivo dell’intenso impegno svolto dal camaldolese Mauro Cappellari, prima come prefetto di Pro- paganda e poi come papa, costituì un’importante eredità per il pontificato del suo successore. Alla metà dell’Ottocento, per la Chiesa cattolica missione voleva dire soprattutto Oriente: questo termine, applicato in senso geografico a un’area molto vasta e indeterminata, indica- va anzitutto l’Impero ottomano, che copriva ancora gran parte dei Balcani, comprendeva tutto il Medio Oriente e si estendeva fino all’Africa settentrionale. Ciò spiega una certa sovrapposi- zione tra impegno missionario vero e proprio e rapporto con le Chiese orientali in un’ottica uniatistica 4. L’Oriente costituì per Pio IX una preoccupazione rilevante durante tutto il suo pon- tificato 5. La sua «offensiva orientale» si sviluppò fin dall’inizio in stretto collegamento con le trasformazioni in corso nel Me- diterraneo. Con l’indipendenza greca, la rivolta dell’Egitto, i tanti movimenti nazionalistici nel contesto di un progressivo declino del potere centrale, l’Impero ottomano iniziò un lungo declino a cui corrispose una crescente influenza delle grandi potenze europee, con l’occupazione francese dell’Algeria, la penetrazione inglese in Medio Oriente, le pressioni russe sui Balcani. Tra il 1846 e il 1878, gli anni del pontificato di Pio IX, la «questione orientale» costituì un problema decisivo nel cam- po delle relazioni internazionali.

3 J. LEFLON, Restaurazione e crisi liberale (1975), SAIE, Torino 1984, p. 915. 4 R. AUBERT, Il pontificato di Pio IX (1846-1878) (1964), Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1990, p. 638. 5 Fin dai primi momenti, Pio IX cercò di staccarsi dalle incertezze del suo predecessore, papa Gregorio XVI. Cfr. G. MARTINA, Pio IX (1846-1850), Univer- sità Gregoriana Editrice, Roma 1974, p. 467. Lo stesso Martina mette però in rilievo anche l’esistenza di elementi di continuità (ivi, p. 469).

147 Pur trattandosi di una questione anzitutto politica, Pio IX ne colse l’importanza anche per la Chiesa cattolica: per la prima volta dopo secoli, Roma vedeva riaprirsi la porta dell’Oriente. In un cer- to senso, Pio IX cercò di precedere le potenze europee, prendendo l’iniziativa indipendentemente e talvolta in contrasto con queste. In soli due anni, subito dopo l’ascesa al soglio pontificio, egli cercò di stabilire relazioni diplomatiche con l’Impero ottomano, decise di istituire un patriarcato latino a Gerusalemme e lanciò un appello agli ortodossi per il loro «ritorno» a Roma: i primi passi della sua politica orientale furono addirittura «spettacolari» 6. Per prima volta dopo secoli, un papa cercava relazioni dirette con un principe «pagano» staccandosi dalla protezione delle «na- zioni cristiane» 7. (Nella stessa prospettiva, nel 1860 Pio IX si sa- rebbe rivolto direttamente all’imperatore cinese). Appena eletto, infatti, egli tentò di stabilire rapporti diplomatici con Costantino- poli, ignorando il diritto che la Francia si era assicurata di rappre- sentare gli interessi cattolici all’interno dell’Impero ottomano (ne- gli stessi anni, la Francia cercava di affermare analoghi diritti an- che in Cina) 8. Svincolarsi dal controllo francese e giungere allo scambio di rappresentanti diplomatici con la Sublime Porta dove- va servire, nel disegno di Pio IX, a sviluppare una presenza più diretta della Chiesa di Roma in Medio Oriente. A questo scopo, egli procedette anche alla creazione di un patriarcato latino a Ge- rusalemme, tenendo all’oscuro la diplomazia francese ed impe- dendo così un intervento della Francia, fortemente contraria an- che a questa iniziativa 9. In Terra Santa, la presenza latina era tra-

6 J. HAJJAR, Le Christianisme en Orient, Librairie du Liban, Beirut 1971, p. 114. 7 J. HAJJAR, L’ Europe et les destinées du Proche-Orient, vol. I, TLASS, Damasco 1988, p. 601. 8 Malgrado la dura opposizione francese – e le contrarietà, diversamente motivate, di Austria e Russia – Pio IX proseguì su questa strada fino ad inviare, nel gennaio 1848, mons. Ferrieri a Costantinopoli per accreditare un rappresen- tante pontificio presso la Sublime Porta. Cfr. A. TAMBORRA, Chiesa cattolica e ortodossia russa. Due secoli di confronto e dialogo. Dalla Santa Alleanza ai nostri giorni, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1992, p. 97. 9 Cfr. HAJJAR, L’ Europe, cit., vol. I, pp. 482 segg.

148 dizionalmente affidata alla Custodia francescana 10, la cui opera però non sembrava più sufficiente per contrastare le crescenti in- fluenze russo-ortodossa e britannico-anglicana, coordinare i mis- sionari cattolici, sviluppare la chiesa locale e creare clero latino autoctono, come Pio IX avrebbe desiderato. A Roma si sperava che lo stesso patriarca potesse diventare anche il rappresentate diplomatico della Santa Sede presso l’Impero ottomano 11. La scelta cadde su mons. Valerga, un missionario con esperienza medio- rientale, cittadino del Regno di Sardegna: anche questa scelta irri- tò notevolmente i francesi, ostili ai tentativi del Piemonte di svi- luppare la propria influenza in Medio Oriente. Il patriarca latino a Gerusalemme, diventato in seguito il consigliere più ascoltato dal papa per tutte le questioni orientali, fu tra i concelebranti nel- l’ordinazione episcopale di mons. Ramazzotti, come annotò que- st’ultimo traendone buoni auspici. Gli storici di cultura francese sono molto critici verso la politi- ca orientale di Pio IX. Hajjar parla di tentativi prematuri, malde- stri e velleitari: secondo questo studioso, Pio IX riuscì ad ottenere qualcosa in Oriente solo grazie a quegli Stati europei di cui cercò di contrastare l’influenza, come la Francia o l’Austria 12. Anche Aubert concorda: «in realtà, gli aiuti più utili al cattolicesimo d’Oriente vennero dall’Austria e dalla Francia» 13. Martina sotto- linea invece che, agendo in questo modo, Pio IX si pose esplicita- mente l’obiettivo di «liberare la Chiesa da ogni dipendenza dalla protezione interessata delle potenze» europee 14. È la prospettiva perseguita da Pio IX anche nei confronti del padroado portoghe- se: perseguendo con metodi diversi finalità simili a quelle del suo predecessore, cercò di liberare la Chiesa cattolica dal pesante con- dizionamento portoghese in India e altrove 15.

10 A. GIOVANNELLI, 11 HAJJAR, L’Europe, cit., vol I, p. 501. 12 J. HAJJAR, Les Eglises Orientales Catholiques, in R. AUBERT ET AL., L’Église dans le monde moderne (1848 à nos jours), Seuil, Paris 1975, pp. 491 segg. 13 R. AUBERT, Pio IX, cit., t. 2, p. 632. 14 G. MARTINA, Pio IX (1846-1850), cit., pp. 465-466. 15 G. MARTINA, Pio IX (1851-1866), Editrice Pontificia Università Gregoriana, Roma 1986, pp. 378, 383-385.

149 Nei primi giorni del 1848, il papa inviò mons. Valerga e mons. Ferrieri rispettivamente a Gerusalemme e Costantinopoli – il se- condo viaggiò su una nave da guerra sarda, altra coincidenza non casuale – consegnando loro l’enciclica In Suprema Petri Apostoli Sede, indirizzata «ad Orientales». Pio IX riprendeva così un’idea già coltivata da Gregorio XVI 16 e sollecitata da vari protagonisti del dibattito sull’unione delle Chiese avviato dopo il 1815 e dive- nuto sempre più intenso: tra gli altri, seppur senza un ruolo di primo piano, influì in questo dibattito anche Niccolò Tommaseo. Raccogliendo queste sollecitazioni, Pio IX compì una scelta auda- ce: per la prima volta dopo secoli la Chiesa di Roma si rivolgeva in modo diretto al mondo ortodosso. Nella sostanza, la lettera espri- meva orientamenti «unionisti»: animata dalla speranza di un «ri- torno» in massa degli ortodossi, soprattutto slavi, proponeva il modello degli uniati, invitando i dissidenti a riconoscere l’autenti- cità della dottrina custodita dalla Chiesa cattolica e accettando il primato del papa. Roma però prometteva di rispettare le diverse tradizioni liturgiche orientali. La reazione ufficiale fu negativa: il patriarca di Costantinopoli, a nome anche dei patriarchi di Ales- sandria, Antiochia e Gerusalemme e di moltissimi vescovi, respin- se la proposta del papa. La lettera del papa tuttavia suscitò tra gli ortodossi anche altre reazioni 17 e soprattutto scatenò all’interno del mondo cattolico una valanga di progetti per l’unione 18. Tam- borra sottolinea «il merito grande di Pio IX di aver aperto o ria- perto una strada che si riteneva ormai senza uscita [...] Da questo primo inizio [...] prenderà l’avvio fra lungo contendere teologico e dottrinale il colloquio in termini puntuali e moderni fra la Chie- sa di Roma e il mondo ortodosso nelle sue varie componenti ed espressioni» 19. La politica orientale di Pio IX fu determinante anche sotto il profilo più specificamente missionario. La Santa Sede, ad esem- pio, «fu la prima potenza europea che approfittò del varco aperto

16 MARTINA, Pio IX (1846-1850), cit., p. 470. 17 TAMBORRA, Chiesa cattolica, cit., pp. 99-111. 18 Ibid., pp. 137-224. 19 Ibid., p. 111.

150 dagli egiziani per realizzare un insediamento nell’Africa interna» 20. Malgrado molti pareri contrari, all’inizio del 1846 Propaganda deliberò l’erezione del vicariato apostolico dell’Africa centrale: «l’importanza storica di quanto si operò deriva dall’essere stata la prima circoscrizione ecclesiastica istituita stabilmente sul suolo afri- cano, esclusa la fascia costiera» 21. L’iniziativa romana destò gran- de interesse nelle potenze europee: la penetrazione in Africa non avvenne allora con l’aiuto della Francia 22, tradizionale curatrice degli interessi cattolici in Oriente, mentre Inghilterra ed Austria sostennero la spedizione missionaria promossa da Propaganda. Pur tra molte difficoltà, la missione in Africa centrale venne avvia- ta con grande fretta tra il 1846 e il 1847, ma gli eventi del 1848- 1849 fecero venir meno molte speranze e Roma rimase a lungo incerta sulle prospettive da dare all’impresa africana 23. In questo contesto, il responsabile della missione, Knoblecher, si rivolse al governo di Vienna 24, interessato ad accompagnare lo sviluppo della presenza cattolica in Africa: Propaganda, pur preoccupata per le possibili reazioni negative della Francia, accettò alla fine il protet- torato austriaco e la missione in Sudan poté riprendere. In campo missionario, dunque, Pio IX cercò di svincolarsi da protezioni troppo impegnative – come quelle del Portogallo o della Francia – per assumere un’iniziativa quanto più possibile autono- ma: egli ricorse di volta in volta alle varie potenze europee in fun- zione dei propri disegni. Vari esempi mostrano che Pio IX, nei primi anni del suo pontificato, puntò su uno stretto collegamento con il Piemonte per sviluppare iniziative importanti della sua po- litica orientale: oltre al Medio Oriente, ci fu convergenza anche a proposito dei Balcani e dell’Europa orientale. È uno dei segni del- la sua iniziale apertura verso questo Stato, la causa italiana e in generale il risveglio delle nazionalità, che, almeno in una prima

20 G. ROMANATO, Daniele Comboni. L’ Africa degli esploratori e dei missiona- ri, Rusconi, Milano 1998, p. 72. 21 Ibid., p. 75. 22 Ibid., pp. 79 segg. 23 Ibid., pp. 92 segg. 24 Ibid., pp. 106 segg.

151 fase, Roma ritenne componibile con la propria missione universa- le. Com’è noto, però, le vicende del 1848-1849 segnarono la fine di questo tentativo. In genere si tende a vedere la svolta di Pio IX nei termini di un suo «tradimento» della causa italiana preceden- temente sostenuta; tuttavia, gli orientamenti da lui assunti tra il 1848 e il 1849 non si radicano solo negli avvenimenti italiani, ma furono ispirati dalla più complessiva situazione europea di quegli anni. Indubbiamente, Pio IX abbandonò le precedenti convergenze con il Piemonte e si rivolse all’Austria per ottenerne il sostegno nella restaurazione del suo potere temporale. Occorre però ricor- dare che la sconfitta di Novara non riguardò solo il Piemonte: ebbe infatti importanti ripercussioni nei Balcani e in Europa orien- tale, contribuendo al ripiegamento degli altri movimenti naziona- listi che avevano sconvolto l’Impero asburgico in quegli anni e aprendo la strada a una presenza russa in quest’area particolar- mente preoccupante agli occhi di Roma. Le vicende del 1848-1849 costituiscono non a caso la premessa della successiva guerra di Crimea, scoppiata pochi anni dopo. Nel 1849, insomma, la scon- fitta della causa nazionale in tutt’Europa aprì la strada a scenari molto problematici per la Chiesa cattolica, spingendo Pio IX a cercare altri e più solidi interlocutori. Per il papa divenne quasi una necessità rivolgersi all’Austria, antico baluardo della cattolici- tà verso i pericoli che venivano da Oriente – ieri l’espansione Ot- tomana, a metà ottocento la minaccia russa –, anche se le vicende successive avrebbero mostrato l’incapacità austriaca di risponde- re fino in fondo alle attese di Roma: la stessa restaurazione del potere temporale avvenne, contrariamente ai desideri di Pio IX, con il concorso determinante della Francia, con cui i rapporti con- tinuarono peraltro a restare problematici, a causa della politica ecclesiastica di Napoleone III. Non si può però parlare di totale appiattimento della Santa Sede sulle posizioni austriache: la svolta di Pio IX non aveva carattere legittimista, di mero ritorno agli equilibri pre-quarantotteschi. In quegli anni maturò piuttosto la scelta intransigente che avrebbe segnato il resto del suo lungo pon- tificato.

152 Slancio missionario, sentimento nazionale e Chiese particolari

In questo contesto si inserì l’opera missionaria di mons. Ra- mazzotti. Il suo sforzo paziente e tenace ha radici lontane, anzi- tutto nella sua stessa personale vocazione missionaria, che egli non seguì, in obbedienza alla volontà dei superiori, ma che con- tinuò certamente a influire sui suoi orientamenti 25. Questa sua personale propensione lo rese sensibile ad analoghe vocazioni missionarie che si manifestarono in giovani sacerdoti della dio- cesi di Milano, da lui conosciuti personalmente o di cui ebbe notizia attraverso altri. La presenza di tali vocazioni attesta che la sensibilità missionaria, sempre più diffusa nel corso del XIX secolo, era giunta anche in Lombardia e qui si faceva sentire vi- vacemente, tanto che tra il 1845 e il 1846 «assistiamo ad una vera ventata di ideale missionario causato [...] da un gruppo di chierici del seminario di Milano e da alcuni giovani sacerdoti di Milano e di Lodi» 26. Non si trattava di un caso isolato: erano allora diffusi lo «zelo d’estendere oltre i mari e nelle più remote contrade il Regno di Dio» 27, la «carità che si slancia oltre i mari, oltre quell’emisfero» 28, per usare espressioni allora frequenti 29. Insomma, come si legge nella Proposta di alcune massime e nor- me per l’Istituto delle Missioni Estere, scritta nel 1850 durante i primi mesi di vita del Seminario Lombardo per le Missioni Este- re, «non è cosa nuova né rara tra noi il voto delle Missioni Este- re, anzi ogni anno può dirsi che qualche pia e generosa anima, tra quelle educate nei Seminari di queste nostre Diocesi, facesse di per sé offerta a Dio, desiderosa di dedicarsi alla dilatazione del Santo suo Regno colle missioni tra gli infedeli» 30. Emergeva allora quella che Ramazzotti definì una «universa- le» aspirazione ad impegnarsi per la missione «fuori dalla Chiesa»

25 SUIGO, Pio IX, cit., pp. 38-39. 26 Ibid., p. 19. 27 COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, cit., p. 63. 28 Ibid., p. 68. 29 Ibid., p. 139. 30 Ibid., pp. 137-138.

153 – l’espressione coincideva in pratica con «fuori dall’Europa», fuo- ri cioè dalla terra della cristianità – tra quelli che venivano chiama- ti stranieri, infedeli, pagani e talvolta anche selvaggi. Su questo risveglio di interesse influì certamente l’opera della Propagation de la Foi e l’esempio delle nuove congregazioni missionarie sorte in Francia, oltre ad una serie di iniziative – seppure complessiva- mente sfortunate – maturate in Italia negli anni precedenti. È nota, inoltre, la particolare importanza rivestita da alcune figure, come quella di padre Lorenzo Marcello Supriès, già missionario del MEP a Pondichéry (India). A lui si rivolse un gruppo di giovani sacer- doti lombardi che avrebbero voluto «unirsi in una congregazione intitolata a San Francesco Saverio», ma che, nell’impossibilità di fondare a Milano una nuova congregazione, si proponevano co- munque di andare in un paese di missione, preferibilmente in Mi- cronesia. Essi speravano in una iniziativa che «possa dirsi missio- ne milanese, oppure lombarda: e ciò per motivi che sembravano a loro fortissimi, tra i quali l’interessare l’amor della provincia a so- stenerla, favorirla e procurarle sempre nuovi aiuti di missionari e di soccorsi temporali, il che forse non accadrebbe se fossero me- scolati a missionari di altre nazioni, oppure se non si tenessero riuniti nelle stesse contrade». Quei giovani erano anche convinti che, favorendo la formazione di una comunità missionaria tutta lombarda e perciò animata da uno spirito di unione e di pace, si potesse sviluppare «un’attrattiva fortissima per indurre altri lom- bardi ad unirsi a loro». Anche la preferenza per la Micronesia aveva qualche legame con quest’ottica lombarda: tale preferenza nasceva da un suggerimento di padre Supriès, che ricordava tra l’altro come in Micronesia il milanese padre Cantona avesse cono- sciuto il martirio nel 1731 31. Il legame con la Lombardia costituisce dunque un tratto carat- terizzante di questo progetto missionario fin dall’inizio. Tale ca- rattere venne accolto ma anche perfezionato da mons. Ramazzot- ti. Egli infatti rispettò l’intuizione iniziale di realizzare qualcosa di diverso da una congregazione missionaria e accolse anche l’idea

31 Ibid., p. 107.

154 di radicarla nel contesto milanese e lombardo, ma accentuò il sen- so ecclesiale di questo legame. Nelle intenzioni di quei giovani sacerdoti, il carattere lombar- do della nuova iniziativa non esprimeva limitatezza di orizzonti o visuali provinciali, come dimostra proprio l’intenso amore da essi manifestato per le missioni. Piuttosto, essi riflettevano un clima culturale e politico intensamente segnato da un senso di naziona- lità sempre più diffuso e sempre più rilevante anche sul piano del- le relazioni internazionali: pochi anni dopo, il sentimento nazio- nalistico sarebbe emerso in primo piano in tutt’Europa dando vita ai noti sconvolgimenti del 1848. Anche la Chiesa dovette in quegli anni misurarsi con le novità indotte al suo interno dalla «primave- ra dei popoli»: nel vivace clima di quegli anni, appassionate istan- ze di rinnovamento religioso si intrecciavano con problemi inediti nelle relazioni con Stati e opinioni pubbliche e, soprattutto, nei rapporti tra universalità e particolarità o tra papa e vescovi all’in- terno dell’istituzione ecclesiastica. L’atmosfera di quegli anni influì anche in campo missionario: la diffusione del sentimento nazionale e di spinte patriottiche accompagnò e favorì il risveglio dello spirito missionario, come sottolinea Piero Gheddo nel volume sui 150 anni del PIME. Il legame tra queste due prospettive di natura assai diversa fu tal- volta molto stretto e si manifestò anche in numerosi scritti del- l’epoca. È il caso ad esempio del noto Primato degli italiani, in cui Gioberti fondava tale «primato» su basi morali collegandolo alla presenza di Roma sul suolo italiano, alla funzione universale del papato e all’azione missionaria coordinata da Propaganda Fide. Il legame tra sentimento nazionale e spinta missionaria può apparire oggi piuttosto singolare, ma va considerato in relazione al desiderio, emergente nella società civile dell’Italia di metà Ottocento, di realizzare una più esplicita proiezione internazio- nale della propria identità nazionale. Il sentimento patriottico che esprimeva tale aspirazione si traduceva anzitutto nel proget- to di costruire un nuovo Stato nazionale sovrano, «alla pari» di altri Stati europei e come questi interessato anche a prospettive extraeuropee, ma si esprimeva indirettamente anche sul piano religioso attraverso un più vivo senso delle Chiese particolari –

155 attestato dall’ecclesiologia dell’epoca e presente anche in Ros- mini 32 – e favoriva lo slancio missionario di queste Chiese pres- so popoli lontani. Oggi è difficile immaginarsi collegamenti tra sentimento nazionale e impegno internazionale o, addirittura, tra sentimento nazionale e slancio missionario; ma questo senti- mento rappresenta una realtà complessa, che cambia nel tempo: la sua forma prevalente in età romantica aveva caratteristiche dinamiche e proiezioni assenti nelle sue espressioni più recenti. A metà Ottocento, tuttavia, il collegamento tra sentimento patriottico e slancio missionario poneva anche problemi di diffici- le soluzione: mentre veniva declinando l’antico sistema del padroa- do – legato alle grandi potenze coloniali del XVII e XVIII secolo, come Spagna e Portogallo – emergeva un interesse sempre più accentuato degli Stati nazionali, in particolare della Francia, a so- stenere ma anche ad utilizzare le missioni cattoliche in una pro- spettiva di espansione della propria potenza nel mondo. I proble- mi che ne scaturivano hanno costituito una delle ragioni più rile- vanti, ma forse anche meno indagate, del conflitto che nel XIX secolo ha opposto la Chiesa – sempre più influenzata da tendenze ultramontane e sempre più organizzata secondo principi centrali- stici – alle pretese degli Stati nazionali europei. Si tratta di proble- mi non facilmente visibili dal punto di vista delle Chiese particola- ri, presso le quali sentimento nazionale e interessi religiosi poteva- no apparire più facilmente componibili. Tali problemi, invece, emergevano con chiarezza a Roma, dove essi venivano considerati all’interno di un quadro d’insieme sempre più esteso, come atte- stano l’intenso dibattito su questi temi che si svolse presso la Con- gregazione di Propaganda Fide e la complessa «politica missiona- ria» che questa congregazione adottò durante il pontificato di Pio IX. L’iniziativa dei giovani sacerdoti milanesi che si recarono da padre Supriès si collocava nel contesto di una Lombardia sospesa tra perduranti legami con Vienna e nuove prospettive italiane. È

32 Di Rosmini parlò Pio IX a due giovani sacerdoti del Seminario delle Mis- sioni Estere, sottolineando il pericolo dell’elezione dei vescovi da parte del po- polo. Cfr. ibid., p. 139.

156 indubbiamente significativo che tra quanti avvertivano allora l’ur- genza dell’impegno missionario e tra coloro che sarebbero poi entrati per primi nel nuovo Seminario per le Missioni Estere emer- gessero sentimenti filoitaliani 33: in quest’humus fiorì quell’inizia- tiva missionaria. Padre Supriès trasmise la richiesta di questi gio- vani sacerdoti a Propaganda e nel maggio 1846 – ancora regnante Gregorio XVI – il card. Franzoni rispose consigliando loro di met- tersi sotto la guida di un vescovo missionario, non essendo dispo- nibile una missione in Micronesia. Questa risposta però, facendo venire meno quella caratteristica dimensione «lombarda» che era a fondamento del progetto, implicava la dispersione del gruppo e quindi il fallimento dell’iniziativa prima ancora che avesse inizio. Tale esito mise in evidenza che l’idea avrebbe potuto avere ulte- riori sviluppi solo se fosse stata ripresa e mantenuta la dimensione specificamente lombarda. È quanto intuì mons. Ramazzotti, en- trando in contatto con questi giovani che aspiravano ad andare in missione, come Paolo Reina di Saronno 34. Dopo il decisivo incontro del novembre 1847 con mons. Luquet, venuto a Milano per comunicare a mons. Romilli il desiderio di Pio IX che si creasse il seminario per le Missioni Estere, mons. Ramazzot- ti decise di impegnarsi concretamente per la realizzazione di questa iniziativa 35 e in questa prospettiva sviluppò una riflessione sul lega- me con il contesto milanese e lombardo che questa avrebbe dovuto avere. Tentando di superare la naturale resistenza dei vescovi e del- le diocesi a «perdere» loro sacerdoti, egli approfondì in particolare l’idea del «debito» missionario di ogni Chiesa particolare. In un appunto di padre Taglioretti la fondazione del Seminario per le Missioni Estere viene motivata con l’affermazione che «per la con- versione degli infedeli e la propagazione della Fede, ciascuna parte del mondo Cristiano deve fornire, quasi direbbesi, il suo contingen- te di milizia apostolica» 36. E nella Proposta di alcune massime e nor-

33 Cfr. SUIGO, Pio IX, cit., pp. 41 segg. 34 Ibid., p. 40. 35 Ibid., p. 47. Su Luquet, cfr. Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio super vita, virtutibus et fama sanctitatis, Roma 1999, p. 107. 36 COLOMBO (a cura), Pime. Documenti, cit., p. 47.

157 me per l’Istituto delle Missioni Estere si sostiene che «è interesse di ogni Chiesa particolare la dilatazione della Chiesa universale e che ciascuna delle Diocesi è in qualche modo tenuta a fornire per que- sto intento il suo contingente di milizia apostolica» 37. Questo debito e questo interesse comportavano la responsabi- lità dei vescovi di favorire vocazioni missionarie tra i sacerdoti diocesani. Nel promemoria fatto pervenire a Pio IX nel 1850, si legge che la casa per le missioni estere avrebbe potuto «essere cagione di moltissimi beni non solo per i gravi bisogni delle stra- niere Missioni, come altresì per accendere di più vivo zelo gli ani- mi degli ecclesiastici, ai quali si aprirebbe così una nuova via di perfezionarsi e di sacrificarsi in pro delle anime» 38. In realtà, que- ste vocazioni si manifestavano già, ma spesso esse non riuscivano a giungere a buon fine, per l’impreparazione di coloro che si reca- vano tra gli infedeli o per mancanza di adeguata assistenza. Di qui, l’obbligo per i vescovi non solo di favorire ma anche di curare tali vocazioni e di fornire una adeguata preparazione ai missiona- ri: nella citata proposta, il Seminario per le Missioni Estere viene presentato come iniziativa promossa dai vescovi lombardi per prov- vedere a tale esigenza 39. Quest’insieme di considerazioni implicava anche una riflessio- ne specifica sul ruolo dei singoli vescovi e dell’episcopato nel suo complesso nella missione ad gentes. Nella Proposta di alcune mas- sime e norme per il nascente seminario, è presente il motivo inizia- le che aveva spinto i giovani interlocutori di padre Supriès ad en- fatizzare il carattere specificamente lombardo della nuova iniziati- va. Vi si legge infatti: «queste spedizioni diocesane e provinciali stabilirebbero un vincolo tra le Chiese native dei Missionari e quelle che il loro zelo benedetto da Dio verrebbe a formare nelle popola- zioni convertite e dovrebbe risultarne un impegno delle nostre Diocesi e province e proteggere gli interessi di quelle Chiese, le quali si raccomanderebbero a noi coi dolci titoli di una quasi pa- rentela spirituale».

37 Ibid., p. 139. 38 Ibid., p. 74. 39 Ibid., p. 138.

158 Ma questo motivo appare ora inquadrato all’interno di una ar- gomentazione più vasta. Vi si parla infatti di «santa cospirazione del nostro Episcopato col Padre Universale dei Fedeli nella grande opera della conversione delle genti» e di «attiva cooperazione dei Vescovi alla propagazione del Vangelo» partecipando all’opera del «Supre- mo Capo» della Chiesa universale, diversa da quella delle «corpo- razioni religiose» e ancora più importante perché proveniente da «quelli che sono con Lui e sotto di Lui per divina istituzione più direttamente incaricati di continuare l’opera affidata agli apostoli, di istruire nella fede e di convertire le nazioni» 40. La responsabilità missionaria enfatizza il ruolo dei vescovi nella Chiesa universale, ma sempre in comunione con il papa e sotto la sua guida, e induce allo sviluppo di nuove forme di cooperazione episcopale: il Seminario per le Missioni Estere fu ad esempio motivo di una riunione colle- giale dell’episcopato lombardo, di cui Marinoni sottolineò l’impor- tanza 41. Siamo nella prospettiva poi sancita dal Vaticano I, che sul terreno missionario diede spazio alla dimensione della collegialità episcopale. Come infatti sottolineò allora il prefetto di Propaganda, il card. Alessandro Barnabò, «la cura di evangelizzare il mondo in- tero essendo stata affidata all’intero episcopato, il quale come cor- po deve avere un capo, che è il Romano Pontefice, l’episcopato col- lettivamente preso può a buon diritto interloquire sulle missioni» 42. Questi principi sono stati poi ripresi e ribaditi, com’è noto, anche dal Vaticano II 43. Mons. Ramazzotti, insomma, seppe accogliere ed interpretare lo spirito del tempo, utilizzando l’apporto positivo che ne poteva venire per la missione ad gentes. Egli però si preoccupò di colloca- re la spinta dei tempi entro un quadro totalmente ecclesiale, an- che attraverso un’attenta opera di definizione giuridica della fisio- nomia del nuovo seminario. Il coinvolgimento delle Chiese parti- colari nella missione ad gentes – un’importante novità nella storia

40 Ibid., pp. 139-140. 41 Ibid., p. 203. 42 J. METZLER, Dalle missioni alle Chiese locali (1846-1965), Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990, p. 67. 43 SUIGO, Pio IX, cit., p. 129.

159 della Chiesa cattolica degli ultimi secoli – fu inoltre da lui stretta- mente collegato e subordinato alle prospettive missionarie della Chiesa universale elaborate a Roma.

Il Seminario per le Missioni Estere tra Vienna e Roma

L’ampia visione ecclesiologica che ispirò il progetto di mons. Ramazzotti non concedeva nulla alle Chiese particolari in termini di iniziativa missionaria autonoma rispetto alle direttive del papa e di Propaganda Fide. Nella Proposta del 1850 si legge infatti che «l’Istituto dipende in primo luogo e di sua natura dev’essere intie- ramente ed assolutamente subordinato al Sommo Pontefice ed alla Sacra Congregazione di Propaganda». Questa netta affermazione riflette l’elaborazione compiuta da mons. Ramazzotti tra il 1847 e il 1849 mentre, dopo le «cinque giornate», l’incalzare degli eventi politico-militari gli impediva di metter mano concretamente al suo progetto. Il primo direttore del seminario, mons. Marinoni, ha raccontato la missione a Mila- no di mons. Luquet nel novembre 1847, scrivendo che in quel- l’occasione Pio IX fece «sentire quanto caro gli sarebbe tornato che il clero numeroso di queste province [...] e quella eletta schie- ra di buoni d’ogni ceto e condizione che tanto onorano la patria nostra, prendessero parte ad un’opera di tanta pietà, qual si è la conversione degli infedeli» 44. Nel 1847, dunque, almeno secondo questa ricostruzione, Pio IX puntava sui vescovi e sulle Chiese particolari sulla Lombardia – forse anche sulle risorse della socie- tà lombarda – per sviluppare la missione ad gentes. Fin da allora il papa intendeva giungere alla realizzazione di un seminario «uni- versale» per le missioni estere, un progetto ripreso più tardi dallo stesso mons. Ramazzotti e oggetto di uno studio specifico nel 1853 45. Ma, nell’immediato, la visita di mons. Luquet favorì anzi- tutto la ripresa dei progetti per un’iniziativa specificamente lom- barda.

44 Ibid., p. 49. 45 Ibid., pp. 51 e 109.

160 È inoltre significativo che allora, secondo quanto scrisse mons. Luquet in una lettera del gennaio 1848 ai dirigenti de la Propaga- tion de la Foi, mons. Ramazzotti abbia espresso «non solamente un grande zelo per l’opera de la Propagation de la Foi in generale, ma anche la convinzione profonda della necessità di collegarsi a Lione e di fare un’opera unica come voi desiderate in Francia e come è intenzione formale degli associati d’Italia, che non ne vo- gliono sapere di inviare i loro fondi in Austria» 46. Questa osservazione sembra indicare in Ramazzotti una certa attenzione verso il ruolo del mondo francese in campo missiona- rio. Dopo le «cinque giornate», tuttavia, il suo comportamento fu apprezzato dal governo provvisorio di Milano, ma non dispiacque neanche al governo di Vienna: non si spiegherebbe altrimenti la sua nomina, alla fine del 1849, a vescovo di Pavia da parte dell’im- peratore Francesco Giuseppe 47. Forse, ciò che più interessava al- lora a Ramazzotti era salvaguardare le «energie lombarde», per così dire, che si erano messe in movimento, indipendentemente da quelli che sarebbero potuti essere i destini politici finali di Mi- lano e della Lombardia. Dopo gli eventi del 1848-1849, la necessità di tener conto del- la volontà di Vienna divenne evidente. Sono note le attenzioni ver- so questo governo mostrate da mons. Ramazzotti nel corso della sua fatica, attenzioni che hanno destato non poca sorpresa in un uomo generalmente alieno da interessi politici 48 e oltretutto cir- condato da giovani inclini a sentimenti filoitaliani 49. In realtà, l’at- tenzione agli interessi austriaci si radica in ragioni più profonde, collegate alla nuova opera che egli si proponeva di realizzare. Già il progetto iniziale dei giovani sacerdoti lombardi desi- derosi di dedicarsi alle missioni ad gentes escludeva la fondazio- ne di una nuova congregazione missionaria, per il veto posto dalle autorità politiche 50. In questo senso, si può parlare di un con-

46 Ibid., p. 50. 47 Ibid., p. 59. 48 Nel 1848-1849 la sua opera fu apprezzata sia dal Governo provvisorio che dagli austriaci, ibid., pp. 53-54. 49 Ibid., p. 55. 50 Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio cit., p. 105.

161 dizionamento iniziale del potere austriaco, che tuttavia svolse a suo modo una funzione positiva: obbligò infatti a cercare una strada nuova ed originale. Successivamente, il problema si ripresentò quando Ramazzotti decise di passare all’azione. Egli sentì inizial- mente la mancanza di istituti stranieri e «i pericoli d’una via stra- ordinaria senza straordinario apparecchio» 51 e fu consigliato da padre Supriès e da altri ad affiliare il nuovo seminario agli Oblati di Rho 52. L’ipotesi di creare una nuova congregazione missionaria era in rebus, ma Ramazzotti abbandonò presto quest’ipotesi. Se- condo Scurati, ritenne più opportuno non costituire il Seminario delle Missioni Estere dipendente dagli Oblati per non intristirlo appena nato 53. Suigo a sua volta scrive che per Ramazzotti la nuo- va fondazione doveva avere fisionomia propria e previde che sa- rebbero scaturiti conflitti con Propaganda 54. Ma questo autore aggiunge anche che egli previde l’opposizione del governo austria- co 55: il peso dell’Austria sulle modalità di attuazione della nuova iniziativa missionaria venne assunto e in qualche modo utilizzato da mons. Ramazzotti nell’elaborazione del suo ampio progetto. Da parte austriaca, si guardò inizialmente con sospetto alla nuova iniziativa che scaturiva da un mondo, quello della Chiesa milanese, considerato filoitaliano 56. Ramazzotti si preoccupò di rimuovere questi sospetti e in una lettera a padre Molteni, supe- riore degli Oblati di Rho, nel novembre 1849 scriveva: «Il Gover- no dovrebbe trovare opportuna ai suoi interessi la fondazione di una Casa per le Missioni estere [...] Mi permetta di presentarne una prova in ciò che ho letto sulla Storia generale della Chiesa del Barone Henrion [...]: “Per lo meno è fuori di dubbio che l’Inghil- terra vide con una gioia che non si studiò neanche di dissimulare la sua rivale [la Francia] privarsi da sé dei suoi vantaggi immensi che ritraeva dalle Missioni dei gesuiti in America e nelle Indie e si

51 Ibid., p. 106. 52 SUIGO, Pio IX, cit., pp. 61 e 112. 53 Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 110. 54 SUIGO, Pio IX, cit., p. 88 nota 28. 55 Ibid., p. 114. 56 Ibid., p. 56.

162 può dire di fatto che dopo rovina delle Missioni la potenza Fran- cese in quelle contrade andò sempre declinando”» 57. In questa prospettiva, Ramazzotti preparò un testo che poi Ro- milli trasmise all’autorità austriaca, in cui si sottolineava:

La novità e affatto speciale importanza di siffatta impresa consiste in ciò, che si avrebbe una casa diocesana di Missionari dipendente dal proprio Vescovo. Non sarebbero quindi alcuni sacerdoti (come av- veniva in passato) che per dedicarsi alle missioni estere si staccano dalla propria Diocesi e dal paese proprio, cercando altrove l’educa- zione a sì sublime ministero, ed aggregandosi perciò a qualche fami- glia o a qualche estero Istituto [...] senza bisogno di abbandonare la propria patria e la propria Diocesi. [...] La progettata Casa di Missio- ni estere [...] presenterebbe anche un grande interesse nei rapporti politici e asseconderebbe le generose intenzioni dell’Augusto nostro Sovrano e del suo Eccelso Ministero. Sarebbe infatti questo un prin- cipio di Missioni estere nazionali che coprendo in lontane regioni sotto la protezione della bandiera austriaca la renderebbe anche colà più rispettosa e cara, dividendosi così colle altre nazioni, e principal- mente colla Francese, quell’alta influenza morale-politica che indub- biamente esercitano cotali Missioni 58.

La risposta da parte del luogotenente austriaco manifestava le perplessità di Radetzky sugli scopi dell’iniziativa e sui legami che avrebbe avuto con gli Oblati di Rho 59: si temeva che il nuovo isti- tuto fosse un «covo» antiaustriaco 60. La risposta preparata da Ra- mazzotti insisteva sulla conformità con le intenzioni del papa e di Propaganda e sottolineava la totale indipendenza del nuovo semi- nario rispetto agli Oblati di Rho 61. Passato un certo tempo, il go- verno austriaco diede il suo pieno 62 consenso all’iniziativa: il luo- gotenente Schwazemberg manifestò «l’assicurazione del più vivo interesse per il prosperamento dell’Istituto [...] che promettereb-

57 COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti cit., p. 56. 58 Ibid., pp. 83-85. Taglioretti critica queste aperture: ibid., p. 91. 59 SUIGO, Pio IX, cit., p. 89. 60 Ibid., p. 106. 61 Ibid., p. 90. 62 Lo sottolinea Marinoni: ivi, p. 108.

163 be tanto bene per la Chiesa e per lo Stato», esprimendo tra l’altro la previsione che sarebbero state offerte «ad essa Congregazione quelle rilevanti somme che ora si spediscono ad altri consimili isti- tuti all’estero» 63. I cenni agli interessi austriaci sembrano indicare in Ramazzotti la consapevolezza della situazione creatasi tra il 1848 e il 1849 e dei gravi problemi che si ponevano allora alla Chiesa cattolica, condizionata dall’«aiuto» imposto dalla Francia in tanti campi allo scopo di influenzare l’universalismo cattolico in senso conforme ai suoi interessi. I vincoli posti dalle autorità austriache contribu- irono ad accentuare la scelta di mettere l’istituto alla diretta di- pendenza dei vescovi lombardi, escludendo del tutto qualunque «esenzione» tipica di una congregazione religiosa. Le regole do- vevano mettere in chiaro che non si trattava di un ordine religioso (di qui l’esigenza di non fare voti neanche temporanei 64): i semi- naristi restavano incardinati nelle rispettive diocesi 65. Per ogni cosa, il riferimento era ai vescovi: l’atto formale di erezione fu compiu- to da parte dei vescovi lombardi e le regole vennero a loro sotto- poste. È significativo che in un documento per il governo austria- co si giunga ad usare l’espressione «appendice del seminario ve- scovile» per indicare il nuovo Seminario delle Missioni Estere. Ai vescovi veniva anche affidata la responsabilità di tenere le relazioni con Roma. Nel promemoria per il papa si parla della missione assegnata da Propaganda a cui si chiederebbero anche le norme per i corsi di studio e per la formazione in genere. Si affer- mava: «faremo più esplicita professione che non vogliamo dare nulla ai vescovi che sia incompatibile colle attribuzioni dell’Auto- rità suprema». Il superiore, nominato dai vescovi, doveva essere approvato da Propaganda e anche la destinazione dei missionari doveva essere scelta da quest’ultima. L’approvazione del papa co- municata dal card. Fransoni parla di «erezione di un collegio con la dipendenza e in servizio di Propaganda» 66.

63 COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti, cit., p. 130. 64 Ivi, pp. 114 e 115. 65 Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 136. 66 SUIGO, Pio IX, cit., p. 81.

164 È evidente l’attenzione di mons. Ramazzotti nel curare il colle- gamento tra dimensione universale del cattolicesimo e concreta azione missionaria, tra indicazioni romane e Seminario Lombar- do per le Missioni Estere. È quanto emerge chiaramente dalla già citata Proposta. Permettere ai sacerdoti diocesani la scelta missio- naria come via di perfezionamento spirituale, suscitare vocazioni missionarie, curare la loro formazione e assisterli nel loro impe- gno costituiva per Ramazzotti compito delle Chiese particolari della Lombardia e in particolare responsabilità dei vescovi; ricevere le facoltà opportune, sanzionare in via definitiva il regolamento del seminario, stabilire il luogo di missione e fornire ai missionari le necessarie «patenti» spettava invece a Propaganda. Il seminario da lui fondato ha dunque una duplice natura: da una parte dioce- sana, o meglio provinciale, nel senso di essere al servizio di più diocesi della stessa provincia ecclesiastica; dall’altra universale. Mons. Ramazzotti si adoperò con grande sensibilità ecclesiale e giuridica per armonizzare questa duplice natura e per impedire la formazione di contrasti. Era però inevitabile che potessero emergere differenze tra le diverse volontà che egli aveva cercato di raccogliere in un’unica realizzazione. È quanto si verifica nella questione della destinazio- ne dei nuovi missionari. La preferenza per la Micronesia, presente fin dall’inizio, fu riproposta nel momento dell’apertura del semi- nario a Propaganda 67, a cui fu comunque chiesto di pronunciarsi perché in base al luogo di destinazione potesse essere meglio or- ganizzata la preparazione dei futuri missionari. Lingua, cultura, clima ed altro costituiscono infatti variabili decisive, che possono richiedere tipi di preparazione molto diversi. Propaganda tuttavia non dette immediata risposta, mentre sollecitava Ramazzotti a pro- curare uno o due sacerdoti per l’ufficio di procuratore di Propa- ganda in Hong Kong per le missioni in Cina e di prefetto aposto- lico dell’isola. Intanto, Marinoni chiedeva ai vescovi di insistere per la destinazione, con preferenza degli alunni per la Micronesia, ottenendone l’assenso 68.

67 Ibid., p. 91. 68 Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 135.

165 Nel luglio 1851, per definire operativamente la destinazione, fu inviata a Roma una delegazione a cui il papa espresse il deside- rio di avere in Roma un seminario o collegio per le missioni a sua piena disposizione, accennando nello stesso contesto all’isola di Corfù (Grecia). Nello stesso senso si espresse il breve del 30 ago- sto 69. Nel marzo 1852 il card. Fransoni fissò le prime partenze, mentre i preparativi del febbraio ’53 furono bloccati da Propa- ganda 70: i problemi non sono ancora risolti e una sorta di tempe- sta sembra addensarsi su tutta l’opera 71. Il promemoria del 1853 ribadì però la piena subordinazione alle indicazioni romane e nel- l’udienza concessa dal papa a mons. Ramazzotti il 29 settembre ’53 tutte le tensioni vennero appianate. Pio IX si accontentò del- l’offerta di obbedienza assoluta e rinunciò ad insistere su Corfù: la via verso l’Oriente era definitivamente aperta.

69 Ibid., p. 138 e SUIGO, Pio IX, cit., pp. 137, 140 e 141. 70 Congregatio de Causis Sanctorum, Angeli Ramazzotti positio, cit., p. 140. 71 Ibid., p. 141.

166 EVOLUZIONE E ATTUALITÀ DEL CARISMA DEL PIME di Domenico Colombo

Premessa

Il carisma può essere riferito, con significati diversi ma in rela- zione tra loro, al fondatore, alla fondazione originaria, all’istituto come si presenta oggi, dopo 150 anni di storia. È chiaro che il titolo dato a questo capitolo chiama in causa direttamente il terzo significato, ma esso non può prescindere dagli altri due. Inoltre il carisma, sia di mons. Angelo Ramazzotti come fondatore, sia quello originario della fondazione, cioè del Seminario Lombardo per le Missioni Estere, resta un punto necessario di partenza per com- prendere l’evoluzione e l’identità del carisma dell’istituto che dal 1926, in seguito all’unione con il Pontificio Seminario dei Santi Apostoli Pietro e Paolo di Roma, porta il nome di Pontificio Isti- tuto Missioni Estere (PIME). Da aggiungere una motivazione di evidente peso: questo vo- lume è tutto centrato sulla figura e l’opera di mons. Ramazzotti. Non si può prescindere da lui perciò, e a maggior ragione trattan- do dell’istituzione che trova alla propria origine la fondazione a lui dovuta. Così il mio discorso si articolerà nelle seguenti tre parti: I. Mons. Ramazzotti come fondatore. II. Identità della fondazione o carisma originario. III. Evoluzione e attualità del carisma dell’istituto.

Padre Domenico Colombo è bibliotecario della casa generalizia del PIME a Roma. Cura le pubblicazioni «Infor-Pime» e «Quaderni di Infor-Pime», inoltre collabora con diverse riviste missionarie. Ha recentemente curato la pubblicazione PIME (1850-2000). Documenti di fondazione.

167 Una precisazione previa richiederebbe pure il termine «cari- sma» nella sua applicazione agli istituti e ai loro fondatori. Il pro- blema è complesso e oggetto di non poche discussioni in cui emer- gono opinioni differenti. Al riguardo basti qui ricordare alcuni punti importanti in connessione al nostro tema. «Carisma» designa in generale un dono di Dio. L’odierna teo- logia lo definisce un dono soprannaturale dello Spirito, dato in vista dell’utilità o comunque dell’edificazione della Chiesa. L’ap- plicazione del termine agli istituti è un fatto piuttosto recente, avvenuto nel post-concilio. Il Vaticano II, parlando della vita e delle famiglie religiose, ne attribuisce l’origine all’impulso dello Spirito, pur non usando il termine «carisma». Un’eccezione si può vedere nel decreto Ad Gentes n. 23 che, trattando della vo- cazione degli istituti missionari, ne afferma la provenienza dallo Spirito «che – dice – distribuisce come vuole i suoi carismi per il bene delle anime». Ma nel periodo post-conciliare l’uso del ter- mine in riferimento agli istituti è divenuto comune nei documenti ecclesiali e ha suscitato un’ampia riflessione teologica per ap- profondirne senso, natura, contenuto, distinzioni e aspetti vari. Ne farò qualche cenno quando sarà opportuno per il caso no- stro 1.

Mons. Ramazzotti come fondatore a) Il problema

Chiedersi se mons. Angelo Ramazzotti fu fondatore del Semi- nario Lombardo per le Missioni Estere suona oggi irriverente e antistorico, dopo gli studi e gli scritti di padre G.B. Tragella. E si può provare un po’ d’imbarazzo anche quando si parla, non solo

1 Su carisma, fondatori, istituti esiste un’ampia bibliografia. Si veda, fra gli altri: FABIO CIARDI, I Fondatori, uomini dello Spirito. Per una teologia del carisma di Fondatore, Città Nuova, Roma 1982; ID., In ascolto dello Spirito. Ermeneutica del carisma dei Fondatori, Città Nuova, Roma 1996.

168 dell’istituzione missionaria lombarda, ma di istituto o di PIME. La questione merita d’essere presa in considerazione perché aiuta a capire come mai la figura di Ramazzotti sia stata nel passato alquanto dimenticata nel nostro stesso istituto. Nell’agosto del 1956 appariva su «Il Vincolo», la rivista uffi- ciale interna del PIME, un articolo sul fondatore dell’istituto. L’au- tore, a firma M.M., pone una serie di obiezioni e difficoltà a chia- mare Ramazzotti «fondatore», attingendole dagli stessi eventi e documenti relativi alla fondazione. In breve: Ramazzotti non fon- dò da solo il seminario, la cui idea non gli apparteneva in proprio; verso lo stesso traguardo si muovevano molte personalità di pri- mo piano come Pio IX, l’arcivescovo di Milano Romilli, l’oblato Taglioretti, il certosino Supriès, il primo direttore mons. Marino- ni; il documento di erezione ufficiale porta la firma dei vescovi lombardi; non va neppure dimenticata la parte che nella fonda- zione ebbero i primi alunni; inoltre in libri e periodici dell’istituto si parla spesso di «fondatori» al plurale, ecc. Alla fine, M.M. espri- me il desiderio che «venga dichiarato in modo definitivo il nome del fondatore dell’Istituto». Padre Tragella risponde che molti vocaboli, come «fondato- re», hanno un senso stretto e un senso largo; che nelle imprese umane parecchie persone possono concorrere in vario modo per la loro concezione e attuazione, ma conta chi manda a effetto un’idea, in modo che senza di lui non si sarebbe realizzata, alme- no in quel certo tempo e modo. Ramazzotti ha svolto un’azione propria e specifica che gli merita la qualifica di fondatore in senso stretto e unico. Ciò è ormai scritto nella storia, e non c’è bisogno di doverlo dichiarare 2. Nel numero seguente de «Il Vincolo» un anonimo torna alla carica, appellandosi anch’egli alla vicenda complessa della nostra fondazione e alle diverse espressioni dei documenti. E perfino, possiamo aggiungere, alle lapidi. Sotto il porticato della casa ma- dre di Milano ci sono due lapidi, collocate nel 1956, di cui una parla di Ramazzotti come «ideatore e iniziatore del primo cenaco-

2 «Il Vincolo», n. 63, agosto 1956, pp. 14-15.

169 lo missionario italiano», e l’altra esalta Pio IX e Pio XI (sotto cui avvenne l’unione dei seminari missionari di Milano e di Roma) come «fondatori e padri» del Pontificio Istituto Missioni Estere 3. Ancora una volta bisogna distinguere i diversi sensi delle parole e i diversi oggetti considerati, per cui si può ben dire che il PIME nasce nel 1926 formalmente, e conta tuttavia 150 anni di vita risa- lendo alle sue origini. b) L’opera di fondatore

Ma qual è stata l’azione concreta e propria di mons. Ramaz- zotti in ordine alla fondazione del Seminario Lombardo per le Missioni Estere? C’è anzitutto un fatto che l’ha preparato alla futura impresa. Fin da giovane Ramazzotti sente il desiderio di consacrarsi alle missioni tra gli «infedeli» e ancora da sacerdote cerca di soddisfarvi, come nota Scurati. Direttori spirituali e su- periori lo dissuadono. «Il buon giovane s’acquietò alla volontà del Signore; ma il desiderio di questo bene non estinto, fu seme nascosto sotto terra: quando Dio mandò la pioggia, germinò e crebbe». Scurati vuol dire che Ramazzotti, il quale era pure un lettore appassionato degli «Annali della Propagazione della Fede» e della vita e degli scritti di san Francesco Saverio, cominciò a pensare di tradurre l’inclinazione personale alle missioni in una istituzione per preti diocesani missionari, di cui da tempo si sen- tiva il bisogno 4. A questa decisione giunse attraverso eventi in cui lesse un’ispi- razione di Dio. Il primo chiaro segno arriva nel novembre 1847 con mons. Luquet, già missionario e vescovo in India, inviato da Pio IX in Svizzera per un’opera di pacificazione, con l’incarico di far sosta a Milano per esprimere all’arcivescovo Romilli il deside- rio del papa di veder sorgere un seminario per le missioni estere

3 «Il Vincolo», n. 64, gennaio 1957, p. 9. 4 DOMENICO COLOMBO (a cura), Pime (1850-2000). Documenti di fondazione, EMI, Bologna 2000, p. 14.

170 sul tipo di quello di Parigi. Luquet trova l’arcivescovo dagli Obla- ti di Rho, intento agli esercizi spirituali, e così il suo messaggio giunge a Ramazzotti, allora superiore del Collegio degli Oblati. Uno sprazzo di luce. Scurati nota che don Angelo «approfittò del- l’occasione per rendere meno ridicola (son sue parole) la premura di formare questo Seminario» 5. Gli eventi politici del Lombardo-Veneto e di Roma bloccano ogni iniziativa per due anni e poi riprendono a ritmo serrato dall’11 novembre 1849, e il protagonista è proprio Ramazzotti. A lui Supriès, già missionario MEP e ora vicario della certosa di Pavia dove i sacerdoti aspiranti alle missioni si danno appunta- mento, dice adesso chiaro e tondo che deve assumere la direzio- ne dell’impresa. Lui, spinto da padre Molteni, superiore genera- le di tutti gli Oblati, e da mons. Romilli, a nome di questi stende la supplica in cui si parla del «progetto di mons. Ramazzotti Ve- scovo nominato di Pavia», e che il canonico Bertinelli inoltra a Pio IX il quale l’approva il 26 febbraio del 1850. È lui che con- tatta i vescovi lombardi nella primavera dello stesso anno, per metterli al corrente di questo progetto e ottenerne l’adesione. È ancora lui che, con molta pazienza e umiltà, convince il card. Tosti a liberare Marinoni dalla cura di S. Michele a Ripa in Roma. Lui infine che, autorizzato da Romilli, apre il seminario nella sua casa di Saronno, il 31 luglio, e ha un ruolo primario nella compi- lazione della Proposta con le massime e norme per il nascente istituto. Senza dubbio a Ramazzotti si devono gli stessi docu- menti, a firma di Romilli, richiesti dal governo per approvare la fondazione 6. Certo, in tutto questo Ramazzotti non è solo. È sostenuto e aiutato dal desiderio di Pio IX, dall’apertura di Romilli, dagli sti- moli di Supriès, dal grande apporto del sacerdote oblato Taglio- retti chiamato perciò «coistitutore», e altri tra cui gli stessi sacer-

5 COLOMBO (a cura), op. cit., p. 15. 6 Per tutti questi eventi, a livello di documenti, v. COLOMBO (a cura), op. cit.; a livello di storia, v. GIOVANNI B. TRAGELLA, Le Missioni Estere di Milano nel quadro degli avvenimenti contemporanei. I. Dall’erezione dell’Istituto alla morte del Fondatore, PIME, Milano 1950.

171 doti primi alunni del seminario. Ma tutti costoro indicano Ramaz- zotti come «motore, promotore, istitutore» della nuova istituzio- ne. Quando Marinoni invia ai vescovi lombardi una copia della Proposta, vi unisce una lettera dove si parla di Ramazzotti come di colui «che primo ideava, promuoveva e iniziava sì bell’opera» 7. Espressioni del genere si ritrovano nei testi degli altri collaborato- ri a diverso titolo. Certo, non si legge la parola «fondatore» in tutti questi documenti. Ma le ragioni sono ovvie. L’impresa è frutto di un concorso vario di persone e autorità; di proposito si vuol dare risalto al ruolo dei vescovi nell’erezione formale, per cui sono chia- mati anche «istitutori»; e Ramazzotti è il primo a tener conto di tutto ciò, anche se Marinoni gli scrive, senza tema di smentita, che il nascente istituto deve a lui «la sua esistenza, la sua vita» 8. c) Il carisma di fondatore

All’azione di fondatore corrisponde in Ramazzotti un carisma di fondatore. Cioè, egli opera in forza di un’ispirazione e di una spinta che gli vengono dall’alto e costituiscono un dono dello Spi- rito, in concreto un carisma, anche se ai suoi tempi questo termine non era in uso per indicare tale dimensione soprannaturale. Par- liamo inoltre del carisma di fondatore, non del fondatore. Gli stu- diosi della materia danno differente senso alle due espressioni e non sono d’accordo sul loro uso. Il carisma del fondatore richia- merebbe una specificità originale in quanto iscritta nella persona e nell’esperienza concreta del fondatore, esperienza che i membri dell’istituzione in questione sono chiamati a custodire, vivere, ap- profondire come discepoli, per cui spesso prendono il nome da lui, come i Francescani da S. Francesco, i Domenicani da S. Do- menico, ecc. Il carisma di fondatore si limita al dono conferito dallo Spiri- to a una persona perché possa realizzare una data fondazione. Questo sembra rispondere al caso nostro. Ramazzotti non pre-

7 COLOMBO (a cura), op. cit., p. 183. 8 Ibid., p. 179.

172 senta una particolare esperienza dello Spirito che, dopo aver pla- smato la sua persona, offra un modello per i membri della sua istituzione. Ma la sua attività di fondatore, reale pur entro certi confini, è la risposta a una mozione dello Spirito, un’opera che non si colloca solo su un piano umano ma è guidata dall’alto. Ciò appare dalle convinzioni e affermazioni di persone coinvolte nell’iniziativa, a cominciare dal Ramazzotti stesso. Do alcuni esempi, pur essendo consapevole che qui occorrerebbe un più approfondito studio. Scrivendo a Marinoni il 6 novembre 1850, con uno sguardo rivolto al percorso complessivo del cammino di fondazione Ra- mazzotti dice: «Quel Dio che solo ispirava il pensiero di codesta novella Fondazione, che ne disponeva i mezzi, che vi rimoveva gli ostacoli, vorrà bene, io spero, anche in avvenire proteggere e be- nedire l’opera sua» 9. Ma pure parecchi momenti o aspetti di que- sto cammino sono sentiti da Ramazzotti come una spinta dall’alto, a dispetto delle difficoltà e incertezze personali. Così l’attrattiva a far nascere un’istituzione di missioni estere per i sacerdoti, dopo che la sua non aveva avuto uno sbocco. Scurati sottolinea che, nell’ottobre 1849, Ramazzotti diresse il ritiro dei Santi Esercizi «a ottenere dal Signore lumi particolari su quanto andava meditan- do», cioè la fondazione, e aggiunge: «In esso provò divozione a S. Carlo assai più viva dell’ordinario, e si trovò confermato nel buon proposito» 10. Dopo l’incontro col Supriès già ricordato e gli avve- nimenti che seguirono, il fondatore si lascia alle spalle ogni dub- bio o timore, come uno che sente di dover rispondere a una chiara ispirazione, a un preciso volere di Dio. Sulla stessa linea si esprime l’arcivescovo Romilli nella lettera a Ramazzotti per autorizzare la riunione dei primi candidati: «Il Si- gnore che ha ispirato a Lei, Monsignore, il disegno di questa santa impresa e che l’aiutò fin qui con sì visibile protezione, degnasi prosperarla» 11. E pure Marinoni, con molti altri, ritiene che Dio ha scelto Ramazzotti per progettare, promuovere e portare a com-

9 Ibid., p. 200. 10 Ibid., p. 15. 11 Ibid., p. 122.

173 pimento la fondazione, e giudica questa un’opera di Dio che, dice Taglioretti, è «segnata di molti contrassegni del divino aggradi- mento» 12. In conclusione: Dio ispira, conduce, realizza, attraverso mons. Ramazzotti, il suo disegno. E Ramazzotti e altri ne hanno piena coscienza. Così il seminario nasce come un dono dello Spirito da incarnare nella vita e nella storia di coloro che sono chiamati a farvi parte.

Identità della fondazione o carisma originario

Dal fondatore passiamo alla fondazione: il Seminario Lombar- do per le Missioni Estere. È necessario conoscerne l’identità per poi parlare di evoluzione e attualità dell’istituto. La fondazione è qualcosa di diverso dal carisma del fondatore: è il risultato con- creto della sua opera, che nel nostro caso si compie attraverso una larga e varia cooperazione di persone e autorità. Tale concorso convergente di sforzi ha importanti implicazioni. Esso non diminuisce in sé il ruolo del fondatore, perché rien- tra nel suo compito convogliare, con discernimento, ogni apporto verso il fine. Di fatto, Ramazzotti accoglie e cerca contributi, ma anche li esamina, li vaglia, lasciandosi guidare dai lumi dell’alto, e talora prende direzioni diverse da quelle suggerite. È il caso del legame della fondazione con gli Oblati di Rho, o della futura sede stabile, cose in cui egli opta per soluzioni diverse da quelle prefe- rite da Taglioretti, volendo che il seminario non abbia legami isti- tuzionali con gli Oblati e si stabilisca in seguito, dopo Saronno, a Milano e non a Pavia. Tuttavia, il fatto che la fondazione sia frutto di un concorso di persone e autorità a diversi livelli risponde già di per sé alla natura dell’opera progettata: un seminario provinciale, della provincia ecclesiastica lombarda, per le missioni estere. È solo in un ampio orizzonte di molteplici volontà che esso può costituirsi nella sua

12 Ibid., p. 67.

174 identità. La fondazione, infatti, non va considerata come un og- getto, una cosa, ma una realtà viva, formata da persone che si sen- tono spinte a unirsi per determinate finalità e modalità di vita, onde realizzare un disegno ispirato da Dio. Nell’identità dell’isti- tuzione si traduce ciò che si chiama il carisma originario, distinto dal carisma d’istituto che ne è il prolungamento nella storia e di cui diremo. Ma quali sono le componenti essenziali dell’identità del Seminario Lombardo per le Missioni Estere? a) Intenzioni e ideali fondanti

Se ci si domanda «perché questa nuova fondazione? a che cosa mira? su quali basi si vuole stabilirla?», la risposta di fondo non può che essere data da quell’insieme di valori e ideali che giustifi- cano la fondazione stessa, che costituiscono il nucleo essenziale e irrinunciabile del carisma originario, che sono causa e modello della realizzazione concreta, anche se questa non riuscirà mai a tradurre adeguatamente tutte le esigenze ideali. Ora, le intenzioni e gli ideali fondanti del seminario iniziato a Saronno sono raccolte nella Proposta di alcune massime e norme per l’Istituto delle Missioni Estere 13. Questo testo è la magna char- ta del nascente istituto, pensata per vari aspetti già nel periodo di preparazione ed elaborata formalmente nei mesi di agosto e set- tembre del 1850, subito dopo l’apertura del seminario, a opera di un gruppo comprendente mons. Ramazzotti, Marinoni, Taglioret- ti e i primi alunni presenti. Il testo veniva offerto come «propo- sta» all’approvazione dei vescovi lombardi e di Propaganda Fide, donde il suo nome. Esso si compone di una «avvertenza prelimi- nare sulla natura e l’ordinamento dell’istituto» e di un corpo in tre parti dove si tratta ampiamente degli «offici» o compiti dell’istitu- to verso i suoi membri. È nell’avvertenza che si trovano le intenzioni e gli ideali fon- danti. Eccone una sintesi:

13 Ibid., pp. 133-177.

175 – Il seminario viene fondato come espressione e strumento del dovere missionario dei vescovi lombardi e delle rispettive Chiese, «considerando che è interesse di ogni Chiesa particolare la dilata- zione della Chiesa universale» 14. – Esso risponde al bisogno concreto di offrire al clero (poi si specifica che i candidati sono sacerdoti diocesani, chierici prossi- mi al sacerdozio e anche laici come catechisti), che si sente chia- mato alle missioni estere, «l’aiuto di qualche mano potente» 15 che assicuri la realizzazione di questa vocazione; appunto, una fonda- zione voluta e sostenuta dall’arcivescovo di Milano e dai vescovi comprovinciali, che metta in atto quanto si richiede per raggiun- gere lo scopo. – La nuova istituzione intende manifestare la «santa cospira- zione del nostro Episcopato col Padre universale dei fedeli nella grande opera della conversione delle genti» 16. Questo pensiero viene ribadito con energia affermando che «se è permesso in una Proposta stabilire qualcosa di fisso e immutabile, fisso e immuta- bile vorrebbe stabilirsi questo principio: [...] che, cioè, sotto gli auspici e per mano dei vescovi, anzi per commissione loro e loro autorità, intende l’Istituto offrire umilmente i suoi servigi al Som- mo Pontefice e alla Sacra Congregazione di Propaganda» 17. – Le spedizioni missionarie mirano a creare tra le Chiese d’ori- gine e quelle che nasceranno dall’opera dei missionari, il vincolo di «una quasi parentela spirituale» 18. – Ben lungi dal sottrarre forze alle Chiese locali, l’istituzione è un incentivo per lo sviluppo e la formazione delle vocazioni sacer- dotali in patria, dato il risveglio di fede che le vocazioni missiona- rie suscitano e il fatto che esse costituiscono una chiamata al sa- cerdozio portata al suo pieno sviluppo. Questi punti (e non sono tutti) attestano una concezione di Chiesa, missione e comunione in anticipo di oltre un secolo, per-

14 Ibid., p. 139. 15 Ibid., p. 138. 16 Ibid., p. 139. 17 Ibid., pp. 140-141. 18 Ibid., p. 140.

176 ché questa visione diverrà comune soltanto col Concilio Vaticano II. Essi sono ordinati nella Proposta a far comprendere in profon- dità ragioni, finalità e caratteristiche della fondazione. Da essi de- rivano i tratti essenziali che qualificano il nostro carisma origina- rio. Li presentiamo, ora, distintamente per necessità e chiarezza di discorso, ma non va dimenticato che sono aspetti connessi di un tutto. b) Caratteristiche essenziali

Qui ci serviamo di tutta la Proposta e di altri documenti di fondazione come fonti, ma senza dilungarci in citazioni. Possiamo riassumere i tratti che qualificano il nostro carisma originario nei seguenti tre.

Le missioni estere come finalità esclusiva e totale. È tanto chiara questa finalità che non si prova neppure il bisogno di spiegarla. Allora non si correva il rischio di confusioni: fondare un semina- rio per le missioni estere voleva dire inequivocabilmente avere come fine «propagare la fede cattolica tra gli infedeli», come chiarisce la lettera a firma di Romilli, inviata al R.I. luogotenente della Lombardia per mostrare che non c’erano legami tra la pro- gettata fondazione e gli Oblati del Collegio di Rho; questi face- vano missione in patria, gli alunni del nuovo seminario andava- no all’estero, tra i non cristiani. Si insiste, se mai, nel desiderio di vedersi assegnato un campo di lavoro lontano, un terreno vergi- ne o abbandonato, proprio come la Melanesia e Micronesia, tan- to sospirate. Il cosiddetto incidente di Corfù 19 – dove Pio IX avrebbe desi- derato mandare i nostri, senza peraltro pronunciarsi con chiarez- za in materia – servì a mettere in evidenza la finalità propria per cui l’istituto era sorto e che lo differenziava, con altri aspetti, dal

19 Sull’incidente di Corfù v. PIERO GHEDDO, Pime, 150 anni di missione (1850- 2000), EMI, Bologna 2000, pp. 55-57, 80-81.

177 futuro Seminario Missionario di Roma (1872), che invierà i suoi membri anche in paesi cristiani ma scarsi di clero. Del resto tutti gli «uffici» o compiti dell’istituto erano ordinati a formare aposto- li per le missioni estere tra gli «infedeli», impegnando in questo tutta la loro vita e tutte le loro energie. «Il sacrificio che fanno di se stessi, gli alunni all’opera delle Missioni, è di sua natura pieno e irrevocabile» 20.

Istituto di sacerdoti diocesani e laici. È per loro che viene fonda- to, senza mai trasformarsi in una congregazione religiosa, né ac- cogliere una proposta avanzata poi d’introdurre una qualche for- ma di voti privati per i membri laici. Del resto, i candidati sacer- doti restano incardinati nelle rispettive diocesi e fanno domanda di entrare nel seminario missionario sia al direttore sia al pro- prio vescovo. Come si legge nella Supplica di Marinoni alla Con- ferenza episcopale lombarda: «Nell’obbedire agli impulsi della divina vocazione, i Missionari non intendono di separarsi se non materialmente dai loro venerabili Pastori, né di interrompere giammai quella dolce corrispondenza d’affetto e di spirituale parentela che nella sacra Ordinazione hanno con essi contrat- to» 21. C’è di più. Non solo i membri, ma anche l’istituto come tale riveste questa particolare nota di ecclesialità, in quanto espressio- ne del dovere missionario dei vescovi che sono suoi istitutori. Dice l’Atto di erezione: «Il sottoscritto Arcivescovo di Milano in uno con tutti i Vescovi suoi Comprovinciali [...] hanno risoluto di isti- tuire come di fatto istituiscono col presente atto il detto Semina- rio delle estere Missioni» 22. Un fatto nuovo e unico in Italia. Il futuro Seminario Missionario di Roma dall’inizio incorporerà col giuramento i suoi membri, solo sacerdoti, all’istituto, che dipen- derà unicamente e direttamente dalla Santa Sede. Il legame ecclesiale a livello di Chiese particolari si combina col vincolo a livello di Chiesa universale. Nell’ordinamento ester-

20 COLOMBO (a cura), op. cit., p. 171. 21 Ibid., p. 207. 22 Ibid., p. 213.

178 no si precisa che l’istituto dipende in primo luogo da e di sua na- tura è subordinato interamente e assolutamente al Sommo Ponte- fice e a Propaganda, da cui riceve la missione e le facoltà missiona- rie. Ma queste relazioni s’intrecciano con l’autorità ecclesiale lo- cale. L’arcivescovo nomina il superiore, d’accordo con i vescovi comprovinciali; tutti, poi, intrattengono col seminario rapporti d’informazioni, visite, presenza a cerimonie significative, ecc.

Famiglia di apostoli, o dimensione comunitaria e spirituale. La fon- dazione è chiamata sia seminario sia istituto, ma sbaglierebbe senz’altro chi la intendesse come un semplice mezzo per prepara- re e inviare personale nelle missioni. Essa si vuole, ed è detta, fa- miglia, famiglia comune, famiglia spirituale. Ha un ordinamento, uno spirito, una norma. Non intende solo provare con cura le vo- cazioni, coltivare le disposizioni richieste per le missioni, ma an- che e soprattutto assistere i soggetti in partenza, sul campo del lavoro, e in caso di necessario ritorno. Anzi, viene detto espressa- mente che quest’ufficio indicato per ultimo in sequenza cronolo- gica, è il primo in ragione di valori a cui gli altri due sono ordinati. L’istituto è proprio nato perché effettivamente i sacerdoti ma an- che i laici, i non religiosi, potessero rispondere alla vocazione mis- sionaria. Ciò esige un seminario o istituto che sia una famiglia vin- colata da uno spirito. In proposito si possono leggere nella Proposta tanti passi che illustrano necessità, contenuti e frutti della dimensione comunita- ria e spirituale, intesa a «creare quella uniformità di metodo, di spirito, che è la forza degli Istituti» 23. Un brano ci pare meriti d’essere riportato:

L’aver compagni e una Casa che pensa a ordinarne, legarne e diriger- ne stabilmente e autorevolmente l’associazione e i loro comuni inten- ti; l’aver a capi dell’impresa i Vescovi loro medesimi; il lasciare nella patria, cui danno addio, chi si rammenta di loro e stende fino ad essi, per quanto puossi a immense distanze, le cure, le orazioni, i pensieri;

23 Ibid., p. 150.

179 l’entrare sul campo delle funzioni, e l’operarvi colla fiducia e colle forze non di un individuo, ma d’un Istituto; il poter promettersi nelle loro intraprese una continuazione di opere e di successori; la stessa dolce aspettativa di queste nuove spedizioni, o dell’arrivo di Missio- nari membri di una comune famiglia, questi e altri sono i vantaggi, i quali formano la sostanza dell’assunto e la condizione necessaria del- lo stabilimento che viene ad iniziarsi 24.

Evoluzione e attualità del carisma dell’istituto

Dal carisma originario passiamo al carisma dell’istituto, che è il prolungamento del primo nella storia, senza soluzione di conti- nuità con le origini, ma in fedeltà dinamica, capace di attualizzarlo e incarnarlo in tempi e situazioni nuovi. Certo niente assicura che il prolungamento del carisma originario nella storia si mantenga sempre lineare e in positivo sviluppo. Può e di fatto comporta di solito incertezze, ambiguità e perfino involuzioni. Lo stesso sfor- zo di tradurlo in realtà diverse dalle primitive rischia di esporlo a interpretazioni false o deviate. Non è il caso di trattare qui i criteri che devono guidare il discernimento e l’attualizzazione del cari- sma in maniera sana ed efficace. Mi limito a indicare alcuni mo- menti e aspetti riguardanti lo sviluppo del nostro carisma, e a fare qualche riflessione sulla sua fisionomia attuale, in riferimento alle caratteristiche essenziali sopra segnalate. a) Finalità

L’istituto è nato per le «missioni estere tra gli infedeli». Come ha proseguito lungo questa linea fondamentale? La risposta inte- ressa due livelli: quello delle norme e quello della prassi.

A livello di norme (regole, costituzioni, ecc.) che si sono succe- dute dopo la Proposta, dal 1886, in cui esce la prima Regola del-

24 Ibid., p. 167.

180 l’Istituto Lombardo per le Estere Missioni, a oggi, con le vigenti Costituzioni e Direttorio Generale approvati nel 1991, il fine rima- ne sostanzialmente immutato. Solo viene via via riespresso con formulazioni che si preoccupano di precisarlo e adeguarlo allo sviluppo della concezione e dell’attività missionaria della Chiesa. Così, mentre all’inizio viene definito come la predicazione del Vangelo in terre infedeli, o il lavorare nelle terre infedeli affidateci dal papa per mezzo di Propaganda, in seguito si sottolinea pure come obiettivo particolare la preparazione del clero e delle Chiese locali. Nelle attuali Costituzioni si riconosce come fine proprio del- l’istituto l’attività missionaria qual è descritta dal decreto concilia- re Ad Gentes, «e in particolare l’evangelizzazione dei popoli e grup- pi non ancora cristiani» 25. In tale contesto si formulano delle prio- rità, mentre si evidenzia che tutta l’opera nostra missionaria si svol- ge in un quadro di Chiesa. Risulta chiaro che la finalità rimane immutata nella sostanza, ma assume la nuova visione che la Chie- sa ha della missione ad gentes, in una concezione che vuole ri- spondere ai successivi approfondimenti dottrinali e cambiamenti di situazione.

A livello di prassi, il discorso si fa più complesso e complicato. In 150 anni di storia, l’istituto, divenuto da lombardo italiano, unitosi nel 1926 col Seminario dei SS. Apostoli Pietro e Paolo di Roma, organizzato sempre di più con strutture proprie, ha regi- strato una grande e svariata crescita di campi missionari, dall’Ocea- nia e Asia all’Africa e Brasile, nonché ad aree nuove nel continen- te asiatico. In questa espansione di attività, si registrano missioni assunte per il volere della Santa Sede ma non considerate impegni d’istituto, come Cartagena in Colombia. Ma il caso più grosso e discusso, almeno per un certo tempo, è quello che riguarda il Bra- sile, paese cristiano, dove l’istituto ha inviato dal 1946 in poi, e tuttora tiene, un elevato numero di missionari. Se però si esamina-

25 Costituzioni e Direttorio Generale, Pontificio Istituto Missioni Estere, Roma 1991, p. 8.

181 no le ragioni di queste spedizioni e soprattutto le aree e situazioni scelte e il tipo di lavoro compiuto, allora si scopre che si è trattato di un’opera spesso di prima evangelizzazione, in ogni caso di un aiuto urgente motivato dall’insufficienza e inadeguatezza dello sviluppo delle Chiese o comunità locali 26. Comunque, il capitolo post-conciliare di aggiornamento (1971-1972) ha dato direttive per un «riorientamento», dove ci fosse bisogno, di campi e di compiti 27. In conclusione si può dire che non si sono avute deviazioni di finalità, almeno di rilievo; che di fronte a dubbi, critiche o semplici allarmi sulla questione, si sono fatte discussioni e si sono decisi interventi nell’ambito di as- semblee regionali e generali. Positivamente, si è operato per ade- guarsi alle indicazioni della Chiesa universale e delle Chiese locali, sviluppando negli ultimi decenni forme nuove di presenza e d’im- pegno in linea col mutato volto della missione ad gentes, sia in generale sia negli ambienti particolari. b) Ecclesialità

Nulla da notare circa la qualità dei membri: sono sempre stati e sono a tutt’oggi sacerdoti e laici che si consacrano alla missione ad gentes per tutta la vita. Dopo il citato capitolo d’aggiornamen- to, si è aperta la via anche a preti e laici «associati». E più recente- mente si è costituita l’ALP (Associazione Laici del PIME), i cui partecipanti assumono impegni temporanei in missione ma non sono membri; e siamo pure in relazione con la Comunità Missio- narie Laiche, in vista di iniziative comuni. Ma l’interrogativo che nasce riguarda il peculiare carattere ec- clesiale che ha contrassegnato le nostre origini, poiché il semina- rio lombardo fu eretto formalmente dai vescovi e voleva essere l’espressione diretta del loro dovere missionario. È lecito doman- darsi dove sia andata a finire questa caratteristica unica e vista

26 GHEDDO, op. cit., capp. XVIII e XIX, pp. 813 segg. 27 Sul Capitolo d’aggiornamento, ibid., cap. VII, p. 233 segg.

182 come essenziale. La risposta esige obiettività ma anche cautela. Credo che si possa fare una distinzione. La Proposta conteneva una concezione e una struttura. La pri- ma costituiva un’intenzione e un ideale fondante; la seconda voleva essere una traduzione concreta all’interno dello stesso ordinamento giuridico. Ora, molto presto la struttura si rivelò fragile e irrealisti- ca. I vescovi (a eccezione di Romilli) lesinavano i soggetti per le missioni, quando non li negavano. Marinoni faticò, con poco suc- cesso, di coinvolgerli effettivamente nelle responsabilità che si era- no assunti, e fu costretto a chiedere alla Santa Sede di accogliere candidati senza, e perfino contro, il volere dei vescovi. In questi casi l’ordinazione veniva data titulo missionis e gli alunni non restavano più incardinati nelle loro diocesi bensì nell’istituto stesso. Il rappor- to giuridico a livello locale scomparve e restò solo quello con Pro- paganda. Già nella prima Regola dell’Istituto Lombardo (1886), re- datta da mons. Marinoni, dopo consultazione di tutti i membri, l’isti- tuto risulta dipendere solo da Propaganda direttamente, senza più alcun tramite dei vescovi, anche se questi continuano per un certo tempo, in maggiore o minor misura, a tenere relazioni morali col seminario missionario. Poi verrà il Codice di diritto canonico (1917) a imporre a tutti i nuovi membri il giuramento incardinante nel- l’istituto. Ha così del tutto fine la struttura originaria. Quanto alla concezione come intenzione e idea fondante, il discorso può essere alquanto diverso. Proprio come istituto di preti secolari e laici, non «religiosi», esso ha sempre conservato un par- ticolare riferimento alla Chiesa, quale espressione e strumento della sua missionarietà. Ciò l’ha sentito, vissuto e anche dichiarato spesso, considerandosi sempre e solo al servizio della Chiesa. Di qui un comportamento pratico particolare di ecclesialità sia in patria sia in missione, e una certa reazione istintiva dei membri quando sem- brava che ciò fosse dimenticato. Faceva parte di questo spirito l’impegno esclusivo di curare lo sviluppo del clero e della Chiesa locale in missione. In patria, quando il Vaticano II diede chiarezza e forza al dovere missionario della Chiesa e delle Chiese, il nostro capitolo d’aggiornamento si propose di recuperare in certo modo l’antico legame con le Chiese d’origine, ma i tentativi in questo senso non ebbero successo.

183 Tuttavia, le Costituzioni attuali considerano la nostra attività come un servizio da compiere in comunione e dipendenza dalle Chiese particolari, pur conservando le proprie finalità, e danno nor- me e orientamenti per mettere in pratica questa visione. Lasciano ai membri la libertà di conservare o chiedere l’incardinazione nelle diocesi d’origine, restando incorporati all’istituto. Chiedono a tutti, membri e comunità, di vivere concretamente la comunione eccle- siale, a livello sia universale sia locale. Ma, più di queste e altre diret- tive, il senso ecclesiale si rivela in un certo spirito che rende attenti a «sentire» con la Chiesa, a servirla nella causa missionaria, a darle la preferenza sull’istituto nelle questioni concrete. c) Famiglia di apostoli

Il seminario fondato da mons. Ramazzotti si proponeva come un istituto per persone che volevano dedicarsi al «ministero delle Missioni Estere», non isolatamente ma come «famiglia comune» di missionari, in unità di metodo e di spirito. In questo senso i primi candidati hanno vissuto un’esperienza significativa in attesa di partire e poi sul campo, in Oceania. Un’esperienza comunitaria e spirituale, dove lo spirito di famiglia era strettamente associato all’impegno di santità, e ambedue si alimentavano con la dedizio- ne missionaria. Non una comunità fine a se stessa, né una santità costruita a fianco del servizio apostolico, ma l’una e l’altra intese a nutrirsi e nutrire mediante l’opera missionaria.

A livello di norme, la dimensione comunitaria e spirituale è sempre stata riaffermata e anzi, a mio parere, si è venuta sempre più consolidando. Nel nuovo Codice di diritto canonico (1983), istituti come il nostro sono riusciti con la loro insistenza e colla- borazione a ottenere una categoria nuova per loro, quella delle «società di vita apostolica», che si costruiscono e vivono in base al loro specifico fine, per cui cercano nel proprio essere e agire le ragioni e le vie della santità. Le vigenti Costituzioni nostre lo dico- no chiaramente, e descrivono pure il PIME come «famiglia di apo- stoli», i cui membri vogliono realizzare la propria vocazione in

184 comunione di vita e attività. Con una formulazione anche più ar- dita dicono che l’istituto «è il luogo dove i carismi dei vari membri si fondo in armonica unità per un servizio più valido all’attività missionaria» 28. E perciò i missionari «si riuniscono in comunità per rispondere meglio alle esigenze oggettive della loro particola- re vocazione, rendendo più significativo il servizio al Vangelo» 29. Sullo spirito apostolico che deve animare la famiglia PIME, le Costituzioni aprono un capitolo interamente nuovo, ma che evi- dentemente fa tesoro di tutta la nostra tradizione 30. Eccone in breve i contenuti: i missionari trovano in Cristo evangelizzatore il fondamento e modello della loro vita apostolica; ne vivono il mi- stero della croce e risurrezione in chiave di esperienza e annuncio; conducono uno stile di vita plasmato su quello di Cristo, primo missionario, nella rinuncia e povertà, nell’obbedienza e castità ce- libataria, nella preghiera come elemento essenziale della missione; considerano la comunione fraterna una testimonianza del Vange- lo e un aiuto all’edificazione vicendevole. In questi tratti, su cui si danno norme pratiche di attuazione, penso che il carisma origina- rio venga non solo conservato ma largamente sviluppato.

A livello di prassi, resta sempre difficile dare un giudizio obiet- tivo; solo Dio vede nei cuori. Ma non mancano chiari segni del- l’impegno di fraternità e santità. Senza dubbio, è cresciuto lo sfor- zo di tradurre la comunione in comunità o espressioni comunita- rie nei più svariati settori di vita e azione, dalla comunicazione agli incontri, dall’interesse alla corresponsabilità nel cammino di ri- flessione e decisione, nell’attività missionaria sul campo, come nell’animazione, formazione e impegno spirituale. Al presente è in atto un’ampia opera per conoscere meglio la nostra storia, le grandi figure dei nostri missionari, tra cui 18 hanno versato il san- gue per la causa del Vangelo, e per promuovere l’elevazione agli altari di altri confratelli, oltre il beato Giovanni Mazzucconi e il santo Alberico Crescitelli.

28 Costituzioni e Direttorio Generale, cit., C. 11, p. 26. 29 Ibid., C. 12, p. 28. 30 Ibid., cap. III, pp. 41-61.

185 Ma c’è pure un’altra novità d’ampia portata che riguarda lo sviluppo del carisma originario. Il PIME è divenuto un istituto missionario internazionale, accogliendo vocazioni fuori d’Italia, in un primo tempo solo nei paesi a maggioranza cristiana, poi an- che in aree di giovani Chiese, particolarmente quelle nate dal suo lavoro missionario. Bisogna dire che quest’apertura ha incontrato difficoltà proprio nel confronto col carisma originario. È sembra- to a taluni che ne fosse una deviazione e perfino una contraddizio- ne. Ma tutto si chiarisce alla luce degli sviluppi della missione, del significato e delle modalità che riveste l’internazionalità nel PIME. Dopo 150 anni, non solo le Chiese nelle «terre infedeli» di un tempo sono nate e cresciute, ma sono passate da puro oggetto di missione a soggetto di missione. L’internazionalità intende mette- re a disposizione di tali Chiese il nostro carisma e la nostra espe- rienza. Lo scopo primo non è di provvedere un maggior numero di vocazioni per l’istituto, ma di offrire una via, tra le altre, perché anche i sacerdoti secolari e i laici delle giovani Chiese possano realizzare la loro chiamata missionaria, come già un tempo il clero diocesano e i laici della provincia lombarda, mediante una fonda- zione che ne garantisca l’identità e provveda alle esigenze di for- mazione e assistenza. Di più: la modalità di attuazione stabilisce che l’istituto «accoglie e forma missionari in diversi paesi di modo che membri di nazionalità diversa operano insieme nei medesimi compiti di evangelizzazione» 31. Tutti egualmente missionari, come è invalso dire, «ad gentes, ad vitam, ad extra» e «insieme». Così l’internazionalità si associa all’interecclesialità e all’interculturali- tà. Questa apertura, non prevedibile agli albori dell’istituto, non rinnega ma amplifica il carisma originario lungo le stesse sue linee fondamentali. Il PIME non ha perso il carisma originario, ma s’è impegnato a contestualizzarlo lungo il suo cammino in una fedeltà dinamica. Sarà sempre necessario tener presente il carisma di Ramazzotti fondatore e delle origini, muovendosi al passo dei tempi nuovi e affrontando le attuali sfide della missione, con l’aiuto di Dio. Come

31 Ibid., C. 10, p. 22.

186 scrive mons. Ramazzotti a Marinoni, il 6 novembre 1850, a con- clusione del suo giudizio sulla Proposta: «Altro quindi non mi ri- mane che desiderare e pregare che codesto Istituto proceda sem- pre con quello stesso spirito di fervore, di fratellanza, di zelo, di cui durante il mio soggiorno presso Codesta Famiglia, già vidi e ammirai con vera commozione ed esultanza del mio cuore sì belle e continue prove» 32.

32 COLOMBO (a cura), op. cit., p. 200.

187 INDICE

Prefazione di Franco Cagnasso ...... Pag. 7

La figura e la spiritualità di mons. Angelo Ramaz- zotti di Francesca Consolini ...... »11

Formazione scolastica e sacerdotale ...... »13 Missionario Oblato di Rho ...... »14 Vescovo di Pavia ...... »21 Patriarca di Venezia ...... »31

Modello ecclesiologico e realtà della Chiesa di Mila- no nell’Ottocento di Ennio Apeciti ...... »40

Premessa ...... »40

Come comincia il secolo XIX nella diocesi di Mila- no? ...... »49 a) Il vescovo e le sue vicende: G.B. Montecuccoli Caprara (1802-1810), 49 – b) Quale tipo di clero, laici, religiosi?, 61 – c) Prima conclusione: quale modello ecclesiologico emerge?, 65

Il ritorno austriaco in diocesi: primo momento ...... »66 a) Il vescovo e le sue vicende: Carlo Gaetano Gai- sruck (1818-1846), 66 – b) Quale tipo di laico emerge?, 75 – c) Quale tipo di religioso emerge?, 76 – d) Seconda conclusione: quale modello ec- clesiologico emerge?, 77

189 Il ritorno austriaco in diocesi: secondo momento .... Pag. 78 a) Il vescovo e le sue vicende: Bartolomeo Carlo Romilli (1847-1859), 78 – b) Un vescovo mancato: Paolo Angelo Ballerini (1859-1867), 81 – c) Qua- le la situazione del clero?, 83 – d) Terza conclusio- ne: quale modello ecclesiologico emerge?, 88

Milano nel Regno d’Italia ...... »90 a) Il vescovo e le sue vicende: Luigi Nazari di Ca- labiana (1867-1893), 90 – b) Quale la situazione del laicato?, 97 – c) Quale la situazione dei reli- giosi?, 101 – d) Quale la situazione del clero?, 103 – e) Quarta conclusione: quale modello ecclesio- logico emerge?, 108

Considerazioni conclusive ...... » 111

Nuovi ideali missionari: Rosmini, Luquet, Ramazzotti di Fulvio De Giorgi...... » 113

Figura e importanza di Rosmini ...... » 113 Luquet e la Neminem Profecto ...... » 118 Il sinodo di Pondichéry ...... » 123 Il clero indigeno e i riti orientali ...... » 127 L’influenza di Luquet su Ramazzotti...... » 134 Conclusioni ...... » 142

La Chiesa e l’Oriente: il disegno missionario di Pio IX e il Seminario Lombardo per le Missioni Estere di Agostino Giovagnoli ...... » 145

Pio IX e le missioni ...... » 145 Slancio missionario, sentimento nazionale e Chiese particolari ...... » 153 Il Seminario per le Missioni Estere tra Vienna e Roma » 160

190 Evoluzione e attualità del carisma del PIME di Domenico Colombo ...... Pag. 167

Premessa ...... » 167

Mons. Ramazzotti come fondatore...... » 168 a) Il problema, 168 – b) L’opera di fondatore, 170 – c) Il carisma di fondatore, 172

Identità della fondazione o carisma originario ...... » 174 a) Intenzioni e ideali fondanti, 175 – b) Caratteri- stiche essenziali, 177

Evoluzione e attualità del carisma dell’istituto ...... » 180 a) Finalità, 180 – b) Ecclesialità, 182 – c) Famiglia di apostoli, 184

191